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Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori. Ora deve agire di conseguenza
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex ha pubblicato un report che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen’s, e identifica chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre del 2024 Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy, tre minori egiziani, hanno comunicato al Collettivo di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di confine bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi da parte del collettivo di raggiungere i tre minori, che sono di conseguenza morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la nostra versione: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita.” Il report di Frontex rigetta anche la campagna di diffamazione che il Ministero dell’Interno ha messo in atto a seguito delle nostre accuse. Dopo che abbiamo pubblicato un report dettagliato degli eventi, la polizia di frontiera ha aumentato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine portato avanti da ONG, persone in movimento e dalle loro famiglie. Il report riconosce che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, dicendo che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Frontex, che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria. Il personale di Frontex è per legge sotto il controllo diretto dei propri collaboratori bulgari; l’affermazione dell’Ufficio per i Diritti Fondamentali che aumentare la presenza di Frontex diminuirebbe la violenza sul confine non ha perciò alcun senso. Persino l’Ufficio stesso riconosce che migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta e che il personale di Frontex “rischia” di essere complice – o meglio, è direttamente responsabile – di queste espulsioni. A partire da marzo 2025, personale di Frontex ha anche ripetutamente bloccato e seguito squadre di ricerca e soccorso per ore, impedendo loro di raggiungere migranti in situazioni di emergenza. Nonostante l’Ufficio affermi che il nostro lavoro di ricerca e soccorso è “autentico,” e denunci gli sforzi della polizia di frontiera per ostacolarci, il personale di Frontex ha partecipato direttamente e in più occasioni alla criminalizzazione delle squadre civili di ricerca e soccorso, utilizzando le stesse pratiche della polizia di frontiera. Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete. Se Frontex prende sul serio le sue stesse accuse, non potrà che cessare immediatamente ogni collaborazione e supporto alle autorità bulgare. Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente, ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere. Collettivo Rotte Balcaniche
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
Quattro anni di ingiustizia: libertà per Abdulrahman Al Khalidi
Da oltre 4 anni Abdulrahman Al Khalidi 1 è rinchiuso nel centro di detenzione di Busmantsi, a Sofia, in Bulgaria. Anni di privazione, isolamento e ingiustizia: il caso di detenzione amministrativa più lungo nella storia dell’Unione Europea, simbolo di un sistema che calpesta il diritto e la dignità umana. Insieme ad altre venti organizzazioni internazionali, abbiamo rinnovato la nostra richiesta: rilascio immediato di Abdulrahman e trasferimento in un paese terzo sicuro. Abdulrahman è un prigioniero politico saudita, un padre di due bambini – una dei quali gravemente malata – che non vede da troppo tempo. Vive in un limbo giudiziario senza fine, minacciato ogni giorno dal rischio di deportazione verso l’Arabia Saudita, dove lo attende la pena di morte. Ma in questi anni, anche dietro le sbarre, Abdulrahman ha trasformato la sua prigionia in una lotta collettiva per la libertà di tutte e tutti. La sua voce, che resiste al silenzio, parla anche per noi. Non lo lasceremo solo. Di seguito, pubblichiamo il testo integrale dell’appello, tradotto in italiano, sottoscritto da oltre venti organizzazioni internazionali per chiedere giustizia e libertà per Abdulrahman Al Khalidi. APPELLO CONGIUNTO PER LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI UN DIFENSORE DEI DIRITTI UMANI SAUDITA DETENUTO IN BULGARIA DA OLTRE QUATTRO ANNI Noi, le organizzazioni della società civile firmatarie, siamo profondamente preoccupate per l’imminente minaccia di espulsione dalla Bulgaria verso l’Arabia Saudita che grava sul difensore dei diritti umani saudita Abdulrahman AlBakr al-Khalidi, dopo oltre quattro anni di detenzione, dove correrebbe un rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani a causa del suo attivismo pacifico. Esortiamo le autorità bulgare a sospendere immediatamente l’espulsione di al-Khalidi in conformità con i loro obblighi giuridici ai sensi del diritto internazionale, europeo e nazionale, a rilasciarlo dalla detenzione e a concedergli protezione internazionale attraverso un processo di asilo equo e imparziale. Al-Khalidi è intrappolato in un lungo processo di asilo in Bulgaria dal novembre 2021 e dal 2024 è soggetto a un ordine di espulsione. Il 15 luglio 2025 la Corte amministrativa suprema bulgara ha respinto il ricorso di al-Khalidi contro il suo ordine di detenzione, mettendolo in imminente pericolo. Al-Khalidi ha iniziato la sua attività pacifica durante la Primavera araba del 2011, aderendo all’Associazione saudita per i diritti civili e politici (ACPRA) e partecipando a proteste in favore delle riforme. A seguito di un’ondata di arresti di altri attivisti nel 2013, e dopo essere stato convocato per un interrogatorio, è fuggito dall’Arabia Saudita e ha continuato la sua attività di advocacy in esilio. In seguito ha aderito al progetto “Electronic Bees Army” del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, volto a contrastare la disinformazione di Stato. Nel 2021, di fronte alle crescenti minacce in Turchia, al-Khalidi ha deciso di chiedere asilo nell’Unione Europea. Tuttavia, è stato arrestato all’arrivo in Bulgaria poco dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro il 23 ottobre 2021. Da allora ha trascorso oltre quattro anni in detenzione – che secondo i dati pubblici della Corte europea dei diritti dell’uomo è uno dei