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Il Veneto che resiste
Novembre è stato un mese di mobilitazione in Veneto, segnato da un equilibrio precario tra repressione e proteste. Le tensioni sono culminate venerdì 28 in occasione dello sciopero generale indetto dai sindacati di base: un corteo ha raggiunto i cancelli dell’azienda Leonardo Spa a Tessera(Ve), bloccando la strada statale 14 per diverse ore e causando notevoli disagi alla circolazione e all’azienda stessa. Ma partiamo dall’inizio. Novembre ha visto il Veneto chiamato alle urne per le elezioni regionali, concluse con la vittoria schiacciante del candidato di centrodestra Alberto Stefani, eletto con circa il 60% dei voti. Tuttavia, come in tutte le regioni interessate dalla tornata elettorale, l’affluenza è calata drasticamente: 44,6%, in diminuzione di 16,5 punti rispetto alle precedenti elezioni (61,1%). Nonostante il Veneto sia considerato da anni un fortino della destra, la repressione del dissenso non si è allentata. Emblematico l’episodio del 18 novembre a Padova, quando nove persone sono state fermate e identificate all’ingresso del comizio elettorale di Fratelli d’Italia al Teatro Geox, dove erano presenti Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. I fermati sono stati portati in questura e trattenuti arbitrariamente, nonostante l’identificazione potesse avvenire sul posto senza necessità di fermo. Il provvedimento è stato giustificato come “tentata manifestazione”. Inoltre, uno dei presenti ha ricevuto un avviso orale, norma del codice antimafia spesso usata come strumento intimidatorio insieme a un uso smodato dei fogli di via. Nella stessa serata anche Andrea Venzon, candidato indipendente in Veneto per la lista Avs, presente con un semplice cartello che denunciava le politiche deleterie del governo Zaia, è stato identificato dalla polizia e allontanato. Il 21 novembre l’Università di Verona aveva tentato di sabotare un’assemblea pubblica con gli attivisti Greta Thunberg, Simone Zambrin e Maya Issa. Il rettorato aveva provato a negare gli spazi per l’evento dedicato al genocidio del popolo palestinese, appellandosi a norme sulla par condicio elettorale. Malgrado la mancata concessione dell’aula e i microfoni spenti (l’organizzazione ha provveduto con un impianto audio indipendente), l’aula magna era gremita. Gli ostacoli posti da UniVR erano stati di diverso tipo: il primo di carattere burocratico, definendo “incompleta” la domanda per l’utilizzo dell’aula, nonostante il comitato studentesco confermasse la regolarità della richiesta. Il secondo prevedeva la possibilità di utilizzo dello spazio a patto che nella comunicazione non venisse fatto cenno allo sciopero generale del 28 novembre né allo slogan “Blocchiamo tutto!”. Il 22 novembre il movimento Extinction Rebellion, dopo la conclusione deludente della COP30 in Brasile, ha colorato di verde le acque di 11 città italiane, tra cui Venezia, utilizzando fluoresceina, un tracciante innocuo comunemente usato dagli idrogeologi. L’azione dimostrativa ha avuto grande risonanza in Italia e all’estero, finendo sulle pagine di testate come The Independent, The Telegraph, ABC News, Le Figaro e Le Parisien. Il clamore mediatico ha suscitato pesanti reazioni politiche, con attacchi pubblici al movimento e a Greta Thunberg (presente a Venezia) da parte di esponenti di Lega e Fratelli d’Italia, tra cui l’ex presidente del Veneto Luca Zaia e il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, in violazione del silenzio elettorale. A seguito dell’azione pacifica e nonviolenta, Extinction Rebellion denuncia abusi in tutta Italia. Venezia è