Il genocidio fa cambiare idea agli statunitensi

Jacobin Italia - Thursday, September 4, 2025
Articolo di Richard Silverstein

Il genocidio israeliano a Gaza ha rafforzato una massiccia opposizione nella sinistra pacifista e ha innescato un profondo cambiamento nella politica statunitense nei confronti di Israele.

Il mese scorso, un sondaggio Quinnipiac ha mostrato un netto calo in quasi tutti gli aspetti relativi all’atteggiamento nei confronti di Israele in seguito alla crisi di Gaza. Per la prima volta, il sostegno ai palestinesi supera quello a Israele (dal 37 al 36%). Esattamente il 50% degli intervistati considera Gaza un genocidio. Il 60% si oppone a ulteriori spedizioni di armi a Israele. Una percentuale simile si oppone alla guerra di Israele contro Gaza. La maggioranza (53%) si oppone alla gestione del conflitto di Gaza da parte di Trump. Il 40% considera la politica statunitense «troppo favorevole» a Israele.

Si tratta di numeri stupefacenti, mai registrati in anni di sondaggi che hanno costantemente fotografato un forte sostegno nei confronti di Israele e molto meno per i palestinesi. La richiesta di una sospensione degli aiuti militari, ad esempio, ha rappresentato un tabù nel dibattito pubblico per decenni. Atteggiamenti fino a quel momento considerati impensabili sono ora diventati mainstream.

È ovviamente tragico che ci voglia un genocidio per smuovere l’opinione pubblica. Decenni di attivismo della sinistra pacifista non sono riusciti a cambiare le cose. Ci è voluto un massacro imminente per abbattere la barriera. Eppure, la barriera è crollata.

Il Partito democratico è stato lacerato da uno scisma tra l’alta dirigenza allineata alla lobby israeliana e l’élite dei donatori miliardari; e l’ala giovanile di sinistra, di base, rappresentata dalla Squad (le deputate della sinistra socialista elette nei Democratici, ndt) al Congresso. Ciò è emerso in una recente riunione del Comitato Nazionale Democratico, in cui i democratici contrari alla guerra hanno proposto una risoluzione che chiedeva la fine della guerra e il divieto di vendita di armi a Israele. Il gruppo dirigente altolocato dell Cnd ha risposto con una propria risoluzione, sostenuta dall’American Israel Political Action Committee (Aipac) e dal suo rappresentante nel partito, la Democratic Majority for Israel , che chiedeva solo il rilascio degli ostaggi israeliani. I dati dei sondaggi suggeriscono che i papaveri del partito abbiano completamente perso contatto con i loro elettori.

I Democratici al Congresso leggono gli stessi sondaggi che leggiamo io e voi e hanno iniziato a recepire il messaggio. La maggioranza dei Democratici al Senato ha votato a favore della risoluzione di Bernie Sanders per sospendere gli aiuti militari. Un nuovo disegno di legge Block the Bombs sta circolando alla Camera. Ha persino ottenuto il sostegno di membri che in passato sono stati sostenuti finanziariamente in modo cospicuo dall’Aipac. Tra questi, alcuni dei suoi membri più influenti, il deputato Jerrold Nadler e il deputato Adam Smith , che ha dichiarato: «Credo che sia giunto il momento che il governo degli Stati uniti interrompa la vendita di alcuni sistemi d’arma offensivi a Israele».

Sebbene il sostegno di Smith sia stato tutto sommato  moderato, ha segnalato la consapevolezza che i tempi per Israele stanno cambiando. Il suo distretto elettorale, a Seattle, comprende uno dei principali produttori di armi del Paese, la Boeing. Smith ha anche ricevuto 800.000 dollari dall’Aipac nelle ultime due tornate elettorali.

Dopo che le contestazioni alle primarie finanziate dall’Aipac hanno devastato le fila dei candidati progressisti nel 2022, alcuni membri hanno iniziato a impegnarsi a non accettare più donazioni da parte di Pac filo-israeliani, sebbene queste promesse non riguardino i candidati alle primarie reclutati dalla lobby israeliana per sfidare i progressisti. Finché il partito stesso non vieterà tali manipolazioni da parte dei Pac, questo continuerà.

Nel 2022, la deputata Alexandria Ocasio Cortez, Jamaal Bowman e altri esponenti dell’ala sinistra del partito lamentarono l’assurdità dell’intervento dei repubblicani per sconfiggere i candidati democratici. Ocasio-Cortez avvertì che i loro soldi erano «tossici», un «fondo nero per miliardari repubblicani che non dovrebbero avere influenza nel Partito democratico, figuriamoci nelle nostre primarie». La leadership del Congresso sbadigliò e non fece nulla. Ora la situazione è ribaltata.

Quanto più grave è il genocidio di Israele, tanto più disgusto suscita nell’opinione pubblica americana. Ciò, a sua volta, si riversa sui rappresentanti eletti del partito che sanno leggere il corso delle cose: essere in sintonia con la lobby non è più la soluzione sicura di un tempo.

Il Dnc e la leadership del Congresso sono però ancora in ritardo. Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, leader di Senato e Camera, hanno mantenuto le distanze dal candidato sindaco di New York City del loro partito, Zohran Mamdani, perché, tra le altre cose, sostiene il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (Bds) e si oppone al genocidio di Gaza. Sono incapaci di una guida per il futuro, necessaria se il Partito democratico vuole vincere le elezioni nazionali e contrastare il Maga trumpiano.