periodi più lunghi per qualsiasi richiedente asilo in Europa – la maggior parte dei quali in condizioni dure e degradanti nel centro di detenzione di Busmantsi a Sofia. Il 26 settembre 2025, la Direzione per l’immigrazione ha deciso di prorogare la detenzione di al-Khalidi per altri sei mesi. Il 16 novembre 2021 al-Khalidi ha presentato domanda di asilo in Bulgaria, citando il rischio di gravi violazioni dei diritti umani in caso di ritorno in Arabia Saudita. Tuttavia, l’Agenzia statale bulgara per i rifugiati ha respinto la sua domanda, sostenendo che l’Arabia Saudita avesse “adottato misure per democratizzare la società”. Il suo ricorso è ancora in corso. Nonostante diverse sentenze a suo favore, comprese sentenze definitive che ne ordinavano il rilascio, le autorità bulgare le hanno ignorate o aggirate. Nel febbraio 2024 l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha emesso un ordine di espulsione nei confronti di al-Khalidi, definendolo, senza prove, una “minaccia alla sicurezza nazionale”. Questo ordine, successivamente confermato dal Tribunale amministrativo di Sofia, viola il principio internazionale di non respingimento, poiché esiste un rischio ben documentato che, se rimpatriato in Arabia Saudita, al-Khalidi subirebbe torture, un processo iniquo e forse la pena di morte. Durante la detenzione, al-Khalidi avrebbe subito ripetuti maltrattamenti, tra cui pressioni psicologiche e abusi fisici. Nel marzo 2024 il difensore dei diritti umani ha riferito di essere stato brutalmente picchiato da agenti di polizia. Ha tentato il suicidio, ha intrapreso uno sciopero della fame durato più di 100 giorni e gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico complesso (C-PTSD). Nonostante le preoccupazioni sollevate dai tribunali bulgari, dagli esperti delle Nazioni Unite, dalle ONG e dai membri del Parlamento europeo, le autorità bulgare continuano a detenerlo illegalmente e a minacciarlo di espulsione. Uno studio sulla repressione transnazionale dei difensori dei diritti umani 2, pubblicato il 12 giugno 2025 dalla sottocommissione per i diritti umani (DROI) del Parlamento europeo, ha evidenziato il caso di al-Khalidi come esempio chiave della tattica della detenzione utilizzata nella repressione fisica transnazionale. L’espulsione di al-Khalidi verso l’Arabia Saudita costituirebbe una grave violazione degli impegni assunti dalla Bulgaria ai sensi del diritto internazionale, dell’Unione europea (UE) e del diritto interno, compresa la sua stessa costituzione, che stabilisce che la Bulgaria deve concedere asilo agli stranieri perseguitati per le loro opinioni e attività in difesa dei diritti e delle libertà riconosciuti a livello internazionale. NOI, LE ORGANIZZAZIONI FIRMATARIE, CHIEDIAMO QUINDI ALLE AUTORITÀ BULGARE DI: 1. rilasciare immediatamente e incondizionatamente Abdulrahman al-Khalidi in conformità con le sentenze emesse dai tribunali bulgari; 2. garantire che non sarà espulso in Arabia Saudita o in qualsiasi altro paese in cui rischia di essere respinto; 3. facilitare il suo reinsediamento in un paese terzo sicuro, in coordinamento con i partner internazionali; 4. avviare un’indagine indipendente sui maltrattamenti subiti durante la detenzione, compreso il pestaggio del marzo 2024, e assicurare i responsabili alla giustizia; e 5. garantire che il sistema di asilo bulgaro sia conforme agli standard dell’UE e internazionali in materia di diritti umani, prevenendo future violazioni di questo tipo. PER QUANTO RIGUARDA L’UNIONE EUROPEA (UE), CHIEDIAMO: 1. alla Commissione europea di valutare la sospensione o la riprogrammazione di qualsiasi sostegno europeo legato ai centri di detenzione pre-espulsione in Bulgaria fino a quando non sarà garantita la piena conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 2. alla Commissione europea di condurre una revisione di qualsiasi possibile sostegno della Commissione europea legato al centro di detenzione di Busmantsi per valutarne la conformità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CFR); 3. al Parlamento europeo (commissioni LIBE/DROI) di tenere una sessione urgente e organizzare una missione di accertamento dei fatti presso il centro di detenzione di Busmantsi; e 4. al Consiglio (gruppo FREMP) di includere questo caso nell’ordine del giorno; Qui le organizzazioni firmatarie Comunicati stampa e appelli PETIZIONE PER ABDULRAHMAN AL-KHALIDI RINCHIUSO NEL CENTRO DI DETENZIONE DI BUSMANTSI (SOFIA) Firma e condividi l'appello per il riconoscimento della protezione internazionale al giornalista e attivista 24 Maggio 2025 1. La pagina autore su Melting Pot ↩︎ 2. Transnational repression of human rights defenders: The impacts on civic space and the responsibility of host states ↩︎
Il destino sospeso dei rifugiati siriani dopo la caduta di Assad
Il report pubblicato dall’Agenzia Europea dell’Asilo (EUAA) 1 riporta nella prima metà del 2025 un calo del 23% delle richieste di protezione internazionale in Unione Europea. A detta dell’EUAA, questo calo sarebbe dovuto in gran parte alla diminuzione di arrivi dalla Siria. 8 dicembre 2024. Dopo tredici anni di guerra civile l’opposizione siriana, guidata dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham, conquista Aleppo, Homs, Hama e Damasco, rovesciando il regime di Bashar al-Assad, al potere dal 2000 e ora in esilio in Russia. Finisce così, in soli dieci giorni, una tra le guerre più lunghe e sanguinose degli ultimi anni, che ha causato più di 230mila morti tra i civili, 7 milioni di sfollati interni e 6.5 milioni di rifugiati – e di riflesso una fortissima crisi sociale e politica del sistema d’asilo europeo. Quelli che seguono sono momenti di euforia collettiva: ad Aleppo e Damasco, ma anche nelle capitali europee (solo Germania e Svezia ospitano quasi un milione di cittadini siriani) e nel mondo, tra i quasi cinque milioni di rifugiati siriani in Turchia, Libano e Giordania. Sin da subito si iniziano a registrare flussi di ritorno verso la Siria, in particolare dai Paesi confinanti. In soli sei mesi, 200mila tornano dal Libano 2, e quasi 500mila dalla Turchia 3 – anche se si ritiene che i numeri siano più alti, non potendo conteggiare chi fa