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Spagna (Murcia). Torre Pacheco come sintomo?
Nel luglio 2025, il comune murciano di Torre Pacheco è stato teatro di un’escalation di violenza razzista a seguito dell’aggressione a un uomo di 68 anni, attribuita a tre giovani presumibilmente di origine magrebina. Questo episodio è stato immediatamente strumentalizzato da gruppi di estrema destra – tra cui Vox, Frente Obrero e collettivi come Deport Them Now 1 – per fomentare un clima di odio, con vere e proprie “caccia all’immigrato”, incendi e minacce nei confronti della comunità migrante, in particolare nordafricana. In risposta agli attacchi e al clima di terrore, diverse realtà sociali, sindacati e collettivi antirazzisti in tutto il paese si sono mobilitate per manifestare il loro rifiuto del razzismo strutturale e chiedere giustizia per le vittime della violenza xenofoba. A seguire la traduzione di questa interessante analisi di Antonio J. Ramírez Melgarejo pubblicata dalla rivista Zona de Estrategia, ringraziando l’autore e l’editore per la gentile concessione. La revisione del testo è stata curata da Ángel Luis Lara. Le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono per ripopolare i paesi o pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, ma questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. A questo punto si è scritto e detto molto di ciò che sta accadendo a Torre Pacheco (Murcia) nell’estate del 2025, ma riteniamo importante cercare di approfondire le cause e le conseguenze per comprendere questo tipo di conflitti, perché siamo certe che questa esplosione razzista, xenofoba e fascista non sarà l’ultima. Il 9 luglio 2025, un pensionato di Torre Pacheco è stato picchiato nelle prime ore del mattino, presumibilmente da alcuni giovani vicini di origine marocchina. La crescente tensione sociale reazionaria degli ultimi anni e i discorsi di odio contro i migranti, le diversità sessuali, la sinistra politica, ecc. hanno facilitato la trasformazione di questo evento in un canale per incanalare la violenza fomentata, diffusa e incoraggiata da bufale e disinformazione diffuse massicciamente sui social network. Non intendiamo analizzare qui come si generano queste dinamiche né le razzie fasciste, ma piuttosto, cercare di fornire un quadro esplicativo critico che contestualizzi l’evento al di là dell’opinione urgente e angosciata e dell’impotenza di vedere gruppi neonazisti che cercano di trasformare un paese in un laboratorio di pogrom. Un fatto che non è isolato, ma che si inserisce in un aumento generalizzato della violenza contro le persone migranti in tutta Europa. Sappiamo bene che l’espansione dell’internazionale reazionaria e le sue conseguenze concrete, in questo caso in un paese della Murcia, come potrebbe essere (e purtroppo sarà) in qualsiasi altro luogo. In Spagna, le periferie sono quasi sempre oggetto di notizie per fatti tragici. Torre Pacheco era un luogo sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione fino ad ora. Si tratta di un paese della campagna di Cartagena, a soli 10 chilometri dal maltrattato Mar Menor. L’intera zona è un’enclave produttiva agroindustriale intensiva e globale, dove vengono coltivati, con metodi tecnologici avanzati, meloni, angurie e ortaggi che vengono esportati in tutta Europa.  Questi prodotti sono coltivati, raccolti e confezionati per il 90% da migranti, la maggior parte dei quali provenienti dal Marocco, che costituiscono circa il 7-8% della popolazione totale. I dati statistici rivelano che le famiglie di migranti sono quelle con il reddito più basso, anche se in proporzione sono più iscritte alla previdenza sociale rispetto agli spagnoli, dati disponibili per chiunque voglia consultarli. La storia delle persone migranti a Torre Pacheco, come in tanti territori periferici del sud della Spagna, inizia negli anni ’90, quando i primi giovani provenienti dal Marocco cominciano ad arrivare nei campi di Cartagena. Con o senza contratto, lavoravano a cottimo nei campi e vivevano in condizioni precarie in casolari fatiscenti e/o abbandonati in mezzo alla campagna: non erano visibili, non erano prossimi, solo forza lavoro sfruttata su cui si è fondato il modello di sviluppo agroindustriale del paese e dell’intera regione. Nel 1993 la popolazione totale non raggiungeva le 18.000 persone, mentre oggi è una piccola città di quasi 40.000 abitanti. Torre Pacheco è uno dei pochi paesi che ha visto aumentare la popolazione negli ultimi 30 anni, moltiplicandosi per 125%. Il dinamismo economico e demografico della zona è il risultato dello sfruttamento della forza lavoro migrante vulnerabile, in gran parte priva di diritti di cittadinanza, dipendente da un lavoro agricolo mal retribuito che non poteva permettersi di perdere perché con esso manteneva le proprie famiglie là e sopravviveva qui. Questo processo ha creato una classe operaia migrante priva di strumenti comunitari e sindacali con cui difendere il proprio diritto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro. È stata loro lasciata solo la possibilità di diventare schiavi moderni del capitale agroindustriale.  Con il passare degli anni questi uomini sono riusciti, nonostante tutte le difficoltà, i pregiudizi e le vessazioni, a stabilizzarsi nel lavoro e nel territorio, riunendo le loro famiglie e mettendo al mondo figli e figlie nel paese. Ciò non è stato accettato da una parte della popolazione locale che ha votato Vox come primo partito già nel 2019, sostenendo il suo discorso di paura e odio contro le persone migranti accusate di reati e violenze sessuali, dati che non trovano riscontro nelle statistiche. Una forma classica di criminalizzazione che affonda le sue radici e cresce nei pregiudizi contro ciò che è diverso e sconosciuto. Come accade in tanti altri territori o periferie urbane come il nord di Parigi o l’est di Londra, dove nel 2024 si sono verificati gravi attacchi razzisti, territori urbani in tensione che hanno assistito a simili cacce all’uomo. Manifestazione antirazzista a Murcia (PH: Dani Gago) Abbiamo, quindi, una popolazione originaria del Marocco in crescita che si sta insediando in un paese a bassa densità demografica e con ampie zone rurali. La competizione iniziale per i posti di lavoro nei campi tra stranieri e nazionali è durata poco. Il tessuto imprenditoriale ha scommesso definitivamente sul reclutamento di manodopera migrante, più facilmente sfruttabile e disumanizzabile, a cui poter chiedere di lavorare più velocemente e guadagnare meno, per guadagnare di più. Inoltre, molti contadini autoctoni non potevano più competere con le grandi agroindustrie che cominciavano a insediarsi nel paese e hanno dovuto trovare altri lavori per sopravvivere e/o vendere i loro terreni ai nuovi grandi imprenditori. A Torre Pacheco, come in qualsiasi enclave agroindustriale, convivono in tensione classi sociali molto disuguali. Da un lato, le grandi rendite dei capitalisti dell’agro, generate dai corpi sacrificati della classe operaia, e dall’altro, la classe operaia a basso reddito, composta principalmente da migranti nel caso dell’agricoltura, che condivide lo spazio con gli abitanti autoctoni del comune. In effetti, pochi capitalisti spagnoli hanno lucrato enormemente per tre decenni sfruttando lavoratori e lavoratrici di origine straniera. Pertanto, non c’è concorrenza sul posto di lavoro tra migranti e “nazionali” perché la segregazione è attualmente istituzionalizzata. L’unica “concorrenza” è quella che si percepisce nell’occupazione dello spazio pubblico, nella pratica del diritto alla città. Negli ultimi trent’anni, infatti, la popolazione marocchina ha costruito la piccola città di Torre Pacheco, aprendo attività commerciali, frequentando parchi, scuole e centri sanitari, come veri e propri vicini. Durante questo processo, ben documentato dalla crescita demografica e dalla trasformazione urbana, non c’è stato un vero processo di socializzazione, comunicazione e conoscenza tra le due comunità. La tensione e la sfiducia sono state la norma. È evidente che i datori di lavoro e una parte dei residenti autoctoni non li considerano veri e propri vicini, ma li vedono come una semplice forza lavoro necessaria da sopportare per mantenere l’economia. Ancora una volta, l’economia prevale sulla vita, pura essenza capitalista. Questa è la base del risentimento verso la comunità migrante, che in risposta a questo disprezzo ha costruito le proprie relazioni, in cui sono cresciute le loro famiglie, i figli e le figlie nati in Spagna, che sono stati educati qui con la speranza che “non fossero come noi”, che avessero opportunità lavorative e di vita diverse da quelle dei loro padri e delle loro madri, il desiderio di poter costruire un progetto di vita come chiunque altro, studiare se lo si desidera, lavorare, formare una famiglia…  Ma questi figli di persone migranti già nati a Torre Pacheco sanno che non sarà facile, che porteranno con sé il peso della loro condizione razzializzata per tutta la vita nonostante siano murciani e spagnoli, che i partiti politici neofascisti, ma anche una parte della popolazione, non li considereranno mai spagnoli né persone con il diritto di decidere liberamente della propria vita. Loro sanno che gli imprenditori e i politici, ma anche una parte della popolazione autoctona, li vogliono legati all’agricoltura, a ciò che hanno fatto e fanno i loro padri e