
Il collasso
Comune-info - Wednesday, April 30, 2025Pare in queste ore, in Spagna le vendite del libro Colapso di Carlos Taibo – scrittore e docente a Madrid, uno dei più noti teorici e sostenitori del movimento della decrescita – siano alle stelle. Eppure la prima edizione è uscita già da alcuni anni. Il libro, di cui pubblichiamo l’introduzione dell’ultima edizione, approfondisce senza utilizzare un linguaggio accademico, il concetto di collasso, la cause e le conseguenze, ma anche le due principali risposte: quella dell’ecofascismo e quella dei movimenti di transizione eco-sociale. Tre cose sono certe. La prima: quelli che sono in alto non sono disposti a riconoscere il rischio del collasso. La seconda: la civiltà industriale non conosce alternative, è costretta ad accelerare: ogni anno consumiamo combustibili fossili equivalenti a quelli che la natura ha impiegato un milione di anni per creare. La terza: una strada diversa può prendere forma soltanto in basso, alcuni hanno cominciato


In molte occasioni, in occasione di eventi pubblici, ho parlato del rischio di un collasso generale del sistema che stiamo vivendo. Poiché l’argomento era destinato a suscitare polemiche, col tempo ho accumulato esperienze di ogni genere legate alla discussione in questione. E a volte mi è sembrato che fosse urgente approfondire il concetto di collasso e i concetti ad esso correlati, perché poteva benissimo essere che, nonostante molte persone usassero la stessa parola, in ultima analisi stessero pensando a realtà diverse. Se vogliamo, questo libro è un esercizio per chiarire, per me stesso, la disputa sulle molteplici sfaccettature che presenta il concetto in questione. A questo proposito è organizzato in sette capitoli. Il primo è interessato al concetto di collasso sopra menzionato, studia i problemi che comporta e considera alcune delle lezioni apprese dai crolli passati. Il secondo prende in considerazione le presunte cause di un collasso sistemico globale, con particolare attenzione al cambiamento climatico e all’esaurimento delle risorse energetiche. Il terzo, di natura decisamente speculativa, analizza le possibili conseguenze del crollo. Il quarto e il quinto capitolo individuano due possibili risposte a questo fenomeno: quella dei movimenti di transizione eco-sociale e quella legata a ciò che è noto come ecofascismo. Mentre il sesto capitolo si concentra sulla percezione popolare del crollo, il settimo e ultimo tenta di trarre alcune conclusioni generali.
Vorrei chiarire fin da subito che non sono nella posizione di affermare che prima o poi si verificherà un crollo generale del sistema sotto i nostri occhi. La tesi che sostengo spassionatamente in questo lavoro è più cauta e si limita a suggerire che un simile crollo, con dati già ampi in nostro possesso, è probabile. Da questa prospettiva, il libro che il lettore tiene tra le mani, pur non racchiudendo in sé alcuna certezza assoluta, contiene un modesto invito alla riflessione e alla prudenza, ben sintetizzato nella figura del pater familias diligens (padre diligente di famiglia) a cui Castoriadis fa riferimento. Mi limiterò a ricordare, a questo proposito, che di fronte a uno scenario così delicato come quello posto dalla crisi ecologica, la nostra risposta non può essere quella che il filosofo attribuiva a un padre – o a una madre – che, dopo essersi sentito dire che era molto probabile che il loro bambino avesse una malattia grave, anziché affidare la prole ai migliori medici, non ha pensato ad altro che a ragionare dicendo: “Beh, se è possibile che mio figlio abbia una malattia molto grave, è anche possibile che non ne abbia una, quindi mi sembra moderatamente giustificato restare con le braccia conserte”. Di fronte a ciò, il padre cosciente dice a se stesso: “Dato che i problemi sono enormi, e anche se la probabilità che si manifestino è bassa, procedo con la massima prudenza, e non come se nulla stesse accadendo”.