ritorno in patria al di fuori delle operazioni UNHCR. Nei primi giorni, l’UNHCR riporta di alcune situazioni confuse 4: i valichi di frontiera ufficiali nel nord del Libano erano chiusi, ma c’era già chi tornava scegliendo vie alternative; allo stesso tempo, migliaia di persone facevano il viaggio al contrario, fuggendo dalla Siria. Molti dei rifugiati siriani in Libano e Turchia vivono in condizioni piuttosto precarie: la gravissima crisi economica in cui il Libano versa dal 2019 e gli attacchi di Israele negli ultimi due anni non hanno fatto altro che acuire i sentimenti xenofobi 5 contro i 1.5 milioni di siriani nel Paese (che, con una popolazione di 5.3 milioni, è il Paese con la più alta percentuale di rifugiati al mondo). Il Libano ospita anche 250mila rifugiati palestinesi, concentrati nel Sud del Paese, e anche per questo motivo il Governo libanese non ha mai acconsentito a costruire campi ufficiali per i rifugiati siriani 6, e la maggior parte è stata costretta a stabilirsi in accampamenti informali senza i servizi essenziali. Le cure mediche sono garantite principalmente dall’UNHCR, che però ha già annunciato che a novembre 2025 sospenderà il programma 7 per mancanza di fondi. Dal 2015 è stato anche impedito all’UNHCR di registrare i rifugiati giunti nel Paese, rendendo più difficile l’identificazione delle persone vulnerabili e dei richiedenti asilo. In Turchia, i siriani non sono considerati rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra, e dall’inizio della guerra 3 milioni di persone hanno ottenuto solo un permesso temporaneo – per una guerra durata tredici anni. L’Unione Europea, tramite il FRIT (Facility for Refugees in Turkey), finanzia la Turchia per garantire i servizi di base ai rifugiati nel Paese, ma le politiche del governo turco, il terremoto nel 2023, e l’insufficienza dei fondi hanno spesso reso il FRIT inefficace. Nonostante ciò, e nonostante la caduta del regime, la scelta di tornare non è facile: l’euforia dei primi giorni viene sostituita da una cauta speranza prima e nuovi timori poi. HTS era considerato sin dal 2015, in base alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 2254, un gruppo terroristico. Dal 2017 era allineato al Syrian Salvation Government, che governava la zona di Idlib, nel nord della Siria, in opposizione al regime di Assad. Dal 2021 è la fazione militare più potente tra i gruppi di opposizione. Nel dicembre 2024 sia il governo di Assad che il SSG sono stati sostituiti dal Governo di transizione siriano, e nel gennaio 2025 il gruppo HTS è stato ufficialmente dissolto, per entrare a far parte delle istituzioni statali. Il 7 luglio 2025 gli Stati Uniti hanno revocato la designazione di organizzazione terroristica. Le comunicazioni durante i primi giorni di governo transitorio sono state rassicuranti: il portavoce ha assicurato che tutte le religioni saranno libere nella nuova Siria, a inizio 2025 è stata approvata una nuova costituzione, transitoria, e nel nuovo governo insediatosi a marzo sono rappresentate quattro minoranze etniche e religiose (un alawita, un druso, una donna cristiana, e un curdo). Sono stati fatti importanti passi avanti: a dicembre 2024 l’aeroporto di Damasco ha riaperto i voli internazionali, e le sanzioni imposte al governo di Assad e ai membri di HTS sono state progressivamente allentate e sollevate. A marzo 2025 rappresentanti del governo siriano hanno per la prima volta preso parte alla Conferenza per il supporto al futuro della Siria 8, insieme ai capi di Stato dell’UE. Sulla linea suggerita da diversi gruppi che monitorano lo stato di diritto in Siria – quali Human Rights Watch e il Syria Justice and Accountability Centre – i leader dell’Unione Europea hanno confermato la propria collaborazione nella ricerca delle 150mila persone scomparse nelle prigioni di Assad, e nella ricostruzione del Paese. A settembre 2025, sono 1.2 milioni i siriani rientrati a casa, una cifra che secondo l’UNHCR potrebbe raggiungere i 2 milioni entro fine anno; il 93% degli sfollati interni intende rientrare nel proprio luogo d’origine e ventritrè distretti potrebbero vedere la propria popolazione raddoppiare. Tuttavia, la tensione è ancora alta. A dicembre Israele ha sferrato diversi attacchi nel sud e sulla costa, la Turchia ha bombardato Kobani, a nord, e si sono registrati episodi di violente vendette private. Infatti, dopo l’apertura delle prigioni del regime, tra cui Sednaya – tristemente nota tra i siriani come “macelleria umana”, dove decine di migliaia di oppositori politici sono stati uccisi e torturati – manca ancora un processo ufficiale per individuare i responsabili. Il 6 marzo un gruppo di fedeli di Assad ha organizzato un attacco a Latakia, sulla costa, e come rappresaglia le forze governative uccidono più di 1400 alawiti 9 (etnia di appartenenza della famiglia Assad e quella maggiormente rappresentata nell’esercito prima del 2024). A giugno, 22 persone sono uccise in un attacco in una Chiesa di Damasco, e ci sono stati episodi di intimidazione contro la minoranza cristiana. A luglio, degli scontri tra drusi e beduini a Suwayda, nel sud, sono degenerati dopo l’intervento dell’esercito siriano e di Israele, e da allora la città è sotto assedio. L’annuncio del meccanismo scelto per le elezioni parlamentari 10 conferma una difficile convivenza tra i vari gruppi etnici: il Presidente – Ahmet al-Sharaa, leader di fatto di HTS – nominerà direttamente 1/3 del Parlamento, nonché il Comitato Elettorale che poi eleggerà i restanti 2/3. Infine, secondo IOM 11 l’ostacolo più grande ad un rientro sicuro e dignitoso per i cittadini siriani è la drammatica situazione economica del Paese. Il 90% della popolazione dipende da aiuti umanitari, le infrastrutture (compresa la rete elettrica, idrica, i servizi sanitari, e le possibilità di documentare e reclamare i propri diritti) sono insufficienti e un flusso così importante di rientri, contemporaneo ad un profondo taglio dei fondi dell’UNHCR a causa degli USA, potrebbe causare una nuova crisi umanitaria. La ripresa del settore agricolo e dei mercati è lenta, e così la costruzione di nuove abitazioni e le operazioni di rimozione di ordigni esplosivi