le loro madri; li vogliono senza pieni diritti, senza autonomia né capacità di decidere. Li vogliono invisibili, silenziosi, vulnerabili, spaventati, perché sanno bene che chiunque ne abbia l’opportunità cercherà prima o poi di uscire dalle condizioni di semi-schiavitù dell’agricoltura e della dipendenza. Questi figli di persone migranti, erroneamente definiti seconda generazione, devono provare un crescente senso di impotenza e rabbia per l’impossibilità materiale di poter realizzare il proprio progetto di vita; stanno constatando che non avranno autonomia e che, se necessario, le loro decisioni saranno molto limitate; intuendo che non avranno la vita che è stata loro promessa, come tutta una generazione di giovani nel Paese, indipendentemente dalla loro provenienza. Questo sentimento di delusione rivelatrice è lo stesso che pulsa nelle banlieue francesi o nella zona est di Londra, lo stesso che provano milioni di lavoratori migranti in tutto il mondo quando scoprono che il capitalismo li vuole solo come corpi da sfruttare e consumatori ipnotizzati, attori secondari in un film di cui non saranno mai protagonisti. Le promesse di crescita sostenuta e di crescente capacità di consumo non saranno mantenute come avevano immaginato. Il capitalismo, razzista e colonizzatore, non può mantenere le sue promesse, solo pochi ne sono i beneficiari. Lo sforzo e la sottomissione dei loro genitori non sono serviti ad altro che a sopravvivere, e loro lo sanno, lo sentono ogni giorno. Si tratta di una forma di violenza che, sebbene non sia direttamente fisica, danneggia le loro vite e quelle della società in cui vivono.  È violenza strutturale: quella che subiscono perché sono lavoratori poveri e per di più migranti, peggio ancora se sono donne. È il tipo di violenza che impedisce loro di avere gli stessi diritti degli altri, che li condanna a una posizione subordinata nella società, a occupare posti di lavoro precari e rifiutati dai nativi. Ma anche se riescono a uscire da quella situazione, è altamente probabile che non potranno mai cancellare la loro condizione di migranti, e questa è una forma di violenza simbolica che deriva dall’interiorizzazione della posizione di dominati nella società, dall’impossibilità di migliorare la propria vita.  Il che ci porta alla terza forma di violenza che subiscono, quella normalizzata, quella che ricevono quotidianamente sotto forma di disprezzo, insulti, esclusione dallo spazio sociale; quella che subiscono sul lavoro, con contratti falsi, con gli inganni delle agenzie di lavoro interinale, con il mancato versamento dei contributi, con i maltrattamenti e i gravissimi casi di molestie sul lavoro e anche sessuali nei confronti delle donne migranti che hanno già mandato in galera diversi responsabili spagnoli, sia a Torre Pacheco 2 che a Huelva, anche se non si continua ad agire con fermezza contro le molestie sessuali e gli stupri. Il clamoroso contrasto tra il silenzio come risposta a queste aggressioni e violenze quotidiane contro le donne migranti e il rumore generato dall’aggressione al pensionato di Torre Pacheco che è stato picchiato è particolarmente illuminante e doloroso. Questa generazione, spagnola e murciana, ripeto, vuole uscire dall’invisibilità dei primi migranti, e questo viene punito. Come persone integrali rivendicano il loro diritto alla città, a quella città che in gran parte hanno costruito, non vogliono continuare a essere invisibili nei campi, nelle case, nelle strade. Il capitalismo non offre, non può offrire loro alcun tipo di progetto civilizzatore, è un modello socioeconomico basato sulla competizione, che fomenta la lotta del penultimo contro l’ultimo, non può costruire comunità perché la sua tendenza è quella di distruggerla, individualizzare, isolare, frammentare. Per offrire un orizzonte di speranza è necessario porre fine alle condizioni di sfruttamento e segregazione lavorativa come premessa fondamentale affinché esista una possibilità di convivenza. Inoltre, tenendo conto che le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono a ripopolare i paesi o a pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, e questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. Gran parte del nostro futuro, della possibilità di lottare per un futuro comune diverso, gioioso, entusiasmante e degno di essere vissuto, è in gioco nella socializzazione e nella politicizzazione delle persone migranti, come ci sta insegnando la rinascita sindacale negli Stati Uniti, guidata principalmente da lavoratori migranti che stanno perdendo la paura e che hanno saputo identificare il loro vero nemico: i rapporti di sfruttamento capitalistico e la frammentazione sociale che essi producono. Di fronte a ciò, le alleanze trasversali di razza, genere e classe sono senza dubbio la strada da seguire per imparare a indirizzare bene la nostra rabbia, ma anche la nostra solidarietà. 1. Torre Pacheco, come un canale Telegram razzista ha scatenato la “caccia all’immigrato” in Spagna, Fernanda Gonzalez – Wired (16 luglio 2025) ↩︎ 2. Detenido un encargado agrícola por una veintena de agresiones sexuales a temporeras en Cartagena, El Diario (settembre 2020) ↩︎
Integrazione, valori europei e altre battute razziste
DALL’11 AL 14 LUGLIO 2025 A TORRE PACHECO, UN COMUNE DI QUARANTAMILA ABITANTI (UN TERZO DEI QUALI MIGRANTI) DI UNA REGIONE RURALE NEL SUDEST DELLA SPAGNA, CENTINAIA DI MILITANTI DI ESTREMA DESTRA HANNO ORGANIZZATO DECINE DI AZIONI VIOLENTE CONTRO I MIGRANTI MAGHREBINI. IL PRETESTO È STATA L’AGGRESSIONE A UN PENSIONATO ATTRIBUITA A DEI GIOVANI DI ORIGINE STRANIERA. IN QUESTO ARTICOLO SARAH BABIKER RACCONTA COME IL POTERE SIA RIUSCITO A CAPITALIZZARE OVUNQUE CON SUCCESSO LE MIGRAZIONI AFFINCHÉ LE PERSONE NON PENSINO ALL’ESPROPRIAZIONE CHE SUBISCONO A CAUSA DEL CAPITALISMO MA PENSINO INVECE ALLA MINACCIA ASTRATTA ALLA LORO SICUREZZA RAPPRESENTATA DA CHI CERCA UN SOSTENTAMENTO. RICORDA, INOLTRE, L’IPOCRISIA DI CHI PARLA DI VALORI EUROPEI DIMENTICANDO IL COLONIALISMO, E SPIEGA PERCHÉ È SBAGLIATO INSISTERE, QUANDO SI PARLA DI CRIMINALITÀ, SUL FATTO CHE CI SIA UNA MAGGIORANZA DI MIGRANTI “INTEGRATI”. “PREDICATORI D’ODIO, DELINQUENTI E RAPPRESENTANTI DELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE SONO TUTTI CONCORDI – SCRIVE SARAH BABIKER – NELLA LORO PROFONDA PREOCCUPAZIONE PER L’EREDITÀ. L’EREDITÀ CRISTIANA, L’EREDITÀ LIBERALE, L’EREDITÀ ILLUMINISTA: OGNUNA PUÒ CHIAMARLA CON IL SUO NOME, MA NESSUNO LE DÀ DIRETTAMENTE IL SUO VERO NOME: IL PRIVILEGIO EREDITATO DI BASARE LA PROSPERITÀ DI POCHI SULLO SFRUTTAMENTO DI MILIONI DI PERSONE FUORI E DENTRO L’EUROPA, SENZA CHE NESSUNO NE SOTTOLINEI L’INGIUSTIZIA E LA NATURA COLONIALE. L’EREDITÀ DELL’ESPROPRIAZIONE DELLE CLASSI LAVORATRICI, DELL’ESTRATTIVISMO DEI POPOLI DEL SUD, DELL’APPROPRIAZIONE DEL LAVORO NON RETRIBUITO DELLE DONNE…” Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Negli ultimi giorni, orde di uomini violenti si sono recate a Torre Pacheco per ricordare a migliaia di persone – che vivono, lavorano, crescono i propri figli e, quando possono, festeggiano lì – che le loro vite sono in realtà una farsa, che non appartengono a quel posto. Questi crociati a buon mercato terrorizzano i vicini, ottenendo finalmente ciò che desideravano: dimostrare il loro potere seminando paura, perseguitando finalmente coloro che hanno preso di mira come nemici per anni. Sono riusciti a passare dall’aggressione verbale, dalla solitudine di internet, ad attacchi veri e propri, accompagnati da persone che li odiano proprio come loro. Sentono che il loro momento è adesso. Non è una distopia; è la stessa marea che trabocca di tanto in tanto, non appena si presenta una scusa: i predicatori d’odio (molti dei quali con stipendi pubblici) normalizzano il quadro, collegando migrazione e criminalità e alzando il livello di fascismo del discorso. Non mancano microfoni davanti ai quali parlare di deportare milioni di persone come “soluzione” per salvare la società spagnola, dove cementano i confini simbolici tra “loro” e “noi”. Abbondano le tribune da cui riferirsi ad altri esseri umani come “peste”. Mentre il linguaggio della pulizia etnica è coniugato nell’agenda pubblica, i nazisti alimentano la loro rabbia sui social media, scatenano il loro desiderio di fare del male e conferiscono al loro patetico razzismo da troll di internet una patina epica: “Li riuniremo ad Allah”, dicono, permeati da una missione. Mentre la giustizia sociale e i diritti umani vengono messi in discussione come aspirazioni legittime attorno alle quali organizzarsi, discorsi che giustificano lo sfruttamento e la disuguaglianza emergono sulla scena in modo complementare. È così che prende forma il consenso sul fatto che alcune vite valgano meno di altre. Il capitalismo razziale si basa su questo, ma sempre meno persone lo nascondono. Mentre le élite accumulano più che mai, ignorando ampi settori della popolazione che affermano di difendere, finanziano portavoce che convincono gli indigeni perdenti di essere superiori, di meritare di più, perché discendenti da una stirpe occidentale minacciata non dall’avidità insaziabile di pochi, ma da coloro che sono stati vittime di espropriazione prima di loro. Il potere ha capitalizzato con successo sulla migrazione: la sua forza lavoro viene sfruttata al massimo per rimpinguare le tasche del capitale, la sua alterità viene sfruttata affinché le persone