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Zohran Mamdani e la causa palestinese
Se Mamdani cerca di rassicurare New York City sulla sua disponibilità al dialogo, le sue posizioni su Israele e Palestina non lasciano spazio al compromesso. di Nicholas Fandos Nicholas Fandos ha intervistato molti colleghi politici, professori universitari, compagni di studi e alleati antisionisti di Zohran Mamdani, e ha esaminato i suoi lavori pubblicati all'università e le ricerche accademiche di suo padre. The New York Times, 9 ottobre 2025 Quel magro studente universitario di New York City non rifletteva certo l'immagine tipica di un radicale del campus. Indossava una giacca L.L. Bean e sfoggiava un ampio sorriso, a volte si metteva a rappare per divertire gli amici e scriveva articoli autoironici per il giornale dell'università, in cui esponeva, tra le altre cose, l'etica del ballare in modo provocante sulla pista da ballo. Ma per gli amici e i compagni di classe che hanno conosciuto Zohran Mamdani al Bowdoin College nei primi anni 2010, era evidente l'intensità con cui si dedicava alla causa che aveva scelto: la lotta dei palestinesi contro Israele. In un campus del New England noto più per l'atletica che per l'attivismo, fondò una sezione di Students for Justice in Palestine molto prima che il gruppo diventasse una forza nazionale polarizzante, e guidò una campagna per convincere il Bowdoin ad aderire al boicottaggio accademico dell'“occupazione oppressiva e delle politiche razziste” di Israele. (Il presidente del college disse di no). Era disposto a confrontarsi con prospettive diverse, ma solo fino a un certo punto. Quando nel 2012 una serie di violenze sconvolse il Medio Oriente, i suoi compagni lo convinsero a collaborare a un evento congiunto con J Street U, un gruppo liberale filoisraeliano che sostiene la soluzione dei due Stati. Per loro, quella sessione sembrava un modello promettente per una futura collaborazione. L'evento fu molto partecipato. Tutti sorrisero per una foto. Tuttavia, in seguito Mamdani interruppe in modo educato la collaborazione, secondo quanto riferito dal suo interlocutore di J Street U, Judah Isseroff. Niente di personale, spiegò Mamdani, ma Students for Justice in Palestine seguiva una politica di anti-normalizzazione, il che significava che non avrebbe più collaborato con gruppi che sostengono Israele. “Non è mai diventato un argomento controverso. Essere contrari alla normalizzazione non significava che non pranzassimo più insieme”, afferma Isseroff, che ora insegna pensiero e politica ebraici alla Washington University di St. Louis. “Ma trovavo quella posizione piuttosto controproducente”. Poco più di un decennio dopo, Mamdani, 33 anni, è salito alla ribalta nella politica newyorkese come una cometa, emergendo come candidato democratico e come grande favorito alla carica di sindaco grazie al suo carisma disinvolto e alla sua attenzione alla crisi del caro vita nella città. Ma in una corsa elettorale piena di scontri sul congelamento degli affitti e sulla polizia, le sue convinzioni di lunga data su Israele e Palestina sono state un punto di forza singolare, una forza galvanizzante dietro il suo sostegno iniziale, ma anche una delle sue maggiori vulnerabilità. La piattaforma apertamente filopalestinese di Mamdani sarebbe stata un tempo quasi inimmaginabile per un candidato sindaco di primo piano. Da quando l'attacco di Hamas del 7 ottobre ha fatto precipitare la regione in una guerra totale, Mamdani ha accusato Israele di genocidio, ha promesso di arrestarne il leader e ha dichiarato di non poter sostenere il Paese fintanto che sarà uno Stato ufficialmente ebraico che nega diritti ai palestinesi. Nel secondo anniversario del massacro, questa settimana, il ministero degli Esteri israeliano ha rilasciato un'insolita denuncia, definendolo “un portavoce della propaganda di Hamas” nonostante la sua condanna del massacro compiuto dal gruppo terroristico. Tuttavia, i sondaggi suggeriscono che, con il protrarsi della guerra, i newyorkesi si stanno avvicinando alla posizione di Mamdani, che un tempo era molto lontana dal pensiero dominante. E proprio nel momento in cui Mamdani, socialista democratico, sta cercando di rassicurare i newyorkesi sulla sua disponibilità al compromesso, questo è il tema più importante su cui non ha ceduto. Per capire perché, e come uno dei temi più scottanti della politica globale sia diventato così centrale nella sua ascesa, è necessario guardare oltre l'attuale corsa elettorale e partire dall'ambiente esclusivo in cui l'unico figlio di noti intellettuali ha formato la sua visione del mondo e dal campus dove ha iniziato a metterla in pratica. I genitori di Mamdani, Mira Nair e Mahmood Mamdani, seduti dietro di lui alla sua destra, ospitavano spesso nella loro casa eminenti studiosi palestinesi americani. Crediti: Shuran Huang per il New York Times È una storia che inizia in Uganda e in Sudafrica, dove Mamdani ha imparato per la prima volta a vedere la difficile situazione dei palestinesi nella stessa tradizione di lotta anticoloniale che ha plasmato la famiglia musulmana di suo padre. La storia racconta gli incontri ravvicinati con Edward W. Said e altri importanti pensatori palestinesi americani che erano ospiti frequenti nella casa di famiglia. Questo aiuta a spiegare come Mamdani sia diventato un leader, abbia perso fiducia nella politica democratica tradizionale e si sia unito ai Socialisti Democratici d'America. A un mese dal giorno delle elezioni, nel caso fosse eletto sindaco si potrebbe prefigurare un conflitto essenziale tra le convinzioni e l'istinto di un attivista da una parte, e dall'altra le inesorabili esigenze pratiche di governare una città diversificata di otto milioni di persone. Mamdani ha riconosciuto che molti newyorkesi vedono il conflitto in modo diverso e ha promesso di essere anche il loro sindaco. Ma in un'intervista ha affermato di essere stato colpito fin da giovane dalla “palese incoerenza”, per cui i diritti e gli interessi dei palestinesi vengono messi da parte per giustificare l'alleanza tra Stati Uniti e Israele. “Il valore della politica deriva dalla sua applicazione