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Il fatto che questo testo sia cauto non significa in alcun modo che voglia nascondere la portata delle sfide. La prima di queste è, naturalmente, la combinazione del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse energetiche, dei problemi demografici e di una profonda crisi sociale e finanziaria difficile da superare. La seconda è fornita da dati che riflettono un progressivo e rapido deterioramento della situazione. Aggiungerò, in breve, che ci sono ragioni sufficienti per concludere che è probabile che, sotto la copertura di quella che sembra una vera e propria corsa in avanti, arriveremo in ritardo se il nostro scopo logico è quello di evitare il collasso. Il panorama mentale e politico che abbiamo ereditato è molto delicato e richiede sacrifici sotto forma di risposte urgenti e decise in un momento in cui le restrizioni sono intrinsecamente numerose. Se William Ophuls ricorda a questo proposito che Gibbon attribuì il declino di Roma a quella che definì una “grandezza smodata”, cioè un eccesso di orgoglio e presunzione, Elizabeth Kolbert è stata così gentile da sottolineare che la storia dimostra che la vita mostra una formidabile capacità di adattamento, è vero, ma che questa capacità non è infinita. Le estinzioni di massa, aggiunge Kolbert, puniscono prima di tutto i più deboli, ma non lasciano indenni i più forti. Sembra, in ogni caso, che stiamo entrando in una terra incognita segnata da inevitabili riduzioni della popolazione e della produzione industriale.
In alcuni dei miei lavori precedenti mi sono già interessato a categorizzare quello che è stato chiamato Antropocene. Per Paul Crutzen, una volta concluso l’Olocene, iniziato 11.500 anni fa, negli anni Ottanta del Settecento, quando Watt perfezionò la macchina a vapore, ebbe inizio una nuova fase nella storia del pianeta. Sotto la protezione di questa nuova fase, l’Antropocene, l’uomo è diventato una vera e propria forza geologica che ha modificato il clima e ci ha permesso di essere non solo grandi predatori, ma anche grandi dissipatori di risorse. Poiché gli esseri umani sono immersi in una vera tirannia sulla natura – quante volte si è parlato di conquistare quest’ultima – non ha più senso concepirli come una mera parte integrante del mondo naturale.
L’Homo colossus, predatore e consumatore di risorse scarse e non rinnovabili, dall’appetito illimitato e dal progetto insostenibile, sembra intenzionato a distruggere un pianeta la cui condizione spiega l’esistenza degli esseri umani in quanto tali. E in questo macabro sforzo, nessuno spazio – regioni, montagne, oceani, poli – è destinato a sfuggire ai nostri attacchi. Sebbene ci sia chi pensa che l’Antropocene sia una fase che dimostra fortunatamente la supremazia e la capacità di controllo e di invenzione della specie umana, come se nessuna delle due comportasse alcun rischio, in questo testo sono costretto a seguire un percorso interpretativo molto diverso che invoca soprattutto le conseguenze molto delicate della nostra condotta.
Uno di questi è l’attuazione di cambiamenti estremamente rapidi, per i quali siamo chiaramente impreparati, tanto più se si considera la nostra dimostrabile incapacità di andare oltre il breve termine. In questo contesto corriamo rischi che non accetteremmo nella vita di tutti i giorni. Lynas cita la testimonianza di un esperto che, nel 2007, basandosi su una previsione che oggi appare molto ottimistica, giunse alla conclusione che vi era una probabilità del 7 percento che ci saremmo lasciati alle spalle l’aumento di due gradi della temperatura media globale. La conclusione è però chiara: nessuno salirebbe a bordo di una nave che ha il 7 percento di probabilità di affondare. Hamilton, da parte sua, sottolinea che, secondo una stima, se le emissioni di CO2 dei paesi poveri raggiungono il picco nel 2030 e poi diminuiscono del 3% all’anno, mentre quelle dei paesi ricchi raggiungono il picco nel 2015 e poi diminuiscono anch’esse del 3% all’anno, avremo solo il 50% di possibilità di evitare un preoccupante aumento della temperatura media globale oltre i quattro gradi Celsius.
Per dirla in altri termini, siamo immersi in una spirale infernale. «La nostra civiltà industriale è costretta ad accelerare, a diventare sempre più complessa e a consumare sempre più energia», dicono Servigne e Stevens. Non dimentichiamo che ogni anno consumiamo combustibili fossili equivalenti a quelli che la natura ha impiegato un milione di anni per creare. In virtù di un supremo paradosso, ciò che comunemente viene inteso come progresso comporta un tremendo esercizio di distruzione dell’ambiente naturale. A questo proposito, l’argomento secondo cui oggi, fortunatamente, abbiamo sufficienti conoscenze di quanto accaduto in passato da consentirci di trarre conclusioni definitive non sembra essere di grande consolazione. Temo che questa conoscenza influenzi poco le decisioni di chi detiene il potere e, in realtà, non modifichi in modo significativo nemmeno la nostra percezione quotidiana. Il risultato non è altro che un formidabile esercizio di eventi imprevisti.
