“Diritto di ingerenza”? No, grazie

Pressenza - Tuesday, September 9, 2025

L’aggressione e il genocidio che il governo di Israele sta portando avanti a Gaza (ma si dovrebbero aggiungere anche l’occupazione e la colonizzazione sempre più violente in Cisgiordania) fanno sorgere la domanda sul “che fare” per impedire le violazioni e alimentano interrogativi circa il ruolo delle Nazioni Unite, della comunità internazionale complessivamente intesa, come pure dei singoli Stati. È necessaria una risposta per contrastare e porre fine alle grandi violazioni (crimini contro l’umanità, apartheid, genocidio, gravi violazioni su ampia scala); ed è necessario che la risposta sia legittima, collettiva (in base alla Carta delle Nazioni Unite). Misure legittime implicano un ruolo prioritario delle Nazioni Unite, il rispetto della Carta e la conformità alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza (per quello che riguarda la Palestina, ad esempio, ultima in ordine di tempo, la risoluzione 2334 del 2016 del Consiglio), e ovviamente, il rispetto dei capisaldi del diritto internazionale: eguaglianza sovrana, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli, non ingerenza negli affari interni dei singoli Paesi. Le caratteristiche della cosiddetta “R2P”, vale a dire la “Responsabilità di proteggere” o, in termini generali, il “diritto di ingerenza”, rispettano questi presupposti? 

In una conferenza sul tema, presso l’Assemblea generale il 23 luglio 2009, Noam Chomsky faceva osservare che “praticamente ogni uso della forza negli affari internazionali è stato giustificato in termini di R2P, compresi i peggiori mostri. Solo per illustrare, nel suo studio accademico sull'”intervento umanitario”, Sean Murphy cita tre esempi: l’attacco del Giappone alla Manciuria, l’invasione dell’Etiopia da parte di Mussolini e l’occupazione di parti della Cecoslovacchia da parte di Hitler, tutti accompagnati da una retorica arrogante sulla solenne responsabilità di proteggere le popolazioni e da giustificazioni fattuali. Questo schema di fondo continua fino a oggi”. Non si può considerare “il presunto diritto di intervento se non come la manifestazione di una politica di forza, che in passato ha dato origine ai più gravi abusi e non può, quali che siano i difetti dell’organizzazione internazionale, trovare posto nel diritto internazionale…; per natura delle cose, l’intervento sarebbe riservato agli Stati più potenti e potrebbe facilmente portare a pervertire l’amministrazione della giustizia stessa”.

L’ingerenza, per sua natura, è praticabile solo dagli Stati che abbiano sufficiente capacità militare: di fatto, una “riserva operativa” per gli Stati più forti, e, di conseguenza, l’ombra di un pericoloso precedente. La dichiarazione dell’Avana del G77 (10-14 aprile 2000) respinge non a caso “il cosiddetto “diritto” di intervento umanitario, che non ha alcun fondamento giuridico nella Carta o nei principi generali del diritto internazionale” (§ 54). Il principio è stato quindi ribadito in diverse circostanze, ad esempio nella riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati (Malesia, 2006), o nel Panel di alto livello delle Nazioni Unite su Minacce, sfide e cambiamento (2004), come indicano i paragrafi 191 e 203, per i quali “esiste una responsabilità internazionale collettiva di protezione, esercitabile dal Consiglio di sicurezza, il quale autorizza l’intervento militare come ultima risorsa, in caso di genocidio e altre uccisioni su larga scala, pulizia etnica o gravi violazioni del diritto umanitario internazionale che i governi sovrani si siano dimostrati impotenti o non disposti a prevenire”. 

Nella Carta delle Nazioni Unite, il riferimento è all’art. 51 nella sua interezza: “Nessuna disposizione della Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo la Carta, al Consiglio, di intraprendere in qualsiasi momento l’azione che ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Il ruolo del Consiglio vi è ribadito tre volte; e nel Panel si ribadiva anche che “l’art. 51 non necessita di alcuna estensione o restrizione del suo ambito di applicazione”; anzi, “in un mondo pieno di potenziali minacce, il rischio per l’ordine globale, e la norma di non ingerenza su cui continua a basarsi, è troppo grande perché la legalità di un’azione preventiva unilaterale, distinta da un’azione approvata collettivamente, possa essere accettata. Permettere a qualcuno di agire in tal modo significa permetterlo a tutti” – sancire cioè la fine di un ordinamento internazionale.  

Sono proprio forzature e ingerenze abusive da parte degli Stati più potenti ad avere fatto ritenere, a una parte consistente della dottrina, inaccettabile il principio (il format) della c.d. R2P, la “Responsabilità di proteggere”. Da una parte vi è la formulazione ufficiale delle Nazioni Unite, in base alla quale «la comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, in conformità con i capitoli VI e VII della Carta, per aiutare a proteggere le popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro umanità. In questo contesto, siamo pronti a intraprendere un’azione collettiva, in modo tempestivo e deciso, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità con la Carta, compreso il capitolo VII, caso per caso e in cooperazione con le pertinenti organizzazioni regionali ove appropriato, qualora i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali non riuscissero manifestamente a proteggere le loro popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità». A norma della Carta, pare del tutto evidente che misure unilaterali, anziché azioni approvate collettivamente, e non deliberate dal Consiglio di sicurezza non sono legittime. 

Dall’altra vi è l’esercizio della forza da parte delle potenze, che ha portato non pochi osservatori a ritenere che «la “responsabilità di proteggere” è una sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel diritto internazionale, mentre i principi di quest’ultimo respingono con fermezza le interferenze» (J. Bricmont). Il principio della c.d. “Responsabilità di proteggere” in definitiva, quando avulso da un meccanismo collettivo, è, nella migliore delle ipotesi, la classica risposta sbagliata a un problema reale, e, nella peggiore, il pretesto per interventi che nulla hanno a che fare con la difesa del diritto e della giustizia internazionale. Anche per questo, il protagonismo dei popoli nell’esigere giustizia è così importante e cruciale. Diritto internazionale, basato sui principi della Carta, e giustizia internazionale non possono essere disgiunti: traguardare la prospettiva della pace, e della «pace positiva» nello specifico, non può non richiedere questo sforzo, di diritti, giustizia ed eguaglianza, un quadro di giustizia per poter affermare positivamente la pace. 

Riferimenti:

Carta delle Nazioni Unite:

https://www.mim.gov.it/documents/20182/4394634/1.%2520Statuto-onu.pdf 

Noam Chomsky, The Responsibility to Protect, New York, 23 luglio 2009:

https://chomsky.info/20090723

Luca Baiada, La responsabilità di proteggere, «Questione giustizia» n. 3, a. 2010:

https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/baiada.htm

G77 Vertice del Sud, Dichiarazione dell’Avana, 10-14 aprile 2000:

https://www.g77.org/summit/Declaration_G77Summit.htm

Riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati, Malaysia, 27-30 maggio 2006:

https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-177375

 

Gianmarco Pisa