a tutti, e penso che parte del motivo per cui così tante persone hanno perso fiducia nella politica sia proprio l'assenza di questa coerenza”, ha affermato. “Le persone a cui devo tutto” Pur essendo uno studente elementare precoce che già divorava i libri di Harry Potter, Zohran Mamdani colse di sorpresa suo padre con una richiesta: avrebbe iniziato a leggergli ad alta voce le sue opere accademiche? “Quando fallirono i miei tentativi di spiegargli che il mio tipo di scrittura non era l'ideale per la lettura della buonanotte, cercai delle parti che potessero essere lette a un bambino di 8 anni senza causargli danni”, ricorda il padre del candidato, Mahmood Mamdani, in un libro del 2001. All'epoca, il professor Mamdani stava completando uno studio sul genocidio ruandese. Era tipico dei suoi interessi - l'eredità del potere coloniale e dei coloni, i conflitti lasciati sulla sua scia e il modo in cui le vittime di violente repressioni potevano diventare carnefici - che lo portarono da Kampala, in Uganda, al Sudafrica all'indomani dell'apartheid e, all'inizio del secolo, alla Columbia University di New York. Mamdani ha trascorso i suoi primi anni di vita a Kampala, in Uganda, prima di trasferirsi in Sudafrica e poi a New York. Crediti: Stuart Tibaweswa per il New York Times. L'attenzione sulla giovinezza del signor Mamdani si concentrava soprattutto sulla sua famosa madre, Mira Nair, pluripremiata regista che ha lavorato con Denzel Washington e la Disney. Ma anche il rapporto con suo padre ha contribuito a formare la sua visione del mondo. Sebbene troppo accademico per conquistare un seguito davvero popolare, il professor Mamdani faceva parte di un gruppo di storici e teorici, molti dei quali concentrati alla Columbia, il cui lavoro ha ridefinito il modo in cui alcuni occidentali, specialmente quelli di sinistra, percepiscono la razza, il colonialismo e la violenza di Stato. I suoi colleghi erano figure fisse nella vita familiare che ruotava attorno all'appartamento della facoltà in Riverside Drive a Morningside Heights. Il signor Said era il più importante sostenitore dell'indipendenza palestinese negli Stati Uniti prima della sua morte nel 2003. Anche Rashid e Mona Khalidi, eminenti accademici palestinesi americani, erano amici intimi della famiglia. “Era sicuramente un contesto in cui i ragazzi di terza, quarta e quinta superiore partecipavano alle conversazioni tanto quanto gli adulti”, ha detto un altro collega della Columbia, Timothy Mitchell. Mamdani ha sempre espresso chiaramente la sua forte identificazione con i genitori. “Sono persone a cui devo tutto, non solo la persona che sono, ma anche i pensieri che ho”, ha detto nel 2020. Nell'intervista della scorsa settimana, ha affermato che gli ci è voluto del tempo per comprendere appieno che anche le figure familiari della sua infanzia erano figure politiche. “Parte della mia crescita è stata capire chi c'era a quel tavolo anni fa”, ha affermato. Alcuni messaggi, tuttavia, sono riusciti a passare. Il professor Mamdani ha raccontato che il primo lavoro che ha condiviso con suo figlio includeva alcuni brani tratti dal suo libro più personale, “From Citizen to Refugee” (Da cittadino a rifugiato). Si trattava di un resoconto di come gli indiani, come la sua famiglia, fossero arrivati in Africa orientale sotto il colonialismo britannico e, anni dopo, negli anni '70, fossero stati espulsi dall'Uganda sotto la minaccia del dittatore militare Idi Amin. (Il signor Mamdani descriveva anche il suo stretto legame con il nonno, che secondo lui era diventato “l'ombra” di se stesso dopo lo sfollamento). All'inizio degli anni 2000, la Seconda Intifada, una rivolta dei palestinesi durata anni che includeva attentati suicidi da parte di militanti e attacchi di rappresaglia da parte dell'esercito israeliano, servì a rinnovare l'interesse internazionale per la causa palestinese, e i Mamdani non rimasero in disparte. Nel 2002, il professor Mamdani firmò una petizione del corpo docente che chiedeva alla Columbia di disinvestire il proprio fondo dalle aziende che vendevano armi a Israele. (Decenni dopo, nel mezzo di un'ondata nazionale di proteste contro la guerra a Gaza nella primavera del 2024, ha guidato un seminario per gli studenti della Columbia che avevano allestito un accampamento per chiedere il disinvestimento). Nel 2013, la signora Nair ha pubblicamente rifiutato un invito all'Haifa International Film Festival in segno di protesta, paragonando direttamente la situazione locale al Sudafrica sotto l'apartheid. “Andrò in Israele quando cadranno i muri”, scrisse. “Andrò in Israele quando l'occupazione sarà finita”. Quando Mamdani era adolescente, suo padre aveva iniziato ad approfondire il conflitto nel suo lavoro accademico.   Mahmood Mamdani, professore alla Columbia University, ha partecipato a iniziative volte a esercitare pressioni sull'università affinché disinvestisse dai fornitori militari israeliani. Crediti: Bing Guan per il New York Times Il libro che ne è scaturito, “Neither Settler Nor Native” (Né coloni né nativi), è uno studio comparativo che ripercorre la creazione dei moderni Stati nazionali, il potere coloniale e il mondo moderno. Propone una visione di Israele che si discosta decisamente da quella data dai governi israeliano e americano. Il professor Mamdani scrive che il conflitto in Israele, che risale all'inizio del XX secolo, non è principalmente uno scontro “tra ebrei e coloro che li odiano”, ma piuttosto “tra coloni e la comunità che hanno espropriato”. Secondo la sua ricostruzione, i sionisti – sostenitori della creazione di uno Stato esplicitamente ebraico – sono passati dall'essere vittime dell'Olocausto a diventare essi stessi oppressori, appropriandosi della terra palestinese e creando un sistema giuridico che ha reso i palestinesi cittadini di seconda classe. I critici del suo lavoro hanno sostenuto che qualsiasi quadro coloniale applicato al Medio Oriente dipinge ingiustamente un gruppo di rifugiati ebrei come attori malevoli, ignorando la lunga storia della vita ebraica nella regione e minimizzando l'ostilità degli arabi nei loro confronti. Nel suo libro e nei suoi discorsi, il