in aree abitate da civili (si stima che 2/3 della popolazione siano a rischio di essere colpiti da esplosivi, e 8 campi su 10 sono contaminati). Nella prima metà del 2025 solo 13mila siriani hanno richiesto protezione internazionale in Europa – un sesto rispetto agli 85mila nello stesso periodo dell’anno precedente. Anche qui i siriani si stanno interrogando sulla possibilità di fare ritorno (anche se in misura minore, solo il 20% secondo l’UNHCR 12 ). Questo sta avendo profondi risvolti anche sul sistema d’asilo europeo. Senza siriani, la Germania non è più il primo Paese di destinazione, e da dicembre le autorità di diversi Paesi europei hanno sospeso l’analisi delle richieste asilo dei cittadini siriani. Si è creato così un limbo giuridico: nei Paesi che non hanno sospeso l’esame delle domande, il tasso di riconoscimento è crollato dal 90% al 17% tra gennaio e giugno 2025; in Germania 40mila richiedenti sono stati colpiti dalla decisione, insieme ai 669mila siriani che hanno un permesso di residenza temporaneo, da rinnovare regolarmente (ogni tre anni per chi ha ricevuto protezione internazionale, e annualmente per chi è tutelato dal rimpatrio); incidentalmente, già a dicembre gli ospedali avvisavano che senza i medici siriani il sistema sanitario tedesco sarebbe crollato 13. La Svezia ha sospeso i procedimenti il 9 dicembre, rinnovando questa decisione l’11 giugno; la sospensione è stata revocata l’11 settembre. A giugno infatti l’EUAA ha pubblicato una guida aggiornata sulla situazione nel Paese, evidenziando il delinearsi di nuovi agenti di protezione e di persecuzione, e il peggioramento della situazione per alcune minoranze (cristiani, alawiti, drusi, altri gruppi dell’opposizione, sostenitori di Assad o coloro ritenuti tali). L’UNHCR ha inizialmente ritenuto questa sospensione accettabile, purché fosse garantito che anche i cittadini siriani potessero accedere le procedure d’asilo, ricevendo gli stessi diritti e lo stesso supporto degli altri richiedenti asilo. In particolare, l’UNHCR aveva sottolineato quanto fosse essenziale che nessuno venisse forzosamente rimpatriato 14 in osservanza del principio di non-refoulement. Quelle dell’UNHCR sono state però raccomandazioni vuote. In base alle ricerche dell’European Council on Refugees and Exiles (ECRE) 15, nonostante le autorità turche descrivano tutti i ritorni come “volontari, sicuri, dignitosi e regolari”, molti dubitano di ciò, considerando anche che solo nel 2024 la Turchia aveva deportato 141mila persone in una zona del nord della Siria ritenuta “sicura” dalle autorità. Approfondimenti/Reportage e inchieste I CENTRI DI RIMPATRIO FINANZIATI DALL’UNIONE EUROPEA IN TURCHIA L’inchiesta di Lighthouse Reports: abusi, violenze e deportazioni forzate Rossella Ferrara 26 Marzo 2025 Preoccupazioni simili si hanno in Libano, dove tutti i partiti politici ritengono che i siriani devono tornare in patria “con urgenza” 16; alcuni hanno addirittura chiesto di facilitare la loro partenza via mare verso l’Europa. Ma i rimpatri forzati partono anche dall’Europa. In Bulgaria, nel campo di Harmanli, sin dal 13 dicembre i richiedenti siriani sono stati sottoposti a lunghi interrogatori, e alcuni costretti a formare documenti attestanti la propria volontà di fare ritorno in patria. In base alle indagini di No Name Kitchen (NNK) 17, simili notizie arrivano dalla Serbia, mentre le autorità austriache stanno preparando un piano di rimpatrio di massa e in Olanda la polizia di frontiera ha in alcune occasioni minacciato i richiedenti siriani di deportazione. Interrogatori nel campo di Harmanli, Bulgaria (No Name Kitchen) La chiara volontà di limitare il più possibile l’accesso all’asilo per i siriani, e la stanchezza dell’Europa nei confronti della situazione in Siria è lampante se si pensa che anche prima della caduta del regime diversi Paesi europei – tra cui l’Italia – avevano proposto di normalizzare le relazioni con Assad per facilitare il ritorno dei cittadini siriani, adducendo che alcune zone della Siria potessero dirsi sicure. Nel 2024, 4100 siriani hanno preso parte al programma di “rimpatri volontari” organizzato da Cipro, che Ursula von der Leyen ha definito “il campione europeo dei rimpatri” 18; le autorità cipriote avevano sospeso l’analisi delle richieste d’asilo dei siriani durante la primavera, dopo un’impennata nel numero di arrivi, e li avevano trattenuti nella buffer zone tra Cipro e la zona occupata dalla Turchia. La stessa Commissione europea ad agosto 2024 aveva implementato misure economiche per permettere ritorni “sicuri, volontari e dignitosi”. Le immagini e i racconti giunti dalle prigioni del regime dopo l’8 dicembre hanno dimostrato quanto l’Unione Europea è disposta a compromettersi pur di rimpatriare più richiedenti asilo possibile. La storia dei siriani riflette una triste immagine del sistema d’asilo europeo. Durante la crisi del 2015, sono stati accolti e il loro status di rifugiati riconosciuto, ma solo dopo essere fuggiti dalla Siria, essere sopravvissuti al mare, ai Balcani, e alle infinite frontiere europee. Ma per loro l’Unione Europea ha sperimentato per la prima – e unica – volta il meccanismo della ricollocazione, per una redistribuzione più equa tra gli Stati Membri. È stata l’immagine di un bambino siriano, Alayn Kurdi, che ha scosso il mondo. Erano i siriani che hanno partecipato alla “freedom march” da Budapest alla Germania, portando alla sospensione del sistema Dublino. Ma è sulle loro spalle che è crollato il sistema europeo, e su di loro sono state sperimentate le politiche europee più dure, come quelle di esternalizzazione e gli hotspot. La “marcia della libertà” sulle autostrade ungheresi, 2015 PH: MP Nel 2025, il futuro della Siria è incerto. Per ora, rimpatri forzati non sarebbero sicuri né rispettosi della dignità umana: le violazioni dei diritti fondamentali non sono cessate, e l’infrastruttura del Paese non è pronta per un afflusso massiccio di rientri. La somma che diversi Paesi europei hanno offerto ai siriani per fare ritorno a casa (1700 € a famiglia in Germania, 900 € a testa in Olanda) non possono risolvere i profondi problemi strutturali che cinquant’anni di dittatura e quattordici di guerra civile hanno causato al tessuto sociale del Paese. Secondo il Syria Justice and Accountability Centre, per partecipare ad una ricostruzione sostenibile e duratura in Siria, l’Unione Europea dovrebbe astenersi dall’incoraggiare rimpatri di massa e dal definire aree del Paese come sicure; permettere ai siriani di fare ritorno senza perdere il proprio status protetto, per controllare le condizioni delle proprie abitazioni e ricucire i rapporti con la propria comunità; incoraggiare la formazione di un nuovo sistema giudiziario; e partecipare alla ricostruzione – fisica e sociale – del Paese. 