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Riflessioni, interrogativi, dubbi dopo il Festival Alta Felicità
La “convergenze” degli incontri e delle riflessioni dimostrano la capacità, la volontà, la testardaggine di chi vuole ancora spendersi per un mondo più giusto, per abbattere le diseguaglianze, per smettere di riarmarsi, per lottare contro le gradi devastazioni e rimettere la persona umana e la difesa del Creato al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche. Dobbiamo continuare a far finta di niente, a girare la testa dall’altra parte, a lasciare che scelte scellerate continuino a rovinare la vita delle persone e siano solamente occasioni di speculazioni finanziarie? Tra gli spunti di riflessione presentati al Festival Alta Felicità, mi pare importante dare risalto al primo appuntamento che ha aperto il Festival venerdi 25 luglio alle ore 10.00 con la presentazione del libro “Sotto il cielo di Gaza” di Don Nandino Capovilla e di Betta Tusset e con Enzo Infantino. Don Nandino è parroco di Marghera, Venezia, da anni impegnato in progetti di inclusione sociale per migranti e senza fissa dimora. Ha ricoperto il ruolo di coordinatore nazionale di Pax Christi Italia dal 2009 al 2013, ed è particolarmente noto per la campagna “ponti e non muri” sulla questione israelo‑palestinese. Betta Tusset, veneziana, consigliera nazionale di Pax Christi Italia, laureata in lettere moderne, è attiva nel mondo del volontariato sociale; dal 2018 al 2020 ha coordinato nella sua città un progetto di inclusione sociale, abitativa e lavorativa per persone migranti in situazioni di vulnerabilità. Enzo Infantino, cooperante calabrese e attivista per i diritti umani, è impegnato da oltre vent’anni nelle missioni di solidarietà e riflessione sui conflitti contemporanei. Originario di Palmi, in Calabria, ha lavorato in contesti difficili come i campi profughi in Grecia, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza. Enzo è stato protagonista di numerose missioni nei campi profughi di Grecia e Medio Oriente, compresi i campi di Idomeni, in Grecia al confine con la Macedonia, dove per mesi sono rimasti bloccati oltre sedicimila esseri umani. Il libro “Sotto il cielo di Gaza”, pubblicato l’11 marzo 2025 da Edizioni La Meridiana, è un libro-inchiesta realizzato attraverso una serie di conversazioni con Andrea De Domenico, funzionario dell’OCHA, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, attivo nei territori palestinesi occupati e si presenta come “raccoglitore di storie, testimonianze e dati”, descrivendo il dramma vissuto quotidianamente a Gaza per il genocidio in corso: perdita della casa, della terra, della libertà di movimento, di pane, acqua, salute, istruzione con statistiche aggiornate all’inizio del 2025,  che riportano numeri drammatici: decine di migliaia di morti, la maggioranza donne e bambini, infrastrutture distrutte, tra cui scuole, case, strutture sanitarie; emergenza alimentare e malnutrizione diffusa tra la popolazione di Gaza. Il libro denuncia quella che Don Nandino definisce il genocidio del popolo palestinese come criminale e mette al centro la responsabilità internazionale di ridurre il massacro di civili inermi a soli dati numerici, dimenticandosi dei “volti e dei nomi” di ogni vittima, a cui è negata da decenni di occupazione militare ogni diritto. “Sotto il cielo di Gaza” è anche un libro di preghiera e di supplica, quelle che a partire dai testi biblici ha scritto Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme, chiedendo al Signore di “fermare la morte e la guerra e di convertire all’umanità quelli che hanno piani di morte nei loro cuori”. L’incontro con Don Nandino, Betta ed Enzo ha rappresentato delle voci autentiche, radicate nei propri contesti di vita ma rivolte al mondo, dove ogni gesto quotidiano può essere seme di cambiamento e resistenza. Gli interrogativi nascono dagli altri dibattiti ed eventi culturali: il Festival ha presentato un’ampia proposta di incontri, presentazioni e confronti, dal tema dell’Intelligenza Artificiale alla precarietà e al lavoro in “zone di sacrificio” (Ilva Taranto e  GKN di Campi Bisenzio); dal dibattito “Liberi tuttu: rappresentazione, cura e diritti” su disabilità, autodeterminazione e resistenza, al focus su nucleare, agrivoltaico, riarmo, riconversione ambientale; dall’assemblea “Guerra alla guerra” contro riarmo europeo e genocidio in Palestina al dialogo tra Patrick Zaki e Ilaria Salis su democrazia, repressione e diritti. A tutte queste occasioni – alle quali si sono affiancate altre presentazioni di libri nell’area autogestita –  la partecipazione è stata massiccia con tantissimi giovani interessati ad approfondire i vari temi toccati, dimostrandosi giustamente preoccupati per il futuro loro e del pianeta. La “convergenze” degli incontri che, per chi vuole, sono tutti disponibili sul sito del festival , dimostrano la capacità, la volontà, la testardaggine di chi vuole ancora spendersi per un mondo più giusto, per abbattere le diseguaglianze, per smettere di riarmarsi, per lottare contro le gradi devastazioni e rimettere la persona umana e la difesa del Creato al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche. Dobbiamo continuare a far finta di niente, a girare la testa dall’altra parte, a lasciare che scelte scellerate continuino a rovinare la vita delle persone e siano solamente occasioni di speculazioni finanziarie? Così arriviamo ai dubbi: davvero l’incendio di alcune sterpaglie e di alcuni manufatti sono solo segno di violenza? Non possono essere considerati sabotaggi? Qualcuno ha scritto che in questo modo si passa dalla parte del torto, che così non si è ascoltati, che non si riesce a dialogare… Sono 30 anni che si cerca il dialogo nel merito dell’opera, non degli