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Rimandate le elezioni farsa in Siria, mentre l’ex al-Qaeda Ahmad al-Sharaa è atteso all’ONU
Questa settimana avrebbe dovuto rappresentare il ritorno della Siria nell’alveo della ‘comunità internazionale’. Ovviamente, nell’accezione che gli viene data alle nostre latitudini, ovvero il ristretto gruppo dei paesi occidentali e i loro alleati, fintamente democratici o genocidiari che siano. Il combinato disposto di elezioni e ritorno all’ONU avrebbe sancito questo […] L'articolo Rimandate le elezioni farsa in Siria, mentre l’ex al-Qaeda Ahmad al-Sharaa è atteso all’ONU su Contropiano.
L’ONU conferma il genocidio a Gaza, 16 paesi difendono la Global Sumud Flotilla
Ormai bisogna essere a libro paga dei sionisti o essere un nazista conclamato per non ammettere che quello che Israele sta commettendo a Gaza è un genocidio. Il peggior atto criminale che si possa commettere verso un popolo, che non bisogna però dimenticare di inserire all’interno di una cornice di […] L'articolo L’ONU conferma il genocidio a Gaza, 16 paesi difendono la Global Sumud Flotilla su Contropiano.
Vertice dei paesi arabi a Doha: tante parole, pochi fatti, mentre il tempo stringe
Si è svolto ieri, 15 settembre, il tanto atteso vertice dei paesi arabi a Doha, chiamato dopo il criminale attacco israeliano alla delegazione di Hamas presente in Qatar, paese che funge da mediatore tra il partito palestinese e le autorità statunitensi e di Tel Aviv. Ma quello che emerge dal […] L'articolo Vertice dei paesi arabi a Doha: tante parole, pochi fatti, mentre il tempo stringe su Contropiano.
Il mondo intero dalla parte della Palestina
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione di New York, una risoluzione in sostegno di una “soluzione pacifica alla questione palestinese” e per l’“implementazione di una soluzione dei due stati.” Il documento è stato approvato con una maggioranza schiacciante, con 142 voti a favore, 10 contrari e 12 astenuti. I paesi contrari sono quelli che potete immaginare: Israele, Stati Uniti, e alcuni dei loro alleati più stretti: Argentina, Ungheria, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay e Tonga. L’ambasciatore francese Jérôme Bonnafont ha sottolineato che la Dichiarazione di New York “descrive un percorso specifico per realizzare la soluzione dei due Stati,” che parte dal cessate il fuoco immediato a Gaza e la formazione di uno stato palestinese che sia sostenibile e sovrano. Il documento chiede il disarmo di Hamas e che il gruppo sia escluso dal governo di Gaza, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi, e una serie di garanzie per la sicurezza. L’ambasciatore israeliano Danny Danon ha risposto duramente al voto, dicendo che si trattava di “teatro” invece che di “diplomazia.” “Questa dichiarazione unilaterale non sarà ricordata come un passo verso la pace, ma solo come un altro gesto vuoto che indebolisce la credibilità di questa assemblea.” Danon ha accusato l’Assemblea generale di “cercare di imporre con la forza ciò che non è possibile ottenere al tavolo delle trattative.” All’apertura del segmento, il segretario generale ONU Guterres ha dichiarato che “la questione centrale per la pace in Medio Oriente è l’implementazione della soluzione dei due stati, dove due stati democratici, sovrani e indipendenti — Israele e Palestina — vivono fianco a fianco in pace e sicurezza.” (Nazioni Unite / X / JNS / UN News)
Le Nazioni Unite approvano risoluzione sullo Stato di Palestina
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato nella giornata di ieri la “Dichiarazione di New York”, per una soluzione a due Stati per palestinesi e israeliani in Medio Oriente. Il testo è stato adottato dalle Nazioni Unite con 142 voti favorevoli, dieci contrari – tra cui Israele e gli Stati […] L'articolo Le Nazioni Unite approvano risoluzione sullo Stato di Palestina su Contropiano.