diventata l’epicentro delle polemiche: 37 persone – tra cui la stessa Greta Thunberg– sarebbero state denunciate, multate e colpite da un Daspo urbano, senza che alcuna notifica ufficiale sia stata consegnata. L’opinione degli attivisti è che le dichiarazioni della questura siano un puro strumento di propaganda politica; gli abusi, secondo il movimento, erano iniziati già durante l’azione con il sequestro di striscioni, bandiere e tamburi da parte delle forze dell’ordine, senza verbale, violando i più elementari diritti costituzionali. Infine, nonostante i boicottaggi, la mobilitazione veneta in occasione dello sciopero del 28 novembre davanti ai cancelli della Leonardo Spa ha visto circa tremila persone. Non c’erano solo i centri sociali, ma anche lavoratori e sindacati che hanno documentato con foto e video la repressione subita dai manifestanti, con cariche dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Dopo ore di manifestazione pacifica e scritte sull’asfalto, la polizia ha disperso con gli idranti i manifestanti che bloccavano la circolazione delle merci e marciavano verso la fabbrica per occuparne simbolicamente gli spazi, in una giornata di mobilitazione contro le politiche di guerra. Redazione Italia
Non abbassare il tiro nella mobilitazione per la Palestina
Altri 34 palestinesi (tra cui 18 bambini) sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani su Gaza tra mercoledi e giovedi e nonostante il cessate il fuoco. Ma per i telegiornali italiani questa non è stata una notizia degna della dovuta attenzione. Altri 245 sono stati uccisi nelle settimane precedenti da quando […] L'articolo Non abbassare il tiro nella mobilitazione per la Palestina su Contropiano.
Università: mobilitazioni, riforma Bernini e crisi di governabilità
A partire dagli interventi delle ministre Bernini, Roccella e dopo la presentazione di una prima bozza della riforma della governance universitaria, in queste settimane abbiamo visto l’università tornare al centro del dibattito pubblico sulle pagine dei principali quotidiani e dei media di questo paese. Tutto ciò è certamente conseguenza delle […] L'articolo Università: mobilitazioni, riforma Bernini e crisi di governabilità su Contropiano.
Proteste studentesche in Italia e a Torino: mobilitazioni, scioperi e occupazioni
Come è avvenuto in moltissime città italiane nelle settimane a partire dallo sciopero del 22 settembre, e in coincidenza con il blocco illegale della Global Sumud Flotilla prima e della Freedom Flotilla poi, manifestazioni, anche a Torino proteste e blocchi si sono progressivamente intensificati fino a culminare nel nuovo sciopero del 3 ottobre, che ha visto una grandissima partecipazione non solo di lavoratrici e lavoratori, ma anche di studentesse e studenti. Proprio le/i ragazz3 sono stati protagonist3 di una inedita, capillare e massiva ondata di mobilitazioni nelle proprie scuole. Tali mobilitazioni, a seconda dei contesti, hanno preso la forma dell’occupazione, oppure dell’assemblea permanente, o ancora dell’autogestione. La Scuola per la pace di Torino e Piemonte ha spesso affiancato le/gli student3 nei laboratori e nelle attività che si sono incentrate sui temi del genocidio in Palestina e del blocco delle Flotille. Tramite i contatti con le/i docenti delle varie scuole abbiamo provato a ricostruire un elenco sicuramente non esaustivo degli istituti mobilitati nelle diverse forme a cui abbiamo accennato nelle settimane tra il 22 settembre e il 17 ottobre: Liceo Giordano Bruno – Liceo Einstein – Liceo Gioberti – Liceo Cavour – Liceo D’Azeglio – Liceo Afieri – Liceo Volta –  IIS Santorre di Santarosa – Liceo Berti – IIS Giulio – IIS Avogadro – Liceo Spinelli – IIS Majorana – Liceo Passoni – Primo Liceo Artistico – IPS Steiner – IIS Plana – Convitto Nazionale Umberto I – Liceo Gobetti – Liceo Regina Margherita – IIS Copernico Luxemburg – ITIS Pininfarina – IIS Russell Moro Guarini – Liceo Cottini – IIS Giolitti – Liceo Darwin (Rivoli) – Liceo Porporato (Pinerolo) – IIS Majorana (Moncalieri). Tra i primi student3 a occupare la propria scuola troviamo le/i ragazz3 del Liceo Galileo Ferraris, che hanno prodotto il seguente documento, che qui rilanciamo: https://www.pressenza.com/it/2025/10/occupazione-del-liceo-scientifico-galileo-ferraris-di-torino-ottobre-2025/ Irene Carnazza, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Quei ragazzi che amano il mondo e riempiono le piazze, ma disertano le urne
I giovani, la generazione Zeta e una fetta del Millennials, si sono mobilitati in massa contro l’orrore del genocidio di Gaza e non basta certo il cessate il fuoco ordinato dall’imperatore Trump dopo settantamila palestinesi ammazzati da bombe droni fame e sete perché smettano di mobilitarsi, nelle scuole, nelle città. Non li organizza nessuno, non i partiti, non i sindacati. Ovunque la comunicazione può connetterli e i messaggi e le chiamate online si trasformano, di giorno e di notte, come d’incanto, in massa critica reale, fatta di ragazze e ragazzi pronti a scendere in strada, a occupare università, porti, autostrade, stazioni. Combattono l’ingiustizia ovunque si manifesti, fanno propri i tabù fissati dalla Costituzione come quello della guerra che in troppi, nelle istituzioni (e non solo) del Belpaese, hanno infranto. Eppure, nel pieno del loro agire politico, restano lontani dalla politica istituzionale, dai partiti incapaci di prefigurare un’alternativa credibile allo stato di cose presente, al dominio del mercato, del turbocapitalisno che sacrifica sogni e diritti. Sono lontani dai rituali della democrazia svuotati di significato, appeal e dunque partecipazione. Si mobilitano da soli contro mille ingiustizie ma devono imparare a mettere in rete le mille battaglie (per i diritti, la democrazia, l’ambiente, il lavoro dignitoso, la casa, per l’umanità) per dar loro uno sbocco unitario, contro il rischio di un rifluire verso un andamento carsico. Amano il mondo più che l’Italia, che vivono come matrigna da cui in tanti fuggono appena raggiunta l’autonomia. Dunque, piazze piene e urne vuote. Si può capire, se solo si tenta di farlo, se si prova a mettere da parte presunzione e arroganza, orecchio a terra ad ascoltare le voci, guardare le forme dell’agire collettivo, intercettare le domande, le richieste, le contraddizioni che partono dalle piazze piene. Se poi succede che nel pieno delle lotte le urne restano vuote, partiti e media, e persino chi tenta di capitalizzare quelle lotte autonome, restano senza parole. Allora cosa fanno? Logica vorrebbe che cominciassero a interrogarsi per cercare le ragioni di quel mancato feeling ammettendo: non li abbiamo visti arrivare e ora li vediamo andar via (dalle urne). E invece no, hanno talmente perso l’abitudine a costruire una democrazia partecipata che semplicemente prendono atto che quella roba lì è finita con il Novecento e se ne fanno una ragione. Fino alle regionali toscane, dopo ogni elezione si passava qualche giorno a interrogarsi sulle ragioni dell’astensionismo. Questa volta la fatica di interrogarsi è durata appena qualche ora, l’unico dato importante era la vittoria del candidato di centrosinistra su quello di centrodestra (capirai che notizia, in Toscana). Applausi e baci di Elly Schlein al vincitore Eugenio Giani, mugugni di Antonio