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Pensare la democrazia oggi
LA LOTTA PER LA DEMOCRAZIA CHE HA ORIENTATO TANTI E TANTI DOPO LE DUE GUERRE MONDIALI SEMBRAVA UNA STRADA MAESTRA. OGGI QUELLA LOTTA È IN PROFONDA CRISI. DEL RESTO CON MARIA ZAMBRANO SAPPIAMO CHE NON BASTA CAMBIARE LE STRUTTURE, SE NON CAMBIA LO SGUARDO SUL DOLORE. CHE PER RENDERE LA STORIA GIUSTA NON SERVE UN EVENTO RIVOLUZIONARIO IMPROVVISO MA CREARE OGNI GIORNO RELAZIONI SOCIALI DIVERSE. CHE LA DEMOCRAZIA È PRIMA DI TUTTO UN PROCESSO IN GRADO DI NASCERE SOLTANTO CON IL RICONOSCIMENTO DELL’ALTRO Un momento del campo di Casa Acmos, in corso in questi giorni a Torino, dedicato all’incontro con alcune realtà sociali del territorio, il quartiere “Barriera di Milano” -------------------------------------------------------------------------------- Dopo l’orrore che ha aperto il secolo — due guerre mondiali, la Shoah, le dittature, i totalitarismi, Hiroshima — abbiamo sperato che la democrazia fosse la strada maestra per un nuovo inizio. Un inizio fondato non sulla violenza, ma sulla dignità umana, sulla libertà, sul riconoscimento dei diritti. Sembrava che la democrazia potesse finalmente intrecciarsi con l’idea di progresso — un progresso che non fosse solo economico, ma etico, culturale, umano. Estendere i diritti, ampliare l’accesso al sapere, perfezionare le istituzioni: era questa la via che molti di noi, con sincerità, credevano potesse condurre verso un mondo più giusto e consapevole. E in parte è stato così. Quella speranza non era un’illusione vana. Era la risposta necessaria a un secolo che aveva mostrato fin dove può spingersi l’abisso umano. Ma oggi, quella fiducia sembra essersi incrinata. E forse è persino svanita. Non si parla più di crisi dell’Occidente. La crisi ha lasciato il posto a qualcosa di più silenzioso, ma più radicale: un senso di abbandono. Le istituzioni democratiche esistono, ma spesso appaiono svuotate, incapaci di rispondere al dolore del presente. Il linguaggio pubblico si consuma in slogan, e la storia — che avrebbe dovuto essere coscienza e memoria — si trasforma, dice María Zambrano, in «un luogo indifferente in cui qualsiasi avvenimento può presentarsi con la stessa validità e gli stessi diritti di un Dio assoluto che non consente la più lieve obiezione» (Persona y democracia, p. 20). Una delle intuizioni più potenti del libro è proprio questa: la denuncia della storia sacrificale dell’Occidente, una storia fondata sulla violenza che si traveste da ordine, sul sacrificio di capri espiatori, sulla rimozione della sofferenza. Le istituzioni, se non si interrogano sulle loro origini violente, rischiano di perpetuare il meccanismo. La democrazia, se vuole essere fedele a sé stessa, deve spezzare questo ciclo, riconoscere le vittime, accoglierne la memoria e costruire spazi di riconciliazione. Zambrano scrive con forza che «l’unico modo perché questo annientamento non si verifichi è estendere la coscienza storica, e insieme dare corso a una società degna di questa coscienza e della Persona umana da cui sgorga». È questo il cuore del suo pensiero politico: non basta cambiare le strutture, se non cambia lo sguardo sul dolore e sulla storia. Per lei, la rivoluzione autentica non è l’atto istantaneo della rottura, ma la creazione lenta di una società umanizzata: «facendo in modo che la storia non si comporti come un’antica Divinità che esige un sacrificio senza fine». Zambrano diffida delle rivoluzioni che promettono salvezza immediata. Scrive in un’altra pagina memorabile: «L’uomo ha confuso l’istante del risveglio con la realizzazione». Ci ricorda così che la consapevolezza iniziale non basta se non si traduce in responsabilità, in trasformazione reale, in etica incarnata. È un’intuizione rara. Molti filosofi hanno parlato del risveglio come momento decisivo della coscienza individuale: il passaggio dall’inerzia alla consapevolezza, dall’ignoranza alla verità. Ma pochi hanno saputo portare questa riflessione dentro la storia collettiva, dentro la democrazia, dentro le trasformazioni politiche. In questo, María Zambrano è straordinariamente originale: non mette in discussione solo la coscienza del singolo, ma anche quella dei popoli, delle istituzioni, dei sistemi politici. Denuncia l’illusione secondo cui basti un evento rivoluzionario, un cambiamento improvviso, per rendere la storia finalmente giusta. «L’uomo ha confuso l’istante del risveglio con la realizzazione» – scrive. E questo vale anche per le società: risvegliarsi non significa essere già cambiati. Pochi altri hanno colto questo rischio con altrettanta chiarezza. Hannah Arendt ci ricorda che ogni generazione deve ricominciare da capo il lavoro della libertà. Paulo Freire, educatore e pensatore latinoamericano, insiste sul fatto che la liberazione non è un atto magico o improvviso, ma un processo che richiede dialogo, riflessione, azione condivisa. Anche Frantz Fanon, che ha vissuto in prima persona la lotta contro il colonialismo, mette in guardia: non basta rovesciare un potere per essere davvero liberi. Bisogna cambiare anche il modo di pensare, di relazionarsi, di immaginare il mondo. Ma è proprio Zambrano a unire la profondità del pensiero poetico con una visione storica e politica. Per lei, la democrazia non nasce da un solo gesto, ma da una lunga fedeltà alla sofferenza umana, alla memoria, alla coscienza. Un cammino fragile, ma necessario, per far nascere davvero l’uomo e una storia che non chieda più vittime. Per questo Zambrano può scrivere: «Qualcosa se n’è andato per sempre. Adesso è questione di tornare a nascere, di far nascere di nuovo l’uomo». Non si tratta di ripartire da zero, ma di interrompere il sacrificio, di ricostruire una storia che non chieda vittime, di dare forma a una democrazia che non si esaurisca nei suoi meccanismi, ma nasca ogni giorno nel riconoscimento dell’altro. Solo così potremo ancora credere che la democrazia non sia un sogno infranto, ma la promessa di un mondo più umano, più vigile, più giusto. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Il capitalismo è l’assassino -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pensare la democrazia oggi proviene da Comune-info.
Chi controlla il controllore? Sulla sorveglianza delle opposizioni politiche in Italia
Oltre un mese fa, e nuovamente nei giorni scorsi, l’inchiesta giornalistica pubblicata da Fanpage ha portato alla luce fatti di estrema gravità per la tenuta democratica del nostro Paese. Secondo documenti interni e testimonianze, almeno cinque agenti della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione – cioè l’antiterrorismo del Ministero dell’Interno […] L'articolo Chi controlla il controllore? Sulla sorveglianza delle opposizioni politiche in Italia su Contropiano.
Primavera americana?
