
La risonanza vitale e il potere incrinato dalla piazza
Comune-info - Thursday, October 16, 2025La tregua non nasce nel vuoto: è il frutto di una combinazione di contropulsazioni sociali (manifestazioni, blocchi nei porti, scioperi, azioni di solidarietà…), crisi diplomatiche e perdita di legittimità che hanno costretto il comando a cambiare ritmo. “Il cessate il fuoco non è un atto di coscienza ma una manovra di sopravvivenza del sistema… – scrive Massimo De Angelis – Nei prossimi mesi, tre scenari restano in tensione… In ciascuno di questi, i movimenti restano decisivi…”
Foto Prc ParmaL’ha detto la nostra presidente del Consiglio, lo ripetono quanti giustificano la propria ignavia di fronte al genocidio: le manifestazioni non servono, le bandiere non fermano i missili, la pace si costruisce “lavorando in silenzio”. Eppure, la cronologia degli eventi smentisce questa favoletta per adulti stanchi. Senza le piazze, senza la moltitudine di voci e di corpi che hanno reso impossibile l’indifferenza, non ci sarebbe stato alcun cessate il fuoco a Gaza.
Negli ultimi mesi, una mobilitazione globale — estesa, plurale e persistente — ha incrinato la strategia bellica di Stati Uniti, Israele e dei loro alleati. Dalle università statunitensi alle piazze europee, dai porti italiani alle città australiane, africane e del Sudest asiatico, milioni di persone hanno costretto Donald Trump — fino ad allora garante della macchina di guerra — a imporre una tregua e a riaprire i negoziati. È stato uno spasmo sistemico: la solidarietà con la Palestina ha agito come contropulsazione dentro il ritmo del comando, interrompendone la coerenza funzionale. Le bombe si sono fermate, almeno per ora, anche se l’ingiustizia continua.
Gli eventi parlano chiaro. In decine di porti — da Genova, Ravenna e Livorno a Oakland, Melbourne e al Pireo — lavoratori, sindacati e reti civili hanno organizzato blocchi, scioperi e rallentamenti che hanno toccato i flussi reali della logistica bellica. In Italia, i camion diretti in Israele sono stati fermati a Ravenna, mentre i portuali di Genova hanno interrotto le operazioni in segno di protesta. Al tempo stesso, la Global Sumud Flotilla muoveva verso Gaza, trasformando la solidarietà in forza materiale. Episodi simili negli Stati Uniti, in Grecia e in Australia hanno reso la guerra più costosa e visibile nelle catene di approvvigionamento globali. Laddove fino a un anno fa regnava il silenzio, come in Germania, le piazze si sono riempite; a Londra, anziani e persone con disabilità si sono fatti arrestare per sostenere le azioni di disobbedienza civile del movimento Palestine Action, paradossalmente classificato dal governo laburista come “terrorista”.
Negli Stati Uniti, il consenso all’offensiva israeliana è crollato: a fine luglio solo il 32 per cento degli statunitensi la sosteneva, contro un 60 per cento contrario (sondaggio Gallup confermato dal Brookings Institute). È il minimo storico, e per la Casa Bianca un rischio politico enorme. Anche in Israele le pressioni interne sono aumentate: famiglie degli ostaggi e manifestanti hanno invocato una tregua e uno scambio, mentre i sondaggi di settembre e ottobre mostravano una maggioranza favorevole a un accordo negoziato.
Poi lo scarto diplomatico: il raid israeliano a Doha contro membri di Hamas ha irritato il Qatar — mediatore chiave e alleato di Washington — innescando un effetto domino che ha condotto, il 14 ottobre, all’accordo di Sharm el-Sheikh firmato da Trump con Egitto, Qatar e Turchia. In quel clima, la pressione delle piazze internazionali ha amplificato il costo politico e morale di ogni sgarbo diplomatico, spingendo il comando a contenersi.
Sul piano simbolico e giuridico, le misure provvisorie della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Sudafrica contro Israele hanno offerto ai movimenti un’arma potente: la guerra è apparsa non solo immorale, ma illegittima.
La sequenza temporale è eloquente: settimane di scioperi e blocchi, crollo del consenso negli Usa, proteste interne in Israele, raid fallito a Doha, summit e firma del cessate il fuoco con lo scambio di venti ostaggi israeliani e duemila prigionieri palestinesi. La tregua, insomma, non nasce nel vuoto: è il frutto di una combinazione di contropulsazioni sociali, crisi diplomatiche e perdita di legittimità che hanno costretto il comando a cambiare ritmo, non per coscienza, ma per necessità.