slogan, sono 30 anni che si prova in tutti i modi ad avere degli incontri con i tecnici di LTF prima e Telt adesso, non vi è MAI stata data un’occasione che sia una di confrontarsi. Ricordo solo due occasioni: “Ascoltateci” digiuno a staffetta nel 2012 in Piazza Castello a Torino e in Valle, che non ha prodotto alcun risultato; un incontro pubblico in una parrocchia a Torino presente Virano, all’epoca presidente dell’Osservatorio sul TAV, e quando abbiamo fatto alcune domande precise e puntuali, siamo stati gentilmente accompagnati fuori con la motivazione che quello non era né il luogo né il momento: eravamo solo in 2 mio marito ed io. E potrei andare avanti ancora a lungo con tanti e tanti esempi di come la voluta mancanza di confronto sia sempre stata da parte dei proponenti l’opera. Le nostre argomentazioni non sono mai state considerate, saliamo agli onori della cronaca solo quando avvengono fatti “violenti” come quelli di sabato a margine della manifestazione ma nessuno ha dato risalto al comunicato di Amnesty International: > ”La manifestazione del 26 luglio in Val di Susa, organizzata a margine del > festival dell’Alta Felicità dal movimento “No Tav”, è stata caratterizzata da > fasi del tutto pacifiche e da momenti di tensione. Gli osservatori di Amnesty > International Italia erano presenti alla manifestazione e hanno potuto > monitorare due delle azioni realizzate dal gruppo di manifestanti, presso il > cantiere di San Didero e Traduerivi. Nella zona da loro monitorata a San > Didero, gli osservatori hanno documentato un uso sproporzionato e > indiscriminato di gas lacrimogeni da parte delle forze di polizia: tra i 180 e > i 200 in poco più di un’ora contro circa 500 manifestanti, in risposta al > lancio di oggetti. Le forze di polizia hanno utilizzato i gas lacrimogeni > anche contro persone che si stavano allontanando e che non rappresentavano > alcuna minaccia per l’incolumità altrui. In diversi casi, anziché essere > diretti verso l’alto, le granate contenenti gas lacrimogeni sono state > lanciate ad altezza persona: ne è stato testimone diretto anche uno degli > osservatori di Amnesty International Italia, che nonostante indossasse la > pettorina, è stato colpito sulla schiena. Sono state ferite altre due persone, > rispettivamente alla nuca e alla fronte.  Come già emerso in precedenti > osservazioni in Val di Susa, anche quest’anno le forze di polizia hanno dunque > fatto un uso dei gas lacrimogeni non rispettoso degli standard internazionali > sui diritti umani. Amnesty International Italia ricorda che, secondo i > medesimi standard, una protesta pacifica, seppur attraversata da circoscritti > atti di violenza, resta pacifica e le forze di polizia devono garantire che > possa proseguire, tutelando le persone che vi stanno partecipando; la forza > dovrebbe essere utilizzata come ultima risorsa, solamente laddove non esistano > altri mezzi per raggiungere obiettivi legittimi e solo quando sia necessaria e > proporzionata alla situazione.” Da oltre trent’anni le ragioni di critica e di opposizione sono sempre le stesse: la Torino-Lione è inutile, è costosissima, è devastante per l’ambiente, è un’opera vecchia, superata dai tempi e dalla storia, la cantierizzazione produrrà polveri sottili e movimenterà sostanze potenzialmente inquinanti e insalubri. Soprattutto è certificata la sottrazione di enormi quantità di acqua dalla montagna ed all’ambiente naturale, spreco dimostrato fin dal 2008 dalle decine di litri al secondo drenate ogni giorno dalle gallerie di servizio già realizzate. Cosa altro dobbiamo inventarci per far comprendere queste ingiustizie trasportistiche, economiche, climatiche, ambientali e sociali e far sì che l’enorme inutile investimento economico sia dirottato verso settori più necessari, a partire dalla messa in sicurezza dei territori? Centro Sereno Regis
Guerra alla guerra: dal Festival dell’Alta Felicità in Val Susa il più deciso NO al riarmo e al Genocidio in Palestina
Tra i momenti più importanti all’interno del programma del Festival dell’Alta Felicità che si è concluso pochi giorni fa a Venaus, merita senz’altro una menzione speciale l’assemblea in tema di Guerra alla Guerra, Stop Riarmo, Stop Genocidio, bella e partecipata sotto il tendone-dibattiti di domenica 27 luglio. Guerra alla Guerra  sarebbe in realtà il titolo di un libro che un certo Ernest Friedrich – cittadino prussiano, anarco-pacifista, reduce da un buon numero di anni di prigione per essersi rifiutato di partecipare alla 1ma Guerra Mondiale – decise di pubblicare un centinaio di anni fa per documentare quegli orrori che lui era riuscito a schivare, ma non la maggior parte dei suoi coetanei: i corpi trucidati in trincea senza possibilità di soccorso, le amputazioni, la sofferenza inflitta alle popolazioni, impressionante raccolta di 180 immagini rintracciate in vari archivi militari, che rilegò e pubblicò a sue spese con il titolo appunto Krieg del Kriegel (Guerra alla Guerra),  Riferimento e titolo quanto mai perfetto, dunque, per questa assemblea che era stata per tempo convocata tra il maggior numero di realtà territoriali, in forma di appello “per tutt* coloro che sentono la necessità di sviluppare un percorso il più possibile largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e per dire NO al genocidio in Palestina; tutt* coloro che già si mobilitano e vogliono condividere i loro percorsi, mettersi in dialogo e convergere, per curvare un destino che sembra ormai ineluttabile (…) confidando nella capacità di far confluire e moltiplicare le occasioni che si potranno aprire nell’accelerazione degli eventi.” Assemblea che si è aperta con il messaggio di solidarietà all’equipaggio della nave Handale della Freedom Flotilla, che solo la notte prima era stata