L’ARRESTO DI BRAD LANDER, CANDIDATO DEMOCRATICO A SINDACO DI NEW YORK, DOPO QUELLO DI RAS BARAKA, SINDACO DI NEWARK, NON SONO LA PUNTA DELL’ICEBERG DELLE VIOLENTE PROTESTE IN CORSO NEGLI STATI UNITI: MOSTRANO INVECE LA SVOLTA AUTORITARIA E LA MILITARIZZAZIONE DI CIÒ CHE RESTA DELLA DEMOCRAZIA NEGLI USA. SCRIVONO I RICERCATORI DEL CROWD COUNTING CONSORTIUM, UN PROGETTO DELLA HARVARD KENNEDY SCHOOL E DELL’UNIVERSITÀ DEL CONNECTICUT, DEDICATO ALL’ANALISI DELLE AZIONI DEI MOVIMENTI: “IN OLTRE IL 99,5% DELLE PROTESTE DI APRILE E MAGGIO, NON ABBIAMO REGISTRATO FERITI, ARRESTI O DANNI ALLA PROPRIETÀ, UN DATO SENZA PRECEDENTI PER UN MOVIMENTO DI QUESTE DIMENSIONI E DI UNA TALE DIFFUSIONE GEOGRAFICA. CONTRARIAMENTE ALLE AFFERMAZIONI IPERBOLICHE DELLE AUTORITÀ CHE PARLANO DI UN MOVIMENTO DISORDINATO CHE CERCA DI SEMINARE IL CAOS, I MANIFESTANTI ASSOCIATI AL MOVIMENTO ANTI-TRUMP SONO STATI STRAORDINARIAMENTE NON VIOLENTI NELLE LORO TATTICHE…”. LE ATTUALI PROTESTE CONTRO TRUMP, PRECEDUTE DALL’OTTOBRE DEL 2023 ALLA PRIMAVERA DEL 2024 DALLE MANIFESTAZIONI PRO-PALESTINA, HANNO SUPERATO QUELLE DEL 2017, E HANNO INTERESSATO TUTTI GLI STATI TANTO NELLE GRANDI CITTÀ CHE NEI PICCOLI CENTRI 19 aprile 2025, protesta anti-Trump a Concord, California -------------------------------------------------------------------------------- Mentre a Los Angeles e in altri 2.000 centri in 50 stati le proteste No Kings coinvolgono milioni di cittadini e cittadine statunitensi e la repressione si abbatte con inaudita violenza su di loro, fino al punto di considerare legale l’atto di travolgerli-le con la propria auto nel caso di tentativi di accerchiamento, vale la pena soffermarsi sui caratteri delle dimostrazioni che da mesi attraversano gli Stati Uniti per coglierne continuità e mutamenti. Le proteste sono state monitorate con precisione dal Crowd Counting Consortium (CCC), un progetto congiunto della Harvard Kennedy School e dell’Università del Connecticut che raccoglie i dati tratti dai media tradizionali e dai social media relativi alle azioni di protesta collettive negli Stati Uniti: marce, scioperi, manifestazioni, rivolte. Nato nel 2017 per iniziativa di Jeremy Pressman e di Erica Chenoweth – esperta dei movimenti di resistenza civile nonviolentai – con lo scopo di registrare il numero delle partecipanti alla Women’s March di Washington (e alle Sister Marches di tutto il mondo) nel gennaio di quell’anno, il progetto si è esteso a tutte le forme di protesta. I dati raccolti – disponibili online e liberamente scaricabili – registrano il numero e la composizione dei-delle partecipanti, le motivazioni, la durata, le modalità delle proteste, la presenza e il comportamento della polizia. Essi rivelano che le proteste hanno avuto un carattere nonviolento e diffuso, hanno interessato tutti gli stati e si sono svolte tanto nelle grandi città che nei piccoli centri, inclusi quelli rurali. Esse sono state precedute dall’ottobre del 2023 alla primavera del 2024 dalle manifestazioni pro-Palestina. Secondo le rilevazioni del CCC, tra il 7 ottobre 2023 e il 7 giugno 2024 si sono svolte 12.400 azioni in sostegno alla Palestina che hanno coinvolto un milione e mezzo di persone; si è trattato della più vasta ondata di protesta negli Stati Uniti su un tema di carattere internazionale. Dalle richieste presentate da studenti e studentesse in aprile e maggio, quando furono circa 138 i campi istituiti negli spazi delle Università, è emerso che in alcuni casi la questione Israele-Palestina era intesa nel quadro più ampio del ruolo degli Stati Uniti nel militarismo globale. Alcuni caratteri di quelle azioni di protesta, la nonviolenza e la diffusione, si possono riconoscere anche nelle proteste anti-Trump in atto negli ultimi mesi contro la “militarizzazione della democrazia”. Le pagine che seguono riportano in traduzione italiana la seconda parte di uno studio dei ricercatori del CCC – Erica Chenoweth, Jeremy Pressman, Soha Hammam e Christopher Wiley Shay – sulle proteste svoltesi da marzo a maggio 2025 e pubblicato il 12 giugno 2025 con il titolo: American Spring? How Nonviolent Protest in the US is Accelerating nel sito Waging Nonviolence. Sullo stesso sito a marzo era apparsa anche la prima parte dello studio, Resistance is Alive and Well in the United States (19 marzo 2025) e un lungo articolo di Rivera Sun, Resistance to Trump is Everywhere. Inside the First 50 Days of Mass Protest (13 marzo 2025). Voci di pace continuerà a seguire, attraverso resoconti delle elaborazioni del CCC, le proteste negli Stati Uniti. -------------------------------------------------------------------------------- Primavera americana? Come la protesta negli Stati Uniti sta accelerando di Erica Chenoweth, Soha Hammam, Jremy Pressmann, Christopher Wiley Shay* Contrariamente a quanto comunemente si crede, le dimensioni e la portata delle proteste anti-Trump di quest’anno hanno superato quelle del 2017 e sono state straordinariamente pacifiche. Per le strade, agli ingressi autostradali, agli incroci e nei parchi, milioni di statunitensi continuano a manifestare contro l’amministrazione Trump e le sue politiche. I riflettori dei media sono attualmente puntati sulle proteste in corso contro le incursioni dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) a Los Angeles e sulla risposta militarizzata dell’amministrazione Trump. Nella nostra ricerca presso il Crowd Counting Consortium non abbiamo ancora un quadro completo del numero e della gamma delle proteste che si sono verificate a giugno. Tuttavia, sappiamo che le proteste contro le incursioni dell’ICE si sono andate intensificando in tutto il Paese da mesi, insieme alle proteste contro quelle che sono state intese come abusi di potere da parte dell’amministrazione Trump. E sappiamo che le tattiche del movimento sono state straordinariamente pacifiche. Infatti, come abbiamo analizzato a marzo, le proteste negli Stati Uniti sono state molto intense da quando Trump è entrato in carica per la seconda volta. La nostra ricerca, tuttora in corso, rivela che nelle prime due settimane della seconda amministrazione Trump le azioni di protesta hanno superato quelle del 2017. Alla fine di marzo 2025 il numero di proteste era tre volte superiore a quello del 2017. Da allora esse sono aumentate con un forte incremento delle azioni su vasta scala e in numerosi centri nei mesi di aprile e maggio.  