“Diritto di ingerenza”? No, grazie
L’aggressione e il genocidio che il governo di Israele sta portando avanti a Gaza (ma si dovrebbero aggiungere anche l’occupazione e la colonizzazione sempre più violente in Cisgiordania) fanno sorgere la domanda sul “che fare” per impedire le violazioni e alimentano interrogativi circa il ruolo delle Nazioni Unite, della comunità internazionale complessivamente intesa, come pure dei singoli Stati. È necessaria una risposta per contrastare e porre fine alle grandi violazioni (crimini contro l’umanità, apartheid, genocidio, gravi violazioni su ampia scala); ed è necessario che la risposta sia legittima, collettiva (in base alla Carta delle Nazioni Unite). Misure legittime implicano un ruolo prioritario delle Nazioni Unite, il rispetto della Carta e la conformità alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza (per quello che riguarda la Palestina, ad esempio, ultima in ordine di tempo, la risoluzione 2334 del 2016 del Consiglio), e ovviamente, il rispetto dei capisaldi del diritto internazionale: eguaglianza sovrana, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli, non ingerenza negli affari interni dei singoli Paesi. Le caratteristiche della cosiddetta “R2P”, vale a dire la “Responsabilità di proteggere” o, in termini generali, il “diritto di ingerenza”, rispettano questi presupposti?  In una conferenza sul tema, presso l’Assemblea generale il 23 luglio 2009, Noam Chomsky faceva osservare che “praticamente ogni uso della forza negli affari internazionali è stato giustificato in termini di R2P, compresi i peggiori mostri. Solo per illustrare, nel suo studio accademico sull'”intervento umanitario”, Sean Murphy cita tre esempi: l’attacco del Giappone alla Manciuria, l’invasione dell’Etiopia da parte di Mussolini e l’occupazione di parti della Cecoslovacchia da parte di Hitler, tutti accompagnati da una retorica arrogante sulla solenne responsabilità di proteggere le popolazioni e da giustificazioni fattuali. Questo schema di fondo continua fino a oggi”. Non si può considerare “il presunto diritto di intervento se non come la manifestazione di una politica di forza, che in passato ha dato origine ai più gravi abusi e non può, quali che siano i difetti dell’organizzazione internazionale, trovare posto nel diritto internazionale…; per natura delle cose, l’intervento sarebbe riservato agli Stati più potenti e potrebbe facilmente portare a pervertire l’amministrazione della giustizia stessa”. L’ingerenza, per sua natura, è praticabile solo dagli Stati che abbiano sufficiente capacità militare: di fatto, una “riserva operativa” per gli Stati più forti, e, di conseguenza, l’ombra di un pericoloso precedente. La dichiarazione dell’Avana del G77 (10-14 aprile 2000) respinge non a caso “il cosiddetto “diritto” di intervento umanitario, che non ha alcun fondamento giuridico nella Carta o nei principi generali del diritto internazionale” (§ 54). Il principio è stato quindi ribadito in diverse circostanze, ad esempio nella riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati (Malesia, 2006), o nel Panel di alto livello delle Nazioni Unite su Minacce, sfide e cambiamento (2004), come indicano i paragrafi 191 e 203, per i quali “esiste una responsabilità internazionale collettiva di protezione, esercitabile dal Consiglio di sicurezza, il quale autorizza l’intervento militare come ultima risorsa, in caso di genocidio e altre uccisioni su larga scala, pulizia etnica o gravi violazioni del diritto umanitario internazionale che i governi sovrani si siano dimostrati impotenti o non disposti a prevenire”.  Nella Carta delle Nazioni Unite, il riferimento è all’art. 51 nella sua interezza: “Nessuna disposizione della Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo la Carta, al Consiglio, di intraprendere in qualsiasi momento l’azione che ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. Il ruolo del Consiglio vi è ribadito tre volte; e nel Panel si ribadiva anche che “l’art. 51 non necessita di alcuna estensione o restrizione del suo ambito di applicazione”; anzi, “in un mondo pieno di potenziali minacce, il rischio per l’ordine globale, e la norma di non ingerenza su cui continua a basarsi, è troppo grande perché la legalità di un’azione preventiva unilaterale, distinta da un’azione approvata collettivamente, possa essere accettata. Permettere a qualcuno di agire in tal modo significa permetterlo a tutti” – sancire cioè la fine di un ordinamento internazionale.   