arrestata dall’esercito israeliano, e con gli applausi per la liberazione dell’attivista libanese George Ibrahim Abdullah, dopo una detenzione di 40 anni nelle carceri francesi. Il microfono è passato poi a Nicoletta Dosio che rievocando alcuni momenti cruciali nella storia del Movimento Notav, ha sottolineato il valore della solidarietà e della resistenza “soprattutto nei momenti di sconforto: voglio qui esprimere la gioia di vedere tanti volti giovani, in questo luogo, la piana di Venaus, che è stato il teatro di quell’epica vittoria per il nostro Movimento all’interno di una lotta che all’inizio sembrava impossibile. Un percorso che, a partire dalla fine degli anni ’80, è stato lungo ma è stato soprattutto di crescita collettiva, mentre la guerra ci arrivava in casa, letteralmente. Con i militari reduci dalle guerre in Afghanistan, con i loro strumenti di morte, con i primi Lince che abbiamo visto in Clarea, le zone rosse a interdire il passaggio in territori che erano nostri. E questa è la grande lezione del Movimento No Tav: il territorio è una prima cellula di una realtà che si allarga, che abbraccia tanti problemi. Lo abbiamo detto tante volte. La nostra non è solo una lotta contro un treno, ma l’opposizione a tutto un sistema, che è lo stesso che vuole le guerre. E quindi l’unica possibile risposta a questa aggressione è la ricomposizione delle lotte: mettere insieme i temi del lavoro con le proteste per la casa, nelle università, nelle piazze, contro le solitudini. La lotta contro il Tav è andata avanti per tutti questi anni anche perché è stata una risposta alla sensazione di impotenza, se non di sconfitta, a quella ‘pigrizia del cuore’ che ci fa prende, a volte. (…) E noi dobbiamo imparare a resistere attingendo anche agli esempi del passato, non solo alla lotta partigiana, ma alla storia di continui scioperi dei ferrovieri, delle Officine Moncenisio che ebbe luogo non lontano da qui, nel comune di Condove, come rifiuto di tutti i lavoratori compati nei confronti di una produzione mortifera. La nostra è una Guerra alla Guerra perché come ben sappiamo quel treno è stato progettato come vettore di morte, lungo uno dei tanti corridoi militari che sono stati previsti da chi ci governa, precorrendo i tempi…” Dopo di lei è stata la volta di Marta Collot (Potere al Popolo) che ha ribadito la necessità di andare oiltre il No Rearm Europe: “dobbiamo dire con chiarezza che siamo contrari a qualsiasi progetto di riarmo europeo che ci venga proposto all’insegna della sicurezza, e la lotta alla NATO dovrà essere un elemento centrale della nostra opposizione alla guerra, non solo per la richiesta di aumento delle spese militari, che comporteranno un massacro sociale, ma perché le basi militari nei nostri territori rappresentano già un problema enorme per la sicurezza di tutti noi!”. Dal Movimento No Base di Pisa, da anni in lotta contro l’ennesima base militare, è arrivata una chiara consapevolezza circa l’irreversibilità del progetto “non perché debba considerarsi battaglia persa, ma perché qualunque sia l’opposizione la macchina sta andando avanti, ingenti investimenti sono stati fatti nella crescente cooptazione delle istituzioni comprese scuole e università, in un clima di segretezza che conferma quello che non è uno slogan ma una realtà: le guerre non scoppiano, piuttosto si preparano“. E tuttavia, anche in questo clima di crescente militarizzazione, ecco palesarsi delle opportunità: di reagire, organizzarci, darci degli obiettivi, mobilitarci insieme, nella sempre più capillare conoscenza delle problematiche che caratterizzano i nostri territori e dell’urgenza di costruire alleanze in grado di incidere. Per esempio recentemente abbiamo scoperto un accordo quadro da un miliardo di euro per la realizzazione di 29 infrastrutture militari !!! tra cui la nostra, oltre che in Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, nei pressi di Bolzano… su questa traccia intendiamo lavorare, a più mani e a più voci.” Tantissimi gli interventi da parte delle realtà presenti, che per esigenze di spazio ci limiteremo ad elencare. Da Roma è intervenuto Quarticciolo Ribelle che ha ribadito l’importanza di dare voce alla società civile, intesa come realtà di collettivi e movimenti. Tra le realtà che in Italia si sono maggiormente impegnati per la Palestina, sono intervenuti i Giovani Palestinesi, Intifada studentesca, Udap. Per il movimento dei lavoratori portuali che concretamente si oppongono al transito di armi sono intervenuti i GAP di Livorno e i CALP di Genova. E poi le realtà transfemministe di Non Una di Meno, oltre a Extinction Rebellion, il Movimento Disoccupati 7 novembre  da Bagnoli e da Vincenza il movimento Notav e vari centri sociali dal Nord Est d’Italia. Della campagna Stop ReARM ha parlato la portavoce di Arci Nazionale che ha ribadito la necessità di una mobilitazione europea: Stop Rearm Europe! E poi ancora la Rete No DL Sicurezza che ha ricordato l’appuntamento del 21 settembre; Reset; gli operi della Tubiflex e di USB; i Movimenti di lotta per la casa di Roma, Militant… Una lunga, densa, ottimamente condotta e davvero importante assemblea che, ha posto le basi per un percorso collettivo che punti alla ricomposizione delle differenze e alla costruzione di un’unità il più possibile ampia e incisiva, con obiettivi condivisi, e in una prospettiva di lungo periodo. E “senz’altro tutti in convergenza” come ha concluso Dario Salvetti della GKN di Firenze, riprendendo il loro storico slogan. Prossimo appuntamento di mobilitazione nazionale: 8 novembre a Roma- E sarà un’ennesima data tra le tante già annunciate di questo molto prossimo autunno che, tra l’Altra Cernobbio (5-6 settembre), la Università Estiva di Attac (12-14 settembre) e vari altri appuntamenti andando verso la Marcia Perugia-Assisi (12 ottobre) si preannuncia bello caldo davvero. Centro Sereno Regis