Ho già incluso altrove una riflessione suggestiva di Stephen Emmott. Immaginiamo, ci dice Emmott, che la comunità scientifica giunga alla conclusione inconfutabile che in un giorno preciso dell’anno 2072 un asteroide entrerà in collisione con la Terra e causerà la scomparsa del 70 percento delle forme di vita presenti su di essa. Sembrerebbe inevitabile che, di fronte a un rischio come questo, governi, scienziati, università, forze armate e aziende si mettessero al lavoro con la massima urgenza per trovare una formula che consentisse di evitare la collisione o, quantomeno, di attenuarne gli effetti. Bene, ciò che abbiamo davanti agli occhi ora ricorda molto l’esempio dell’asteroide, con due interessanti differenze. Se da un lato non possiamo stabilire una data precisa della catastrofe, dall’altro essa è, sorprendentemente, il prodotto dell’azione umana.
Vorrei ripetere che ci sono molte ragioni per affermare che, in una società traumatizzata e traumatizzante, ci stiamo preparando ad arrivare in ritardo. I nostri leader, salvo rare eccezioni, non sono disposti a riconoscere il rischio di crollo o, in altre parole, non prendono sul serio la delicata combinazione di elementi che ho già menzionato. La loro posizione principale è simbolicamente riassunta da un paio di frasi adottate da molte delle persone che guidano gli Stati Uniti. Se il primo afferma che lo stile di vita statunitense è indispensabile, il secondo sottolinea che ciò che è bene per la General Motors è bene per il Paese. È logico, in queste condizioni, valutare con scetticismo la frivolezza delle risposte provenienti dagli ambienti ufficiali, dove un astruso miscuglio di interessi acquisiti e di visione a breve termine si traduce in un continuo rinvio della discussione o, peggio ancora, nell’adozione di misure puramente cosmetiche. Purtroppo, però, come sottolinea Homer-Dixon, l’economia globale non ha un piano B. Sembra che stiamo ripetutamente evitando ciò che Herman Daly ha avuto la gentilezza di ricordarci: l’economia è un sottosistema della biosfera, non un sistema indipendente. Per giunta, come ho già accennato, è molto probabile che dovremo intraprendere cambiamenti radicali in condizioni molto delicate, come quelle caratterizzate dall’esaurimento – la nostra consapevolezza dei limiti è zero – di tutte le materie prime energetiche che ci hanno consentito di arrivare fin qui.
In due opere precedenti – In difesa della decrescita. Sul capitalismo, la crisi e la barbarie (2009) e Perché la decrescita? Un saggio sul preludio al collasso (2014) – ho già cominciato a interessarmi ad alcuni degli argomenti che mi attraggono in questo libro. Vi torno ora con una vocazione francamente pedagogica, e nella convinzione che tra noi non esista – o almeno non ne conosco uno – un testo che affronti, con questo profilo e queste dimensioni, il discorso sul collasso. A differenza di quanto accade in questo lavoro, è normale che il collasso venga affrontato, inoltre, dal prisma di specifiche discipline accademiche, come l’archeologia, l’economia o l’ecologia. Spesso l’interesse suscitato si esprime, d’altro canto, attraverso testi pratici volti a spiegare – non è affatto mia intenzione intraprendere un simile compito – che cosa dovremmo fare per prepararci o sopravvivere al crollo.
È vero che disponiamo di uno splendido volume, il secondo dei due intitolato Nella spirale dell’energia, scritto dai defunti Ramón Fernández Durán e Luis González Reyes. Quel lavoro raccoglie in modo brillante informazioni schiaccianti e ben curate sul crollo. Tuttavia, a mio parere, si tratta di un’opera eccessivamente complessa che, nel suo profilo attuale, difficilmente potrà raggiungere le numerose persone che dovrebbero essere interessate a questa discussione e alle sue implicazioni. Nel nostro panorama editoriale e su Internet stesso, dove abbiamo naturalmente accesso alla ricchezza di informazioni postate su un gruppo Facebook chiamato “Colapso” e su siti web molto interessanti come quello curato da Antonio Turiel, non sono mancate nemmeno traduzioni di testi stranieri che potessero soddisfare la nostra sete di conoscenza. Tra l’altro, come vedremo, la maggior parte della letteratura sul crollo ha origine negli Stati Uniti, fatto che di per sé merita di essere approfondito. Sembra che questa astrusa combinazione di problemi sociali, sprechi (lo statunitense medio consuma tre volte più energia dell’europeo medio) e subordinazione della politica al business costituisca lo scenario più appropriato per pensare a un futuro molto delicato. Coloro che conoscono meglio il crollo sono, in ogni caso, coloro che lo hanno vissuto in prima persona. E spiegare cosa sia il collasso a un bambino nato nella Striscia di Gaza sembra molto difficile…
Traduzione di Comune
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