Conte che continua a perdere pezzi elezione dopo elezione, orgasmo di Matteo Renzi che a Firenze gioca in casa e ha fatto il pieno (si fa per dire) di voti mentre i perdenti – fasci, generali paracadutisti, postberlusconiani – si consolano dicendo quel che avevano negato fino al giorno prima: la Toscana non è mai stata alla nostra portata. Se la governabilità conta più della partecipazione Per essere concreti facciamo un esempio che spiega a che punto siamo: in quella che fu la patria della partecipazione ha votato il 47% dei toscani, il 53% ha disertato le urne. Giani, presidente uscente in quota Pd ha preso 752 mila voti raggiungendo il 54%, addirittura il 5% in più che nel 2020 ma, ciononostante, 12 mila voti in meno di quando è stato eletto la prima volta. Oltre a Renzi festeggia anche l’Alleanza Verdi Sinistra per il suo ragguardevole 7%. Mastica amaro la Lega a trazione Vannacci sprofondata dal 21% al 4,4%, tosata dal partito della Meloni nella sfida su chi è più fascista. Ma nessuno, vincenti e perdenti, sembra più di tanto turbato dal fatto che l’astensione in cinque anni è cresciuta di 15 (quindici) punti. Nell’agire politico partitico e mediatico, dicevamo, la partecipazione al massimo è un optional. Quel che conta è la governabilità e per renderla possibile si riscrivono regole e leggi elettorali per far sì che il vincente possa prendere quasi tutto, riducendo il confronto a due schieramenti e diserbando il resto. Le alleanze in due blocchi contrapposti diventano praticamente obbligatorie e i partiti che ne fanno parte devono superare la soglia del 3% per elegge propri rappresentanti in consiglio regionale. Chi si presenta da solo, fuori dalla guerra santa tra due blocchi viene punito: prima deve raccogliere migliaia di firme per depositare la lista, poi deve raggiungere non il 3% ma il 5% per eleggere rappresentanti. E’ la governabilità toscana, voluta da chi da sempre governa la regione, cioè dal Pd, per fare terra bruciata alla sua sinistra e poter chiedere a ogni elezione il “voto utile”, anche turandosi il naso. Non basta. Alle regionali toscane non c’erano due ma tre candidati. Il terzo oltre a essere una terza ha anche la pelle scura, cosa che infastidisce Vannacci, perché uno dei suoi genitori viene dalla Sierra Leone. Antonella Bundu è stata candidata da una lista unica, Toscana rossa, sostenuta da Rifondazione comunista, Potere al popolo e Possibile. Ha raggiunto un rispettabile 5,2% dei consensi ma non è bastato perché la sua lista si è fermata al 4,5%. Cioè chi l’ha votata ha messo il simbolo sul suo nome e non anche sulla lista. Ridicolo, essendo la sola lista. Si attende l’esito del sacrosanto ricorso. Se la governabilità conta più della partecipazione, è normale che l’interesse per la politica attiva e anche passiva venga meno. Se in Toscana non verrà sanata un’ingiustizia riconoscendo come utile il risultato di Antonella Bundu, alle prossime elezioni i votanti saranno ancora meno e molti di quelli che hanno votato Toscana rossa si aggiungeranno ai ragazzi ProPal che si rifiutano di turarsi il naso. Tanto, pensano, non serve a niente. Uscito sul settimanale svizzero “Area” Loris Campetti
Il doppio effetto del Piano Trump, in Medio Oriente e in casa nostra
E’ ormai evidente che nel prossimo periodo dovremo fare i conti con gli effetti del Piano Trump, i cui primi cinque punti – cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ripresa degli aiuti umanitari per la popolazione palestinese a Gaza – sono stati sottoscritti in una sorta di show a Sharm […] L'articolo Il doppio effetto del Piano Trump, in Medio Oriente e in casa nostra su Contropiano.
