“Diritto di ingerenza”? No, grazieL’aggressione e il genocidio che il governo di Israele sta portando avanti a
Gaza (ma si dovrebbero aggiungere anche l’occupazione e la colonizzazione sempre
più violente in Cisgiordania) fanno sorgere la domanda sul “che fare” per
impedire le violazioni e alimentano interrogativi circa il ruolo delle Nazioni
Unite, della comunità internazionale complessivamente intesa, come pure dei
singoli Stati. È necessaria una risposta per contrastare e porre fine alle
grandi violazioni (crimini contro l’umanità, apartheid, genocidio, gravi
violazioni su ampia scala); ed è necessario che la risposta sia legittima,
collettiva (in base alla Carta delle Nazioni Unite). Misure legittime implicano
un ruolo prioritario delle Nazioni Unite, il rispetto della Carta e la
conformità alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza (per quello che riguarda
la Palestina, ad esempio, ultima in ordine di tempo, la risoluzione 2334 del
2016 del Consiglio), e ovviamente, il rispetto dei capisaldi del diritto
internazionale: eguaglianza sovrana, integrità territoriale e autodeterminazione
dei popoli, non ingerenza negli affari interni dei singoli Paesi. Le
caratteristiche della cosiddetta “R2P”, vale a dire la “Responsabilità di
proteggere” o, in termini generali, il “diritto di ingerenza”, rispettano questi
presupposti?
In una conferenza sul tema, presso l’Assemblea generale il 23 luglio 2009, Noam
Chomsky faceva osservare che “praticamente ogni uso della forza negli affari
internazionali è stato giustificato in termini di R2P, compresi i peggiori
mostri. Solo per illustrare, nel suo studio accademico sull'”intervento
umanitario”, Sean Murphy cita tre esempi: l’attacco del Giappone alla Manciuria,
l’invasione dell’Etiopia da parte di Mussolini e l’occupazione di parti della
Cecoslovacchia da parte di Hitler, tutti accompagnati da una retorica arrogante
sulla solenne responsabilità di proteggere le popolazioni e da giustificazioni
fattuali. Questo schema di fondo continua fino a oggi”. Non si può considerare
“il presunto diritto di intervento se non come la manifestazione di una politica
di forza, che in passato ha dato origine ai più gravi abusi e non può, quali che
siano i difetti dell’organizzazione internazionale, trovare posto nel diritto
internazionale…; per natura delle cose, l’intervento sarebbe riservato agli
Stati più potenti e potrebbe facilmente portare a pervertire l’amministrazione
della giustizia stessa”.
L’ingerenza, per sua natura, è praticabile solo dagli Stati che abbiano
sufficiente capacità militare: di fatto, una “riserva operativa” per gli Stati
più forti, e, di conseguenza, l’ombra di un pericoloso precedente. La
dichiarazione dell’Avana del G77 (10-14 aprile 2000) respinge non a caso “il
cosiddetto “diritto” di intervento umanitario, che non ha alcun fondamento
giuridico nella Carta o nei principi generali del diritto internazionale” (§
54). Il principio è stato quindi ribadito in diverse circostanze, ad esempio
nella riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati (Malesia, 2006), o
nel Panel di alto livello delle Nazioni Unite su Minacce, sfide e cambiamento
(2004), come indicano i paragrafi 191 e 203, per i quali “esiste una
responsabilità internazionale collettiva di protezione, esercitabile dal
Consiglio di sicurezza, il quale autorizza l’intervento militare come ultima
risorsa, in caso di genocidio e altre uccisioni su larga scala, pulizia etnica o
gravi violazioni del diritto umanitario internazionale che i governi sovrani si
siano dimostrati impotenti o non disposti a prevenire”.
Nella Carta delle Nazioni Unite, il riferimento è all’art. 51 nella sua
interezza: “Nessuna disposizione della Carta pregiudica il diritto naturale di
autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di
autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e
non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo la
Carta, al Consiglio, di intraprendere in qualsiasi momento l’azione che ritenga
necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.
Il ruolo del Consiglio vi è ribadito tre volte; e nel Panel si ribadiva anche
che “l’art. 51 non necessita di alcuna estensione o restrizione del suo ambito
di applicazione”; anzi, “in un mondo pieno di potenziali minacce, il rischio per
l’ordine globale, e la norma di non ingerenza su cui continua a basarsi, è
troppo grande perché la legalità di un’azione preventiva unilaterale, distinta
da un’azione approvata collettivamente, possa essere accettata. Permettere a
qualcuno di agire in tal modo significa permetterlo a tutti” – sancire cioè la
fine di un ordinamento internazionale.
Sono proprio forzature e ingerenze abusive da parte degli Stati più potenti ad
avere fatto ritenere, a una parte consistente della dottrina, inaccettabile il
principio (il format) della c.d. R2P, la “Responsabilità di proteggere”. Da una
parte vi è la formulazione ufficiale delle Nazioni Unite, in base alla quale «la
comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità
di utilizzare appropriati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici,
in conformità con i capitoli VI e VII della Carta, per aiutare a proteggere le
popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai
crimini contro umanità. In questo contesto, siamo pronti a intraprendere
un’azione collettiva, in modo tempestivo e deciso, attraverso il Consiglio di
sicurezza, in conformità con la Carta, compreso il capitolo VII, caso per caso e
in cooperazione con le pertinenti organizzazioni regionali ove appropriato,
qualora i mezzi pacifici fossero inadeguati e le autorità nazionali non
riuscissero manifestamente a proteggere le loro popolazioni dal genocidio, dai
crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità». A norma
della Carta, pare del tutto evidente che misure unilaterali, anziché azioni
approvate collettivamente, e non deliberate dal Consiglio di sicurezza non sono
legittime.
Dall’altra vi è l’esercizio della forza da parte delle potenze, che ha portato
non pochi osservatori a ritenere che «la “responsabilità di proteggere” è una
sorta di astuzia giuridica che tenta di inserire il diritto di ingerenza nel
diritto internazionale, mentre i principi di quest’ultimo respingono con
fermezza le interferenze» (J. Bricmont). Il principio della c.d. “Responsabilità
di proteggere” in definitiva, quando avulso da un meccanismo collettivo, è,
nella migliore delle ipotesi, la classica risposta sbagliata a un problema
reale, e, nella peggiore, il pretesto per interventi che nulla hanno a che fare
con la difesa del diritto e della giustizia internazionale. Anche per questo, il
protagonismo dei popoli nell’esigere giustizia è così importante e cruciale.
Diritto internazionale, basato sui principi della Carta, e giustizia
internazionale non possono essere disgiunti: traguardare la prospettiva della
pace, e della «pace positiva» nello specifico, non può non richiedere questo
sforzo, di diritti, giustizia ed eguaglianza, un quadro di giustizia per poter
affermare positivamente la pace.
Riferimenti:
Carta delle Nazioni Unite:
https://www.mim.gov.it/documents/20182/4394634/1.%2520Statuto-onu.pdf
Noam Chomsky, The Responsibility to Protect, New York, 23 luglio 2009:
https://chomsky.info/20090723.
Luca Baiada, La responsabilità di proteggere, «Questione giustizia» n. 3, a.
2010:
https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/baiada.htm
G77 Vertice del Sud, Dichiarazione dell’Avana, 10-14 aprile 2000:
https://www.g77.org/summit/Declaration_G77Summit.htm
Riunione ministeriale del Movimento dei Non Allineati, Malaysia, 27-30 maggio
2006:
https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-177375
Gianmarco Pisa