Festival Alta Felicità IX edizione: molto più di un festival
Con un lungo, fragoroso, emozionante intermezzo di rumore alle 22 in punto di ieri sera per lo Sciopero dal Silenzio per Gaza indetto da Paola Caridi, Tomaso Montanari & Co, è trascorsa anche la terza serata del Festival dell’Alta Felicità che quest’anno ancor più della scorsa edizione ha registrato un’affluenza superiore a ogni aspettativa. Tantissimi gli spunti di riflessione emersi dalla quantità di incontri e dibattiti che non mancheremo di riprendere i prossimi giorni. Intanto vi proponiamo queste OSSERVAZIONI IN MARGINE DI LUCIA MALENGO Quest’anno al Festival Alta Felicità, organizzato dai NO TAV e giunto alla sua nona edizione, sono arrivati, in numero mai visto prima, giovani e meno giovani da tante parti d’Italia e da alcuni paesi europei. Questo fatto, oltre ad essere una buona notizia per chi da anni si oppone al TAV, rappresenta un interesse del tutto naturale per l’opera, che infatti è  stata definita dai proponenti “strategica” per l’Italia e per l’Europa tutta. Non per nulla i costi in continuo aumento del tunnel che dovrebbe unire Saint Jean de Maurienne con la piana di Susa sono sostenuti, oltre che da Francia e Italia, anche dalla Comunità Europea. Dunque non si tratta affatto solo di un problema della Valle di Susa ed è giusto che tutti i cittadini europei che ritengono ingiustificato questo dispendio abnorme di denaro pubblico, possano venire sul posto a rendersi conto della situazione e a manifestare il proprio dissenso. Del resto i tecnici TELT, a cui è affidata la realizzazione del tunnel di base, nella conferenza tenutasi a Susa il primo luglio scorso, hanno chiarito bene il ruolo strumentale della valle: essendo  attraversata da due strade statali, una ferrovia internazionale e un’autostrada, presenta aree già compromesse, come appunto la piana di Susa, a cui si può aggiungere qualche ettaro ulteriore per calare questa ennesima opera di interesse nazionale ed europeo, eliminando o spostando le “interferenze”, termine forse tecnico, che però suona vagamente sprezzante poiché riguarda case, strade, ferrovia locale, canali ecc. Foto di Marioluca Bariona E dunque il Festival Alta Felicità nasce come luogo di discussione  innanzitutto sull’opportunità di ampliare la compromissione del territorio,  ma estende  l’attenzione alla sostenibilità del modello di sviluppo sotteso, tenendo conto dell’attuale situazione economica, politica e ambientale nazionale e globale. Questo spiega un programma ogni anno ricco certo di musica e di spettacoli, ma soprattutto di conferenze, dibattiti, presentazione di libri e interviste su temi non immediatamente riconducibili al progetto TAV. Tutto ciò presuppone un’organizzazione piuttosto attenta e precisa, curata da intere squadre di volontari di ogni età. E in questo contesto, fin dal lancio del programma, si è annunciata,  con orari e destinazioni molto precise, una serie di “passeggiate” nei luoghi dei cantieri e in particolare è stata programmata una marcia con partenza dal campeggio del Festival per raggiungere l’area dell’attuale autoporto nella frazione Traduerivi di Susa: qui è  attivo un cantiere per lo smantellamento degli impianti di “Guida sicura” e la trasformazione della zona in luogo di stoccaggio e lavorazione dello smarino. Ebbene,  sabato 26 luglio la marcia è avvenuta come da programma e un’intera ondata di  manifestanti è entrata bellamente nel cantiere super recintato, sorvegliato e normalmente difeso dalle forze dell’ordine. Dopodiché qualcuno ha dato fuoco ad un’attrezzatura incustodita provocando una colonna di fumo nero durata un’ora circa; mentre servendosi tranquillamente del treno di linea, un altro gruppo di manifestanti ha raggiunto il cantiere più a valle, a San Didero, dove è in costruzione il nuovo autoporto e dove, pare, si erano concentrate le forze dell’ordine in tenuta antisommossa, che hanno respinto un tentativo di assalto. Durante la notte, poi, quando i manifestanti avevano ormai fatto ritorno al campeggio, qualcun altro, mettendo a rischio il boschetto circostante, ha dato fuoco alla struttura che (prima dei sigilli) ospitava il presidio No TAV di San Didero, posto esattamente davanti al cantiere attentamente sorvegliato  dalle citate truppe… L’impressione è ovviamente che si sia trattato  di una ripicca;  se fosse dimostrata,  sarebbe la prova di una situazione ampiamente sfuggita di mano. Intanto sui social fioccano post, per la verità piuttosto sgangherati, che alimentano confusione e sospetti: come mai il cantiere di Traduerivi, meta dichiarata della manifestazione, non era presidiato? Chi erano realmente i personaggi mascherati che hanno appiccato l’incendio? Chi ha incendiato (e non per la prima volta!) la casetta del presidio NO TAV di San Didero? Ci si può ancora definire No TAV considerando che nel movimento si annidano dei violenti? Come mai la statale percorsa dal corteo annunciato non era presidiata da polizia urbana o da altre forze dell’ordine? Ma, soprattutto, chi trarrà maggior vantaggio da questa confusione? Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Centro Sereno Regis
Conferenza di Telt a Susa: va in scena il solito teatrino