Gaza e il clima
Nei molti articoli di “geopolitica” sul futuro di Israele, della Palestina, dell’Ucraina, della Russia, dell’Europa, dell’Occidente che ho avuto occasione di leggere manca un dato di fondo: come sarà il mondo dal punto di vista fisico, climatico, sociale, di qui a 10-20 anni? Avremo tempo e risorse per continuare a fare guerre, fabbricare armi sempre più micidiali, promuovere conflitti, oppure ci dovremo occupare di salvare le nostre case, le nostre città, i nostri territori dai disastri ambientali che si verificheranno sempre più spesso, sempre più intensamente, sempre più diffusamente, con conseguenze, anche economiche, sempre più gravi? Tutti, compresi i negazionisti climatici – e quelli che prestano fede o si lasciano ingannare da loro – sanno che il pianeta tutto e i singoli territori in cui ciascuno di noi vive non saranno più quelli di ora, ma non vogliono occuparsene perché lo considerano un problema troppo grande o troppo difficile da affrontare. Alcuni di noi, abitanti di questo pianeta, ne risentiranno in modo drammatico (alluvioni, tornado, incendi, siccità, ondate di calore, crisi idriche e di approvvigionamenti, innalzamento del livello dei mari e delle temperature, ecc.), altri in modo più lieve, ma alcuni in misura tanto forte da costringerli a cercare la propria sopravvivenza altrove: secondo le previsioni più accreditate, nel corso del secolo, ma a partire da ora (la deadline, quando ancora se ne parlava, era stata posta intorno al 2030…) e dai prossimi decenni, circa la metà degli abitanti del pianeta – 4-5 miliardi di esseri umani – dovrà emigrare verso altri territori, per lo più verso l’emisfero settentrionale, liberato dai ghiacci e dal gelo dal riscaldamento globale. Siamo pronti ad affrontare queste migrazioni epocali? E in che modo? Questo è ciò che manca dalle mappe dei futurologi di governo e dei media, ma che è ben presente nelle menti dei pochi membri dell’élite – soprattutto militari, soprattutto del Pentagono – che si misurano con i dati di fatto. Gli stessi che stanno imponendo una svolta radicale ai bilanci degli Stati, trasferendo quantità sterminate, e apparentemente insensate, di risorse dal sostegno all’esistenza delle rispettive popolazioni alle armi, alla guerra, allo sterminio. Quelle risorse economiche e “umane” oggi indirizzate al “ riarmo” (come se non fossimo già abbastanza armati), ma soprattutto alla militarizzazione delle istituzioni e della società, e composte in misura crescente da strumenti di sorveglianza dual-use, domani saranno utilizzate per cercare di fermare i flussi incontrollati di migranti in cerca della propria sopravvivenza in altre regioni del pianeta. Che fare? Gaza ci ha mostrato tutta la determinazione con cui si è cercato di eliminare da un territorio piccolissimo come “la Striscia”, con una politica di sterminio programmato, una popolazione giudicata superflua o nemica, ma quello era, e forse è ancora, solo un laboratorio. Domani quegli stessi mezzi, sempre più sofisticati e micidiali, potranno essere impiegati per cercare di fermare il flusso dei migranti ambientali e sociali in fuga dalle aree del nostro pianeta diventate invivibili. Se il genocidio del popolo di Gaza ha suscitato l’indignazione e una reazione di massa in molti Paesi, ha dimostrato però di lasciare indifferenti, anzi, accondiscendenti, i loro governi. Ed è di questo che dobbiamo preoccuparci. Per questo c’è stata, e dovrà continuare a esserci, una mobilitazione così ampia per Gaza, soprattutto da parte di una generazione, quella di Greta, già impegnata con alterne vicende nella difesa del clima: una generazione che, a differenza di quelle precedenti, percepisce qual è la posta in gioco di questa tremenda aggressione. Grottesco quindi utilizzare la presenza di uno striscione che inneggiava al 7 Ottobre per attribuirne la condivisione alle decine e centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che si sono mobilitati contro il genocidio in atto. Ancora più grotteschi gli autodafè dei giornalisti che fino a ieri irridevano i giovani attaccati tutto il giorno ai cellulari e che oggi si accorgono che in tutto il mondo quei giovani i cellulari li usano per informarsi su ciò di cui i massmedia non parlano e per convocare le loro manifestazioni. A novembre si svolgerà a Belém la COP30 