Due picchi notevoli si sono verificati in occasione delle proteste nazionali Hands Offs del 5 aprile e No Kings del 19 aprile. Ad oggi, abbiamo contato 1.145 proteste svoltesi il 5 aprile in tutti i 50 Stati e nel Distretto di Columbia. È significativo che queste azioni si siano verificate in tutto il Paese, anche nelle zone rurali e in quelle che fanno capo al Partito Repubblicano. Per quanto riguarda il 19 aprile abbiamo contato 928 proteste in tutti i 50 Stati e a Washington e per il primo e il 3 maggio abbiamo registrato oltre 1.000 proteste. Si tratta di risultati significativi. Se guardiamo alla prima amministrazione Trump, nell’aprile 2017 la protesta più importante in più luoghi è stata la Marcia per la scienza del 22 aprile che si è svolta in 390 località comprese le principali città. Nel 2017 abbiamo contato 80 proteste del Primo Maggio a livello nazionale, rispetto alle oltre 1.000 di quest’anno. Nel complesso, i dati del 2017 impallidiscono rispetto alle dimensioni e alla portata della mobilitazione del 2025 – un fatto che spesso passa inosservato nel discorso pubblico sulla risposta alle azioni di Trump. -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- In maggioranza questi dati si riferiscono ai due giorni di proteste organizzate a livello nazionale. Nell’86% degli eventi anti-Trump svoltisi il 5 aprile per i quali sono disponibili le informazioni, abbiamo calcolato che vi abbiano partecipato da 919.000 a 1,5 milioni di persone. Sebbene la nostra stima sia inferiore alla cifra di 5 milioni offerta da alcune fonti, il 5 aprile ha chiaramente coinvolto il maggior numero di partecipanti a livello nazionale a cui abbiamo assistito durante la seconda amministrazione Trump; si tratta del numero più elevato in un singolo giorno dalla rivolta nazionale seguita all’uccisione di Ahmaud Arbery, George Floyd e Breonna Taylor nel 2020. Sulla base delle informazioni relative al 64% degli eventi anti-Trump del 19 aprile abbiamo valutato i partecipanti in un numero compreso tra 277.324 e 322.384. Questi due eventi da soli hanno coinvolto da 1,2 a 1,8 milioni di persone. E questo numero sarebbe più elevato se si tenesse conto delle centinaia di altre proteste che si sono svolte durante il mese di aprile. Le proteste si diffondono Oltre alle dimensioni e alla portata delle azioni di protesta, il mese di aprile ha visto un notevole livello di diffusione a livello geografico. Tutti i 50 Stati e D.C. hanno visto proteste in questo mese. Ciò suggerisce che la mobilitazione anti-Trump è davvero di portata nazionale. -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Spesso ci viene chiesto quante persone abbiano partecipato alle proteste. A causa delle dimensioni e della portata delle azioni di protesta, non siamo stati in grado di calcolare con esattezza il numero complessivo dei partecipanti a tutti gli eventi. Tuttavia, anche se i dati su molti eventi sono incompleti e i numeri di partecipanti disponibili per il mese di maggio sono meno affidabili, stimiamo che milioni di persone abbiano partecipato alle proteste di aprile. L’indagine di Dana Fisher sulle proteste del 5 aprile nell’area di Washington suggerisce che Resistance 2.0 coinvolga persone di età più elevata rispetto al movimento del 2017; tuttavia, non sappiamo quanto questo risultato sia rappresentativo a livello nazionale, nei diversi giorni o nelle diverse azioni. Testimonianze di carattere aneddotico suggeriscono che alcuni attivisti abbiano scelto di manifestare nei loro luoghi di residenza invece di recarsi in una grande città vicina per gli eventi. Un partecipante ha ipotizzato che ciò avvenga per attrarre coloro che vivono nelle vicinanze e sono nuovi-e alla protesta: “Ci sono persone che non vanno in città per eventi come questo. Si stanno impegnando nell’attivismo e nelle proteste locali. Dobbiamo incontrarli dove si trovano”. Un altro ha sottolineato che potrebbe anche fare un’impressione diversa sui passanti rispetto a una protesta in altri luoghi: “Questo è il motivo per cui le proteste non dovrebbero essere incentrate su D.C. o NY. Quando ci sono 300 persone davanti al liceo locale, e ci passi sabato per andare da Walmart, è più difficile sostenere che non sia mai successo. O che non l’hai visto”. Temi chiave Nei primi mesi del 2025, Elon Musk e Tesla sono stati tra i principali bersagli dei-delle manifestanti. Oltre 1.500 proteste in aprile e maggio li hanno presi di mira. Queste proteste anti-Tesla potrebbero essere collegate al calo significativo del prezzo delle azioni dell’azienda e al ritiro di Musk da DOGE (Department of Government Efficiency).  Nel CCC continuiamo a registrare un numero considerevole di proteste motivate da questioni di carattere internazionale, tra cui non solo Israele-Palestina, ma anche Russia-Ucraina, dato che l’amministrazione Trump ha espresso un minore sostegno alla posizione ucraina sulla guerra. Approssimativamente una protesta su cinque ad aprile è stata legata a questioni di carattere internazionale, se si escludono quelle motivate dall’immigrazione e dal cambiamento climatico (un piccolo numero di contro-protestanti ha anche manifestato per difendere il presidente). Ma l’immigrazione – e le risposte aggressive delle forze dell’ordine alle proteste legate all’immigrazione – sono stati i temi chiave della mobilitazione nei mesi di aprile e maggio. Un episodio degno di nota a maggio è stato l’arresto di Ras Baraka, sindaco di Newark, New Jersey, alla Delaney Hall, una struttura di detenzione dell’ICE. Il video dell’arresto del 9 maggio è stato ampiamente condiviso e ha mostrato l’ICE e altri agenti delle forze dell’ordine mentre si facevano largo tra la folla di manifestanti pacifici per arrestare Baraka al di fuori dalla struttura. Sembra che Baraka sia stato autorizzato a entrare nella Delaney Hall insieme a una delegazione di legislatori federali (del New Jersey) e poi gli sia stato chiesto di uscire perché non era un membro del Congresso. Aveva già lasciato la struttura quando le forze dell’ordine si sono mosse per trattenerlo. Oltre all’arresto del sindaco Baraka, un membro della delegazione del Congresso, la rappresentante LaMonica McIver, è stata successivamente accusata dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aver aggredito due degli agenti federali che avevano trattenuto Baraka. Questo ha scatenato ulteriori proteste fuori dalla Delaney Hall, compreso il ricorso alla disobbedienza civile da parte di uomini e donne appartenenti a un gruppo interreligioso che ha portato a due arresti. I-le manifestanti hanno anche sfogato la loro frustrazione direttamente su Alina Habba, procuratrice ad interim del New Jersey, che ha mosso le accuse contro la deputata McIver. Il 20 maggio decine di persone hanno manifestato davanti al suo ufficio di Newark. Un movimento non violento In generale, nei mesi di aprile e maggio il movimento di protesta anti-Trump si è basato su proteste e dimostrazioni piuttosto che sulla non cooperazione di massa, sull’occupazione di spazi o su scioperi generali, anche se ci sono state eccezioni e alcuni appelli pubblici per dare vita a tali azioni. Su 4.770 proteste anti-Trump in aprile e maggio solo in tre casi gli agenti di polizia hanno riportato ferite e solo in due sono stati feriti i partecipanti o si sono verificati danni alle proprietà. Abbiamo registrato arresti di manifestanti in 20 manifestazioni, pari allo 0,42% del totale. La stessa distribuzione si è verificata nelle proteste legate alle politiche sull’immigrazione che hanno costituito una parte consistente degli eventi. Complessivamente, in oltre il 99,5% delle proteste di aprile e maggio, non abbiamo registrato feriti, arresti o danni alla proprietà – un dato senza precedenti per un movimento di queste dimensioni