Ci saranno ora due test imminenti: le elezioni di medio termine del 2026 e, cosa più importante, le elezioni presidenziali del 2028. Finora, le prospettive per i Democratici per l’anno prossimo non sono promettenti. La popolarità del partito è a terra. Ha il tasso di approvazione più basso degli ultimi trent’anni (33%). Persino il Partito repubblicano lo supera, con il 40%. Sembra improbabile che i Democratici riescano a raddrizzare la rotta e a elaborare un messaggio coerente che trovi riscontro negli elettori in tempo per riprendersi la Casa Bianca. In queste circostanze, un risultato deludente per il partito di minoranza in un’elezione fuori stagione sarebbe disastroso.

Le primarie presidenziali del 2028 determineranno se il partito riuscirà a generare un candidato più giovane e progressista, che rispecchi più da vicino le opinioni della base su Gaza e sul conflitto israelo-palestinese in generale. Quando, se mai avverrà, i Democratici riusciranno a produrre un candidato che parli alla base e per la base, sfidando al contempo la lobby israeliana? Un candidato non legato alla lobby e alla classe miliardaria che, oltre agli interessi politici, abbia anche dei valori?

Tra i nomi attuali – Gavin Newsom, Pete Buttegieg, Gretchen Whitmer e JB Pritzker – solo quest’ultimo ha sostenuto il blocco delle vendite di armi, che secondo Pritzker «manda il messaggio giusto» a Israele. Pur rimanendo un politico le cui opinioni su Gaza non sono pienamente allineate con quelle della sinistra progressista, è a chilometri di distanza dai suoi concorrenti.

Il genocidio israeliano ha anche creato una profonda frattura con l’ebraismo negli Usa che detesta Benjamin Netanyahu. La sua opinione sulla guerra a Gaza è solo leggermente appena meno negativa. Un sondaggio del 2024 ha rilevato che un terzo degli ebrei riteneva che Gaza costituisse un genocidio. Un sondaggio del 2025 ha rilevato che il 45% degli intervistati riteneva che Israele fosse «troppo aggressivo» a Gaza. È interessante notare che entrambi i sondaggi sono stati condotti da organizzazioni filo-israeliane.

Eppure, la posizione delle principali organizzazioni ebraiche e della loro ricca gerontocrazia rimane irrigidita. A parte gruppi antisionisti come Jewish Voice for Peace, la comunità è rimasta in gran parte muta. Né i gruppi comunitari hanno le stesse preoccupazioni dei politici: la maggior parte degli ebrei non è affiliata, quindi non esiste alcun meccanismo che consenta loro di influenzare le istituzioni tradizionali. Gruppi come l’American Jewish Committee, l’Anti-Defamation League e l’Aipac si butterebbero da una rupe per Israele. La maggior parte degli ebrei americani si rifiuta di unirsi a loro.

Le dichiarazioni di Trump su Gaza non hanno aiutato. Si è schierato incondizionatamente con Israele, arrivando persino a sostenere la pulizia etnica e a ribattezzare l’enclave come la «Riviera del Medio Oriente». Ha chiesto a Israele non solo di rovesciare Hamas, ma di sterminarlo.

Un’operazione di «aiuto umanitario» finanziata dagli Stati Uniti , la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), ha elaborato un piano per creare quella che il ministro della Difesa israeliano definisce una « città umanitaria», che imprigionerà 600.000 abitanti di Gaza. Analogamente, il Boston Consulting Group ha elaborato un piano da 5 miliardi di dollari che prevede il «ricollocamento volontario» dell’intera popolazione. Gaza diventerebbe un «ente fiduciario statunitense» e verrebbe «trasformata in un lussuoso resort turistico e in un polo manifatturiero e tecnologico ad alta tecnologia».

Le amministrazioni fiduciarie devono essere riconosciute dalle Nazioni unite, che non accetterebbero mai una cosa del genere. Non ce n’è stata una da quando Palau ha ottenuto l’indipendenza nel 1994. E non solo il mondo reagirà con indignazione a un simile piano, se attuato, ma ciò inasprirebbe ulteriormente gli americani nei confronti della politica di Trump su Gaza. I sondaggi indicano che la maggioranza è contraria. L’ultima cosa che gli americani vogliono è un coinvolgimento a lungo termine in Medio Oriente, dove abbiamo combattuto tre guerre negli ultimi trent’anni.

Quasi duemila palestinesi sono stati assassinati nei siti del Ghf mentre si accalcavano in cerca di cibo, molti dei quali da mercenari americani assoldati da una società di sicurezza statunitense. Simili scene potrebbero non turbare gli israeliani abituati a tali sofferenze, ma la maggior parte degli statunitensi è sconvolta. Ogni bambino affamato, ogni madre uccisa mentre allunga le mani per chiedere cibo, pianta un altro chiodo sulla bara del sostegno Usa a Israele.

*Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, per il quale si occupa dello stato di sicurezza nazionale israeliano. Ha contribuito alle raccolte di saggi A Time to Speak Out: Independent Jewish Voices on Israel, Zionism and Jewish Identity e Israel and Palestine: Alternative Perspectives on Statehood. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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