professor Mamdani ha invocato la creazione di un unico Stato democratico laico nella regione, sul modello del Sudafrica, dove ha insegnato all'indomani dell'apartheid. Alcuni difensori di Israele sostengono che ciò renderebbe gli ebrei della regione vulnerabili alla violenza; il professor Mamdani sostiene che una soluzione politica sia l'unica via d'uscita. “La sfida palestinese è quella di persuadere la popolazione ebraica di Israele e del mondo che, proprio come in Sudafrica, la sicurezza a lungo termine di una patria ebraica nella Palestina storica richiede lo smantellamento dello Stato ebraico”, ha affermato in un discorso del 2014. Mamdani ha dichiarato di aver letto solo “alcune parti” del libro di suo padre sull'argomento e di aver attinto ad altre fonti. Ma ci sono evidenti parallelismi tra il pensiero di suo padre e la sua visione sul conflitto. “Non mi sento a mio agio nel sostenere uno Stato che ha una gerarchia di cittadinanza basata sulla religione o su qualsiasi altra cosa”, ha affermato Mamdani in un'intervista televisiva a giugno. Ha anche tratto ispirazione da Nelson Mandela, che è diventato uno dei principali sostenitori della causa palestinese. Nell'intervista della scorsa settimana ha affermato di ricordare “il modo in cui parlava della Palestina in senso universale come una bussola per me”. “Un polemista dilettante” Per Mamdani, che aveva trascorso la sua infanzia a New York, in Africa e sui set cinematografici più remoti, il primo anno al Bowdoin, nel gelido campus prevalentemente bianco del Maine, fu un brusco cambiamento. Con una retta annuale di quasi 60.000 dollari, il college era considerato una delle migliori scuole di arti liberali della nazione, ma era anche noto per la sua cucina gourmet e per una cultura sportiva così dominante che i non atleti si definivano NARP, ovvero Non-Athletic Regular Persons (persone normali non atletiche). Mamdani si dedicò anima e corpo alla vita del campus. Recitò in uno spettacolo teatrale e entrò a far parte della redazione del giornale studentesco, The Bowdoin Orient. In un articolo raccontò di quando fu sorpreso mentre rubava un tavolo per giocare a "beer pong" nella sua stanza.  “Ma non la versione alcolica del gioco, perché sarebbe contro le regole, quindi giochiamo con l'acqua”, scrisse. “È altrettanto divertente e ci idrata il doppio”. Amici e professori hanno raccontato che Zohran Mamdani non parlava quasi mai del lavoro dei suoi genitori. Ma quando tornò per il suo terzo anno, dopo un intenso programma estivo di lingua araba e un viaggio con suo padre e suo zio in Africa orientale, mostrò un nuovo rigore e una nuova direzione che lo avrebbero avvicinato al loro lavoro. Cambiò la sua specializzazione da scienze politiche a studi africani, un programma interdisciplinare che combina le scienze sociali e le discipline umanistiche. Era attratto dal lavoro di Frantz Fanon, uno psichiatra e teorico i cui scritti provocatori sul colonialismo e sul ciclo di violenza che esso scatena hanno dato vita a generazioni di lotte intellettuali. Mamdani inizialmente si buttò capofitto nella vita universitaria al Bowdoin College nel Maine, per poi diventare più attivo politicamente dopo il secondo anno. Crediti: Sarah Rice per il New York Times “Poneva costantemente domande e voleva approfondire argomenti legati alla giustizia”, afferma Brian Purnell, il professore che ha supervisionato il progetto finale di Mamdani, che collegava la teoria del contratto sociale del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau con Fanon. Purnell ha dichiarato al Free Press in una precedente intervista di aver discusso con Mamdani anche della “necessità della violenza nella lotta anticoloniale” nel contesto israelo-palestinese. Ha rifiutato di approfondire l'argomento con il Times, limitandosi a dire che si è trattato di “una discussione accademica approfondita tra uno studente e un insegnante”. Al di fuori dell'aula, Mamdani si impegnava sempre più nell'attivismo. Ma invece di unirsi a un gruppo più ampio di studenti che si organizzavano per disinvestire le risorse della scuola dalle compagnie di combustibili fossili, Mamdani si è posto un obiettivo più ambizioso: cercare di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, mentre Israele consolidava il proprio potere nella regione. “In un certo senso, dato che Bowdoin era molto conservatrice, ricca e WASP (protestante bianco anglosassone), aveva senso fare quel tipo di attivismo perché la gente non ne sapeva nulla”, ha detto Sinead Lamel, una membra ebrea di Students for Justice in Palestine. Isseroff, leader della J Street U, ha affermato di aver trovato l'impegno di Mamdani sincero anche dopo che i loro gruppi avevano smesso di collaborare. I due studenti, insieme ad alcuni altri, si incontravano talvolta per discutere del conflitto durante la pausa pranzo. (Il signor Mamdani non ha contestato il resoconto della breve collaborazione con il gruppo del signor Isseroff, ma ha affermato di non ricordare l'episodio). “Eravamo un gruppo di studenti universitari un po' precoci e un po' seri, quindi recitavamo i ruoli che volevamo”, ha detto Isseroff. “Era normale essere polemisti dilettanti”. L'attivismo di Mamdani raggiunse il culmine durante il suo ultimo anno, quando Students for Justice in Palestine lanciò la sua campagna per convincere Bowdoin ad aderire al boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Mamdani, che nelle foto appare con un adesivo “End Israeli Apartheid” sul suo laptop e a volte indossa una kefiah, ha scritto che le istituzioni “sono complici sia attivamente che passivamente dei crimini commessi dall'esercito israeliano e dal governo israeliano in tutte le sue forme coloniali”. In qualità di leader dell'associazione Bowdoin Students for Justice in Palestine, Mamdani, ritratto in una foto pubblicata sulla pagina Facebook del gruppo, ha esercitato pressioni sul college affinché boicottasse le istituzioni accademiche israeliane. Crediti: Bowdoin Students for Justice in Palestine L'obiettivo era quello di cambiare le condizioni non solo nel campus, ma anche negli Stati Uniti, che Mamdani ha definito “il principale complice