e di una tale diffusione geografica. Contrariamente alle affermazioni iperboliche delle autorità che parlano di un movimento disordinato che cerca di seminare il caos, almeno fino ad aprile e maggio, i manifestanti associati al movimento anti-Trump sono stati straordinariamente non violenti nelle loro tattiche. -------------------------------------------------------------------------------- Erica Chenoweth è una politologa della Harvard Kennedy School e co-direttrice del Crowd Counting Consortium. Chenoweth è autrice di Civil Resistance: What Everyone Needs to Know e co-autrice di Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict. Soha Hammam è responsabile del progetto di ricerca presso il Crowd Counting Consortium del Nonviolent Action Lab, dove svolge ricerche sulla mobilitazione politica e sulle risposte delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. Jeremy Pressman è professore di scienze politiche all’Università del Connecticut e co-direttore del Crowd Counting Consortium. Il suo libro più recente è La spada non basta: Arabi, israeliani e i limiti della forza militare. Christopher Wiley Shay, PhD, è ricercatore associato presso l’Ash Center for Democratic Governance and Innovation della Harvard Kennedy School. La sua ricerca si concentra sulle insurrezioni, sulle campagne di resistenza non violenta e sul loro impatto a lungo termine sulla democratizzazione e sullo Stato di diritto. -------------------------------------------------------------------------------- i Di Erica Chenoweth si veda: Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile, Sonda, Milano 2023. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Il ruolo antisistemico dei migranti -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Primavera americana? proviene da Comune-info.
Colpire il dissenso
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 31 maggio. Foto di Milanoinmovimento -------------------------------------------------------------------------------- Il decreto sicurezza o “decreto paura” è legge. Quattordici nuovi reati e terrificanti aumenti di pena. Colpisce il dissenso con l’aggravante per chi contesta le cosiddette grandi opere come il ponte sullo stretto o il TAV. Un governo può dunque permettersi di stuprare una valle e cacciare gli abitanti, ma gli abitanti di quella valle non possono permettersi di sedersi pacificamente davanti ai cancelli del cantiere per fermare lo stupro. Un ministro e il suo partito con la complicità del resto del governo – che nel frattempo pensa a altro: separazione delle carriere, premierato, campi di concentramento in Albania… – costruisce la propria sopravvivenza politica con un cantiere faraonico sullo stretto di Messina, ma i contribuenti che non vogliono pagare per quell’imbecillata non possono aspettarlo seduti sui binari dei treni, sennò rischiano sei anni di galera. Poi ci sono le occupazioni delle case. Le reti televisive che sono di proprietà della destra dai tempi del primo Berlusconi (Rete 4 su tutte) porta avanti da anni una campagna martellante e altrettanto ignorante inventando anche una definizione che farebbe ridere se non fosse vera: i ladri di case. Non una parola sulle occupazioni che storicamente sono servite per trasformare il bisogno in dissenso e incanalarlo in un percorso di lotta politica che ha dato la casa a migliaia di persone. A Metropolis ho fatto l’esempio di Gianni che ha occupato una cantina dopo anni che non riusciva a ottenere la casa popolare che gli avevano assegnato: oggi rischierebbe fino a sette anni di galera. Questa macabra invenzione del governo Meloni colpisce chi prende la parola contro il potere rognoso della politica antidemocratica e contro chi cerca di sopravvivere in condizioni difficili. Chi ha una casa e uno stipendio e soprattutto si accontenta di come va il mondo: non corre alcun pericolo. Poi se è addirittura benestante nemmeno se ne accorge che il governo ha partorito questo mostro. Nel frattempo i nostri potenti vanno a “baciare il culo” (parole di Trump) a chi è più potente di loro. Perché le relazioni di potere sono sempre le stesse. Forti coi deboli deboli coi forti. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Praticare resistenza democratica -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Colpire il dissenso proviene da Comune-info.
Pericolose rimozioni
MENTRE IL PARLAMENTO FA DIVENTARE UN REATO IL DISSENSO, A ROMA, IL PORTAVOCE DELLA RETE NO DL SICUREZZA E ASSESSORE MUNICIPALE, LUCA BLASI, VIENE MANGANELLATO NEL CORSO DI UNA MEDIAZIONE TRA MANIFESTANTI E POLIZIOTTI. INTANTO A MONZA VIENE NOMINATO QUESTORE UN POLIZIOTTO CONDANNATO A TRE ANNI E OTTO MESI NEL PROCESSO DIAZ. TUTTO QUESTO ACCADE IN UN PAESE NEL QUALE LE FORZE DI POLIZIA – I LORO VERTICI MA ANCHE I LORO SINDACATI – NON HANNO VOLUTO AFFRONTARE IL CASO GENOVA 2001 PER QUEL CHE È STATO E PER QUANTO LASCIAVA INTRAVEDERE. UN PAESE CHE 2020, CON LE VIOLENZE CONTRO I DETENUTI NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA A VETERE, HA PRESO ATTO CHE LA TORTURA FA PARTE DELLA NOSTRA STORIA E DEL NOSTRO PRESENTE. “IN UNA SITUAZIONE COSÌ CRITICA – SCRIVE LORENZO GUADAGNUCCI – AVREMMO BISOGNO DI FORZE DI POLIZIA AUTENTICAMENTE DEMOCRATICHE NELLA VITA INTERNA E NELLA DIALETTICA COL RESTO DELLA SOCIETÀ, IN GRADO DI SOTTRARSI ALLE INGERENZE DEL POTERE POLITICO, CAPACI DI ISPIRARSI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE AI DETTAMI E ALLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE. NON ABBIAMO NIENTE DEL GENERE…” Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Vorrei partire in questa mia breve riflessione dalla definizione che lo staff di Amnesty International ha scelto per annunciare il mio intervento (durante la giornata di riflessione promossa a Roma in occasione dei cinquant’anni di Amnenesty international): “Vittima di tortura durante il G8 di Genova”. In effetti è così, la notte del 21 luglio 2001 mi trovai fra i 92 malcapitati presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia di stato. Fummo picchiati selvaggiamente e subito dopo arrestati con accuse inventate, molto fantasiose anche sul piano strettamente giudiziario – primo caso nella storia di arresto in flagranza per associazione a delinquere (finalizzata nel nostro caso alla devastazione e al saccheggio) – e sulla base di false ricostruzioni dei fatti e perfino con prove costruite ad hoc: le due bombe molotov introdotte nella scuola dalla stessa polizia. E tuttavia è solo dal 2015 che parliamo della vicenda Diaz come di un caso di tortura. Da quando l’Italia, su nostro ricorso, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per non avere fatto giustizia, nonostante le condanne inflitte in via definita a una decina di funzionari e dirigenti di polizia. La Corte di Strasburgo, per la prima volta, definì come tortura la “macelleria messicana” alla scuola Diaz, secondo la colorita rappresentazione che ne diede uno dei funzionari responsabili dell’intervento. Fino al 2015 si parlava di blitz, di irruzione, o di pestaggio e spedizione punitiva, oppure – in modo