Sono proprio forzature e ingerenze abusive da parte degli Stati più potenti ad avere fatto ritenere, a una parte consistente della dottrina, inaccettabile il principio (il format) della c.d. R2P, la “Responsabilità di proteggere”. Da una parte vi è la formulazione ufficiale delle Nazioni Unite, in base alla quale «la comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, in conformità con i capitoli VI e VII della Carta, per aiutare a proteggere le popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro umanità. In questo contesto, siamo pronti a intraprendere un’azione collettiva, in modo tempestivo e deciso, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità con la Carta, compreso il capitolo VII, caso per caso e in cooperazione con le pertinenti organizzazioni regionali ove appropriato, qualora i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali non riuscissero manifestamente a proteggere le loro popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità». A norma della Carta, pare del tutto evidente che misure unilaterali, anziché azioni approvate collettivamente, e non deliberate dal Consiglio di sicurezza non sono legittime.  Dall’altra vi è l’esercizio della forza da parte delle potenze, che ha portato non pochi osservatori a ritenere che «la “responsabilità di proteggere” è una sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel diritto internazionale, mentre i principi di quest’ultimo respingono con fermezza le interferenze» (J. Bricmont). Il principio della c.d. “Responsabilità di proteggere” in definitiva, quando avulso da un meccanismo collettivo, è, nella migliore delle ipotesi, la classica risposta sbagliata a un problema reale, e, nella peggiore, il pretesto per interventi che nulla hanno a che fare con la difesa del diritto e della giustizia internazionale. Anche per questo, il protagonismo dei popoli nell’esigere giustizia è così importante e cruciale. Diritto internazionale, basato sui principi della Carta, e giustizia internazionale non possono essere disgiunti: traguardare la prospettiva della pace, e della «pace positiva» nello specifico, non può non richiedere questo sforzo, di diritti, giustizia ed eguaglianza, un quadro di giustizia per poter affermare positivamente la pace.  Riferimenti: Carta delle Nazioni Unite: https://www.mim.gov.it/documents/20182/4394634/1.%2520Statuto-onu.pdf  Noam Chomsky, The Responsibility to Protect, New York, 23 luglio 2009: https://chomsky.info/20090723.  Luca Baiada, La responsabilità di proteggere, «Questione giustizia» n. 3, a. 2010: https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/baiada.htm G77 Vertice del Sud, Dichiarazione dell’Avana, 10-14 aprile 2000: https://www.g77.org/summit/Declaration_G77Summit.htm Riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati, Malaysia, 27-30 maggio 2006: https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-177375   Gianmarco Pisa
Afghanistan, il terremoto che colpisce due volte: macerie e diritti negati
Un boato nella notte. Le case di fango e pietra che tremano e si sbriciolano come sabbia. Le famiglie che scavano a mani nude, tra il silenzio rotto solo dai lamenti. È l’immagine che arriva dall’Afghanistan orientale, colpita il 31 agosto da un terremoto di magnitudo 6.0 che ha devastato la provincia di Kunar, vicino al confine con il Pakistan. Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità e confermati da fonti internazionali, il sisma ha provocato oltre 1.400 morti e circa 3.500 feriti. Migliaia di case sono crollate all’istante, inghiottendo interi villaggi. Le frane hanno isolato strade e comunità già fragili. In alcune aree, i corpi sono stati sepolti in fosse comuni improvvisate: troppo alto il numero delle vittime, troppo scarse le risorse per dare a ciascuno una sepoltura dignitosa. Il disastro ha colpito un paese già in ginocchio. I finanziamenti internazionali, in particolare quelli americani, sono stati ridotti dopo il ritorno al potere dei talebani. Cliniche e ospedali hanno chiuso per mancanza di fondi, elicotteri e mezzi di soccorso restano a terra, e la macchina dei soccorsi, in una situazione simile, parte già mutilata. Il governo talebano ha lanciato un appello per aiuti internazionali, e alcune agenzie hanno risposto, ma la diffidenza resta alta: la comunità internazionale si interroga su come portare soccorso senza legittimare un regime che nega i diritti fondamentali a metà della sua popolazione. Il terremoto ha mostrato con spietata chiarezza un altro volto della tragedia: quello delle donne. Non solo colpite dai crolli come tutti, ma vittime due volte, del sisma e delle leggi che le imprigionano. In Afghanistan oggi una donna non può essere curata da un medico uomo senza la presenza di un accompagnatore maschile. Nelle zone più remote non sempre un familiare è disponibile, e la carenza di medici donna, conseguenza del divieto imposto alle ragazze di studiare medicina, rende l’accesso alle cure quasi impossibile. Così molte ferite sono rimaste a casa, curate alla meglio con rimedi locali, mentre le ore scorrevano decisive. Una condizione che trasforma un evento naturale in una catastrofe sociale, dove le discriminazioni pesano come macerie invisibili. Questa tragedia non è solo afghana. È uno specchio crudele per il mondo intero: mostra cosa significa affrontare una catastrofe senza diritti, senza libertà, senza voce. Ricorda che in un contesto di oppressione, un terremoto non scuote solo le case, ma le fondamenta stesse della dignità umana. Secondo le Nazioni Unite, oltre 23 milioni di afghani, quasi la metà della popolazione, vivono oggi in condizioni di grave insicurezza alimentare. Dopo il sisma del 31 agosto, l’ONU e la Croce Rossa hanno denunciato la mancanza di risorse adeguate per portare soccorso: molte cliniche sono state chiuse, i tagli internazionali hanno bloccato le forniture mediche e intere comunità restano isolate. In questo scenario disperato, ogni aiuto diventa questione di vita o di morte. Ma come inviare aiuti senza diventare complici? È la domanda che attraversa le cancellerie ei movimenti civili di tutto il mondo. Perché se da un lato è urgente garantire acqua, cura e ripari a chi ha perso tutto, dall’altro c’è il rischio che gli aiuti diventino strumenti nelle mani di chi nega i diritti fondamentali. La risposta non può che passare dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite e dalle grandi organizzazioni umanitarie, che devono pretendere trasparenza, accesso diretto e garanzie per le donne ei più vulnerabili. Ogni pacco di viveri, ogni farmaco, ogni tenda consegnata agli sfollati sarà allora non solo un gesto di solidarietà, ma anche un atto politico di resistenza alla disumanizzazione. In Afghanistan, il terremoto ha distrutto villaggi e vite, ma il sisma più profondo resta quello dei diritti negati. Ecco perché la vera ricostruzione non sarà solo fatta di mattoni: comincerà quando il mondo troverà il coraggio di aiutare senza chiudere gli occhi, di tendere la mano senza rafforzare le catene. Fonti Washington Post, 2 settembre 2025 – I talebani chiedono aiuti internazionali mentre il bilancio delle vittime del terremoto in Afghanistan supera le 1.400 WSJ, 31 agosto 2025 – L’Afghanistan è stato colpito da un mortale terremoto di magnitudo 6.0 RFE/RL, 1 settembre 2025 – Le donne afghane subiscono le conseguenze del terremoto a causa delle restrizioni imposte dai talebani   Lucia Montanaro
Ricatto all’Arabia Saudita. Tornano le accuse sull’11 settembre
Per una singolare coincidenza, alla vigilia della discussione alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello Stato di Palestina che verrà proposta da Francia e Arabia Saudita, negli Stati Uniti tornano a circolare le accuse a Riad per gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001. Un giudice federale […] L'articolo Ricatto all’Arabia Saudita. Tornano le accuse sull’11 settembre su Contropiano.