per il clima: nient’altro che una sfilata di decine di migliaia (fino a 100mila, come a Sharm-El-Sheikh tre anni fa) di “delegati” – molti della grande industria del petrolio e affini, molti diplomatici ignari dei problemi, ma anche molti esperti della materia resi impotenti dai primi – per fare finta di occuparsi del clima. Ma se non metteranno all’ordine del giorno quello che è il problema centrale dei prossimi decenni, prendendo innanzitutto una netta posizione contro le guerre e le armi che hanno offuscato l’urgenza della lotta per i clima,  quell’incontro sarà nient’altro che una stanca ripetizione delle inutili COP che l’hanno preceduto. Il fatto è che i governi di tutto il mondo si sono dimostrati incapaci di prendere sul serio la minaccia climatica che incombe su tutta l’umanità. Minaccia che può essere affrontata – all’inizio sicuramente in modo inadeguato, ma via via in modo sempre più drastico, e replicabile, mano a mano che i disastri ambientali lo imporranno – solo se verrà presa in mano dalle popolazioni che ne sono colpite: con misure di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui si verranno a trovare, come si è visto nel corso di molti dei disastri climatici che hanno colpito un territorio negli ultimi tempi. Ma poi anche con misure di prevenzione: tutte – dalla generazione energetica da fonti rinnovabili e diffuse all’alimentazione e all’agricoltura di prossimità, dall’edilizia all’assetto del territorio, dalla mobilità condivisa al contenimento del turismo e dello sport-spettacolo – che potranno avere effetti positivi anche sulla mitigazione, cioè sulla riduzione del ricorso ai combustibili fossili che i governi – e chi li governa – non sanno accettare. E chi, di quelle popolazioni, potrà o si vedrà costretto a prendere l’iniziativa? Sicuramente le nuove generazioni: quelle solo l’altro ieri mobilitate per il clima e oggi per Gaza, ben consapevoli delle ragioni di fondo che le spingono a farlo. Guido Viale
Il Mediterraneo ferito: la Sardegna tra pace dichiarata e fabbriche di morte
Nell’altra sponda del Mediterraneo, ma molto più vicino a noi di quanto la distanza geografica possa indicare, prosegue sempre più efferato quello che è diventato ormai addirittura riduttivo chiamare genocidio e infanticidio, il vero nuovo Olocausto, sempre a guida occidentale: e, guarda caso, a distanza di un secolo, lo zoccolo duro del riconoscimento politico del genocidio e dello Stato palestinese sono di nuovo Italia e Germania. Tra le tante, tantissime vittime in tenera età di questi giorni vorrei citare tre bambini sotto i 5 anni, colpiti e smembrati dagli ordigni israeliani insieme a due loro familiari. La mamma e un’altra figlia sono ricoverate in gravi condizioni. Questo crimine non sarà conteggiato nelle statistiche del genocidio di Gaza, perché è avvenuto in Libano, in quanto Israele, unico Paese al mondo senza confini ben delineati, può colpire dovunque (un’ulteriore chiara dimostrazione di questo è stata appena fornita, in occasione dell’assalto alla Global Sumud Flotilla, avvenuto nella zona di passaggio tra le acque internazionali e quelle di…Gaza). Un’indagine delle riviste The Canary e The Lancet calcola che in realtà, solo nella Striscia, le vittime assassinate sotto i 5 anni sono 380.000! Su un totale di 680.000! (E ormai per ogni bambino colpito, quattro ne muoiono a causa della carestia!) Quasi un anno fa, il 24/10/2024, il Consiglio regionale della Sardegna ha votato una mozione per il riconoscimento dello Stato di Palestina e per l’immediato cessate il fuoco a Gaza e in Libano. Il passo successivo sarebbe dovuto essere l’organizzazione di una conferenza di Pace, per  dare voce alle organizzazioni e alle realtà locali delle popolazioni coinvolte. Il Consiglio Comunale di Cagliari nella seduta del 10 giugno di quest’anno ha approvato un ordine del giorno che ribadisce la ferma condanna per le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi e impegna l’Amministrazione Comunale a sospendere eventuali rapporti e accordi commerciali in essere con soggetti economici israeliani coinvolti nel genocidio. Sempre il Consiglio Comunale di Cagliari il 23/07/2025 ha accolto una mozione in cui il primo capoluogo della Sardegna viene dichiarato “città della pace e del dialogo nel Mediterraneo”, segnando una svolta nel