metaforico – appunto di macelleria messicana o ancora di tonnara, come ebbi a scrivere io stesso nel mio libro Noi della Diaz. Non so perché non abbiamo parlato fin da subito di tortura, e perché nemmeno i media lo abbiano mai fatto prima del 2015: eppure l’operazione Diaz, violentissima, durò ben due ore, in un luogo chiuso nel pieno controllo della polizia, insomma aveva tutti i crismi di un caso di tortura, secondo la definizione accettata a livello internazionale. Forse l’omissione è avvenuta perché la tortura è istintivamente associata alle carceri, a persone detenute e sottoposte a violenze nel rapporto molti a uno, col torturato solo in una stanza chiusa di fronte ai suoi aguzzini, o forse perché prevalevano nei media e nella società italiano il pudore, o perfino la paura, nel dover riconoscere che in Italia si era potuto praticarla in modo così plateale, in una scuola adibita a dormitorio, contro decine di persone inermi, utilizzando reparti specializzati e alla presenza fisica di quasi tutti i dirigenti di rango più alto della polizia di stato. Anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per accettare questa definizione: vittima di tortura. Ma poi ho capito – studiando un po’ – che la tortura fa parte della nostra storia e del nostro presente. Al G8 di Genova fu praticata su larga scala: alla Diaz, nella caserma di polizia di Bolzaneto – oggetto di uno specifico processo – e anche nella centrale operativa dei carabinieri, a Forte San Giuliano, per quanto su quest’ultimo caso non ci siano state inchieste della magistratura. Le torture a Genova hanno coinvolto centinaia e centinaia di agenti di tutte le forze dell’ordine – polizia di stato, carabinieri, polizia penitenziaria – come autori o come agenti necessariamente consapevoli di quel che avveniva attorno a loro, e qui mi riferiscono in particolare alla caserma di Bolzaneto, dove le torture fisiche e psicologiche andarono avanti per ben tre giorni. Le torture al G8 di Genova hanno avuto due principali caratteristiche. Hanno colpito non carcerati ma gente comune, attivisti, manifestanti qualunque, persone fermate per strada sostanzialmente a casaccio, e sono state praticate per ragioni prettamente politiche, cioè per colpire e mettere fuori gioco un movimento nascente, giudicato politicamente pericoloso – per la fase espansiva che stava attraversando – dall’establishment internazionale. Un’operazione di verità Le torture al G8 di Genova sono state un’operazione di verità. Hanno mostrato il lato oscuro delle nostre forze dell’ordine, un lato che avevamo dimenticato, o che fingevamo di non vedere; i fatti del luglio 2001 hanno chiarito che la tortura è una pratica che accompagna tutta la storia delle polizie dell’Italia repubblicana: a Genova fu praticata su larga scala e su cittadini qualunque, ma fu possibile perché c’era una “tradizione” pregressa. Il G8 di Genova è stato anche un disastro per la gestione dell’ordine pubblico, che fu colpevolmente militarizzata, con esiti fallimentari: l’uccisione a colpi di pistola di un ragazzo di 23 anni, centinaia di arresti arbitrari e illegittimi, una catena di abusi e violenze di strada da parte delle forze di polizia. Il G8 di Genova è stato inoltre un festival del falso in atto pubblico, con innumerevoli verbali infedeli consegnati alla magistratura, il festival della menzogna messa nero su bianco su carta intestata. Le violenze di Genova ci hanno fatto poi capire che la riforma del 1981, quella che aveva smilitarizzato la polizia di stato, quella che aveva introdotto la nozione di “polizia democratica”, ad appena vent’anni dalla sua introduzione era già evaporata. Ci hanno fatto capire che la pratica della tortura è una presenza costante, e incombente, nella vita delle forze dell’ordine, e che perciò andrebbe portata alla luce, dovrebbe essere discussa e combattuta insieme con gli agenti e nel discorso pubblico, invece di negarla, di sottovalutarla, di fingere che non ci sia. Voglio ricordare che a Genova, alla scuola Diaz, alcuni agenti usarono perfino strumenti portati alla bisogna, non solo i manganelli in dotazione – fra l’altro erano i tonfa, classificati come armi potenzialmente letali dalla stessa polizia – ma anche mazze fuori ordinanza, e manganelli elettrici, che io stesso ho provato sulla mia schiena. E voglio anche ricordare che le varie tecniche di tortura praticate a Bolzaneto – il “comitato di accoglienza” con le due file di agenti a colpire i detenuti, costretti a passare in mezzo, con sputi, calci, pugni; la posizione del cigno; le nudità imposte; i segni a pennarello sul viso; e poi gli insulti, le derisioni, le minacce (sulle ragazze anche minacce di violenza sessuale) e via elencando – fecero sorgere il legittimo dubbio che ci fosse una competenza specifica, una pratica diffusa, una trasmissione “professionale” di tali tecniche fra una generazione e l’altra di agenti. Un dubbio legittimo. Di tutto questo non si è mai parlato. Le forze di polizia – i loro vertici ma anche i loro sindacati – non hanno voluto affrontare il caso Genova per quel che è stato e per quanto lasciava intravedere. Non hanno voluto un’operazione di verità, di presa di coscienza, di ripudio degli abusi e quindi di ripartenza su nuove basi, con trasparenza, in dialogo col resto della società. Le forze di polizia si sono arroccate, anche rispetto alle inchieste della magistratura, affrontate con spirito omertoso e non collaborativo, al punto – cito dalla sentenza Diaz della Corte di Strasburgo – che la polizia di stato ha “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. La sentenza della Corte, come sappiamo, è stata subita quasi come un affronto e disapplicata nelle sue parti più significative, dove chiedeva il licenziamento dei condannati in via definitiva e l’introduzione dei codici identificativi obbligatori per gli agenti in servizio di ordine pubblico. La stessa legge sulla tortura del 2017 è stata approvata in un clima ostile, senza alcun serio dibattito interno alle forze di polizia, che l’hanno vissuta come un’impropria invasione di campo, dimostrando tutta la propria immaturità democratica. Un ponte fra passato e futuro Perciò oggi, a quasi venticinque anni dal G8 di Genova, tocca dire che il luglio genovese, anziché un punto di rottura e di frattura quale poteva essere, un’occasione cioè per un cambio di passo, è stato in verità un ponte fra passato e futuro, nel segno della continuità, e se vogliamo – visto quanto quei fatti sono stati plateali – una legittimazione anticipata del futuro, una sorta di annuncio che quanto accaduto sarebbe stato destinato a ripetersi. Come altro leggere quanto avvenuto in questi venticinque anni, i tanti troppi casi di abuso di potere e di violenza di polizia, in che altro modo interpretare le sconvolgenti, ma non sorprendenti, immagini registrate nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, immagini che invito a guardare rileggendo, simultaneamente, le testimonianze dei torturati di Bolzaneto: le immagini del 2020 corrispondono alle testimonianze del 2001, sono sovrapponibili. Santa