Le Nazioni Unite compiono 80 anni: un punto di svolta per l’umanità
Pressenza e il Movimento Umanista hanno sempre riconosciuto le Nazioni Unite come un passo storico verso l’umanizzazione del mondo. Nel novembre 2025, l’ONU celebrerà il suo 80° anniversario, una pietra miliare che ci invita a riflettere sui suoi successi, sui suoi limiti e sulle trasformazioni urgenti che deve intraprendere per riuscire a fronteggiare le necessità del nostro tempo. Per commemorare questa occasione, Pressenza pubblicherà una serie di analisi, testimonianze e interviste da tutto il mondo. Vogliamo capire come l’ONU abbia influenzato la vita delle persone, cosa rappresenti oggi e come debba evolversi per rimanere rilevante. Invitiamo a inviarci proposte e riflessioni su come l’ONU possa amplificare il proprio potere ed efficienza nell’affrontare le grandi sfide di questo secolo. Fondata nel 1945 come organizzazione per la pace, l’ONU ha ricevuto il nobile mandato di prevenire la guerra, ma con mezzi limitati per far rispettare la pace. Tuttavia, il suo contributo è stato significativo: dall’adozione del Trattato di non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP) nel 1968 al Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW) nel 2017. Ha coordinato la solidarietà globale in molti settori: istruzione, sanità, aiuti umanitari, diritti degli indigeni, diritti delle donne e, più recentemente, cambiamenti climatici, acqua potabile e protezione delle specie in via di estinzione. Eppure, l’ONU non è mai riuscita a superare completamente il controllo degli Stati nazionali, né il dominio del suo Consiglio di Sicurezza, (composto da 5 membri permanenti con diritto di veto: Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, N.d.R.) che riduce il resto del mondo a una sorta di appartenenza di “seconda classe”. Questo limite strutturale ha spesso paralizzato l’istituzione di fronte a crisi come quelle di Gaza, Palestina e Ucraina, portando molti a chiedersi: il mondo sarebbe davvero migliore senza l’ONU? Nonostante i suoi difetti, l’ONU è stata una piattaforma dove il Sud del mondo ha potuto far sentire la propria voce, dove si è organizzata la solidarietà oltre i confini nazionali e dove si è alimentata la speranza di un mondo più cooperativo e umano. La sua storia è lontana dall’essere perfetta, ma la sua assenza sarebbe catastrofica. In occasione di questo 80° anniversario, non solo guardiamo indietro a ciò che è stato realizzato, ma anche avanti a ciò che deve venire. Stiamo raccogliendo testimonianze, opinioni e proposte da ogni angolo del pianeta con l’hashtag #UNat80. Pressenza, in qualità di Agenzia Stampa internazionale, si impegna ad amplificare queste voci. Ogni contributo è importante in questa sinfonia umana che invoca la pace, la dignità e l’umanizzazione del nostro futuro comune. Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza IPA
Un Regno Unito sempre più sionista: soldi alla Elbit e repressione sui pro-Pal
Mancano circa un paio di settimane all’apertura dei lavori dell’80esima assemblea generale della Nazioni Unite, durante la quale Francia e Regno Unito hanno annunciato di voler riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. Considerato che il primo ministro britannico aveva posto come riserva a tale decisione la riapertura dei canali umanitari […] L'articolo Un Regno Unito sempre più sionista: soldi alla Elbit e repressione sui pro-Pal su Contropiano.