Le mobilitazioni nei cinque continenti, la Flotilla, i boicottaggi, hanno creato un evento di risonanza vitale. Hanno prodotto quella che, nel linguaggio cibernetico, è una varietà sistemica superiore alla capacità di controllo del potere. In concreto, hanno moltiplicato le variabili indipendenti che il sistema — tra Casa Bianca, Pentagono, Netanyahu e il complesso militare-finanziario — doveva tenere sotto controllo, alzando vertiginosamente i costi politici ed economici dello status quo. Quando la varietà dell’ambiente supera quella del comando, il sistema è costretto a cambiare ritmo per non implodere.
Le piazze hanno così interferito con le frequenze operative del potere, imponendogli un adattamento strategico. Il cessate il fuoco non è un atto di coscienza — chi sponsorizza la guerra non cerca la pace — ma una manovra di sopravvivenza del sistema. Trump, fino a poche settimane prima sostenitore incondizionato dell’esercito israeliano, ha dovuto simulare un gesto di pace per ristabilire equilibrio interno e interrompere temporaneamente la catena genocida. Ma questa riconfigurazione resta transitoria: il comando ha solo cambiato fase per evitare la rottura, non la propria logica.
L’impatto delle mobilitazioni si è manifestato su più piani: politico (crisi di legittimità nel discorso ufficiale statunitense), logistico (colpiti i gangli materiali della macchina di guerra), sociale (nuovo linguaggio pubblico: Gaza come simbolo universale della disumanizzazione), simbolico (la parola genocidio divenuta descrittore corrente, rafforzata dalla precedente idea trumpiana di trasformare Gaza in “riviera”).
Questo momento segna il conflitto tra due ritmi vitali inconciliabili. Da un lato, il battito del comando, che riproduce dominio e capitale, trasforma la crisi in metodo di governo e la guerra in routine amministrativa. Dall’altro, il battito del comune, che si organizza attorno alla vita, alla cura, alla solidarietà e al diritto collettivo di esistere. Nelle settimane e mesi che hanno preceduto la tregua, queste due pulsazioni si sono scontrate apertamente: la moltitudine globale, con le sue piazze, porti e università, ha infranto la regolarità del potere, introducendo una varietà di forze e linguaggi che il centro non era più in grado di controllare.
Il risultato è stato una condizione di risonanza instabile: la vita ha imposto la propria frequenza dentro il corpo rigido del comando, costringendolo a piegarsi, a mutare ritmo, a mascherare la ritrazione come “gesto di pace”. Il cessate il fuoco e il piano in venti punti non sono segni di coscienza, ma sintomi di instabilità: la risposta forzata di un sistema che, per non collassare, ha dovuto concedere una pausa al proprio stesso battito.
Quando Trump ha detto a Netanyahu che “Israele non può mettersi contro il mondo”, ha pronunciato la frase che fotografa la mutazione in corso: il “mondo” evocato non è solo quello delle cancellerie, ma la moltitudine che si è mossa, cioè milioni di persone, reti civili, sindacati, università, porti, città, comunità religiose e digitali. È il mondo come ambiente vivente che, mobilitandosi, ha accresciuto la propria varietà fino a renderla ingovernabile entro i parametri del potere. È il mondo che, per un attimo, come un quarto di secolo prima scrisse il New York Times a proposito del movimento anti (o alter)-globalizzazione, è tornato a farsi superpotenza.
Trump ha riconosciuto, forse senza volerlo, la validità della legge di Ashby: quando la varietà dell’ambiente supera quella del comando, quest’ultimo non può più controllare l’insieme se non diversificandosi o cedendo. Il cessate il fuoco non è quindi un gesto di magnanimità, ma una resa temporanea dinanzi a un ambiente che pulsa su frequenze più complesse e diffuse di quanto la sua architettura gerarchica possa sostenere. In questo senso, la frase di Trump è il sintomo di una crisi di controllo: il potere si scopre attraversato da una contro-pulsazione mondiale che ne ridefinisce i limiti. È la traduzione politica di una risonanza instabile: l’ordine del comando non riesce più ad assorbire la complessità che la vita — nelle sue infinite forme di solidarietà, protesta e cura — continua a generare.