Maria Capua a Vetere sembra, anzi è Bolzaneto: allora non vi fu alcuna vera autocritica e l’orrore si è immancabilmente ripetuto tale e quale. Genova G8 poteva essere un momento oscuro, una caduta grave e forse gravissima della legalità e dell’etica costituzionale nelle forze dell’ordine, ma era una caduta rimediabile, poteva essere una pagina nera da superare attraverso una seria assunzione di responsabilità. Dobbiamo invece considerarla un biglietto da visita, un precedente, una storia che non cessa di produrre effetti. Genova G8 non è finita Genova G8 è ancora nelle notizie di cronaca. E fa impressione, in questi giorni, sentire dell’ex capo della polizia e di un suo storico stretto collaboratore, Gianni De Gennaro e Francesco Gratteri (condannato quest’ultimo a quattro anni nel processo Diaz), nel frattempo diventati uno manager e l’altro consulente di importanti aziende private costruttrici, fa impressione saperli chiamati in causa per la vicenda del pm Michele Prestipino, cioè per i presunti scambi di informazioni riservate sulla vicenda del Ponte di Messina, il tutto sulla base di intercettazioni disposte per indagare su un depistaggio successivo alla strage di via D’Amelio (1993) e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, per i quali i sospetti sono concentrati su un defunto (nel 2002) funzionario, Arnaldo La Barbera, che partecipò, come dirigente più alto in grado (era il vice di De Gennaro), all’operazione Diaz. La cronaca ci consegna anche la nomina a questore di Monza di Filippo Ferri, un altro condannato – a 3 anni e 8 mesi – nel processo Diaz. Tutto questo allarma, specie in una fase storica come l’attuale, attraversata da evidenti pulsioni autoritarie, ben rappresentate dal recente decreto sicurezza. In una situazione così critica avremmo bisogno di forze di polizia autenticamente democratiche nella vita interna e nella dialettica col resto della società, in grado di sottrarsi alle ingerenze del potere politico, capaci di ispirarsi solo ed esclusivamente ai dettami e allo spirito della costituzione. Non abbiamo niente del genere e la preoccupazione è quindi legittima, perché siamo coscienti di non avere una soluzione a portata di mano, in un paese che dimostra di avere rimosso l’esperienza del G8 di Genova e che sembra assecondare le tensioni autoritarie in atto. Io non ho indicazioni da dare: dico solo che dobbiamo stare molto attenti, e ricordare, ricordare sempre tutto. -------------------------------------------------------------------------------- L’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci è Un’altra memoria (Altreconomia), da poco nelle librerie (di cui parla in questa intervista). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pericolose rimozioni proviene da Comune-info.
Wittgenstein critico?
La prima metà del Novecento, recita l’adagio, fu epoca di tragedia creativa per la filosofia di lingua tedesca. Ascendente sul piano ontologico e giuridico, questa avrebbe vissuto un contrappasso etico e politico. Le indagini sull’essere al mondo, nonché sul suo ordinamento di regole e poteri, norme ed eccezioni, sarebbero state coronate dal fatale abbraccio con una visione bellica e suprematista di quel mondo. I profili di Heidegger e Schmitt avrebbero proiettato l’ombra del nazismo sui concetti elaborati nel solco di Kant e Hegel, Nietzsche e Husserl. A chi non voglia rassegnarsi al pensiero impolitico di Thomas Mann o alla dialettica pessimista di Adorno e Horkheimer, conclude l’adagio, sono offerti arnesi concettuali scottanti – “stato d’eccezione” e “angoscia”, “amico/nemico” e “abbandono”, solo per citarne alcuni – maneggiabili al prezzo di un rischioso détournement delle loro origini e obiettivi. LE PRINCIPALI INTERPRETAZIONI Ma la favola inquietante che da Königsberg porta ad Auschwitz perde coerenza narrativa non appena se ne complichi la trama, allargandone la geografia e moltiplicandone i protagonisti. È ciò che, tra gli altri, ci invita a fare Andrea Di Gesu in Wittgenstein e il pensiero politico. Linguaggio, critica, prassi (DeriveApprodi, 2025, pp. 95). Questo agile volume passa a contropelo le letture mainstream del filosofo cresciuto nella Vienna fin de siècle, a un tempo vicina e lontanissima dalla Monaco delle Squadre d’Assalto, per proporre una rassegna delle sue principali interpretazioni politiche. Rivoluzionario della logica, della filosofia del linguaggio e della matematica, con idee talmente dirompenti da comportare un risvolto mistico, Wittgenstein lo sarebbe anche in politica. A riprova di ciò, Di Gesu non adduce soltanto i suoi argomenti e concetti, ma anche la loro ricezione nel secondo dopoguerra, a suo avviso dotata di formidabili implicazioni per la critica della società. Invece che interrogarsi sulla teoria politica riscontrabile (o meno) nelle opere del «padre ambiguo e ripudiato della filosofia analitica» (p. 5), analizzandone testi maggiori e minori, quaderni d’appunti e manoscritti inediti; più che discutere delle opinioni e delle posizioni che assunse durante la sua vita (una questione non secondaria, ma relegata a una lunga nota a piè di pagina), Di Gesu prende le mosse dalle interpretazioni – ma potremmo dire: dagli usi – di Wittgenstein nel pensiero critico. Di queste propone una breve ma vivace rassegna, corredata da una ricapitolazione delle tesi più note del cosiddetto “primo” e “secondo Wittgenstein”. La teoria del linguaggio come “raffigurazione” e la ricerca di una “forma logica” delle proposizioni, l’ipotesi dei “giochi linguistici”, la nozione di “forma di vita” e il paradosso dell’“allievo recalcitrante” diventano il prisma attraverso cui ricostruire il rapporto che teoriche e teorici critici hanno intrattenuto con Wittgenstein. > In questo modo, oltre a introdurre il lettore alle principali interpretazioni > politiche del viennese e a ricordarne i concetti più famosi, il libro abbozza > una panoramica di alcune importanti opzioni filosofico-politiche > contemporanee, riordinate alla luce del loro rapporto con il pensiero > wittgensteiniano. Il primo capitolo è dedicato alla ricezione di Wittgenstein da parte delle diverse generazioni di ricercatori legati all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte e ai filosofi detti “postmoderni”, qui curiosamente associati ai francofortesi. Confronto duro ma dinamico, nota l’autore, perché in rapida evoluzione. Dalla stigmatizzazione di Wittgenstein come teorico “conservatore”, pronunciata da Adorno, e dalle dure critiche di Marcuse, per il quale la filosofia è «il contrario di ciò che Wittgenstein la fece essere» (p. 25), si passa alla più calda accoglienza riservatagli da Habermas, che ne riprende le intuizioni nella teoria del “agire comunicativo”, per arrivare infine all’entusiasmo di Lyotard e Rorty, che vedono nei “giochi linguistici” il paradigma di un pensiero multiculturale finalmente svincolato dall’universalismo. Rispetto a questa ricezione variegata e contraddittoria, Di Gesu mantiene tuttavia una prudente distanza. Sottolinea l’infondatezza testuale, ma anche le ragioni storiche e