dell'occupazione israeliana della Palestina”. “Sta diventando una questione di grande rilevanza”, dichiarò in una intervista approfondita rilasciata a una stazione radio pubblica locale. “Non si può più essere progressisti su tutto tranne che sulla Palestina”. L'iniziativa faceva parte di un più ampio movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Ispirato alle campagne di disinvestimento contro l'apartheid sudafricano, mirava a esercitare pressioni internazionali su Israele affinché ponesse fine all'occupazione dei territori conquistati nel 1967, garantisse ai palestinesi la “piena uguaglianza” e assicurasse il diritto al ritorno dei palestinesi sfollati durante le guerre che hanno portato alla fondazione di Israele. (I critici del BDS sostengono che isolare Israele nel tentativo di delegittimare l'unico Stato ebraico al mondo sia antisemita). La campagna fallì. Il presidente della Bowdoin, Barry Mills, respinse il boicottaggio accademico, affermando che avrebbe portato a “soffocare la discussione e il libero scambio di idee”. Per Mamdani, tuttavia, fu una lezione formativa sul potere dell'organizzazione, che avrebbe presto portato su un palcoscenico molto più grande. “Sono passato dal discutere su Facebook e dal lungo scambio di opinioni con gli amici sull'argomento, senza mai fare progressi”, ha poi raccontato a The Orient, “alla consapevolezza che un gruppo attivo di sole 10 persone può cambiare totalmente il discorso in un campus”. Un attivista e un legislatore attivista Nel 2015, un anno dopo la laurea, un articolo apparso sul Village Voice attirò l'attenzione di Mamdani. Riguardava un avvocato pakistano-americano, Ali Najmi, candidato a diventare il primo musulmano nel Consiglio comunale. Casualmente, Najmi aveva il sostegno di un rapper che Mamdani apprezzava, Heems. Mamdani viveva a casa e lavorava a uno dei film di sua madre, “Queen of Katwe”. Aveva tempo libero, così si ritrovò nella periferia del Queens dopo un viaggio di quasi due ore da Manhattan. Najmi ricorda che Mamdani si presentò con un grande sorriso, “una camicia eclettica” e nessuna esperienza reale. Bussarono insieme alle porte per due ore. “Era come una spugna”, dice Najmi. “Continuava a tornare e io non lo lasciavo andare”. La campagna si concluse con una sconfitta, ma qualcosa era scattato in entrambi.   Mamdani ha lavorato alla campagna elettorale fallita di Ali Najmi, al centro, per il Consiglio comunale. Najmi ha visto il potenziale di Mamdani, definendolo un “Ronald Reagan socialista musulmano”. Crediti: Kirsten Luce per il New York Times Mamdani vide il potenziale per costruire una politica su scala cittadina del tipo a cui pensava fin da giovane: spudoratamente progressista, favorevole ai musulmani e filopalestinese. Negli anni successivi, ha affermato, il suo interesse per il BDS lo ha portato a unirsi ai Socialisti Democratici d'America. Si è candidato come propagandista in una serie di campagne primarie progressiste, dove ha anche iniziato a sviluppare una serie più ampia di priorità in materia di politica abitativa e trasporti. Nello stesso periodo, Najmi lo reclutò per entrare a far parte di un nuovo club politico, il Muslim Democratic Club of New York, che cercava di costruire un potere politico per una delle popolazioni in più rapida crescita della città. “Conoscevamo il potenziale di Zohran”, ha detto Najmi, definendolo un potenziale “Ronald Reagan socialista musulmano”. “Lo abbiamo incoraggiato”. Tuttavia, anche alcuni dei suoi primi sostenitori rimasero sorpresi quando Mamdani insistette per incorporare la questione palestinese nella piattaforma politica locale. In una città che da tempo si vantava della sua amicizia speciale con Israele, dove i funzionari neoeletti partecipavano regolarmente a viaggi di "istruzione" spesati in quel paese, la maggior parte dei democratici – anche molti dei musulmani – considerava troppo rischioso criticare Israele in modo troppo severo. Beth Miller, direttrice politica di Jewish Voice for Peace Action, un gruppo ebraico antisionista, ricorda la sua reazione quando Mamdani incluse la causa palestinese insieme ad altre priorità locali in un evento organizzato in occasione della sua prima candidatura al Parlamento dello Stato di New York. “Ricordo di aver pensato: ‘Non è una cosa che si sente dire da molti candidati’ ”. Dopo la sua elezione nel Parlamento nel 2020, Mamdani si è rapidamente guadagnato la reputazione di legislatore attivista rispettoso ma spietato, caratteristiche che avevA affinato al Bowdoin. Ha lavorato principalmente all'interno del sistema, ma ha compreso il potere del simbolismo e della retorica per spostare il dibattito, e questo gli ha fatto guadagnare un seguito più ampio rispetto a quello tipico di un legislatore statale al primo mandato. “Riterremo ogni singola persona che detiene il potere in questa città, in questo Stato e in questo Paese responsabile della sua incomprensibile fedeltà allo Stato israeliano”, dichiarò. Durante una manifestazione di Jewish Voice for Peace tenutasi più o meno nello stesso periodo fuori dalla casa di Brooklyn del senatore Chuck Schumer, il leader ebreo più importante del Paese, ha definito il Parlamento “un bastione del pensiero sionista” e ha lamentato il fatto di avere colleghi che non riuscivano a capire “che leggi separate per persone separate non vanno bene in questo Paese né in nessun altro Paese”. (Schumer e Mamdani hanno poi collaborato a un piano per alleggerire il peso del debito per i tassisti e gli autisti di veicoli a noleggio). Quando Mamdani ha presentato una legge statale che minacciava di revocare l'esenzione fiscale alle organizzazioni no profit di New York se i loro fondi fossero stati utilizzati per sostenere l'attività militare e di insediamento di Israele, alcuni gruppi ebraici hanno definito il disegno di legge antisemita. Lui non si è lasciato persuadere. Shahana Hanif, che nel 2021 è diventata la prima donna musulmana eletta al Consiglio comunale, ha raccontato di essersi seduta a un tavolo con Mamdani quando stava pensando per la prima volta di candidarsi alle elezioni. “Ricordo molto chiaramente che disse: ‘La questione su cui non scendo a