Ieri nella sala del Castello di Susa si è svolta l’annunciata e più volte rimandata conferenza di Telt, con facoltà di domande da parte del pubblico in sala, ma solo previa iscrizione e senza ripetere la richiesta. Lo stesso pubblico aveva dovuto accreditarsi telefonicamente o via mail per accedere all’evento. Non essendo necessario un moderatore in una conferenza unilaterale, il sindaco fungeva da smistatore di domande e da latore di ripetuti ringraziamenti agli ospiti di Telt. PRIMO ELEMENTO È importante che siano state dette in modo ufficiale esattamente le stesse cose, un pochino più edulcorate, che dicono da anni i tecnici dell’Unione Montana e, sulla base di quelle, i volontari No TAV. Quindi sono apparsi fastidiosi i ripetuti riferimenti, da parte del sindaco, a notizie allarmanti e infondate diffuse dal movimento. Bisognerebbe in tal caso precisare quali notizie si siano dimostrate infondate, magari invitando ad un confronto pubblico i propalatori di tali presunte menzogne, se no, si tratta di illazioni poco corrette. Quanto a notizie falsamente allarmanti non mi pare ce ne siano state. Per fare un esempio, da anni i tecnici dell’Unione e i no TAV sostengono che lo smarino sarà depositato a Susa in via più o meno provvisoria e ieri l’ing. Bufalini ha detto in presenza del sindaco, che non ha smentito, che questa cosa si sa dal 2018… In ogni caso, non abbiamo bisogno di falsi allarmi; bastano e avanzano quelli che si sono innescati ufficialmente ieri! SECONDO ASPETTO La variante che prevede la collocazione dello smarino a Susa è stata presentata solo da pochi giorni al Consiglio dei Ministri e agli altri organi competenti per l’approvazione. Per ora nessun documento in merito è stato messo a disposizione neppure dei tecnici dell’ Unione Montana. Questi sono stati invitati alla conferenza di ieri 1. dopo che era stata indetta e pochi giorni prima della data prevista; 2. come ascoltatori con licenza di domanda esattamente come gli altri partecipanti, senza aver potuto visionare il testo della nuova variante. Come avrebbero potuto accogliere un invito simile? Infatti i loro nomi non comparivano sul comunicato ufficiale, come non compariva alcun moderatore, trattandosi appunto di conferenza unilaterale. Allora non valgono le prevedibili e previste lamentazioni strumentali del sindaco: lui è stato l’organizzatore dell’evento, lui l’ha pubblicizzato e lui doveva trovare una formula e un accordo accettabili. TERZO ELEMENTO Molte informazioni sono apparse generiche ai presenti e gli stessi tecnici Telt l’hanno ammesso. Si sono ascoltate espressioni tipo: “alcune migliaia di metri cubi di materiali”, “capannoni alti 15 metri e lunghi alcune decine”, “diversi anni”… Solo a precisa domanda si è appreso che i camion in più di quelli che già transitano sull’autostrada saranno 343 al giorno, ma non interferiranno col traffico turistico perché  circoleranno “solo” cinque giorni su sette… QUARTO ELEMENTO Molte informazioni non proprio rassicuranti sono arrivate solo a seguito di domande poste, secondo regolamento, dal pubblico in sala a conferenza conclusa. Per esempio, si è saputo che è vero che la tratta ferroviaria Susa-Bussoleno verrà sostituita da pullman, ma solo per un anno scolastico comprensivo di vacanze estive (sic); questo per volontà  precisa dell’amministrazione di Susa che preferisce evitare il disagio della costruzione di una linea alternativa. Quando avverrà la sospensione dei treni? Forse nel 2028/29, è la risposta a precisa domanda, così come si è dovuta aspettare una richiesta di precisazione per conoscere il numero stimato dei pullman sostitutivi necessari e il loro presunto percorso. E le case che resteranno “ingabbiate” prima nei cantieri e poi  fra autostrada, nuova linea storica e  Tav? Be’, perderanno valore, ma “vuoi mettere avere la vista sulla stazione internazionale”? L’hanno detto davvero! Del resto, il progetto viene “calato” (sic!) sulla valle e la “soluzione delle interferenze tocca agli enti interferiti” (ri-sic!); quelli di Telt sono solo esecutori di un’ opera che è stata loro commissionata, e ovviamente cercano di far capire che la faranno nel miglior modo possibile!  Per esempio, verranno monitorati tutti i rischi legati ai cantieri secondo la formula “riduzione – mitigazione – compensazione”: si riduce il più possibile l’impatto, se non è possibile ridurlo si mitiga, se non è possibile mitigarlo si compensa. E dunque, si suppone che, applicandolo al monitoraggio della salute, potrebbe funzionare così: si cerca di non fare polvere (che peraltro non è dannosa, assicura l’ing. Bufalini); se non si riesce, si cerca di farne poca; se non si riesce a farne poca o non è roba tanto buona, e qualcuno si prende una malattia polmonare, si compensa in qualche modo. IL PUNTO Del resto, che cos’altro potevano dire questi tecnici? I progetti “capitano” perché qualcuno li decide, loro li eseguono basandosi sulle autorizzazioni ottenute e forniscono informazioni alla popolazione coinvolta. Il resto riguarda le scelte politiche. E siamo al punto: i politici e gli amministratori dovrebbero far sentire la propria voce, invece di dire soltanto che ormai ci siamo lasciati alle spalle il dibattito fra favorevoli e contrari all’opera. Ma alle spalle di chi? Se il danno supera i vantaggi, qualsiasi opera va fermata in qualsiasi fase, non compensata. E il nodo sta tutto lì. L’unica voce che è andata in questo senso è stata quella del presidente dell’Unione Montana, che ha fatto esattamente quello che avrebbe dovuto fare il sindaco, cioè porre questioni di interesse popolare a Telt, che per i comuni interessati è la controparte, non un alleato da riverire e agevolare. Tutto qui. Nulla di nuovo, tranne un’affermazione sorprendente dei tecnici: tutto lo smarino deve andare a Salbertrand, venir selezionato in modo che solo la parte “buona” venga poi stoccata a Susa, mentre l’altra andrà nelle discariche speciali. Ma il sito di Salbertrand è tuttora da bonificare da precedenti riversamenti incontrollati e ben noti a chiunque se ne sia occupato. Ebbene, a precisa domanda è stato risposto che gli scavi del tunnel inizieranno solo quando sarà pronto quel sito. Perplessità nel pubblico in sala.   Centro Sereno Regis
Missioni di pace?