1. Latest Asylum Trends. Mid-Year Review 2025 (September 2025) – European Union Agency for Asylum (EUAA) ↩︎ 2. UN says over 200,000 Syrian refugees return from Lebanon, Arab News (2 settembre 2025) ↩︎ 3. More Syrians return home from Turkey, Infomigrants (15 agosto 2025) ↩︎ 4. Syria: UNHCR comment on asylum processing suspension and returns (dicembre 2024) ↩︎ 5. Lebanon’s shift from safe haven to hostile country for Syrian refugees, BBC (27 maggio 2024) ↩︎ 6. Syrian refugees in Lebanon: the search for universal health coverage, National Center for Biotechnology ↩︎ 7. UNHCR announces end of healthcare support for Syrian refugees in Lebanon, L’Orient Today (maggio 2025) ↩︎ 8. 2025 Brussels IX Conference on ‘Supporting the future of Syria and the region’, European Council ↩︎ 9. Violations against civilians in the coastal and western- central regions of the Syrian Arab Republic (January-March 2025), Human Rights Council (agosto 2025) ↩︎ 10. Joint Position Paper Regarding the Temporary Electoral System for the Syrian Parliament, Syria Justice and Accountability Centre (settembre 2025) ↩︎ 11. New Report: Challenging Economy and Unemployment Main Obstacles for Syria Returnees, IOM (maggio 2025) ↩︎ 12. Intentions and perspectives of Syrian refugees and asylum-seekers in Europe, UNHCR (maggio 2025) ↩︎ 13. German health system would struggle without Syrian doctors, InfoMigrants (dicembre 2024) ↩︎ 14. Syria: UNHCR comment on asylum processing suspension and returns, UNHCR (dicembre 2024) ↩︎ 15. Report sulla Turchia, Luglio 2025 ↩︎ 16. Syrian Refugees in Lebanon: Crisis of Return, Lebanese Center for Policy Studies (LCPS) ↩︎ 17. EU States crack down on Asylum Seekers after al-Assad’s fall, NNK (dicembre 2024) ↩︎ 18. More than 1,000 Syrian children have left Cyprus this year, Cyprus Mail (29 agosto 2025) ↩︎
Bulgaria. Detenzione senza fine: 47 mesi a Busmantsi
Prima che Sofia si svegli, noi rifugiati nel campo di detenzione di Busmantsi ci svegliamo al rumore delle chiavi e al tonfo degli stivali della polizia sul pavimento di cemento, accompagnati da risate fugaci durante i cambi di turno. I nomi vengono chiamati con freddezza, ci alziamo dai letti di ferro infestati da insetti che si nutrono di noi, proprio come la nostra pazienza si nutre di speranza, poi le porte vengono sigillate ancora una volta. Sofia Busmantsi Detention Centre. PH: Global Detention Project Sono Abdulrahman Al-Bakr (Al-Khalidi), giornalista e difensore dei diritti umani dell’Arabia Saudita. Non ho commesso alcun crimine, eppure vivo dietro porte chiuse qui dall’ottobre 2021, quarantasette mesi, quasi quattro anni, affrontando sempre la stessa scena. Quello che sta accadendo non è una storia lontana dall’Europa. In questi campi, uomini, donne e bambini sono detenuti in uno stato liminale senza processo, o nonostante le sentenze dei tribunali che vengono ignorate; senza un orizzonte temporale e con la speranza che svanisce. La detenzione a tempo indeterminato non è protezione delle frontiere; è la silenziosa erosione dell’idea di giustizia, una violazione dei diritti umani e un indebolimento dei principi per cui sono stati creati i sistemi giuridici. Il diritto internazionale è chiaro: garantisce ai rifugiati il diritto di chiedere asilo e vieta la detenzione arbitraria di chiunque. La Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione sui rifugiati affermano questa protezione. Eppure qui, persone spaventate, plasmate dai loro regimi autoritari originari, vengono trattate come terroristi e criminali, costrette a una detenzione a tempo indeterminato e a una speranza che va scemando. Non riesco a trovare una descrizione più accurata per Busmantsi che “campo di detenzione”: un territorio al di fuori della giurisdizione del diritto bulgaro e internazionale, dove il potere esecutivo invade quello giudiziario semplicemente perché siamo rifugiati stranieri, trasformando l’identità e l’origine in un “reato” in Bulgaria e in Europa. Nel corso di 47 mesi, e nonostante due sentenze definitive e inappellabili del Tribunale amministrativo di Sofia – il 18 gennaio 2024 e il 26 marzo 2025 – che ordinavano il mio immediato rilascio, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) ha emesso delle “contro-decisioni” per annullare le sentenze o aggirarle. Notizie QUANDO LA “SICUREZZA” DIVENTA ABUSO Gli aggiornamenti sulla vicenda di Abdulrahman Al-Khalidi Abdulrahman Al-Khalidi 4 Agosto 2025 Ho presentato ricorso e ho vinto tre volte le cause di asilo davanti alla Corte amministrativa suprema, una delle quali ha condannato l’ingerenza della DANS nel mio fascicolo e ha invalidato le loro decisioni di rigetto. I tribunali continuano a confermare gravi violazioni nel mio caso. Eppure io rimango qui, perché un percorso parallelo per il potere esecutivo attraverso decisioni amministrative impedisce l’applicazione giudiziaria. Gli amici mi chiedono: cosa significano le “contro-decisioni”? In realtà, la DANS, erede diretta degli apparati di sicurezza segreti dell’era comunista (DS), ha sostituito l’astratto “nemico del popolo” con la frase “minaccia alla sicurezza nazionale”. Inoltre, le rigide regole del centro si scontrano assurdamente con l’innocenza al 100% dei suoi abitanti, facendo svanire l’equilibrio della giustizia e l’uguaglianza davanti alla legge. Il DANS appare “al di là del controllo giudiziario”, trattando le sentenze definitive come “linee guida non vincolanti”. Una persona può essere detenuta amministrativamente per 46 mesi con accuse per le quali un cittadino non sarebbe trattenuto nemmeno