non pensino all’espropriazione che subiscono a causa di questo regime di avidità, ma piuttosto alla minaccia astratta che le persone in cerca di un sostentamento rappresentano per la loro sicurezza. Disumanizzati, i migranti fungono anche da ariete politico da scagliare contro l’opposizione: il sistema bipartitico viene accusato di “averli portati qui”, come se non avessero le proprie ragioni per decidere di venire, la propria capacità di agire per prendere la decisione di migrare nonostante tutti gli ostacoli che negano loro il diritto di movimento. Vox e l’estrema destra vengono accusati di alimentare l’odio, come se il sistema bipartitico non avesse aperto la strada alla disumanizzazione affrontando la migrazione da una prospettiva utilitaristica e permettendo al linguaggio della gestione dei flussi di prevalere su quello dei diritti delle persone. Nello scambio di accuse tra i ranghi più fascisti e quelli più moderati del potere, emergono contraddizioni: la soluzione magica (o definitiva?) di espellere le persone si scontra con l’esigenza capitalista di sfruttarle. Trump si è trovato di fronte a questo paradosso quando i suoi ampi piani di deportazione si sono scontrati con gli interessi degli imprenditori che non vogliono perdere i lavoratori di cui hanno bisogno per continuare ad accumulare ricchezza. Da grande soluzionista qual è, Trump ha difeso la seguente formula: lavoratori migranti dipendenti dai loro datori di lavoro, senza accesso alla cittadinanza. Lavoratori senza diritti, dipendenti da chi li sfrutta e perseguitati con retate casuali non appena lasciano il lavoro. Suona familiare. Abbiamo un termine che non passa mai di moda per riferirci a questo: “schiavitù”. E Trump è un classico. È forse a questo che si riferiscono i suoi alleati in Europa quando rivendicano con tanta enfasi l’eredità greca? Una società di uomini liberi e schiavi? È possibile che stiano difendendo quell’istituzione così funzionale all’ordine e all’accumulazione: far lavorare masse di persone in cambio del minimo indispensabile per vivere, senza diritti? Questa violenza, a volte sponsorizzata dallo Stato – per mano dell’ICE o di Frontex – a volte da questo tipo di milizia fascista, non è forse una forma di disciplina affinché “gli altri” capiscano che non vi apparterranno mai? Perché “noi” crediamo alla finzione che vengano difesi, mentre l’espropriazione continua? I noiosi campioni dell’Occidente Funzionali ai fascisti urlanti sono i discorsi di quegli “intellettuali” tranquilli che insistono sulla necessità di preservare la “civiltà occidentale” o i “valori europei”, come se potessero essere igienicamente separati dalla materialità della storia occidentale o europea, segnata dal colonialismo basato sullo sterminio e l’espropriazione. Come se non vedessimo il presente occidentale ed europeo sui nostri televisori sponsorizzare il genocidio a Gaza e giustificare la morte di migliaia di persone mentre si dirigono verso i confini… È orribile sentire persone note per la loro cultura e rispettabilità sottolineare le grandi pietre miliari della tradizione europea ignorando tutte le altre tradizioni culturali del mondo. In ogni società, è esistito e continua a esistere un conflitto tra chi difende la dignità di tutti e chi cerca di accumulare ricchezza e potere. Proprio come la schiavitù, la crudeltà o le ambizioni imperialistiche non sono un monopolio dell’Europa, non lo sono nemmeno le aspirazioni alla libertà e all’uguaglianza. La superiorità di una cultura può essere rivendicata solo – ed è ciò che fanno i noiosi della civiltà occidentale o dei valori europei – a partire da una fiera ignoranza delle culture altrui, ostentando un’intrinseca appartenenza coloniale che sa rapportarsi all’alterità solo attraverso la violenza, il paternalismo e l’estrattivismo. Quando ci sarà un Trattato di Non Proliferazione dell’ipocrisia? I portavoce del mondo libero (sic) limitano la libertà di espressione dei propri cittadini, imprigionano i dissidenti e violano le proprie leggi. Chi elogia le virtù dei valori occidentali viola apertamente gli stessi diritti umani che orgogliosamente rivendica. È naturale che chi è disposto a difendere l’Occidente, a rischiare la vita per l’Europa, lo faccia sotto forma di un’incursione fascista, attaccando dalla sicurezza di essere più numeroso e più brutale. Chi si atteggia a persecutore del crimine lo fa attraverso il vandalismo. Afferma di voler creare spazi sicuri mentre instilla il terrore nelle strade. E così rappresenta fedelmente ciò che cerca di difendere: un sistema di espropriazione e accumulazione che, per perpetuarsi, richiede sempre maggiori disuguaglianze e violenza. Integrarsi nella disuguaglianza è remissività Mentre la destra lega migrazione e criminalità, voci benintenzionate a sinistra si preparano a contrastare questa narrazione. Le bufale vengono poste al centro della discussione, si cercano statistiche per ripulire la reputazione dei nostri “buoni” migranti e si tira un sospiro di sollievo collettivo quando si dimostra che un ladro, un aggressore o uno stupratore non ha cognomi stranieri. Entrare ripetutamente in questo gioco rende un pessimo servizio alla lotta al razzismo: ci saranno sempre migranti che commettono reati, poiché la criminalità si verifica in tutte le società e in tutti i gruppi. Dimostrare se chi proviene da fuori commette più o meno reati significa sottomettersi ai quadri imposti dalla destra e farlo alle condizioni da essa stabilite. Questo oscura la visione di altri fattori che possono influenzare queste statistiche: età, genere, status socioeconomico, stress o emarginazione, il razzismo istituzionale che invisibilmente sostiene l’azione della polizia o le decisioni giudiziarie. Se c’è una cosa a cui la criminalità è legata, è la disuguaglianza. Parlare della violenza che i migranti possono infliggere senza affrontare la violenza che subiscono quotidianamente è uno dei principali trucchi del discorso di destra. D’altra parte, insistere, quando si parla di criminalità, sul fatto che ci sia una maggioranza di migranti integrati rafforza, anche se involontariamente, la logica del migrante buono contro il migrante cattivo, così funzionale al sistema. Lasciare aperte solo le vie della criminalità e dell’integrazione in un sistema di sfruttamento lascia poco spazio alla risposta e alla ribellione, in primo luogo di fronte alla violenza subita, e in secondo luogo di fronte alla mancanza di diritti. La semplice integrazione in un sistema che discrimina e sfrutta è mitezza. È la stessa pace e rispetto della legge che viene richiesta a chi sta in fondo, mentre ci viene rubato il diritto di abitare nelle nostre città, o diventiamo più poveri anno dopo anno mentre i ricchi si arricchiscono, spesso violando la legge e traendo profitto dalla violenza. Lotta contro l’eredità Predicatori d’odio, delinquenti e rappresentanti della civiltà occidentale sono tutti concordi nella loro profonda preoccupazione per l’eredità. L’eredità cristiana, l’eredità liberale, l’eredità illuminista: ognuna può chiamarla con il suo nome, ma nessuno le dà direttamente il suo vero nome: il privilegio ereditato di basare la prosperità di pochi sullo sfruttamento di milioni di persone fuori e dentro l’Europa, senza che nessuno ne sottolinei l’ingiustizia e la natura coloniale. L’eredità dell’espropriazione delle classi lavoratrici, dell’estrattivismo dei popoli del Sud, dell’appropriazione del lavoro non retribuito delle donne. Di fronte a questa eredità astratta che serve a giustificare la supremazia e la morte altrui, dobbiamo indicare ciò che in realtà cercano di proteggere sotto tanta retorica: la concentrazione della ricchezza nelle mani di sempre meno eredi, il mondo diviso tra sempre meno proprietari, l’avidità che penalizza anche quegli scagnozzi che, invece di ribellarsi a chi amareggia il loro presente e ne ipoteca il futuro, dispiegano tutta la loro forza ed energia politica per difendere gli interessi altrui. Ogni impero ha bisogno dei suoi battaglioni di imbecilli e mercenari. La strategia dell’altra parte è ben congegnata e ha funzionato per secoli, ma è solo una parte della storia. L’altra parte, quella che risponde e la contesta senza mezzi termini, si sta facendo sentire sempre di più. È quell’eco internazionalista che si agita di fronte al genocidio in Palestina, è quella vertigine storica che riconosciamo nelle cacce all’uomo a Torre Pacheco o a Los Angeles. Che si sono verificate negli ultimi mesi e anni in Irlanda o nel Regno Unito, nelle isole greche o a El Ejido. È orribile, ma non è solo orribile; è anche il fondamento che attiva il diritto a resistere, a sfidare un’eredità razzista e coloniale che non vogliamo, a unirci attorno a qualcosa di molto più concreto del nostro amore per la frittata di patate o la siesta – se di questo si occupano le tanto decantate usanze spagnole – che è il diritto di tutti alla vita, alla libera circolazione e all’uguale accesso alle risorse che la terra ci offre, di fronte a quella spinta accumulatrice che oggi mostra il suo volto più suprematista. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su El salto e qui con l’autorizzazione dell’autrice (traduzione di Comune). Nell’archivio di Comune, altri articoli di Sarah Babiker sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Integrazione, valori europei e altre battute razziste proviene da Comune-info.