posizionamento strategico della città, e dell’isola, rispetto allo scenario internazionale. Intento ribadito la sera del 26 settembre scorso quando gli amministratori della città hanno preso in consegna e esposto fuori dal municipio la bandiera palestinese offerta da una marea di manifestanti. Ed è proprio la pressione tenace e di una società civile isolana, con sempre meno barriere di appartenenza, ad aver portato, nel giro di pochissimo tempo, a questi fondamentali risultati. Nel corso di un anno sono state sempre più frequenti e partecipate le manifestazioni, dai presidi di fronte alle istituzioni ai cortei chiassosi e colorati. Fino all’attuale stato di agitazione permanente, con estesa partecipazione a scioperi e blocchi di attività indetti dalle sigle sindacali responsabili, che comporta l’immediata discesa in piazza, in qualsiasi momento, di migliaia di persone. Oggi questa comunità appassionata e progredita, sempre nel tentativo di recuperare le proprie istituzioni al pieno rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, in gravissimo pericolo, vuole  partire proprio dai traguardi raggiunti. E lo vuole fare chiedendo fermamente che sia l’Amministrazione regionale sarda che il Consiglio Comunale di Cagliari si dimostrino coerenti, e rompano qualsiasi contraddizione, bloccando l’aberrante commercio di ordigni di guerra a cui da tanti anni la nostra regione e la nostra città si prestano; e assumendo una presa di posizione netta e concreta sia riguardo alla presenza a poche decine di chilometri da Cagliari della fabbrica di morte tedesca RWM sia alla piaga aberrante delle servitù militari. A segnare con attiva concretezza questa esigenza, il 1° agosto di quest’anno si è svolta una fiaccolata davanti ai cancelli dello stabilimento RWM a Domusnovas, con letture, poesie, musica e momenti di riflessione. Successivamente, il 16 settembre, nel corso di un sit-in davanti al palazzo della Regione Autonoma della Sardegna, una delegazione ha consegnato al capo di gabinetto della Presidente Todde una scheda tecnica con le criticità sollevate contro il paventato illegale ampliamento della fabbrica. A distanza di un mese, il 17 ottobre, è prevista un’ulteriore manifestazione, alle 10, a Cagliari davanti al palazzo del Consiglio Regionale, onde richiamare le istituzioni regionali – la Presidente della Regione, la Giunta, il Presidente del Consiglio Regionale e l’intero Consiglio – al dovere di intervenire nei confronti della RWM/Italia, chiedendo la riconversione dell’impianto, e di procedere ad una progressiva dismissione delle basi militari e alla bonifica dei territori inquinati. Il fine dichiarato è quello di costruire un percorso condiviso affinché la riconversione diventi realtà, coinvolgendo istituzioni, sindacati, forze politiche e società civile. Si vuole dunque mettere le istituzioni che dipingono solennemente Cagliari “città della pace” e la Sardegna regione della pace” di fronte alle loro agghiaccianti, intollerabili contraddizioni e chiedere che esse vengano finalmente affrontate e sciolte! Perché, se dovesse permanere la vergognosa ferita morale e giuridica insita in queste ambiguità, continuerebbe a prevalere il messaggio istituzionale secondo cui quest’isola continuerà a inchinarsi di fronte a un potere distruttivo. Quel potere che persegue il metodo dell’eliminazione fisica di popoli “indesiderati”, la cui sola presenza ostacoli l’espansione economica-finanziaria e politica del sistema capitalistico-coloniale. E allora presto il ruolo di indesiderati potrebbe toccare anche a noi.  Il popolo palestinese è il simbolo delle minoranze e delle classi subalterne contro cui in tutte le società capitalistiche si accentua la repressione, Luigi Pintor, 1972 (cit. da Il Manifesto 2/10/2025)   Redazione Sardigna
Presidi e cortei in tutta Italia per la Freedom Flotilla e per Gaza. Le foto
Come la settimana scorsa dopo il brutale attacco israeliano alle barche della Global Sumud Flotilla e il rapimento degli equipaggi, anche oggi alla notizia che lo stesso copione criminale si era ripetuto con la Freedom Flotilla la mobilitazione è stata immediata. Di seguito una photogallery in aggiornamento con le foto dei diversi presidi scattate dagli attivisti. Cagliari Casale Monferrato Gorizia Milano   Napoli Novara Roma Varese Redazione Italia