Tra le tante proposte in cartellone nel ricco programma del Critical Wine di quest’anno (24-25 maggio a Bussoleno, ne abbiamo già parlato qui) è passata inosservata una mostra fotografica, nei locali dell’Ass.ne Culturale “La Credenza” dal titolo Missioni di Pace? con chiarissimo punto interrogativo. Documentazione di un’esperienza molto ‘particolare’ di cui il fotografo Diego Fulcheri – che i lettori di questo sito ben conoscono come ‘front line reporter’ circa i fatti e misfatti che succedono in Val Susa – è stato in più riprese protagonista nel ruolo di pilota elicotterista, nell’ambito di cosiddette ‘missioni di pace’, prima in Libano con l’UNIFIL e poi in Bosnia, Kosovo, Afghanistan. Un’esperienza che ha generato in lui parecchie domande, sullo sfondo di interessi economici e tornaconti anche personali che di ‘umanitario’ non avevano proprio niente, come sintetizzato in questo testo che accompagnava la mostra e che vi riproponiamo. (ndr) L’accusa d’ipocrisia rivolta alle ‘missioni di pace’ in genere verte principalmente sul fatto che, pur essendo state istituite per garantire la pace, non hanno quasi mai raggiunto gli obiettivi prefissati, spesso mostrando un approccio superficiale e inadeguato alla risoluzione dei conflitti, se non addirittura connivente con i signori della droga, delle armi o del petrolio: strumento insomma delle manovre di geopolitica, con i più deboli, soprattutto i bambini, a pagare le conseguenze maggiori. Come ho avuto modo di capire prestando servizio in Afghanistan e a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina. Afghanistan, una guerra per l’oppio e a favore delle case farmaceutiche “Venti anni di guerra in Afghanistan in sintesi”: questo l’incipit di un articolo a firma di Lorenzo Poli su Invictapalestina, in data 24.8.2021. Bilancio: 240.000 morti tra gli afgani di cui 71.000 civili, oltre ai 4.000 morti per la NATO tra cui 54 militari italiani. 2.000 miliardi di dollari sparati contro l’umanità, contro i ”solo 55” spesi in investimenti (dati di Fabrizio Tonello, Il Manifesto). Tutto questo, a detta di Joe Biden, per vendicare l’11 settembre ed eliminare Osama Bin Laden. In realtà la guerra ha soprattutto incrementato il mercato della droga, se pensiamo che nel 2001 la produzione di oppio non superava i 180 kg, mentre solo quindici anni dopo (cfr Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano del 7.5.2016: “Afghanistan 2001-2016, l’unica ‘liberazione’ è quella dell’oppio”) si toccavano picchi di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, qualificando l’Afghanistan come produttore del 93% dell’oppio a livello mondiale mondiale. “Facendo un bilancio, la guerra in Afghanistan è stata un beneficio non per gli afghani, ma per le case farmaceutiche occidentali, i produttori di armi, le società di mercenari, le mafie anche italiane, le organizzazioni terroristiche islamiche, ma soprattutto gli Stati capitalisti”. (Lorenzo Poli nell’articolo già citato). Foto di Diego Fulcheri Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza, ha scritto un libro dal titolo Afghanistan 2001-2016, La nuova guerra dell’oppio (Arianna Edizioni): un libro coraggioso, sufficientemente piccolo per passare quasi inosservato, ma ricco di informazioni che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno invaso l’Afghanistan e hanno continuato ad occuparlo fino al 2021. Nel luglio del 2001 il Mullah Omar aveva proibito la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio e, una volta raffinato, l’eroina. Decisione difficile perché colpiva soprattutto la base del regime di Omar, cioè i contadini, cui andava peraltro solo l’1 per cento dei ricavi. Fatto sta che nel 2002 la produzione di oppio in Afghanistan era crollata a 185 tonnellate. Quindici anni dopo (come appunto documentava Massimo Fini nel succitato articolo) la produzione raggiungeva le 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, e l’Afghanistan diventava il maggior produttore d’oppio a livello mondiale. Come mai, visto che fra gli obiettivi della coalizione ISAF (International Security Assistance Force), oltre a portare la democrazia, “liberare” le donne eccetera, c’era anche quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa a cui peraltro aveva già provveduto il Mullah Omar? Foto di Diego Fulcheri Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i talebani i contingenti NATO (soprattutto americani, inglesi, canadesi), benché forti d’indiscussa superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e sofisticatissimi strumenti tecnologici), sono stati costretti ad allearsi con i “signori della droga” che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese. La seconda, anche più grave, è che gli stessi militari NATO, insieme ai soldati del cosiddetto esercito “regolare” e la quanto mai corrotta polizia, diventarono protagonisti di buona parte del traffico di droga. La guerra in Afghanistan tanto voluta dagli USA è stato un business enorme per Big Pharma: la maggior parte dei farmaci è a base di oppio e solo nel 2017 le case farmaceutiche americane hanno potuto contare su circa 500.000 kg di oppio a prezzi ‘agevolati’. Un’inchiesta del giornalista e scrittore Franco Fracassi ha rivelato che la