per 24 ore. Come ogni detenzione, la detenzione a tempo indeterminato priva le persone della libertà in condizioni difficili, ma in questo caso ci priva anche di qualsiasi possibilità di ottenerla. L’impatto psicologico è devastante: ansia, depressione e traumi che si accumulano giorno dopo giorno. E io non sono un caso eccezionale al di fuori del diritto europeo e internazionale dei diritti umani; ci sono altri casi, come quello di Nidal Hassan di Gaza, che è stato espulso immediatamente dopo una sentenza che ne ordinava il rilascio, e anche quello di M.N., in cui sono state utilizzate procedure volte a eludere la legge e a modificare lo status di detenzione per garantirne la continuazione. A questo punto, i “casi individuali” non sono più una spiegazione ragionevole, ma un modello istituzionale che richiede di essere esaminato. Tutto ciò solleva una questione sulla giustizia delle misure coercitive e sui loro costi etici e sociali. La giustizia spesso contraddice la legge; a volte appartengono a mondi paralleli. Ciò è evidente nei campi di detenzione. Questa vasta disparità nel trattare le persone in base alla loro identità mi riporta alla storia dell’Europa gravata da crisi di “sé e dell’altro” – dai campi per ebrei e rom ai campi per gli stessi europei dopo la “La Retirada” spagnola. Oggi non fa eccezione: le necessità della vita e i principi umani, come la libertà, sono oggetto di dibattito solo nel nostro caso come rifugiati. C’è una somiglianza dinamica tra il destino dei rom il 2 agosto 1944 e il nostro destino oggi; in entrambi i casi vengono promulgate leggi discriminatorie, le leggi internazionali e i principi di giustizia vengono calpestati nel modo più duro e informale, e le leggi vengono ignorate con un atteggiamento arrogante: “Violeremo tutte le leggi e vedremo chi ci fermerà”. È un crimine che deriva dal razzismo e dalla disumanizzazione, e assistiamo al silenzio scioccante di politici, diplomatici e intellettuali in risposta. E anche se gli amici cercano di darmi “dosi di speranza”, vedo un filo sottile, affilato come una spada, come una corda tesa sopra le porte dell’inferno, che separa l’incredulità nella speranza dalla resa alla realtà. La mia incredulità nella speranza non contraddice la mia fede assoluta nella libertà. Come dice Cioran: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo”. Non è necessario leggere “Il conte di Montecristo” per entrare nella mente di qualcuno che non solo è stato accusato ingiustamente, ma anche punito con estrema crudeltà. Ricordo con i miei amici la mia ‘sfortuna’: la mia fuga dall’Arabia Saudita alla Bulgaria è stata ironica e sfortunata come la “fuga” dell’abate Faria dalla sua cella, solo per finire – in una tragica ironia – in un’altra cella con Edmond Dantès nel Château d’If. È stata una fuga da uno Stato senza legge a un altro Stato senza legge, un’ironia che mi fa sorridere amaramente, ma che riflette una realtà che mi mette in contrasto con il concetto di speranza. Sia la prigione saudita che quella bulgara uccidono lo spirito, ma qui sento un tradimento ancora più grande, poiché la mia libertà mi viene confiscata definitivamente in nome dell’Unione Europea, in netto contrasto con i suoi principi. Cosa si prova a distaccarsi dalla speranza? È ciò che gli psicologi chiamano “dissociazione”: una separazione dalle emozioni e l’incapacità di provarle insieme: nessun dolore mescolato alla gioia, nessuna disperazione mescolata alla speranza; un’emozione pura senza diluizione. E tu, mio lettore, sei testimone, come Dio e le persone sono testimoni: sono triste, un dolore puro e profondo, impotente senza forza. Un dolore che nessuna lingua può domare o abitare; perché la lingua abita il dolore come una madre che consola il proprio figlio. Se la nostra vita è una “Divina Commedia”, allora l’inferno è alle mie spalle, il paradiso davanti a me, e io cammino nel “Purgatorio”, il cui tormento e l’attesa della sua fine possono essere più duri dell’inferno stesso. Eppure questo dolore non mi impedisce di andare avanti. I casi dei rifugiati nei campi di detenzione bulgari saranno un giorno studiati nelle facoltà di giurisprudenza come esempio di quante leggi e accordi possano essere violati in un unico fascicolo. E sono certo, come dice Omar El Akkad, che «un giorno saremo tutti contro tutto questo». Ma rimane l’amara domanda: perché siamo stati in grado di provare empatia per il passato, ma non siamo in grado di farlo ora, in un momento in cui questa compassione potrebbe salvare delle vite? Ripetiamo “Non succederà più” riguardo ai crimini di ieri, ma non riusciamo a dire lo stesso di fronte ai crimini di oggi. Siamo stati puniti nei nostri paesi per aver insistito sulla giustizia, e ci aggrapperemo ostinatamente ad essa nonostante la nostra realtà. Nel nostro caso, ci impegniamo a chiedere la fine della detenzione amministrativa aperta, un vero controllo giudiziario sui materiali segreti e garanzie che non saremo rimandati in luoghi dove temiamo la tortura o l’arresto arbitrario. I nostri problemi non sono una questione di sicurezza, ma di sottoporre un fascicolo complesso al massimo grado di trasparenza e responsabilità giudiziaria. Ciò è nell’interesse della Bulgaria, poiché limita i vecchi sospetti sulla mancata applicazione delle sentenze dei tribunali o sull’espansione delle agenzie di sicurezza nell’uso di fascicoli segreti non soggetti a un controllo efficace, come nell’era precedente. E nonostante l’assenza di speranza, continuo a lottare e a fare tutto il possibile per perseguire la libertà, ed è questa l’essenza della mia incredulità nella speranza: aggrapparmi alla libertà nonostante la mancanza di speranza. O rifugiati e sostenitori dei rifugiati, resistiamo per la giustizia, lecchiamoci le nostre ferite e andiamo avanti. Condividiamo il nostro pane e ridiamo, mentre il pane ride nelle nostre mani. Non abbiamo lobby o miliardari, ma abbiamo l’un l’altro, e questo è sufficiente per muovere la storia. Alla fine, il mio carceriere non è solo il mio più grande nemico, ma quella “speranza” che continua a bussare alla mia testa affinché io non muoia e non mi apre alcuna porta se non quelle della pazienza.