L’Italia non è ancora un Paese per padri
Anche se molti uomini dichiarano di partecipare attivamente all’assistenza quotidiana, resta un divario di percezione significativo: il 74% dei padri ritiene che l’assistenza sia equamente condivisa, ma solo il 51% delle madri è d’accordo. Le madri continuano insomma a sostenere il carico maggiore di assistenza e di gestione della famiglia, spesso a scapito del loro benessere e delle loro opportunità lavorative. Tuttavia, non appare trascurabile il ruolo che i padri svolgono nello sviluppo dei figli: un maggiore coinvolgimento è connesso a legami emotivi più forti, migliori risultati di apprendimento e un migliore benessere a lungo termine per i bambini. E’ quanto emerge dal recente Rapporto SOSEF-State of Southern European Fathers, un’indagine condotta da Equimundo in Portogallo, Spagna e Italia nell’ambito del progetto europeo EMiNC-Engaging Men in Nurturing Care, coordinato da ISSA-International Step by Step Association e promosso in Italia dal Centro per la Salute del Bambino. L’indagine ha cercato di rispondere alle seguenti domande fondamentali su paternità e cura nell’Europa meridionale: Chi si prende cura? Quali barriere esistono? Quale l’impatto delle responsabilità di cura sugli individui? Quali strutture di supporto esistono? Dalla ricerca emerge un forte cambiamento sociale e culturale in atto nell’essere padri nel Sud Europa, che li vede sempre più impegnati nella cura dei figli e delle figlie e nella gestione domestica, come caregiver corresponsabili e non solo come aiutanti, con tutti i benefici che questo comporta. Si tratta di un cambiamento importante, ma che da noi avanza in maniera più lenta rispetto ad altri Paesi, relegandoci a fanalino di coda non solo del Nord ma anche del Sud Europa. Abbiamo infatti il tasso di occupazione femminile più basso (53% nel 2024), il congedo di paternità più breve d’Europa (2 settimane contro le 16 della Spagna) e restiamo fermi, bloccati da barriere strutturali, sociali e normative che frenano la piena partecipazione dei padri alla cura e a una più equa condivisione delle “faccende domestiche”. E’ indubbio che la disparità nel lavoro di cura si intreccia con le disuguaglianze nel lavoro e con la presenza di norme di genere – ancora persistenti – che limitano la partecipazione economica delle donne e aumentano la sproporzione nel carico del lavoro di cura non retribuito rispetto agli uomini. In Italia la bassa occupazione femminile fa sì che le donne italiane abbiano 20 volte (il doppio rispetto a Spagna e Portogallo) più probabilità degli uomini di essere delle caregiver a tempo pieno a casa (nel campione analizzato il 18,6% delle italiane intervistate sono casalinghe a tempo pieno contro il 7,6% delle spagnole e il 4,7% delle portoghesi). Nei tre Paesi analizzati è la mancanza di tempo a causa degli obblighi di lavoro a rendere problematico per molti genitori l’apporto ai lavori di cura. E il tempo necessario può e deve essere garantito da congedi riservati ai padri, obbligatori, più lunghi e ben pagati, al pari delle madri, secondo il modello spagnolo. Infatti, in tutti e tre i Paesi i padri riconoscono in larghissima maggioranza i benefici del congedo genitoriale retribuito per loro stessi (88%), per le loro partner (90%) e per i loro figli e figlie (93%) e per due terzi concordano anche sul fatto che il congedo genitoriale dovrebbe essere uguale tra uomini e donne. E’ ormai diffusamente riconosciuta l’importanza per i figli e per le figlie della presenza di padri accudenti, soprattutto nei primi mille giorni di vita, come ad esempio una significativa riduzione dei comportamenti violenti negli adolescenti maschi. Ma anche per le partner e per l’intera società è importante il pieno coinvolgimento dei padri. Si tratta di evidenze (soprattutto scientifiche) che già da sole giustificherebbero un’ampia azione riformatrice in tale settore. Il Rapporto mette in evidenza come il 60% delle madri e dei padri intervistati voterebbe per un partito o un politico che sostenesse un congedo genitoriale retribuito più lungo. Un dato che arriva addirittura al 66% tra le madri italiane, che hanno dichiarato che avrebbero dato priorità alle politiche di congedo al momento del voto. Il rapporto propone di sviluppare solide riforme, come un congedo per i padri completamente retribuito e non trasferibile, e investimenti in servizi per la prima infanzia che coinvolgano attivamente gli uomini. Oltre a campagne pubbliche e reti locali di supporto tra pari per modificare norme e aspettative. Promuovere l’assistenza degli uomini non è solo una questione di parità di genere, ma è una strategia chiave per garantire che tutti i bambini prosperino fin dall’inizio della loro vita. Occorre garantire che la cura sia valorizzata e sostenuta per entrambi i genitori, che sia garantita la sicurezza finanziaria durante il congedo, che il lavoro sia compatibile con la cura, senza penalizzazioni o stigmatizzazioni, che vi sia un cambiamento culturale che passi attraverso l’evoluzione delle aspettative sociali e culturali e che vi sia la modifica delle narrazioni sulla mascolinità e sulla paternità. Qui per scaricare il Rapporto (in inglese): https://issa.nl/state-southern-european-fathers-2024-building-evidence-engaging-men-nurturing-care-italy-portugal?UA-144185756-4.   Giovanni Caprio
Acerbo (PRC): boicottiamo Glovo, serve una legge come in Spagna
Rifondazione Comunista invita al boicottaggio della piattaforma Glovo visto il vergognoso comportamento nei confronti dei rider. Va detto che questa vergogna del bonus per chi pedala nelle ore più calde è conseguenza del clima permissivo che c’è in Italia verso le imprese per responsabilità di questo governo e di quelli che lo hanno preceduto. Perché il governo o le regioni non intervengono? Invece dei bonus andrebbe imposta l’assunzione dei rider! Glovo risponde alle critiche sostenendo che “l’attuale modello di collaborazione garantisce a ciascun rider la massima libertà di scelta su quando e come lavorare”. Insomma i rider sono liberi di scegliere se morire di fame o di caldo. Siamo tornati al capitalismo ottocentesco anche se si usano gli algoritmi! Ricordo che in Spagna grazie a comuniste/i e alla sinistra radicale è stata approvata una legge che dal 2021 obbliga le piattaforme come Glovo, Deliveroo, Just Eat e Uber Eats a stipulare contratti di lavoro dipendente. La sola Glovo è stata costretta ad assumere 14.000 rider. Perché non si fa in Italia? Intanto almeno si ordini di sospendere le consegne negli orari più caldi della giornata. Subito una legge che imponga l’assunzione dei rider! Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
Acerbo (PRC): oggi Spagna, domani Italia. Cacciare Meloni per fermare riarmo
Le minacce di Trump alla Spagna rappresentano un inaccettabile attacco a un paese democratico che ha dimostrato di saper tenere la schiena diritta. Il governo spagnolo merita il plauso di tutti i popoli europei per aver detto no al diktat di Trump, della NATO e della Commissione Europea. Al contrario dei finti sovranisti come Meloni e Salvini genuflessi di fronte a Trump e Ursula von der Bomben, l’unico governo in Europa a dire no al folle aumento delle spese militari è quello con dentro comunisti e sinistra radicale. Meloni per legittimarsi nella recita da statista ha accettato un riarmo che costerà al popolo italiano enormi sacrifici. Il governo si è impegnato a portare la spesa militare dal 1,57 al 3,5% in 10 anni, insomma a un aumento ulteriore di circa 6-7 miliardi all’anno. Parliamo di 700 miliardi di euro nel decennio. La spesa è già in aumento da anni. Passeremo dagli attuali e già troppi 35 miliardi agli oltre 100 miliardi, cioè triplicheremo la spesa militare. Dal vertice NATO arriva una dichiarazione di guerra al resto del mondo da parte di un blocco occidentale che ha già di gran lunga una potenza militare soverchiante. Ma si tratta anche di una dichiarazione di guerra contro i popoli europei e quello italiano in particolare dato lo stato dei nostri conti pubblici. Siamo un paese con la spesa sanitaria al di sotto della media europea e Giorgia Meloni non ha la dignità di dire no a Trump. Questo governo va cacciato e gli impegni assunti a L’Aja vanno gettati nella spazzatura. Questa dovrebbe essere la base di un fronte pacifista e di sinistra che si ponga l’obiettivo di una vera alternativa al governo fascioleghista. Noi comunisti, antifascisti e pacifisti riprendiamo lo slogan di Carlo Rosselli: ‘oggi in Spagna, domani in Italia’. Si può dire no al riarmo e alla guerra. NON è un obbligo l’aumento delle spese militari. Per salvare la democrazia e lo stato sociale l’Europa e l’Italia debbono dire stop a un riarmo che è un regalo agli azionisti dell’industria bellica. Innanzitutto il riarmo è un atto di sottomissione al complesso militare-industriale degli Stati Uniti che beneficerà di enormi commesse ma non va sottovalutata la mutazione genetica di un’Europa che fa proprio il keynesismo militare. Sarebbe anche ora di aprire la discussione sulla necessità di liberarsi della NATO e fare la scelta della neutralità attiva che è quanto ci impone l’articolo 11 della Costituzione. Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea Maurizio Acerbo