compromessi è la Palestina’”. Shahana Hanif, la prima donna musulmana eletta al Consiglio comunale di New York, ha ricordato come Mamdani affermò che la sua opposizione al trattamento riservato da Israele ai palestinesi non era negoziabile. Crediti... Shuran Huang per il New York Times La posta in gioco è cambiata notevolmente dopo il 7 ottobre 2023. Molti democratici inizialmente pensavano che gli eventi avrebbero smorzato il crescente sentimento anti-israeliano della sinistra e danneggiato politici come Mamdani. La sua dichiarazione il giorno dopo gli attacchi suscitò aspre condanne da parte di alcuni colleghi ebrei e di altri democratici per non aver fatto alcun riferimento a Hamas o alle persone prese in ostaggio. Mamdani ha scritto che avrebbe pianto le vittime “in Israele e Palestina”, ma ha continuato a lamentare la dichiarazione di guerra di Israele e a chiedere “la fine dell'occupazione e lo smantellamento dell'apartheid”. (Mamdani ha denunciato Hamas e ha definito il suo attacco un crimine di guerra). Mamdani si è poi recato a Washington nel mese di novembre per partecipare a uno sciopero della fame davanti alla Casa Bianca, al fine di ottenere sostegno per un cessate il fuoco. Anche questo gesto ha suscitato critiche. Ma la signora Hanif ha affermato che lei e i musulmani newyorkesi hanno visto qualcosa di diverso: un gesto potente che avrebbe presto aumentato la visibilità di Mamdani tra una cerchia molto più ampia di newyorkesi: “La nostra comunità ha visto per la prima volta un funzionario eletto parlare apertamente di genocidio e schierarsi a favore di un cessate il fuoco bilaterale permanente e si è chiesta: dove sono gli altri nostri leader?”. Emma Goldberg ha contribuito alla stesura dell'articolo. Susan C. Beachy ha contribuito alla ricerca. Audio prodotto da Adrienne Hurst. Nicholas Fandos è un giornalista del Times che si occupa di politica e governo di New York.    Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
I negazionisti del genocidio di Gaza non sono diversi dai negazionisti dell'Olocausto, se non per il fatto che la loro negazione favorisce il genocidio stesso.
La negazione del genocidio di Gaza ha trovato ascolto nei media mainstream e persino alla Casa Bianca. Essa ricorda la negazione dell'Olocausto, ma la negazione attuale ha conseguenze mortali, poiché viene utilizzata per giustificare proprio il genocidio che i negazionisti affermano non stia accadendo. Mitchell Plitnick, analista politico, è il presidente di ReThinking Foreign Policy. 28 agosto 2025, https://mondoweiss.net/2025/08/gaza-genocide-deniers-are-no-different-from-holocaust-deniers-except-that-their-denial-abets-the-genocide-itself/ Uno degli aspetti più scioccanti e spaventosi dell'Olocausto nazista è stato il modo in cui i nazisti hanno documentato i loro crimini. I sopravvissuti, naturalmente, spesso raccontavano le loro storie delle atrocità subite, ma, data l’entità e la dimensione del crimine, il mondo – e i processi di Norimberga – hanno potuto basarsi fare affidamento sulle prove raccolte dagli autori stessi dei crimini.  Nonostante questa documentazione, la negazione dell'Olocausto è persistita nel corso degli anni ed è considerata una delle espressioni più atroci di odio antiebraico. Sono cresciuto circondato da numerosi sopravvissuti all'Olocausto e, nonostante molti di loro siano riusciti a ricostruirsi una vita, quel numero tatuato sulle loro braccia e il ricordo eterno di ciò che era accaduto a loro e ai loro cari erano indelebili. E quindi, sono doppiamente indignato per la dilagante negazione del genocidio a Gaza, una negazione che, a differenza della negazione dell'Olocausto, sta avendo un profondo impatto sulla politica e viene utilizzata per accelerare lo stesso genocidio che nega. Venerdì 22 agosto, ne abbiamo visto un esempio assolutamente agghiacciante da parte del suo principale promotore, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Dopo che l’istituto “ Classificazione Integrata della Sicurezza Alimentare “(IPC) ha finalmente confermato che la carestia aveva colpito la Striscia di Gaza, Netanyahu l'ha definita una "menzogna infondata" e ha accusato l'IPC di una "moderna calunnia del sangue", appropriandosi di una vecchia fandonia antisemita che ai suoi tempi causò la morte di un numero incalcolabile di ebrei, per difendere la sua volotà di impiego della fame come strumento, non di guerra, ma di genocidio. È stata solo l'ultima di quella che è diventata una bizzarra tendenza in Israele e tra i suoi sostenitori: dire letteralmente alla gente di non credere ai propri occhi, come fossero ingnnevoli, quando vedono bambini emaciati o addirittura morti, e nemmeno quando sentono funzionari israeliani confermare di non aver mai avuto prove che Hamas abbia presumibilmente "rubato aiuti", solo per mettere Israele in cattiva luce. Ormai da due anni, la negazione persiste. Abbiamo assistito alla vergognosa negazione della carestia a Gaza, una negazione che è stata presente su tutti i media mainstream. Sia il New York Times che il cosiddetto "Free Press" (un organo di stampa fondato dal noto razzista Bari Weiss) hanno sostenuto che i casi di bambini affamati visti in tutto il mondo riguardavano in realtà bambini con "patologie preesistenti", come se questi bambini non fossero i primi a essere uccisi o devastati dalla campagna di carestia israeliana. Questa argomentazione barbara è solo uno dei modi in cui si manifesta la negazione del genocidio a Gaza. Un altro è sostenere che Israele stia "cercando di ridurre al minimo le vittime civili a Gaza", un'affermazione palesemente falsa spesso fatta da Israele e dai suoi sostenitori. Israele cerca di rafforzare questa affermazione sostenendo che un'alta percentuale di palestinesi uccisi dalla violenza diretta erano "militanti". Questa è sempre stata una palese menzogna, ma è stata smascherata come mai prima giovedì 21 agosto, quando un rapporto congiunto di +972 Magazine e The Guardian ha rivelato che il database delle IDF mostrava che l'83% dei decessi registrati da Israele non rientravano tra coloro che Israele stesso aveva elencato come membri di Hamas o della Jihad Islamica, un elenco