Quando la “sicurezza” diventa abuso
Il caso di Abdulrahman Al-Khalidi, giornalista saudita rifugiato in Bulgaria e collaboratore di Melting Pot, rappresenta un grave campanello d’allarme sullo stato di diritto e sull’uso arbitrario della detenzione amministrativa in Europa. Nonostante una lunga serie di sentenze favorevoli emesse dalla Corte Suprema Amministrativa bulgara, che hanno riconosciuto l’illegalità di molti atti compiuti nei suoi confronti, Al-Khalidi resta da quasi quattro anni in stato di detenzione, vittima di un accanimento burocratico che intreccia motivazioni politiche, abusi istituzionali e gravi violazioni dei diritti umani. La sua testimonianza, denuncia un sistema che fa leva sul concetto vago e spesso abusato di “sicurezza nazionale” per ignorare decisioni giudiziarie definitive e impedire il riconoscimento dello status di rifugiato, in aperto contrasto con le normative europee. In queste righe, Al-Khalidi ricostruisce con lucidità e dolore la vicenda kafkiana che sta vivendo, offrendo uno spaccato inquietante di quanto possa diventare fragile la tutela dei diritti fondamentali quando le istituzioni si pongono al di sopra della legge. Il 15 luglio 2025, la Corte Suprema Amministrativa ha emesso una sentenza che respingeva il mio ricorso contro la decisione dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale di dare esecuzione al provvedimento di espulsione nonostante le procedure di asilo, confermando la sentenza del tribunale di primo grado esclusivamente nella forma scritta e nella formulazione. Tale sentenza ha legittimato la mia detenzione presso il Dipartimento dell’Immigrazione ai fini dell’espulsione, nonostante le procedure di asilo in corso. La sentenza, di sole due pagine e mezzo, ha completamente ignorato la difesa orale presentata durante l’udienza, la difesa scritta, qualsiasi considerazione delle affermazioni e delle accuse formulate dall’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) o la questione fondamentale della presunta minaccia. Ha inoltre sancito l’espulsione e la detenzione dei richiedenti asilo prima del completamento delle procedure, senza fare riferimento ad alcuna normativa europea pertinente o ai precedenti, come invece fa di solito la Corte amministrativa suprema. Tuttavia, vi sono fatti emersi da precedenti sentenze che nessuno ha menzionato e che devono essere evidenziati in questo contesto: Dal novembre 2021 sono detenuto in un centro di detenzione chiuso sotto la giurisdizione dell’Agenzia statale per i rifugiati (SAR) a causa della mia classificazione da parte dell’Agenzia statale per la sicurezza nazionale (DANS) come “minaccia alla sicurezza nazionale bulgara”. Secondo la sentenza del tribunale del 26 marzo 2025 e le precedenti decisioni della Corte amministrativa suprema, i tribunali hanno osservato che l’amministrazione che si occupava del mio caso presso la DANS ha inviato una lettera alla SAR in cui affermava che la mia classificazione come “minaccia alla sicurezza nazionale” era stata revocata e che mi poteva essere concesso l’asilo se avessi soddisfatto i criteri di asilo. Tuttavia, prima dell’emissione della decisione iniziale di rigetto dell’asilo, un’altra direzione dell’Agenzia statale per la sicurezza nazionale è intervenuta nell’aprile 2021, ripristinando la classificazione e vietando la concessione dell’asilo. Questo intervento è stato successivamente respinto dalla Corte amministrativa suprema, che ha affermato che la decisione di concedere o negare lo status di rifugiato è di esclusiva competenza dell’Agenzia statale per i rifugiati. Cosa è successo nell’aprile 2021? Circa due settimane prima dell’emissione della decisione sull’asilo, un interrogatore dell’Agenzia statale per la sicurezza nazionale, accompagnato da un traduttore, mi ha convocato per farmi domande sulla mia vita personale e sulla mia famiglia in Arabia Saudita. Le informazioni sono state distorte, estorte a mio padre durante il suo interrogatorio in Arabia Saudita, e le stesse domande mi sono state ripetute, insieme a un documento non ufficiale contenente i dati del mio passaporto ottenuto dall’Agenzia statale per la sicurezza nazionale dall’Arabia Saudita. Il mio fascicolo rimane completamente privo di qualsiasi copia o immagine del passaporto. Ho fornito una copia della mia carta d’identità saudita al Tribunale amministrativo per dimostrare la validità della mia identità e per confutare le affermazioni della DANS secondo cui avrei fornito informazioni inesatte, un pretesto utilizzato per impedire il mio rilascio. Ho dimostrato in modo conclusivo che sono stati loro a includere informazioni personali inesatte nella decisione di asilo o nei loro “rapporti segreti”, insieme a commenti sul sistema reale e di sicurezza saudita e riferimenti alla possibilità di tornare nel mio paese d’origine a causa delle “condizioni di sicurezza in Siria”, che sono stati copiati e incollati da altre decisioni senza un’adeguata valutazione. Il tribunale ha anche respinto le loro inesattezze riguardo alla “natura democratica dell’Arabia Saudita”. La DANS non ha valutato adeguatamente la portata della presunta minaccia fino a quando, il 18 gennaio 2024, è stata emessa una decisione definitiva e inappellabile per il mio rilascio. Tuttavia, il 22 gennaio 2024, ha emesso una decisione amministrativa che annullava e rifiutava di riconoscere l’ordinanza giudiziaria definitiva. Successivamente, il 7 febbraio 2024, ha emesso un ordine di espulsione e un divieto di ingresso nell’Unione europea per dieci anni. Tale ordine non è stato eseguito fino a quando, il 26 marzo 2025, il Tribunale amministrativo ha emesso un’altra decisione definitiva e inappellabile che ordinava il mio immediato rilascio a causa della detenzione che superava ogni durata ragionevole ai sensi delle direttive europee, del rifiuto di qualsiasi alternativa alla detenzione nonostante la mia presentazione di molteplici garanzie e sponsor da parte di cittadini bulgari noti e competenti, e del deterioramento della mia salute mentale a causa della detenzione. Ciononostante, le autorità hanno emesso un nuovo ordine di detenzione presso il dipartimento di detenzione della Direzione dell’Immigrazione per l’espulsione degli stranieri soggiornanti illegalmente, nonostante il mio status giuridico temporaneo di richiedente asilo. durante la sessione della Corte amministrativa suprema del 7 luglio 2025, l’agenzia ha presentato diversi argomenti per impedire il mio