maggior parte dei generali NATO in Afghanistan non si occupavano solo di guerra, ma di lobbismo per le case farmaceutiche, delegati a trattare il prezzo dell’oppio per loro conto. “Oltre 90 miliardi di dollari l’anno è il fatturato che le case farmaceutiche totalizzano dalla vendita di farmaci a base di oppiacei, di cui una buona parte proviene dall’Afghanistan e la cui produzione è aumentata del 5.000.000% dall’inizio della guerra nei primi anni 2000” scriveva infatti nell’agosto del 2021 Lorenzo Poli nel suo articolo per Invictapalestina. “Non è un caso infatti che tra il 1991 e il 2011 le prescrizioni negli Usa si sono triplicate, da 76 milioni a 219 milioni di ricette l’anno, per poi arrivare a 289 milioni di ricette nel 2016.” Foto di Diego Fulcheri Dopo 14 anni di guerra, suonano crude le conclusioni del giornalista americano Eric Margolis per The Huffington Post citato anche da Massimo Fini: “Quando verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”. Nulla è mai come sembra “In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, che vede implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali: sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”, parola di Kofi Annan, nel Report of the UN Secretary-General. La guerra in Bosnia ed Erzegovina si è combattuta tra i primi di marzo del 1992 e il 14.12.1995, fino alla stipula dell’accordo di Dayton (Ohio), che pose ufficialmente fine alle ostilità. L’intervento della comunità internazionale fu per gran parte del conflitto piuttosto blando, limitandosi a promuovere sterili trattative di pace. Del tutto insufficiente si rivelò anche l’invio di un contingente ONU, l’UNPROFOR, che non impedì il perpetrarsi di massacri contro la popolazione civile. La tragedia danneggiò profondamente la legittimità dell’ONU: “Tra gli attori internazionali, nessuno più delle Nazioni Unite ha perso credibilità a causa del crollo della Bosnia”. Si stima che l’assedio di Sarajevo (dal 5.4.1992 al 29.2.1996, il più lungo assedio nella storia bellica del XX° secolo) abbia registrato 12.000 morti oltre ai 50.000 feriti, l’85% dei quali tra i civili. A causa dell’elevato numero di morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664 unità, il 64% della popolazione precedente allo scoppio della guerra. E allora perché  l’intervento della NATO, si è chiesto l’economista Sean Gervasi? Decisiva sulle decisioni politiche e militari (come l’intervento della NATO) soprattutto in Occidente, fu l’influenza della copertura giornalistica televisiva in Bosnia, in particolare della CNN, ma le cose potrebbero essere andate diversamente. Un articolo dell’economista Sean Gervasi, pubblicato sul sito del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia il 14.1.1996 motiva l’intervento occidentale nella penisola balcanica come “il risultato delle enormi pressioni per un’estensione generale della NATO verso est (…) in vista di un allargamento in tempi relativamente rapidi anche alla Polonia, alla Repubblica Ceca e all’Ungheria (…) in ragione di una scelta strategica finalizzata al controllo delle risorse della regione intorno al Mar Caspio e per ‘stabilizzare’ i paesi dell’Europa Orientale e in ultima analisi la stessa Russia e i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti…” Notare la data: siamo solo nel 1996! C’era sostanzialmente, secondo Gervasi, un piano occidentale “per far implodere la Jugoslavia che rappresentava l’ultimo ostacolo…” Inquietante, col senno di poi, la comparsa di un trafiletto su La Stampa di Torino, che in data 29.11.1990 così recitava: “La Jugoslavia si disintegrerà entro il 1992”, parola della CIA! MISSIONI DI PACE O PER LA GUERRA PERMANENTE?   Centro Sereno Regis
10 maggio, marcia NoTav in Val di Susa…
Sabato 10 maggio sarà il giorno in cui tutti coloro che hanno a cuore la Valle e la città di Susa, “vecchi e nuovi abitanti di questa valle”, potranno marciare al fianco di tante compagne e tanti compagni di lotta per affermare che la valle non è disposta a farsi “ricattare e sfruttare dal sistema delle grandi opere”. …E SE I GRILLI NON CANTASSERO PIÙ? Con l’inizio di maggio, sul finire delle prime giornate di sole, accade qualcosa di cui fa esperienza chi vive all’aperto le ore dell’imbrunire o porzioni di tiepide notti. È il frinire dei grilli, quel suono che in Giappone è atteso e ammirato come meraviglia e piacere della natura, presagio di buona fortuna. Così come è iniziato, il canto di un grillo può interrompersi improvvisamente. È la conseguenza della percezione di un’invasione di campo, del farsi avanti di una minaccia. Nel subitaneo silenzio il grillo sa che è arrivato il momento di difendersi, forse di lottare per la propria sopravvivenza. Un po’ come i grilli il Movimento No Tav, insieme a tutti coloro che hanno coscienza e timore del danno e del rischio ambientale in una piccola valle alpina già martoriata dai cambiamenti climatici, si allarma nel vedere gli spazi naturali progressivamente invasi e distrutti dai cantieri TAV Torino – Lione. Dopo Chiomonte e San Didero è arrivato il momento della Piana di Susa. Al silenzio allarmato dei grilli si affiancano le parole pesate e precise, spese dai tecnici No Tav dell’Unione Montana, per mettere in allarme