che comprendeva 47.653 nomi. Si consideri che l'ufficio del Direttore dell'Intelligence Nazionale degli Stati Uniti dichiarò nel febbraio 2025 che "Hamas aveva dai 20.000 ai 30.000 combattenti prima di ottobre 2023. La stampa israeliana stima che ne rimangano dai 16.000 ai 18.000", e che è noto che le forze combattenti della Jihad Islamica sono molto più piccole di quelle di Hamas, è chiaro che l'elenco israeliano riportato da The Guardian è quantomeno quasi completo. Ben lungi dal rapporto 1:1 o talvolta 2:1 che Israele ha dichiarato tra vittime civili e militanti, questa cifra di quasi 5 a 1 sarebbe estremamente elevata per gli standard della guerra moderna. E questo senza nemmeno considerare il fatto che Israele ha una definizione molto ampia di "militante" che spesso comprende funzionari pubblici, o semplicemente uomini in età da combattimento, oltre a persone presenti nelle sue liste con motivazioni false o molto vaghe. Una forma più banale di negazione del genocidio è recentemente salita in cima alla lista degli argomenti preferiti di Netanyahu. Come ha detto a un podcaster di estrema destra all'inizio di questa settimana, "Se avessimo voluto commettere un genocidio, lo avremmo fatto in un pomeriggio". Questa disgustosa argomentazione si basa sull'idea che Israele avrebbe potuto scatenare una potenza di fuoco ancora maggiore sulla popolazione civile di Gaza. Facciamo un passo indietro ed esaminiamo questa argomentazione. Riuscite a immaginare Adolf Eichmann, al suo processo, sostenere che se i nazisti avessero voluto uccidere tutti gli ebrei, perché ne hanno rinchiusi alcuni in campi di concentramento e di lavoro invece di eliminarli semplicemente? Perché ci sono voluti più di tre anni dopo la decisione di attuare la Soluzione Finale per uccidere tutti quegli ebrei che avevano già confinato? Questo è esattamente, e senza esagerare, l'argomento che Netanyahu sta sostenendo. Ed è tutt'altro che l'unico. Chiunque abbia un account Twitter,  o altri importanti social media ha visto trogloditi filo-israeliani sostenere la stessa tesi. È un argomento facilmente smentito dal fatto che nessun genocidio è mai stato dichiarato così esplicitamente come tale dal suo autore come il genocidio israeliano a Gaza. Fin dall'inizio delle operazioni israeliane nell'ottobre 2023, quando Yoav Gallant dichiarò sfacciatamente: "Ho ordinato un assedio completo della Striscia di Gaza. Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e stiamo agendo di conseguenza", ci sono state ripetute dichiarazioni da parte dei leader israeliani che dichiaravano il loro intento genocida, che di solito è l'elemento più difficile da stabilire del crimine di genocidio. Israel Katz, attuale ministro degli Esteri israeliano, ha dichiarato: "Ho ordinato di interrompere immediatamente l'approvvigionamento idrico da Israele a Gaza. Elettricità e carburante sono stati tagliati ieri. Ciò che era, non sarà più". Ci sono molti altri esempi. Eppure la negazione persiste. Nei media, nelle parole dei politici pseudo-progressisti filo-israeliani e di estrema destra, la negazione del genocidio rimane onnipresente. E ha effetti concreti: chiaramente, la persistenza della negazione del genocidio a Gaza contribuisce ad alimentare il rifiuto persistente da parte della maggior parte dei paesi che hanno una qualche influenza su Israele di agire in qualsiasi modo che vada oltre la vuota retorica e le esibizioni che non hanno alcun effetto sul comportamento di Israele, come la dichiarazione d'intenti di riconoscere uno Stato palestinese. La negazione del genocidio esaurisce anche coloro che cercano di fermarlo, dirottando parte delle nostre energie nel sostenere che il genocidio è reale. Oltre a questi effetti, la negazione da parte di così tanti leader mondiali e di alcune sacche di forze popolari è un'oscenità morale che, data l'enorme documentazione in tempo reale del genocidio, è persino peggiore del "non vedo il male, non sento il male" di tanti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Al servizio della verità   La politica, dal livello di quartiere alla scena mondiale, non è un luogo per l'onestà. Ma la negazione di qualcosa di così direttamente e monumentalmente orribile come il genocidio va ben oltre le normali tattiche di dissimulazione politica e sfocia nell'abominio morale. Per gli ebrei, soprattutto per coloro che hanno conosciuto sopravvissuti all'Olocausto per tutta la vita, la negazione dell'Olocausto provoca rabbia, disgusto e disperazione per la condizione umana. È senza dubbio lo stesso per i discendenti delle vittime della tratta degli schiavi, degli armeni e di una lista tristemente lunga di altri esempi. Per le tante persone di tutte le etnie che hanno una coscienza e possono riconoscere la realtà di Gaza, la negazione di questo genocidio che sta avvenendo non solo in questo momento, ma proprio davanti ai nostri occhi è un'oscenità di altissimo livello. "Mai più" è stato smascherato come uno slogan fasullo, non solo da usare per alcuni ma non per altri, ma persino per giustificare e perpetuare un moderno Olocausto a Gaza. Se vogliamo che abbia un significato reale, se vogliamo che venga applicato universalmente e equamente, dobbiamo essere in grado di dire la verità. E la prova definitiva della nostra capacità di farlo è parlare apertamente quando assistiamo a crimini commessi dal nostro stesso popolo, dalla nostra stessa nazione, persino dalla nostra stessa famiglia. Dobbiamo anche essere in grado di contestualizzare ogni evento, soprattutto se vogliamo prevenirli in futuro. C'è una ragione per cui ci impegniamo per un obiettivo irraggiungibile come una giustizia veramente imparziale. Quanto meglio ci impegniamo in questo sforzo, tanto più è probabile che orrori come quello di Gaza e il sostegno ancora diffuso a quel genocidio possano diventare un'oscura reliquia della storia. Traduzione a cura di Claudio Lombardi, Associazione di Amicizia Italo Palestinese VEDI ANCHE : COME GLI ISRAELIANI HANNO FATTO DEL NEGAZIONISMO UN’ARTE HTTPS://ZEITUN.INFO/2025/08/24/COME-GLI-ISRAELIANI-HANNO-FATTO-DEL-NEGAZIONISMO-UNARTE/  
L’Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese?