Il discorso alla Knesset e la ricomposizione del comando
Ma non facciamoci illusioni: il potere, quando si piega, lo fa per riprendere fiato. Mentre la moltitudine respirava insieme, Trump è salito sul palco del comando per trasformare la ritrazione in trionfo, la resa in racconto di vittoria. Così il sistema tenta di riappropriarsi del ritmo che gli è sfuggito: mette in scena la pace come spettacolo, la tregua come atto di potere, sé stesso come regista della storia.
Nel cuore della tregua, Trump ha convertito la Knesset in un palcoscenico: ha proclamato “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”, intestandosi cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi e una pace capace — a sentir lui — di ridisegnare la regione; ha presentato il “piano in 20 punti” come architrave del dopoguerra, presentandolo come via maestra per rafforzare Israele e allargare gli Accordi di Abramo; e da imperatore, ha chiesto il perdono per Netanyahu, invadendo la sfera giudiziaria israeliana. L’aula lo ha celebrato con ovazioni, mentre i deputati che mostravano cartelli “Recognise Palestine” venivano allontanati: l’immagine perfetta di un consenso performato e di un dissenso amministrato in maniera da Trump definito “efficiente”, utile a riprodurre la retorica del “nuovo inizio” sgombrando la scena da note stonate.
Quell’enfasi stride con la storia palestinese: ottant’anni di espulsioni, occupazione, colonie, check-point, bombardamenti, leggi d’apartheid. Chiamare “nuova alba” ciò che segue a decenni di notte significa mascherare la violenza strutturale col linguaggio del rinnovamento. Non ridefinisce: congela. Reinscrive la tregua nella narrazione coloniale che chiama “ordine” l’occupazione, “sicurezza” la segregazione e “pace” la soppressione dell’autodeterminazione.
Il discorso di Trump è una pulsazione di ricomposizione del comando articolato su sei vettori. Su quello dello scopo, sposta la guerra nel passato e recita la “costruzione della pace storica”, convertendo la continuità della violenza in mito fondativo. Su quello dell’agenzia, non media: sovrasta, ingloba l’alleato e lega Washington al baricentro politico israeliano. Su quello della gestione della crisi rovescia la trama: l’escalation diventa prova di leadership, vittime e rovine materia di auto-legittimazione. Sposta poi l’attenzione: la distruzione di Gaza e l’occupazione della Cisgiordania scivolano fuori campo, restano “incubi finiti” chiusi dal carisma del leader. Sul piano degli strumenti, la Knesset diventa dispositivo: si sigilla l’alleanza personale, si ritualizza la centralità del piano, si testano i limiti del dissenso. E quando Trump compiaciuto ricorda che “Netanyahu ha sempre chiesto nuove armi, e le ha usate bene”, esibisce la logica nuda della strumentalità: l’efficienza dell’annientamento come metrica di successo. Dire “le ha usate bene” significa normalizzare il genocidio come competenza tecnica: macerie, corpi, ospedali colpiti come prova di “buona amministrazione” militare. È l’osceno al servizio della burocrazia della morte.
Infine, la ricalibrazione delle soglie: formule enfatiche e apparato simbolico fissano come “standard minimo” l’adesione alla tregua nei termini del piano; la critica diventa anti-israeliana o anti-presidenziale. L’espulsione dei deputati dissenzienti non è incidente: è grammatica della soglia.
Questo impianto risponde e tenta di neutralizzare la contro-pulsazione che ha reso possibile la tregua. Ciò che la piazza ha imposto — cessate il fuoco, scambio, riapertura del dossier politico — viene riscritto come iniziativa presidenziale; l’abbraccio a Netanyahu e l’appello al perdono offrono copertura a un vertice delegittimato, mentre la gestione del dissenso comunica che nella “commemorazione” della pace non c’è spazio per la giustizia.
La questione palestinese — che il discorso di Trump alla Knesset aveva accuratamente eluso — riemerge nel punto 19 del piano come una promessa condizionata, quasi un promemoria diplomatico più che un impegno politico. Vi si legge che “con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese”. È una formulazione studiata per suonare bene e non cambiare nulla: la statualità diventa un premio futuro, subordinato alla “fedeltà” a un programma di riforme dettato dall’esterno. Non un diritto, ma una concessione da meritare.
Così il comando trasforma l’autodeterminazione in meccanismo di condizionamento. A Hamas, per ora, è riconosciuto il ruolo di polizia interna per impedire che la tregua diventi spazio politico; la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di colonizzazione diffusa. Il nodo della rappresentanza viene rinviato per neutralizzarlo: silenzio su Marwan Barghouti e su qualsiasi leadership credibile. Ne risulta il prototipo del protettorato post-bellico: Gaza sarà amministrata da tecnocrati, per ora vigilata da Hamas, finanziata da partner regionali; “riconciliazione” come maschera di continuità dell’occupazione.