Spagna: sospensione immediata degli accordi con Israele
Come riportato oggi dall’agenzia di stampa EFE, la Spagna chiederà all’Unione Europea di sospendere “immediatamente” l’accordo di associazione con Israele e un embargo sulla vendita di armi da parte dell’UE. “Non sono le denunce che fermeranno questa guerra disumana a Gaza, ma le azioni. E io metterò chiaramente sul tavolo tre azioni: la sospensione immediata dell’accordo di associazione, un embargo sulla vendita di armi da parte dell’Unione Europea a Israele e sanzioni individuali contro tutti coloro che vogliono minare definitivamente la soluzione dei due Stati”, ha dichiarato a EFE il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albares, al suo arrivo al Consiglio dei ministri degli Esteri dell’UE. Questa azione è coerente con le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dal Primo Ministro spagnolo, Pedro Sánchez, che si è chiaramente opposto alla proposta del Segretario Generale della NATO, Mark Rutte, di aumentare la spesa militare dei Paesi membri dell’Alleanza al 5% del loro Prodotto Interno Lordo (PIL). A questo punto, il governo socialista spagnolo si sta differenziando dalle posizioni armamentiste di molti governi europei che mantengono posizioni allineate con gli Stati Uniti e la NATO. Pressenza IPA
9 maggio, ultimo giorno di Gaza. Mobilitazioni in tutta Italia contro il genocidio
Nel momento più buio di Gaza, dopo che Israele ha annunciato ufficialmente i propri piani di occupazione totale del territorio, nel mezzo di un genocidio portato avanti a suon di bombardamenti ininterrotti e privazione di cibo, acqua e qualunque altro mezzo utile per la sopravvivenza della popolazione, la società civile torna in piazza per chiedere la fine del massacro in Palestina. Nella giornata di oggi, normalmente dedicata alle celebrazioni per l’unificazione dell’Europa, è stato organizzato il Gaza Last Day (L’Ultimo Giorno di Gaza), una giornata di mobilitazioni su tutto il territorio nazionale per rompere il silenzio assordante della politica e delle istituzioni nazionali ed europee e chiedere la fine del genocidio. L’evento è stato organizzato da Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tommaso Montanari, Francesco Pallante ed Evelina Santangelo e ha visto presto l’adesione di numerose realtà a livello nazionale. «Per rompere il silenzio colpevole useremo la rete, che è il solo mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e tutti, anche solo per pochi minuti. Anche chi è prigioniero della sua casa, e della sua condizione: come i palestinesi, i palestinesi di Gaza lo sono»: con queste parole gli organizzatori e le organizzatrici hanno scelto di richiamare l’attenzione attraverso un appello sulle pagine X, Facebook e Instagram dell’evento. La lettera, sottoscritta da centinaia di persone appartenenti al mondo dello spettacolo e della cultura in Italia, fa un appello a non smettere di parlare mai della situazione drammatica che è costretta a vivere la striscia di Gaza: attraverso l’utilizzo degli hashtag #gazalastday e #ultimogiornodigaza l’obiettivo è quello di fare rumore e smuovere la coscienza attraverso gli strumenti che ci stanno permettendo di vedere, quasi in tempo reale, gli orrori di un genocidio compiuto impunemente con la complicità di quelle istituzioni che dovrebbero ripudiare la guerra, ma che continuano a finanziare le azioni ripugnanti messe in atto dal criminale di guerra Benjamin Netanyahu. Numerosi sono i collettivi che hanno espresso il proprio sostegno all’iniziativa, tra questi Arci Nazionale, Collettivo Fabbrica GKN, Purple Square e il CSD Peppino Impastato (nello stesso giorno in cui ricorre il quarantasettesimo anniversario dell’omicidio dell’attivista e giornalista di Cinisi). Al clamore virtuale si aggiungono le manifestazioni annunciate già in varie città italiane: sit-in, presidi, discussioni, cineforum e molte altre iniziative sono state organizzate da Roma a Bologna, Pesaro, Forlì, L’Aquila, Cesena e varie altre città. La lista è in continuo aggiornamento ed è consultabile sulle pagine social dell’iniziativa. Anche noi de L’Indipendente ci uniamo al coro di protesta, rilanciando un’iniziativa messa in campo da tempo: tutte le informazioni sono disponibili sulla nostra pagina dedicata. Simultaneamente il 10 maggio anche nella capitale spagnola Madrid avranno luogo delle concentrazioni a sostegno della causa palestinese. Muévete por Palestina – Fin al comercio de armas y a las relaciones con Israel (Muoviti per la Palestina – fine al commercio di armi e alle relazioni con Israele), questo è il nome della manifestazione che si prevede interesserà migliaia di manifestanti provenienti da varie parti dello stato spagnolo, grazie alla messa a disposizione di autobus organizzati dalle varie associazioni e collettivi presenti su tutto il territorio. Davanti alle indagini che hanno svelato le almeno 134 operazioni di compravendita avvenute dal 7 ottobre 2023 tra Governo spagnolo ed aziende belliche israeliane, nonostante la promessa del ministero della difesa spagnolo di aver cessato ogni relazione commerciale con lo Stato di Israele, anche la società civile spagnola ha scelto di non rimanere in silenzio. «Con la consapevolezza che noi siamo loro. E che a noi – italiani ed europei – verrà chiesto conto della loro morte. Perché a compiere la strage è un nostro alleato, Israele. Per ripudiare l’Europa delle guerre antiche e contemporanee, per proteggere l’Europa di pace nata da un conflitto mondiale, esiste un solo modo: proteggere le regole, il diritto, e la giustizia internazionale. E soprattutto guardarci negli occhi, e guardarci come la sola cosa che siamo. Umani», scrivono gli organizzatori. Mentre l’Europa si arrocca con un piano di riarmo finalizzato a proteggersi da presunte, quanto apparentemente incombenti minacce anti atlantiste, sulle coste orientali di quel mare che per secoli è stato scambio culturale e strumento di giogo militare per il nostro continente, la popolazione gazawi è destinata ad un annientamento annunciato. Il 9 maggio può essere il giorno giusto per fare i conti con la nostra coscienza ed esprimere il nostro dissenso.   L'Indipendente
Il blackout come rivelatore
IN QUESTI GIORNI TANTI E TANTE IN SPAGNA HANNO DISCUSSO SU COSA È ACCADUTO NELLA GIORNATA SENZA ELETTRICITÀ, MENTRE ISTITUZIONI E MEDIA GRIDAVANO DI RESTARE IN CASA E COMINCIAVANO A DIFFONDERE NOTIZIE CONTRASTANTI SULLE CAUSE. SECONDO AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER È EMERSA UN’ALTRA IDEA DEL MONDO unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Caro J., mi chiedi cosa ho visto e sperimentato durante il blackout. Ti rispondo in modo rapido e conciso, basandomi sulle impressioni che ho registrato e sugli appunti delle conversazioni. Niente di definitivo, di molto solido, solo libere speculazioni per continuare a riflettere. Questo è ciò che ci consente questo intimo formato epistolare. Grazie alla passione di mia madre per le radio a transistor, ne ho trovato subito una in casa e ho potuto sintonizzarmi sulle notizie trasmesse su diversi canali, mentre tante persone erano “senza elettricità” a causa della mancanza di elettricità e di connessione a Internet. Di cosa parlavano i media? Naturalmente, fin dall’inizio, sono stati coinvolti nella lotta politica secondo il codice governo-opposizione che domina tutto: posizioni a priori e distribuzione delle colpe in base al fatto che si appoggi una parte o l’altra, una lettura dei fatti completamente strumentalizzata e faziosa, senza domande né riflessioni. Ma ciò che mi ha colpito di più, e questo per tutto il giorno, è stato il contrasto tra ciò che è stato ascoltato e ciò che io stesso ho potuto sperimentare direttamente durante le mie passeggiate nel quartiere. Dominava quella che potremmo chiamare l'”ipotesi Mad Max”: il caos della situazione non poteva che scatenare il panico e la guerra di tutti contro tutti, attraverso abusi (saccheggi, truffe) o menzogne (bufale, fake news). Le autorità hanno ripetutamente raccomandato di restare a casa e di attendere che la situazione tornasse alla normalità. Meno male che nessuno ci ha fatto caso! La gente si è mobilitata, come è accaduto in disastri ben più gravi, per essere lì, per aiutare, per collaborare. Certo, c’erano paura e incertezza, a seconda di come e dove si veniva colpiti e delle proprie capacità (più o meno vicini a casa, più o meno vicini ai propri cari, più o meno in grado di muoversi), ma ciò che gradualmente ha preso il sopravvento sulle strade è stato molto diverso da ciò che i media avevano previsto (e sperato). Vorrei sottolineare tre cose. Una