rilascio. Il tribunale non ha commentato tali argomenti, presumibilmente a causa della loro assurdità, della loro illogicità e dell’assenza di prove. Il tribunale si è limitato a confermare la versione scritta della decisione del tribunale di grado inferiore in termini di formulazione, senza affrontare le argomentazioni delle parti. L’Agenzia statale per la sicurezza nazionale ha affermato che le sue “argomentazioni sono provate e conclusive”, oltrepassando la propria autorità e invadendo il ruolo della magistratura, che è l’unica a determinare quali siano le argomentazioni e le prove valide per un “reato”, nonostante non vi sia alcun reato. Non ha fornito alcuna indicazione, né tanto meno prove, della presunta minaccia alla sicurezza nazionale bulgara. Tra le dichiarazioni rese dall’avvocato della DANS vi era quella secondo cui “l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale e l’Agenzia statale per i rifugiati ritengono che io non soddisfi in modo definitivo i criteri per l’asilo”. In realtà, ciò non rientra nella competenza della DANS, ma piuttosto in quella dei tribunali e della SAR. I tribunali hanno ripetutamente condannato e respinto gli interventi della DANS nella mia decisione in materia di asilo, affermando che il diritto di decidere in materia di asilo spetta esclusivamente alla SAR. Nella decisione n. ВАС № 5197/24.04.2024, la Corte Suprema ha annullato la decisione iniziale di rigetto dell’asilo perché la SAR si era basata su relazioni ingiustificate della DANS, confermando che tale intervento era illegale. Questo eccesso rivela un errore istituzionale, in cui un’agenzia di sicurezza prende decisioni per conto di un’altra agenzia incaricata di proteggere i diritti umani, costituendo una violazione fondamentale dello scopo delle operazioni istituzionali e violando il principio della separazione dei poteri sancito dall’articolo 8 della Costituzione bulgara. Inoltre, le decisioni della Corte amministrativa suprema (ВАС № 6863/23.06.2025 e ВАС № 5197/24.04.2024) hanno confermato che la mia domanda di asilo non è stata valutata adeguatamente, in particolare alla luce delle mie attività politiche dopo aver lasciato l’Arabia Saudita, in base al principio “sur place”. Ho vinto in modo decisivo la maggior parte dei casi relativi all’asilo e tutti i casi dinanzi alla Corte Suprema contro la SAR, comparendo tre volte dinanzi alla Corte amministrativa suprema, che ha confermato le violazioni nel trattamento del mio caso di asilo. Non si tratta di un fallimento accidentale, ma di una politicizzazione del mio caso e di tentativi di influenzare negativamente procedure obiettive senza alcun rispetto per i limiti giuridici dell’autorità della DANS, ignorando completamente tutte le precedenti decisioni dei tribunali. Questo non minaccia i principi fondamentali della giustizia? Il principio di proporzionalità nel diritto consente la detenzione preventiva di persone non incriminate per 46 mesi? È lecito negare la giustizia in nome della sicurezza? L’uso della sicurezza nazionale come pretesto per ignorare le sentenze definitive della magistratura vanifica di fatto il ruolo della magistratura. L’Agenzia statale per la sicurezza nazionale ha anche citato la mia nazionalità e il mio stato mentale come motivi per impedire il mio rilascio, collegando le mie condizioni mentali al rischio di ripetere l’attacco di Magdeburgo del 2024, che ha causato la morte di innocenti in Germania. L’avvocato della DANS ha letteralmente dichiarato: “Temiamo per la nostra società a causa sua!“. Questo, nonostante la mia detenzione dal 2021, non richiede spiegazioni difensive, ma chiarisco che la perizia psichiatrica dell’istituto del Ministero dell’Interno ha ripetutamente confermato che soffro di un disturbo post-traumatico da stress complesso, un disturbo dell’umore e d’ansia legato alla depressione, non un disturbo ossessivo, psicotico o schizofrenico. L’ambiente attuale aggrava questa condizione, ma non ho problemi di comunicazione o cognitivi. Lo psichiatra ha ripetutamente confermato che non sono “aggressivo”. Questo non significa che giustifichi o perdoni la detenzione di persone con disturbi ossessivi, psicotici o schizofrenici nei centri di detenzione amministrativa. Quello che sto dicendo è che non c’è alcuna forma di perdita di controllo. Il collegamento illogico fatto dalla DANS tra il mio stato mentale e l’attacco di Magdeburgo si basa su un falso ragionamento. L’agenzia utilizza i sintomi psicologici derivanti dalla detenzione come pretesto per la detenzione stessa, trasformando la vittima in imputato e perpetuando la sofferenza come giustificazione per il suo proseguimento, mettendomi in un ciclo senza fine. Le perizie mediche confermano che non sono aggressivo e che il mio stato mentale è il risultato diretto delle condizioni coercitive in cui sono stato posto. In sostanza, l’Agenzia statale per la sicurezza nazionale dice: “Lasciami farti del male così posso usarlo per giustificare le mie decisioni!” La loro difesa non era priva di un mix unico di errori logici, come la colpa per associazione e l’eccessiva generalizzazione, basandosi sulla mia nazionalità, il mio background o la mia diagnosi mentale senza prove individuali. Nel 2025, le autorità britanniche hanno arrestato tre spie bulgare che lavoravano per la Russia. È lecito etichettare tutti i bulgari come spie al servizio della Russia sulla base della loro nazionalità? O detenere preventivamente cittadini bulgari all’estero dal 2021 e giustificarlo con le attività di spionaggio di cittadini bulgari al servizio della Russia nel 2025? Il ricorso a errori logici rivela una disperata mancanza di prove a sostegno della presunta minaccia alla sicurezza nazionale bulgara e un tentativo di mascherare motivazioni politiche con affermazioni infondate e illogiche. Tutte queste manipolazioni e ingiustizie sono state troppo per una sola persona, un padre responsabile di due figli, uno dei quali malato. Non auguro a nessuno di dover sopportare questi eventi o l’incertezza giuridica che grava sulla mia vita e l’eccesso di potere delle autorità nel determinare il mio destino. Alla prima occasione legalmente disponibile dopo la detenzione, lascerò questo Paese, forse dopo una lunga lotta per ottenere lo status di rifugiato, anche se ci vorranno 40 anni. Ma che Dio aiuti i cittadini bulgari che vivranno con queste autorità per il resto della loro vita.
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.