i valligiani, per svegliare le coscienze e presentare, senza falsa retorica, quel che accadrà, quel che null’atro sarà se non una lunga, perdurante e inutile devastazione. Per qualcuno tutto ciò accadrà sull’uscio di casa, sul limite di piccoli giardini frequentati da intere vite, calpestati in passato da bimbe e bimbi che oggi si aggrappano, quasi a volerle abbattere, alle reti che racchiudono cantieri e nascondono lo scempio. Centodiecimila metri quadrati di cantiere, pari a quindici campi da calcio. Oltre 2,5 milioni di metri cubi di smarino, un volume simile a quello della piramide di Cheope, proveniente dal tunnel di base e stoccati nella piana di Susa, nel cuore della bassa Valle. È infatti previsto, secondo quella che è di fatto una variante di progetto ma che non è stata sottoposta a valutazione di impatto ambientale, che il materiale di scavo verrà depositato per un periodo di tempo indeterminato alle porte della città di Susa, nelle aree dell’autoporto e della pista di guida sicura. Lo stoccaggio è previsto a cielo aperto, al più con la protezione di tensostrutture mobili incapaci di limitare la diffusione di polveri pericolose per la salute umana e animale. Quel che avevano promesso che mai sarebbe accaduto per la pericolosità dei materiali (terre e rocce contaminate, PFAS, fibre di amianto, minerali radioattivi, arsenico) e delle polveri sottili, ora è sfacciatamente e violentemente imposto ad un territorio frequentemente battuto dal vento. Un criminale allargar di braccia, il celarsi dietro l’indisponibilità del sito di stoccaggio di Salbertrand, rientrano nell’atteggiamento sfottente di TELT, che mai ha mostrato attenzione e rispetto per la Valle di Susa e per i suoi abitanti, oppositori all’opera o no. Il deposito dello smarino a Susa, nelle aree indicate, renderà necessario il suo spostamento dai luoghi di estrazione (cantiere di Chiomonte) verso quelli di stoccaggio. Trasporti continui che verranno effettuati, in un tempo dilatato negli anni, con decine di migliaia di camion: una lunga e ininterrotta fila di mezzi pesanti attraverserà la città di Re Cozio, con la conseguenza diretta di rumori continui, vibrazioni per gli edifici, inquinamento, polveri sottili, aumento del rischio di incidenti stradali. Un quadro ambientale e di futura vivibilità ben poco rassicurante, che si unisce ad una drammatica prospettiva di decadenza per la città, per la sua economia e le sue velleità turistiche. Prospettiva quest’ultima che include la chiusura dell’attuale linea ferroviaria e della stazione locale, la chiusura temporanea delle vie di accesso alla città di Susa, al suo ospedale, ai suoi istituti di istruzione superiore, agli esercizi commerciali e alle attrattive turistiche e storico-culturali. Tutto ciò nell’apparente indifferenza, nel silenzio e nella complice indisponibilità al dialogo e all’ascolto dell’attuale amministrazione della città. Mai un confronto pubblico è stato così tante volte richiesto ed altrettante volte negato! La Valle di Susa, per circa due anni, ha sperimentato quello che tanti hanno definito come un vero e proprio “isolamento” determinato dalla chiusura della linea ferroviaria verso Modane in territorio francese. Qui, nell’agosto del 2023, una frana aveva danneggiato e interrotto la ferrovia causando la cancellazione dei treni merci e passeggeri verso le città transalpine.  Al netto di un aumento del traffico pesante al tunnel del Frejus e sulle altre direttrici verso la Francia, non si è tuttavia assistito ad alcun collasso delle economie al di qua e al di là delle Alpi. Lo stesso protrarsi dei lavori di ripristino della linea, in territorio francese, che ne hanno consentito la riapertura solo a marzo di quest’anno, rendono probabilmente ragione a chi da anni insiste sulla totale inutilità di una nuova linea ferroviaria e di un nuovo tunnel di collegamento fra le due regioni. Soprattutto la prolungata indisponibilità della linea e la concomitante tenuta economica dei territori, smentiscono quella falsa teoria sulla saturazione della linea ferroviaria attuale, che si sarebbe dovuta registrare già nel 2018 e che ha rappresentato il pretesto oggettivo per imporre la costruzione della nuova linea TAV. Se i grilli interrompono bruscamente il loro frinire per comprendere ciò che li minaccia e preparare la difesa, il Movimento No Tav sceglie, una volta ancora, quella semplice e testarda forma di lotta che consiste nel mettersi in marcia e percorrere, con sguardo alto e fiero, quei territori condannati alla devastazione dal volere e dagli interessi di pochi. Nell’ormai ridotto equilibrio ambientale di queste nostre terre “alte”, sempre più frequentemente vittime degli eventi climatici che colpiscono e feriscono, ogni nuovo cantiere della grande opera TAV è illogica e indebita sottrazione, è metastasi. È violenza e crimine climatico. Sabato 10 maggio sarà il giorno in cui tutti coloro che hanno a cuore la Valle e la città di Susa, “vecchi e nuovi abitanti di questa valle”, potranno marciare al fianco di tante compagne e tanti compagni di lotta per affermare che la valle non è disposta a farsi “ricattare e sfruttare dal sistema delle grandi opere”. Voglio ancora sentire i grilli cantare! Centro Sereno Regis