Noi migranti non siamo vittime, ma uomini dalla schiena dritta

Pressenza - Saturday, August 2, 2025

SFIDE. Diario di un viaggio dal Ciad alla Sicilia di Abdelkadir Hissen Abdallah Alhilbawi, appena uscito per i tipi di Multimage, è il racconto del travagliato cammino intrapreso da un quattordicenne dal Ciad attraverso la Libia fino in Italia, percorso durato sette anni, a causa dei tentativi ripetutamente falliti di varcare il Mediterraneo e della necessità di racimolare ogni volta di nuovo i soldi per pagare i trafficanti, subendo prigionia e torture, lavorando anche in Tunisia e Marocco, ma incontrando pure persone generose e stringendo amicizie durature.

Abdelkadir AlHilbawi ha oggi 23 anni e vive a Palermo, dove studia e lavora. La sua narrazione rivela una profonda capacità di introspezione ed un’autentica spiritualità. Non è suo intento svolgere un’accurata analisi politica dei problemi dell’Africa quanto piuttosto esprimere la sua sincera fede religiosa che lo ha indotto all’empatia e alla condivisione in tutti i suoi incontri, lo ha illuminato e sostenuto nei momenti di sconforto e che traspare nella sua visione del mondo e dei rapporti fra i generi.

Lasciamo che sia lui a confidarci le motivazioni della sua scelta di scrivere.

Non ho scritto questo libro per amore della scrittura o per cercare la fama, né il mio scopo era vantarmi o ostentare. Ci sono invece motivazioni più profonde e gravi, ragioni che mi hanno imposto di intraprendere questa difficile esperienza, con tutto il dolore che la rievocazione dei ricordi porta con sé.

La prima di queste ragioni nasce dalle domande ricorrenti degli europei: chi sei? Da dove vieni? Come sei arrivato qui? Queste domande possono sembrare semplici, ma in realtà sollecitano un dolore difficile da esprimere, come fossero chiavi che aprono le porte di un passato pieno di sofferenza e lotte. È difficile per chi ha vissuto esperienze dolorose essere costretto a rievocarle, come se il sanguinamento delle ferite non fosse stato già abbastanza.

Non si può immaginare il peso che un migrante porta sulle spalle, né la sua angoscia nel rispondere a interrogativi che per lui banali non sono. Non tutte le anime sono in grado di raccontare il dolore passato senza riviverlo. Io sono stato uno di quelli che hanno sofferto molto e l’ho capito chiaramente il giorno in cui mi sono presentato in tribunale per richiedere i documenti di protezione internazionale. Quel colloquio mi è sembrato un processo alla mia anima, come se fossi accusato di un crimine che non avevo commesso e il mio destino fosse nelle mani di persone che non sapevano nulla degli incubi delle mie lunghe notti. La notte prima dell’udienza è stata la più lunga della mia vita, come se aspettassi una condanna a morte o all’ergastolo.

La seconda ragione è l’enorme flusso di dicerie e menzogne che ho sentito sulla Libia da quando sono arrivato in Europa. Tutti parlano della Libia come se fosse un inferno assoluto, dimenticando che la verità non è mai completamente nera. Sì, ci sono sofferenza, oppressione e sfide indescrivibili, e io stesso sono stato vittima di tortura, umiliazione e ingiustizia, ma ho anche incontrato persone che mi hanno aiutato nei momenti più difficili. È ingiusto negare il bene e sarebbe un’ingiustizia dimenticarlo anche nel mezzo del dolore. Ho imparato che il vero successo è affrontare le sfide e rialzarsi dopo le cadute, non dare la colpa agli altri e attribuire loro il peso delle nostre tragedie.

La verità che molti non comprendono è che noi migranti non possiamo permetterci il lusso di rimanere nel ruolo di vittime, ma dobbiamo trovare il coraggio di imparare dalle esperienze, per quanto dure possano essere, a camminare a testa alta e con la schiena dritta. Uno dei più grandi errori che commettiamo è ridurre i nostri vissuti al solo lato negativo, mentre la vita è piena di lezioni che aspettano di essere valorizzate e apprezzate.

La terza ragione, la più dolorosa, sono quegli incubi che non mi abbandonano: le voci dei carcerati nei centri di detenzione mi perseguitano come un’ombra costante. Ho cercato più volte di fuggire da esse, ma mi ritrovavo sempre prigioniero di quei ricordi, ogni notte. Scrivere è stato il mio unico rifugio, l’unico modo per sfogare i dolori che non osavo confessare nemmeno a me stesso. Ho provato la terapia psicologica, ma non riuscivo ad esprimermi, le lacrime erano sempre più veloci delle parole.

Scrivere non è stato affatto facile, ho dovuto fermarmi per lunghi periodi quando mi trovavo davanti a passaggi carichi di dolore, a volte per una settimana o più. Ma ho capito che esprimersi, per quanto doloroso, è meglio del silenzio che uccide l’anima lentamente. Forse non sono riuscito a rendere pienamente giustizia alla storia in tutti i suoi dettagli, ma ho fatto del mio meglio.

Tappa dopo tappa il ragazzo Abdel aveva tenuto sui quaderni racchiusi nel suo zaino il resoconto quotidiano delle sue avventure; giunto finalmente in Italia, l’uomo Abdel ha rimesso mano agli appunti, stesi in arabo, e aiutato dal traduttore automatico (e un poco da me) ha dato forma a questo libro, che è innanzi tutto un documento e una testimonianza impareggiabile, ma che risulta anche una lettura gradevole e variegata.

Troverete descrizioni di antiche città africane e di paesaggi sconfinati nel deserto, pagine buffe dedicate a scaramucce sul lavoro o all’apprendimento dei più diversi mestieri, momenti di tenera convivialità (persino con qualche ricetta) e pause di meditazione e di preghiera, episodi avventurosi come gli attraversamenti notturni delle frontiere o gli scontri con le milizie, spazi di riflessione filosofica e rievocazioni commoventi come quella della morte della madre.

Si avverte talvolta, a fianco di un’ironia sorridente, una eco musicale del salmodiare dei versetti coranici.

Questa è l’opera prima di Abdel, ma altre sorprese sono nel cassetto.

Il libro sarà presentato in anteprima a Palermo nel pomeriggio di mercoledì 6 agosto a Moltivolti, centro sociale e culturale multietnico (e ottimo ristorante!) di Ballarò.

Daniela Musumeci