strategiche, che motivano le condanne di Adorno e Marcuse, smaschera l’ambigua «kantizzazione» (p. 36) di Wittgenstein imposta da Habermas e denuncia gli esiti quietistici a cui giunge la sua lettura postmoderna. Riassumendo le prospettive di ricerca più recenti emerse in ambito francofortese, mette infine in evidenza le potenzialità, ma anche i limiti, dell’uso della nozione di “forme di vita” (Lebensformen) come base per definire il modello della “critica immanente” proposto da Axel Honneth e sistematizzato da Rahel Jaeggi. Il secondo capitolo conduce dalle anse del Meno alla costa atlantica degli Stati Uniti per passare al vaglio gli effetti politici della galassia di studi noti come New Wittgenstein. La ricostruzione delle teorie, diverse e addirittura divergenti, di Chantal Mouffe e Linda M. Zerilli, di cui Di Gesu sottolinea l’eredità wittgensteiniana, si svolge infatti sotto il segno dell’influente interpretazione proposta, tra anni Settanta e Ottanta, dal filosofo statunitense Stanley Cavell. Quest’ultimo infrange l’immagine stantia di Wittgenstein come geniale “teoreta” alla ricerca del senso ultimo del linguaggio e delinea piuttosto il profilo di un terapeuta pragmatico, che sperimenta delle pratiche per riportare un linguaggio alienato da troppa teoria ai suoi usi concreti e perciò sensati. Scettico rispetto alle derive “populiste” di Mouffe e solleticato invece dall’uso femminista di Wittgenstein proposto da Zerilli, Di Gesu sembra trovare in Cavell i prodromi di un uso non soltanto critico, ma insorgente di Wittgenstein. Il «nuovo Wittgenstein», che ancora le pratiche linguistiche al «terreno scabro» dei modi di vivere e prendere parola, costituisce per Di Gesu un serbatoio di intuizioni per pensare «un modello di democrazia radicale anti-liberale» (p. 44). Rifiutando l’astratta geometria di norme e procedure, valori e regole, a cui certa scienza politica la riduce, la democrazia immaginabile a partire da Wittgenstein si presenterebbe come una composizione instabile e conflittuale di «voci», cioè atti performativi, che esibiscono la fragilità e la costitutiva apertura dei «fondamenti della comunità» dando luogo a una «proliferazione agonistica e pluralistica delle differenze politiche» (p. 55). > Più che il paradigma ludico del mondo liquido paventato dai postmoderni, > “giochi linguistici” e “forme di vita” mettono così in scena l’ossatura > dell’agone democratico, cioè di quel match paradossale che ha in palio le > stesse regole del gioco. Il terzo capitolo introduce il lettore alle avventure del marxismo italiano, ricostruendo la sua originale, per non dire unica, ricezione di Wittgenstein. L’autore presenta anzitutto la ricerca pionieristica del semiologo Ferruccio Rossi-Landi che, negli anni Settanta, interpreta il “secondo Wittgenstein” nel solco di Marx. Per Rossi-Landi, Marx e Wittgenstein svilupperebbero due critiche del feticismo e dell’alienazione, declinate in ambiti disparati ma dotate di un apparato argomentativo analogo. L’analisi dell’unità economica della merce del primo libro del Capitale e quella dell’unità linguistica della parola delle Ricerche filosofiche si basano entrambe sulla logica materialistica del valore d’uso e denunciano ogni attribuzione di valore, monetario o semantico, separata da quello. Dalla semiotica e dalla linguistica, il capitolo slitta però rapidamente all’ontologia e all’antropologia filosofica, per ricostruire il diverso ruolo giocato da Wittgenstein nel percorso di due influenti pensatori dell’operaismo. Nel caso di Negri, l’autore mette in luce i riferimenti – sparsi, ma strategicamente posizionati nei suoi lavori – al pensiero del viennese. Si scopre così che Negri trova in Wittgenstein uno dei principali esponenti novecenteschi di quella corrente sotterranea materialista e «alter-moderna» che, da Machiavelli e Spinoza, giunge a Marx e riemerge infine nella “biopolitica” di Foucault e nelle “linee di fuga” di Deleuze e Guattari. Nel caso della «speculazione di Virno» (p. 83), Di Gesu segue invece una traiettoria a zig-zag, che restituisce la complessa dialettica tra natura e storia, biologia e società, “essere” e “avere” la facoltà di parlare, che caratterizza l’antropologia linguistica che quest’ultimo va elaborando da più di un ventennio. UNA STORIA DEGLI USI POLITICI Quella tracciata da Di Gesu, dicevamo, è insieme una storia degli usi o una mappa delle appropriazioni – debite e indebite – di Wittgenstein nel pensiero politico. Sviluppando un’utile cartografia, essa pone anche delle questioni generali, relative al modo di concepire oggi la critica della società. Benché singolari e per molti versi irriducibili, gli usi politici di Wittgenstein orbiterebbero infatti per l’autore intorno alla stella fissa che dà al libro il suo sottotitolo: il rapporto tra “critica”, “linguaggio” e “prassi”. Diversamente declinato a seconda della costellazione interpretativa, ma centrale soprattutto in chi si ispira a Cavell e alle analisi marxiste della “svolta linguistica” in economia, questa triangolazione permetterebbe, secondo l’autore, di rifiutare sia il “neorealismo” promosso, in modi diversi, da filosofi come Quentin Meillaussoux e Maurizio Ferraris, sia l’“antinaturalismo” di Habermas e dei francofortesi. Politicizzando le principali intuizioni di Wittgenstein – il significato come uso, le norme come giochi plastici e le forme di vita come loro limite storico-biologico – Di Gesu sostiene che la critica della società può ancorarsi all’’“ordinario”, vale a dire alla trama di pratiche sociali e corredi biologici che compongono la nostra vita di tutti i giorni. > Ne conclude che la riscoperta della sfera ordinaria della vita fornisce un > campo per sperimentare il pensiero e le pratiche della “democrazia radicale”, > mettendo la filosofia politica al passo delle più recenti sollevazioni > popolari che si sono opposte al neoliberalismo e alle sue varianti > autoritarie. Quest’uso di Wittgenstein nell’ambito della teoria della democrazia, che Di Gesu deriva da Cavell, solleva delle questioni che, nella misura in cui restano inevase, promettono ulteriori sviluppi e chiarimenti. La prima riguarda lo statuto e la funzione della “democrazia radicale” evocata nel volume. La «democrazia perfezionista» di Cavell, afferma rapidamente l’autore, sarebbe non soltanto “radicale” ma anche «anti-liberale» Ispirandosi a Wittgenstein ma iscrivendosi anche nel solco di Jefferson, Emerson e Thoreau essa si distanzia dal contrattualismo e dall’individualismo possessivo che legano Hobbes e Locke a una parte del pensiero repubblicano. Cavell non concepisce la democrazia soltanto come un regime di governo o a una costituzione – da conservare, espandere ed eventualmente esportare – ma come una sperimentazione in continuo divenire: un “gioco democratico” analogo ai “giochi linguistici”. Si tratta in questo senso di una prospettiva “anti-fondazionalista”: un approccio che rifiuta di fondare la democrazia sul pactum di unione e sottomissione, cioè su un meccanismo d’obbligazione infrangibile, e la immagina invece come