Intanto, lo spazio politico dal basso — riapertosi dalla Unity Intifada del 2021 contro l’indurimento dell’assedio a Gaza e della vita dei palestinesi in Cisgiordania, fino ai bombardamenti recenti — rischia di essere imbrigliato nella “ricostruzione controllata”. In questi anni, una “micro-democrazia dell’emergenza” ha retto la vita: comitati di quartiere, reti di donne, cooperative, università, e una rete di cucine comunitarie (oltre 190, fino a 650.000 pasti al giorno nel giugno 2024 a Gaza) hanno mediato bisogni, aiuti, sicurezza. Oggi quel tessuto viene spinto nel recinto tecnocratico: l’autodeterminazione subordinata a parametri di sicurezza e governance; si parla di “riforme”, si pratica “normalizzazione”. Il risultato è chiaro: un popolo senza possibilità di scegliere chi lo rappresenta resta prigioniero anche nella tregua. Gaza rischia il protettorato sorvegliato; la Cisgiordania, un mosaico di enclave sempre più frammentate. Mentre il piano proclama “l’alba di un nuovo Medio Oriente”, costruisce un crepuscolo prolungato della sovranità palestinese: l’autodeterminazione promessa come aspirazione, negata come fatto.
Perciò il discorso di Trump al parlamento israeliano funziona da ponte, non da approdo. Ponte verso cosa? Tutto dipende dalle contro-pulsazioni: se i movimenti trasformano la pressione in struttura (condizionalità, monitoraggi pubblici, coalizioni transnazionali, campagna su rappresentanza e prigionieri politici), la recita della Knesset resterà un esercizio di stile; se la mobilitazione scende sotto una soglia critica, quella scena diventerà la prova generale del ritorno all’ordine.
Scenari in movimento
Il cessate il fuoco e il piano a venti punti non rappresentano la fine del conflitto, ma l’apertura di un campo di battaglia politico e sociale.
Nei prossimi mesi, tre scenari restano in tensione.
Il primo — il più probabile — è quello di una stabilizzazione tecnocratica del conflitto: Gaza trasformata in un protettorato amministrato da esperti e sponsor occidentali, mentre la Cisgiordania scivola nel freeze & fragment di colonizzazione e annessione silenziosa.
Il secondo è quello della ricomposizione palestinese, con una leadership legittimata e popolare, resa possibile — a detta di molti — solo dalla liberazione di Marwan Barghouti, oggi ostinatamente trattenuto da Israele. Ma una leadership politica unitaria potrà emergere solo se saprà intrecciarsi con la forza costituente dal basso che la società palestinese ha già dimostrato: la capacità di organizzare la vita nel pieno della distruzione, di trasformare la sopravvivenza in solidarietà e la solidarietà in progetto politico.
Infine, il terzo scenario è quello del ritorno all’escalation: se i meccanismi di scambio, liberazione e ricostruzione salteranno, la pulsazione del comando tornerà a prevalere con la violenza.
In ciascuno di questi scenari, i movimenti restano decisivi. Nella governance tecnocratica, devono imporre condizioni chiare e vincolanti sugli aiuti e sulla rappresentanza palestinese, evitando che Gaza diventi un esperimento di “umanitarismo neocoloniale”. Nella prospettiva della ricomposizione, devono trasformare la campagna per la liberazione di Barghouti in un simbolo della sovranità popolare palestinese e della lotta globale contro il potere coloniale. Nel caso del freeze & fragment, devono spostare l’attenzione internazionale sulla Cisgiordania, documentando la colonizzazione, smascherando la falsa “normalità” e colpendo economicamente le catene di profitto legate agli insediamenti. E se la tregua dovesse infrangersi, dovranno tornare a occupare in massa la scena pubblica, rendendo immediatamente visibile e insostenibile ogni nuovo atto di guerra.
In tutti i casi, la posta in gioco è la stessa: impedire che la tregua si richiuda in una pace neocoloniale e mantenere aperto lo spazio di autodeterminazione dal basso che la società palestinese — insieme alla solidarietà globale — ha faticosamente riaperto. Solo così la pulsazione del comune — la riproduzione della vita, della cura, della dignità — potrà continuare a interferire con la pulsazione del comando, impedendole di richiudere la finestra che si è aperta.
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