festosa e gioiosa presa di possesso dello spazio pubblico, che a volte ha raggiunto anche un certo livello di autoregolamentazione del traffico in assenza di semafori (rallentando per stare attenti agli altri e facendo manovra). Le persone si riunivano per chiacchierare, divertirsi, coordinarsi e dare una mano. Una situazione molto diversa da quella causata dal Covid, quando la polizia controllava le strade e le persone restavano a casa. Un rilassamento generale del corpo collettivo, della tensione che genera panico, delle aspettative, dell’iperattività. Il tempo è diventato improvvisamente abbondante, senza l’ansia causata dall’interiorizzazione quotidiana degli obblighi di produttività e competizione. Sotto uno splendido sole primaverile, non c’era molto altro da fare se non camminare, leggere, condividere ed essere. Un piacere molto diverso dal godimento compulsivo del consumo. Una gentilezza insolita tra sconosciuti, una preoccupazione per gli altri e per il legame, un rinnovamento della “cortesia”, per usare le parole del nostro amico Bifo. Nei negozi e sui taxi si accettava credito, si prestava denaro a chi era nel bisogno e l’empatia (una parola molto usata, ma il senso è chiaro) era palpabile nell’aria. Questa apertura all’ignoto, questa ricerca di contatto, questo momento di cura collettiva è stata per me la parte più potente dell’esperienza del blackout. Una completa smentita dell’”ipotesi Mad Max” enunciata sopra. Una negazione del suo presupposto antropologico: la guerra di tutti contro tutti è l’elemento naturale degli esseri umani e solo un’autorità verticale può fermarla. Ciò non è accaduto, ciò che era stato dato per scontato e desiderato segretamente non è accaduto, Thanatos non è apparso, è emerso Eros. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLOS TAIBO: > Il collasso -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo parlato molto ultimamente dell’incapacità della “sinistra” – per citare coloro che desiderano e lavorano per il cambiamento sociale – di proporre un’idea diversa di bella vita, altre immagini di felicità oltre a quelle che il mercato ci presenta ogni giorno attraverso le sue mille applicazioni tecnologiche. Beh, direi che durante il blackout sono emerse per un attimo, a frammenti, delle contro-immagini di possibile felicità. O almeno, se parlare di felicità sembra eccessivo, di benessere, di godimento, di piacere. Non più solo privato, ma legato all’esperienza collettiva; non più conciliabile con lo stato di cose esistente, ma reso possibile dal suo radicale sconvolgimento. Accessibile solo ai più privilegiati? Se ne è parlato in questi giorni. Il blackout è stato romanticizzato come un tempo è avvenuto con il lockdown? È una visione che dovrebbe essere realistica e premonitrice, ma credo che finisca per essere triste e ri-vittimistica. Ciò significa che le classi lavoratrici soffrono più di chiunque altro per i disordini del meccanismo nel quale viviamo, perché sono legate ad esso dal nodo della precarietà. Ma i miei amici che vivono a Puente de Vallecas mi hanno raccontato, ad esempio, che i migranti hanno riempito le strade, i parchi e le piazze, senza paura e con gioia. Non potremmo considerare che tra coloro che consideriamo più deboli ci sono spesso più risorse per l’auto-organizzazione, più reti e connessioni, più capacità di saper fare con quello che c’è? Non siamo forse noi “bianchi privilegiati” i soggetti più deboli, quelli che dipendono maggiormente dalla vita di mercato e dalle sue applicazioni per ogni cosa? Non avremmo molto da imparare? La filosofa delle scienze naturali Vinciane Despret, fondamentalmente interessata al potenziale di cambiamento degli esseri umani, parla del nostro bisogno di nuove “proposizioni di esistenza”, nuove “profezie”. Come lei stessa cerca di dimostrare in ognuno dei suoi meravigliosi libri, gli esseri viventi sulla Terra, umani o non umani, non sono ciò che siamo noi, identici a noi stessi, ma dipendono sempre dalle circostanze, dalle opinioni e dalle descrizioni, dai procedimenti materiali. Non siamo ancora fatti e finiti, ma possiamo cambiare e trasformarci se qualcuno si rivolge a noi da una prospettiva diversa, da una differente proposta di esistenza, coinvolgendoci in altri dispositivi pratici. Che non presuppongono l’aggressività e la competizione, che non fanno appello alla paura e alla passività, ma piuttosto a ciò che ci coinvolge e ci tocca, alle nostre capacità di invenzione e di sorpresa, alle nostre facoltà di cooperazione. Ciò che è andato temporaneamente perduto in questi giorni è una certa descrizione di ciò che sono gli esseri umani e la vita di tutti i giorni, una versione della realtà che dice: “Le cose stanno semplicemente così”. Ciò che l’oscuramento ha rivelato per un attimo è stata un’altra idea del mondo, altre possibilità di esistenza. Non una “buona natura” nascosta nella vita di mercato che aspetta semplicemente di essere scatenata, ma altre potenzialità che devono essere attualizzate, realizzate, consumate. Questa sarebbe la vera sfida politica attuale. L’esperienza collettiva di quelle ore non è durato a lungo, ovviamente, ma ha rivelato qualcosa: abbiamo percepito qualcos’altro, fugacemente, che poi è svanito. Ma è sufficiente per dimostrare che qualcosa può esistere. -------------------------------------------------------------------------------- *Testo scritto grazie alla luce delle conversazioni con Andrés Timón, Javier Olmos, Rafael Sánchez-Mateos, Javier Bachiller, Raquel Mezquita, Aida Gómez Hernández, pubblicato su ctxt (traduzione di Comune) e qui con l’autorizzazione dell’autore. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI A. GHEBREIGZIABIHER: > Blackout e comunità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il blackout come rivelatore proviene da Comune-info.
Blackout e comunità
IL POMERIGGIO SENZA ELETTRICITÀ PER MILIONI DI SPAGNOLI E PORTOGHESI HA RICORDATO A QUANTO SIAMO OVUNQUE DIPENDENTI DALL’ELETTRICITÀ. ESISTONO IN REALTÀ DIVERSE DIPENDENZE INTRECCIATE, QUELLA DAI COMBUSTIBILI FOSSILI, QUELLA DELLA TECNOLOGIE, QUELLA DAI SATELLITI. IN QUESTO ARTICOLO, ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER, REGISTA TEATRALE E SCRITTORE, RAGIONA SU QUELLE DIPENDENZE PRENDENDO SPUNTO DAGLI ANNI IN CUI HA LAVORATO IN UNA COMUNITÀ PER PERSONE CON PROBLEMI DI DIPENDENZA. “A PRESCINDERE DA CIÒ DA CUI SEI STATO DIPENDENTE E IN PARTE LO SEI ANCORA DENTRO, LA RISORSA PER RITROVARE UN EQUILIBRIO SANO E SOSTENIBILE SIAMO ANCORA NOI STESSI, LE NOSTRE CAPACITÀ INNATE, MA SOPRATTUTTO I NOSTRI SIMILI… – SCRIVE ALESSANDRO – L’UMANITÀ È L’ENERGIA RINNOVABILE CHE STIAMO TRASCURANDO DA SEMPRE, OVVERO SFRUTTANDO IN MODO CRUDELE, CORROMPENDOLA, TORTURANDOLA E FINENDO PER DISTRUGGERLA NEI MODI PIÙ DISPARATI… IL PARADOSSO È CHE PROPRIO NEI MOMENTI PEGGIORI DELLA VITA DI CHIUNQUE… LA RELAZIONE CON IL PROSSIMO RAPPRESENTA LA VERA ANCORA DI SALVEZZA…” Una piccola comunità aperta al mondo – Liberi Sogni – ha inaugurato in aprile Cascina Rapello, tra i Monti della Brianza. Dal 31 maggio al 2 giugno sarà il teatro naturale di Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare -------------------------------------------------------------------------------- Lo scorso lunedì in Spagna è accaduto un fatto di una gravità estrema: poco dopo mezzogiorno e in pochi secondi qualcosa ha improvvisamente causato un calo della frequenza al di sotto dei soliti 50 hertz. Risultato: un intero pomeriggio senza elettricità per milioni di persone nella quarta economia europea e nel vicino Portogallo. I tecnici di Red Eléctrica de España (REE), il gestore della rete, stanno lavorando contro il tempo per capire cosa abbia provocato tale incidente. La teoria iniziale avanzata martedì aveva individuato la causa in un incidente in due impianti fotovoltaici nel sud-ovest della penisola, ma meno di 24 ore dopo, il REE e l’Associazione del Settore Energetico di Valencia hanno escluso tale ipotesi, nonostante gli avvoltoi del petrolio nel mondo avessero già iniziato a lucrare sull’accaduto, per esempio con tempestive, quanto mai interessate dichiarazioni. Nondimeno, tale inquietante precedente mi ha spinto a domandarmi: quanto siamo dipendenti nel mondo dall’elettricità? Ed estendendo la ricerca, quali sono le altre maggiori fonti di sostentamento in senso lato senza le quali, da un istante all’altro, potremmo trovarci in simili drammatiche emergenze? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLOS TAIBO: > Il collasso -------------------------------------------------------------------------------- Per quanto riguarda l’energia elettrica, ben 7,2 miliardi di persone in tutto il mondo vivono connesse alla rete elettrica (dati 2022), mentre un rapporto del 2024 segnala che 1,18 miliardi ne sono prive, di norma nei Paesi più poveri. Per quanto concerne invece i combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas naturale, sempre dati del 2022 ci dicono che essi rappresentano l’82% del consumo energetico mondiale. In particolare, il petrolio corrisponde a un terzo del totale, mentre il carbone un quarto. E cosa dire dell’energia nucleare? Ebbene, essa fornisce attualmente circa il 9% dell’elettricità mondiale, grazie a circa 440 reattori nucleari. Garantisce circa un quarto dell’elettricità a basse emissioni di carbonio e ben oltre 50 Paesi la utilizzano tramite circa 220 reattori. Altra forma di dipendenza ampiamente diffusa è quella dalla tecnologia. In particolare, un totale di 5,64 miliardi di persone in tutto il mondo utilizzavano Internet all’inizio di aprile 2025, pari al 68,7% della popolazione mondiale. Il che vuol dire che i navigatori sono attualmente la maggioranza dell’umanità. Nel dettaglio, la maggior parte di costoro – il 95,9% – utilizza il telefono cellulare per essere online e i telefoni cellulari ora rappresentano il 62% del traffico web mondiale. Da cui, si evince l’enorme dipendenza che abbiamo dagli smartphone stessi. Infine, un’ulteriore cruciale dipendenza è quella che abbiamo dai satelliti. Essi hanno un impatto sulla nostra vita quotidiana in innumerevoli modi che spesso passano inosservati: con le previsioni del tempo, la navigazione in GPS, la comunicazione e la connettività di Internet e dei telefoni cellulari, la televisione e la radiodiffusione, le operazioni bancarie e finanziarie, la sorveglianza militare, il monitoraggio ambientale e la gestione dei disastri, l’agricoltura, la ricerca scientifica e molto altro. A invitarci a riflettere con estrema attenzione sull’evidente vulnerabilità di tale situazione a livello mondiale dovrebbe essere anche il fatto che il tratto comune di questi differenti tipi di dipendenza è che presentano tutti dei valori in crescente aumento. Sapete, ho avuto la fortuna e il privilegio nei primi anni di lavoro nei luoghi di cura di farmi le ossa in una comunità di recupero per ex tossicodipendenti. Una delle cose più interessanti e illuminanti, a mio modesto parere, è stato scoprire che il percorso di recupero di una persona che per un periodo significativo ha avuto una grave dipendenza da sostanze stupefacenti non si basa effettivamente su queste ultime. In parole povere, in comunità non si parla di droga, bensì di esseri umani. Al punto che potrebbe risultare assai utile a chiunque e anche nel mio caso direi che è stato vitale. Sono quasi certo che non sarei qui, oggi, senza quella preziosa, iniziale formazione. Ciò che voglio dire è che, a prescindere da ciò da cui sei stato dipendente e in parte lo sei ancora dentro, la risorsa per ritrovare un equilibrio sano e sostenibile siamo ancora noi stessi, le nostre capacità innate, ma soprattutto i nostri simili. Difatti, la parola chiave in questi contesti è sempre “il gruppo”. L’umanità è l’energia rinnovabile che stiamo trascurando da sempre, ovvero sfruttando in modo crudele, corrompendola, torturandola e finendo per distruggerla nei modi più disparati. Il paradosso è che proprio nei momenti peggiori della vita di chiunque, compresi gli attimi in cui le suddette fonti di sostegno vengono a mancare, la relazione con il prossimo rappresenta la vera ancora di salvezza. Come disse uno dei ragazzi che ho conosciuto in quegli anni, dovrebbe esserci una comunità per tutti anche fuori di qui… -------------------------------------------------------------------------------- Attore, regista e scrittore, Alessandro Ghebreigziabiher ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (Ed. Bette). -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- APPUNTAMENTI: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Blackout e comunità proviene da Comune-info.
Il collasso
PARE IN QUESTE ORE, IN SPAGNA LE VENDITE DEL LIBRO COLAPSO DI CARLOS TAIBO – SCRITTORE E DOCENTE A MADRID, UNO DEI PIÙ NOTI TEORICI E SOSTENITORI DEL MOVIMENTO DELLA DECRESCITA – SIANO ALLE STELLE. EPPURE LA PRIMA EDIZIONE È USCITA GIÀ DA ALCUNI ANNI. IL LIBRO, DI CUI PUBBLICHIAMO L’INTRODUZIONE DELL’ULTIMA EDIZIONE, APPROFONDISCE SENZA UTILIZZARE UN LINGUAGGIO ACCADEMICO, IL CONCETTO DI COLLASSO, LA CAUSE E LE CONSEGUENZE, MA ANCHE LE DUE PRINCIPALI RISPOSTE: QUELLA DELL’ECOFASCISMO E QUELLA DEI MOVIMENTI DI TRANSIZIONE ECO-SOCIALE. TRE COSE SONO CERTE. LA PRIMA: QUELLI CHE SONO IN ALTO NON SONO DISPOSTI A RICONOSCERE IL RISCHIO DEL COLLASSO. LA SECONDA: LA CIVILTÀ INDUSTRIALE NON CONOSCE ALTERNATIVE, È COSTRETTA AD ACCELERARE: OGNI ANNO CONSUMIAMO COMBUSTIBILI FOSSILI EQUIVALENTI A QUELLI CHE LA NATURA HA IMPIEGATO UN MILIONE DI ANNI PER CREARE. LA TERZA: UNA STRADA DIVERSA PUÒ PRENDERE FORMA SOLTANTO IN BASSO, ALCUNI HANNO COMINCIATO unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- In molte occasioni, in occasione di eventi pubblici, ho parlato del rischio di un collasso generale del sistema che stiamo vivendo. Poiché l’argomento era destinato a suscitare polemiche, col tempo ho accumulato esperienze di ogni genere legate alla discussione in questione. E a volte mi è sembrato che fosse urgente approfondire il concetto di collasso e i concetti ad esso correlati, perché poteva benissimo essere che, nonostante molte persone usassero la stessa parola, in ultima analisi stessero pensando a realtà diverse. Se vogliamo, questo libro è un esercizio per chiarire, per me stesso, la disputa sulle molteplici sfaccettature che presenta il concetto in questione. A questo proposito è organizzato in sette capitoli. Il primo è interessato al concetto di collasso sopra menzionato, studia i problemi che comporta e considera alcune delle lezioni apprese dai crolli passati. Il secondo prende in considerazione le presunte cause di un collasso sistemico globale, con particolare attenzione al cambiamento climatico e all’esaurimento delle risorse energetiche. Il terzo, di natura decisamente speculativa, analizza le possibili conseguenze del crollo. Il quarto e il quinto capitolo individuano due possibili risposte a questo fenomeno: quella dei movimenti di transizione eco-sociale e quella legata a ciò che è noto come ecofascismo. Mentre il sesto capitolo si concentra sulla percezione popolare del crollo, il settimo e ultimo tenta di trarre alcune conclusioni generali. Vorrei chiarire fin da subito che non sono nella posizione di affermare che prima o poi si verificherà un crollo generale del sistema sotto i nostri occhi. La tesi che sostengo spassionatamente in questo lavoro è più cauta e si limita a suggerire che un simile crollo, con dati già ampi in nostro possesso, è probabile. Da questa prospettiva, il libro che il lettore tiene tra le mani, pur non racchiudendo in sé alcuna certezza assoluta, contiene un modesto invito alla riflessione e alla prudenza, ben sintetizzato nella figura del pater familias diligens (padre diligente di famiglia) a cui Castoriadis fa riferimento. Mi limiterò a ricordare, a questo proposito, che di fronte a uno scenario così delicato come quello posto dalla crisi ecologica, la nostra risposta non può essere quella che il filosofo attribuiva a un padre – o a una madre – che, dopo essersi sentito dire che era molto probabile che il loro bambino avesse una malattia grave, anziché affidare la prole ai migliori medici, non ha pensato ad altro che a ragionare dicendo: “Beh, se è possibile che mio figlio abbia una malattia molto grave, è anche possibile che non ne abbia una, quindi mi sembra moderatamente giustificato restare con le braccia conserte”. Di fronte a ciò, il padre cosciente dice a se stesso: “Dato che i problemi sono enormi, e anche se la probabilità che si manifestino è bassa, procedo con la massima prudenza, e non come se nulla stesse accadendo”. -------------------------------------------------------------------------------- APPUNTAMENTI: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- Il fatto che questo testo sia cauto non significa in alcun modo che voglia nascondere la portata delle sfide. La prima di queste è, naturalmente, la combinazione del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse energetiche, dei problemi demografici e di una profonda crisi sociale e finanziaria difficile da superare. La seconda è fornita da dati che riflettono un progressivo e rapido deterioramento della situazione. Aggiungerò, in breve, che ci sono ragioni sufficienti per concludere che è probabile che, sotto la copertura di quella che sembra una vera e propria corsa in avanti, arriveremo in ritardo se il nostro scopo logico è quello di evitare il collasso. Il panorama mentale e politico che abbiamo ereditato è molto delicato e richiede sacrifici sotto forma di risposte urgenti e decise in un momento in cui le restrizioni sono intrinsecamente numerose. Se William Ophuls ricorda a questo proposito che Gibbon attribuì il declino di Roma a quella che definì una “grandezza smodata”, cioè un eccesso di orgoglio e presunzione, Elizabeth Kolbert è stata così gentile da sottolineare che la storia dimostra che la vita mostra una