l’ordine fluido e metastabile nel quale certe performance – quelle dei movimenti sociali, per esempio – possono rimetterne in questione non soltanto i corollari, ma i principi primi. Benché si tratti di un riferimento assente nel libro, la democrazia radicale sembra così richiamare un’idea antica quanto Spinoza e Machiavelli: il diritto all’insurrezione contro il sovrano, o il movimento di “ritorno ai principi” della costituzione, che si attiva quando la moltitudine è confrontata a un potere che ne frustra la potenza comune. CHI E QUANDO RIFONDA? La dinamica di continua “riapertura” del senso della comunità democratica appena evocata solleva inoltre degli interrogativi relativi al soggetto, ai mezzi e all’orizzonte di questo «diritto alla rifondazione». Nei termini di Cavell, ci ricorda Di Gesu, il soggetto che riapre lo spazio democratico è infatti indistinguibile dall’insieme di pratiche che ne esprimono la “voce” (voice), cioè l’atto performativo che rompe la procedura legale per ridiscuterne i fondamenti normativi. Questa definizione fa sorprendentemente eco alle performance del “parresiasta” analizzato da Foucault – il “dicitore di verità” che, esibendo un contenuto scandaloso nel suo modo di vivere, sovverte gli equilibri di potere della polis – ma ne condivide anche l’ambiguità. Come notato in un altro contesto da Étienne Balibar, se queste «voci contro» o contra-dizioni, costituiscono il motore di ogni processo di democratizzazione, ci si può tuttavia chiedere quali siano le contraddizioni materiali che favoriscono la loro irruzione in tal luogo e a tal momento. Riprendendo i termini della obiezione che, secondo Rossi-Landi, Marx avrebbe potuto rivolgere a Wittgenstein, potremmo anche dire che la «democrazia perfezionista» promossa da Di Gesu sulla scorta di Cavell sembra reinvestire il “pubblico” – o il “politico”, declinato al maschile – ma mancare di un ancoraggio al sociale e ai suoi conflitti. Chi si ponga il problema della soggettivazione politica di quei conflitti potrebbe allora chiedersi: da dove vengono e chi esprime le “voci” che fanno irrompere la differenza nello spazio democratico per riportarlo ai suoi dissidi fondativi? Queste differenze hanno forse una genesi che intreccia processi di classe, genere e razza? E se così fosse, come alcuni passaggi del libro lasciano intendere, come distinguere e valorizzare gli atti performativi di una «voce» a un tempo proletaria e intersezionale? Che linee di divisione impone e quali prospettive di trasformazione dischiude? È a condizione di rispondere a domande come queste che, a parere di chi scrive, il Wittgenstein critico abbozzato nel bel volume di Di Gesu potrebbe addirittura diventare insorgente. Immagine di copertina di Remarques Mêlées da flickr.com SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Wittgenstein critico? proviene da DINAMOpress.
Il medioevo prossimo venturo
-------------------------------------------------------------------------------- Foto: Casa delle agricolture di Castiglione d’Otranto, frazione di Andrano (Lecce), straordinaria esperienza nata per ripopolare le campagne, generare economie diverse, rafforzare i vincoli di comunità -------------------------------------------------------------------------------- Un passo del libro di Sergio Bettini su L’arte alla fine del mondo antico descrive un mondo che è difficile non riconoscere come simile a quello che stiamo vivendo. «Le funzioni politiche sono assunte da una burocrazia di stato; questo si accentua e si isola (precorrendo le corti bizantine e medievali), mentre le masse si fanno astensioniste (germe dell’anonimato popolare del Medioevo); tuttavia entro lo stato si formano nuovi nuclei sociali intorno alle diverse forme di attività (germe delle corporazioni medievali) e i latifondi, divenuti autarchici, preludono all’organizzazione di taluni grandi monasteri e dello stesso stato feudale». Se la concentrazione delle funzioni politiche nelle mani di una burocrazia statale, l’isolamento di questa dalla base popolare e l’astensionismo crescente delle masse si attagliano perfettamente alla nostra situazione storica, è sufficiente aggiornare i termini delle righe successive per riconoscere anche qui qualcosa di familiare. Ai grandi latifondi evocati da Bettini corrispondono oggi gruppi economici e sociali che agiscono in modo sempre più autarchico, perseguendo una logica del tutto svincolata dagli interessi della collettività e ai nuclei sociali che si formano dentro lo stato corrispondono non solo le lobbies che operano all’interno delle burocrazie statali, ma anche l’incorporazione nelle funzioni governamentali di intere categorie professionali, come in anni recenti è avvenuto per i medici. Il libro di Bettini è del 1948. Nel 1971 usciva il libro di Roberto Vacca Il medioevo prossimo venturo, in cui l’autore prevedeva un’evoluzione catastrofica dei paesi più avanzati, che non sarebbero stati più in grado di risolvere i problemi legati alla produzione e distribuzione dell’energia, ai trasporti, all’approvvigionamento di acqua, allo smaltimento dei rifiuti e al trattamento dell’informazione. Se Vacca poteva scrivere che gli annunci di catastrofe imminenti erano in quegli anni così numerosi da aver prodotto a una vera e propria letteratura «rovinografica», oggi le previsioni apocalittiche, in particolare quelle legate al clima, si sono almeno raddoppiate. Anche se i disastri – come quelli prodotti all’energia nucleare – sono, se non probabili, certamente possibili – la degradazione dei sistemi in cui viviamo è pensabile senza che questa assuma necessariamente la forma di una catastrofe. Lo sfacelo politico, economico e spirituale dei paesi europei è, ad esempio, oggi evidente anche se essi continueranno per qualche tempo a sopravvivere. Come pensare allora l’avvento di un nuovo medioevo? In che modo l’astensionismo politico che vediamo intorno a noi potrà trasformarsi in un «anonimato popolare» capace di inventare nuove e anonime forme di espressione e di vita? E in che modo l’isolamento delle burocrazie statali e il diffondersi di potentati autarchici potrà preludere all’apparizione di fenomeni simili ai grandi monasteri, in cui l’esodo dalla società esistente produce nuove forme di comunità? È certo che questo potrà avvenire solo se un numero inizialmente esiguo, ma crescente di individui saprà leggere nelle forme politiche che si dissolvono il presagio di nuove o più antiche forme di vita. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra gli ultimi libri di Giorgio Agamben: Quaderni. Volume I (2024), Horkos. Il sacramento del linguaggio (2023), Categorie italiane (2021). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il medioevo prossimo venturo proviene da Comune-info.
Rizomatica 25-02-2025
Infosfera, 25/02/2025 Per questa uscita di rizomatica, abbiamo chiesto ai nostri collaboratori di delineare le forme delle possibili organizzazioni politiche che potrebbero aiutarci a esprimere e soddisfare i nostri bisogni, evoluti come l’intera società si evolve in questa epoca di … Continua a leggere→