formidabile capacità di adattamento, è vero, ma che questa capacità non è infinita. Le estinzioni di massa, aggiunge Kolbert, puniscono prima di tutto i più deboli, ma non lasciano indenni i più forti. Sembra, in ogni caso, che stiamo entrando in una terra incognita segnata da inevitabili riduzioni della popolazione e della produzione industriale. In alcuni dei miei lavori precedenti mi sono già interessato a categorizzare quello che è stato chiamato Antropocene. Per Paul Crutzen, una volta concluso l’Olocene, iniziato 11.500 anni fa, negli anni Ottanta del Settecento, quando Watt perfezionò la macchina a vapore, ebbe inizio una nuova fase nella storia del pianeta. Sotto la protezione di questa nuova fase, l’Antropocene, l’uomo è diventato una vera e propria forza geologica che ha modificato il clima e ci ha permesso di essere non solo grandi predatori, ma anche grandi dissipatori di risorse. Poiché gli esseri umani sono immersi in una vera tirannia sulla natura – quante volte si è parlato di conquistare quest’ultima – non ha più senso concepirli come una mera parte integrante del mondo naturale. L’Homo colossus, predatore e consumatore di risorse scarse e non rinnovabili, dall’appetito illimitato e dal progetto insostenibile, sembra intenzionato a distruggere un pianeta la cui condizione spiega l’esistenza degli esseri umani in quanto tali. E in questo macabro sforzo, nessuno spazio – regioni, montagne, oceani, poli – è destinato a sfuggire ai nostri attacchi. Sebbene ci sia chi pensa che l’Antropocene sia una fase che dimostra fortunatamente la supremazia e la capacità di controllo e di invenzione della specie umana, come se nessuna delle due comportasse alcun rischio, in questo testo sono costretto a seguire un percorso interpretativo molto diverso che invoca soprattutto le conseguenze molto delicate della nostra condotta. Uno di questi è l’attuazione di cambiamenti estremamente rapidi, per i quali siamo chiaramente impreparati, tanto più se si considera la nostra dimostrabile incapacità di andare oltre il breve termine. In questo contesto corriamo rischi che non accetteremmo nella vita di tutti i giorni. Lynas cita la testimonianza di un esperto che, nel 2007, basandosi su una previsione che oggi appare molto ottimistica, giunse alla conclusione che vi era una probabilità del 7 percento che ci saremmo lasciati alle spalle l’aumento di due gradi della temperatura media globale. La conclusione è però chiara: nessuno salirebbe a bordo di una nave che ha il 7 percento di probabilità di affondare. Hamilton, da parte sua, sottolinea che, secondo una stima, se le emissioni di CO2 dei paesi poveri raggiungono il picco nel 2030 e poi diminuiscono del 3% all’anno, mentre quelle dei paesi ricchi raggiungono il picco nel 2015 e poi diminuiscono anch’esse del 3% all’anno, avremo solo il 50% di possibilità di evitare un preoccupante aumento della temperatura media globale oltre i quattro gradi Celsius. Per dirla in altri termini, siamo immersi in una spirale infernale. «La nostra civiltà industriale è costretta ad accelerare, a diventare sempre più complessa e a consumare sempre più energia», dicono Servigne e Stevens. Non dimentichiamo che ogni anno consumiamo combustibili fossili equivalenti a quelli che la natura ha impiegato un milione di anni per creare. In virtù di un supremo paradosso, ciò che comunemente viene inteso come progresso comporta un tremendo esercizio di distruzione dell’ambiente naturale. A questo proposito, l’argomento secondo cui oggi, fortunatamente, abbiamo sufficienti conoscenze di quanto accaduto in passato da consentirci di trarre conclusioni definitive non sembra essere di grande consolazione. Temo che questa conoscenza influenzi poco le decisioni di chi detiene il potere e, in realtà, non modifichi in modo significativo nemmeno la nostra percezione quotidiana. Il risultato non è altro che un formidabile esercizio di eventi imprevisti. Ho già incluso altrove una riflessione suggestiva di Stephen Emmott. Immaginiamo, ci dice Emmott, che la comunità scientifica giunga alla conclusione inconfutabile che in un giorno preciso dell’anno 2072 un asteroide entrerà in collisione con la Terra e causerà la scomparsa del 70 percento delle forme di vita presenti su di essa. Sembrerebbe inevitabile che, di fronte a un rischio come questo, governi, scienziati, università, forze armate e aziende si mettessero al lavoro con la massima urgenza per trovare una formula che consentisse di evitare la collisione o, quantomeno, di attenuarne gli effetti. Bene, ciò che abbiamo davanti agli occhi ora ricorda molto l’esempio dell’asteroide, con due interessanti differenze. Se da un lato non possiamo stabilire una data precisa della catastrofe, dall’altro essa è, sorprendentemente, il prodotto dell’azione umana. Vorrei ripetere che ci sono molte ragioni per affermare che, in una società traumatizzata e traumatizzante, ci stiamo preparando ad arrivare in ritardo. I nostri leader, salvo rare eccezioni, non sono disposti a riconoscere il rischio di crollo o, in altre parole, non prendono sul serio la delicata combinazione di elementi che ho già menzionato. La loro posizione principale è simbolicamente riassunta da un paio di frasi adottate da molte delle persone che guidano gli Stati Uniti. Se il primo afferma che lo stile di vita statunitense è indispensabile, il secondo sottolinea che ciò che è bene per la General Motors è bene per il Paese. È logico, in queste condizioni, valutare con scetticismo la frivolezza delle risposte provenienti dagli ambienti ufficiali, dove un astruso miscuglio di interessi acquisiti e di visione a breve termine si traduce in un continuo rinvio della discussione o, peggio ancora, nell’adozione di misure puramente cosmetiche. Purtroppo, però, come sottolinea Homer-Dixon, l’economia globale non ha un piano B. Sembra che stiamo ripetutamente evitando ciò che Herman Daly ha avuto la gentilezza di ricordarci: l’economia è un sottosistema della biosfera, non un sistema indipendente. Per giunta, come ho già accennato, è molto probabile che dovremo intraprendere cambiamenti radicali in condizioni molto delicate, come quelle caratterizzate dall’esaurimento – la nostra consapevolezza dei limiti è zero – di tutte le materie prime energetiche che ci hanno consentito di arrivare fin qui. In due opere precedenti – In difesa della decrescita. Sul capitalismo, la crisi e la barbarie (2009) e Perché la decrescita? Un saggio sul preludio al collasso (2014) – ho già cominciato a interessarmi ad alcuni degli argomenti che mi attraggono in questo libro. Vi torno ora con una vocazione francamente pedagogica, e nella convinzione che tra noi non esista – o almeno non ne conosco uno – un testo che affronti, con questo profilo e queste dimensioni, il discorso sul collasso. A differenza di quanto accade in questo lavoro, è normale che il collasso venga affrontato, inoltre, dal prisma di specifiche discipline accademiche, come l’archeologia, l’economia o l’ecologia. Spesso l’interesse suscitato si esprime, d’altro canto, attraverso testi pratici volti a spiegare – non è affatto mia intenzione intraprendere un simile compito – che cosa dovremmo fare per prepararci o sopravvivere al crollo. È vero che disponiamo di uno splendido volume, il secondo dei due intitolato Nella spirale dell’energia, scritto dai defunti Ramón Fernández Durán e Luis González Reyes. Quel lavoro raccoglie in modo brillante informazioni schiaccianti e ben curate sul crollo. Tuttavia, a mio parere, si tratta di un’opera eccessivamente complessa che, nel suo profilo attuale, difficilmente potrà raggiungere le numerose persone che dovrebbero essere interessate a questa discussione e alle sue implicazioni. Nel nostro panorama editoriale e su Internet stesso, dove abbiamo naturalmente accesso alla ricchezza di informazioni postate su un gruppo Facebook chiamato “Colapso” e su siti web molto interessanti come quello curato da Antonio Turiel, non sono mancate nemmeno traduzioni di testi stranieri che potessero soddisfare la nostra sete di conoscenza. Tra l’altro, come vedremo, la maggior parte della letteratura sul crollo ha origine negli Stati Uniti, fatto che di per sé merita di essere approfondito. Sembra che questa astrusa combinazione di problemi sociali, sprechi (lo statunitense medio consuma tre volte più energia dell’europeo medio) e subordinazione della politica al business costituisca lo scenario più appropriato per pensare a un futuro molto delicato. Coloro che conoscono meglio il crollo sono, in ogni caso, coloro che lo hanno vissuto in prima persona. E spiegare cosa sia il collasso a un bambino nato nella Striscia di Gaza sembra molto difficile… -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione di Comune -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GUIDO VIALE: > Crisi climatica e adattamento dal basso -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il collasso proviene da Comune-info.