30/07/2025 di G - Invicta Palestina Il tardivo riconoscimento dello Stato Palestinese da parte dell’Europa è una palese manovra geopolitica, parte di una più ampia spinta alla normalizzazione che mette da parte la liberazione palestinese, mentre confeziona la sconfitta come un progresso diplomatico. Stiamo assistendo alla nascita di uno Stato? O alla dichiarazione della sua sconfitta? Fonte: English version Di Malek al-Khoury – 28 luglio 2025 Fin dalla sua nascita nel 1948, Israele non ha mai operato entro confini fissi. L’espansione è sempre stata la sua dottrina, non vincolata dalla legge, ma spinta dalla forza e sostenuta da un incrollabile sostegno occidentale. Israele si è rifiutato di definire i propri confini per quasi ottant’anni perché la sua stessa identità è radicata in un’ambizione coloniale che non è mai veramente tramontata. Dalla Nakba (Catastrofe) alla Naksa (Retrocessione), dalle invasioni territoriali all’annessione di Gerusalemme, delle Alture del Golan e della Cisgiordania, lo Stato di Occupazione ha continuato a ridisegnare i propri confini in base al potere, non alla legittimità. Questo progetto espansionistico si è ulteriormente rafforzato con l’ascesa della corrente nazionalista messianica all’interno di Israele, che considera il pieno controllo del “Grande Israele” un diritto storico irrinunciabile. Oggi, a 77 anni dalla Nakba, Israele ha avviato una modalità di espansione a pieno regime, espropriando i palestinesi, distruggendo intere città e villaggi, consolidando insediamenti ebraici illegali e imponendo l’Apartheid. Eppure, paradossalmente, Stati europei come Francia e Regno Unito si stanno preparando a riconoscere uno “Stato Palestinese” proprio quando la geografia politica palestinese è al suo massimo di frammentazione e il Progetto Sionista è al suo massimo di aggressività. Cosa significa dunque questo riconoscimento? Si tratta di un risultato strategico per i palestinesi o di uno stratagemma diplomatico che scredita la resa come un successo? Uno Stato senza confini, un progetto senza freni La Dichiarazione Balfour del 1917 segnò l’avvio formale di un Progetto di Colonialismo di Insediamento in Palestina. Ciò che seguì non fu l’immigrazione, ma un’espropriazione calcolata: dalle confische di terre e dai Massacri agevolati dagli inglesi, alle espulsioni di massa della Nakba del 1948, che determinò una Pulizia Etnica di oltre 750.000 palestinesi. Non si trattò di mero Colonialismo. Fu una sostituzione etnica: terre confiscate sotto la protezione imperiale, poi conquistate militarmente. Questa Campagna non si concluse mai. Proseguì con l’Occupazione di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania, e si intensificò dopo il 1967. L’obiettivo di Israele non è mai stata la coesistenza. È sempre stata la Supremazia Ebraica. Il Piano di Partizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) concesse oltre il 55% della Palestina Storica al Movimento Sionista, nonostante gli ebrei ne possedessero solo il 6%. Il Movimento Sionista accettò questo sulla carta per ottenere legittimità internazionale, per poi violarne immediatamente i termini, occupando con la forza il 78% del territorio. Ad oggi, lo Stato di Occupazione non ha adottato una costituzione formale, e il motivo è che basarsi sul Piano di Partizione avrebbe limitato le sue ambizioni espansionistiche. La Dottrina Sionista non ha mai riconosciuto confini definitivi, istituendo invece uno Stato senza frontiere ufficiali, poiché le sue ambizioni si estendono oltre la geografia palestinese per includere parti di Giordania, Siria, Libano ed Egitto. Il dibattito interno in Israele sulla dichiarazione di uno “Stato Ebraico” non è semplicemente una questione legale, ma un tentativo di consolidare un’identità esclusiva e basata sulla sostituzione, che sancisce legalmente la Discriminazione Razziale e nega ai palestinesi il loro status di popolo nativo. Riallineamento della Resistenza: il 7 ottobre e la svolta a due Stati Il terremoto innescato dall’Operazione Onda di Al-Aqsa ha scosso non solo Israele, ma anche il contesto politico del Movimento Palestinese. Sorprendentemente, le fazioni palestinesi, tra cui Hamas, hanno iniziato a esprimere esplicitamente il loro sostegno alla “Soluzione a Due Stati”, dopo anni di insistenza sulla Liberazione completa della Palestina storica. In una dichiarazione senza precedenti, l’alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato nel maggio 2024: “Siamo pronti a impegnarci positivamente in qualsiasi seria iniziativa per una Soluzione a Due Stati, a condizione che comporti un vero Stato Palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale e senza insediamenti”. Questo adattamento tattico segnala un cambiamento significativo. Dopo decenni di insistenza sulla piena liberazione, attori palestinesi chiave stanno ora prendendo apertamente in considerazione uno Stato troncato. Si tratta di un riflesso di dinamiche di potere in evoluzione? O di un riallineamento imposto sotto pressione regionale e internazionale? Riconoscimento come leva: Francia, Arabia Saudita e normalizzazione La scorsa settimana, in un post su X, il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: “In linea con il suo impegno storico per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina. Farò questo solenne annuncio davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il prossimo settembre. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, del rilascio di tutti gli ostaggi e di massicci aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Dobbiamo anche garantire la smilitarizzazione di Hamas, proteggere e ricostruire Gaza. E infine, dobbiamo costruire lo Stato di Palestina, garantirne la vitalità e garantire che, accettandone la smilitarizzazione e riconoscendo pienamente Israele, contribuisca alla sicurezza di tutti nella Regione. Non c’è alternativa”. Il riconoscimento previsto dalla Francia di uno Stato Palestinese a settembre non è motivato da principi, ma da una dura e fredda manovra geopolitica. Sembrerebbe che Parigi stia cercando di stringere legami più stretti con Riad, che ha legato la normalizzazione con Tel Aviv ai progressi sulla questione palestinese. Il riconoscimento francese è quindi un segnale calcolato all’Arabia Saudita, non un gesto di solidarietà con i palestinesi. In questa equazione, la Palestina diventa moneta di scambio. La sua indipendenza non viene affermata come un diritto, ma sbandierata come precondizione negli accordi di normalizzazione tra le monarchie arabe e lo Stato Occupante. Allineamenti strategici: l’asse Ankara -Londra Con un terzo dei parlamentari che chiede al Primo Ministro britannico Keir Starmer di riconoscere la Palestina, la pressione si sta accumulando anche su Londra. In una dichiarazione, Starmer ha affermato: “Insieme ai nostri più stretti alleati, sto lavorando a un percorso verso la pace nella Regione, incentrato su soluzioni pratiche che faranno davvero la differenza nella vita di coloro che soffrono in questa guerra. Questo percorso definirà i passi concreti necessari per trasformare il cessate il fuoco, così disperatamente necessario, in una pace duratura. Il riconoscimento di uno Stato Palestinese deve essere uno di questi passi. Sono inequivocabile al riguardo”. Anche la Gran Bretagna non si sta muovendo verso il riconoscimento per chiarezza morale, ma per rafforzare il suo asse strategico post-Brexit con la Turchia. Ankara, alleato commerciale chiave di Israele e sostenitore politico di Hamas, considera il riconoscimento della Palestina uno strumento per elevare la sua statura regionale e la sua influenza energetica. Per Londra, approfondire i legami con la Turchia promette vantaggi economici e geopolitici. Il risultato è un percorso di riconoscimento convergente tra Parigi e Riad e tra Ankara e Londra. Si stanno formando così due assi informali: Parigi-Riyadh e Ankara-Londra, entrambi convergenti sul riconoscimento di uno Stato Palestinese. Eppure, nessuno dei due approccia la questione partendo da una convinzione di principio nei diritti dei palestinesi, ma piuttosto attraverso la lente del potere, dell’influenza e della realpolitik. Lo Stato palestinese: riconoscimento senza sovranità Anche se tutti i Paesi europei riconoscessero la Palestina, ciò non sarebbe altro che un simbolismo senza applicazione. Non ci sarebbero confini definiti per lo Stato, nessun controllo sul proprio territorio e nessuna interruzione delle politiche di espansione degli insediamenti o di annessione perseguite dallo Stato di Occupazione. Tel Aviv respinge completamente questa premessa. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che qualsiasi futuro Stato Palestinese sarebbe “una piattaforma per distruggere Israele” e che il controllo sovrano della sicurezza deve rimanere a Israele. Ha ripetutamente escluso un ritorno alle condizioni precedenti al 7 Ottobre. La realtà è che il 68% della Cisgiordania, classificata come Area C, rimane sotto il pieno controllo israeliano. Oltre 750.000 coloni sono insediati in quel territorio, sotto la piena protezione dell’Esercito di Occupazione. Come può uno Stato esistere su un territorio Occupato e frammentato, sotto costante assedio e senza sovranità? “Sono appena tornato da un giro di conferenze in giro per il mondo e posso affermare con sicurezza che l’immagine e la posizione globale di Israele sono al punto più basso della storia”, scrive il giornalista israeliano Ben-Dror Yemini. Eppure, nonostante ciò, il governo di estrema destra di Netanyahu sta raddoppiando gli sforzi: spinge per la completa annessione della Cisgiordania Occupata, mira a nuovi punti d’appoggio territoriali nel Sinai, nella Siria meridionale e persino in Giordania, pur mantenendo posizioni militari nel Libano meridionale. L’immagine globale di Israele potrebbe erodersi, ma il suo Progetto strategico sta avanzando. Se Israele si sta espandendo e consolidando, mentre il Movimento Palestinese ridimensiona le richieste e gli Stati regionali normalizzano i rapporti, cosa è stato ottenuto esattamente? Le fazioni della Resistenza che un tempo rifiutavano l’esistenza di Tel Aviv ora propongono la creazione di uno Stato alle sue condizioni. Il riconoscimento europeo è privo di incisività. Gli insediamenti crescono. Gli sfollamenti continuano. Questa non è liberazione. È la sepoltura del sogno sotto le mentite spoglie della diplomazia. La soluzione provvisoria diventerà l’accordo definitivo. Lo “Stato” Palestinese diventa un eufemismo diplomatico: una struttura vuota elogiata nei discorsi, ma negata sul campo. Malek Al-Khoury è uno scrittore e giornalista geopolitico che in precedenza ha lavorato presso il principale quotidiano libanese As-Safir. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto L'Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese? - Invictapalestina
Dalla Malesia una "Flottiglia delle Mille Navi" per rompere l’assedio israeliano su Gaza
Gruppi malesi hanno svelato un piano per una "Flottiglia delle Mille Navi" che salperà da tutto il mondo per rompere il brutale assedio israeliano su Gaza. The New Arab, 15 giugno 2025 Sabato 14 giugno diverse organizzazioni della società civile malese hanno annunciato un piano per lanciare quella che definiscono la più grande mobilitazione marittima al mondo, con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano imposto alla Striscia di Gaza. La campagna, nota come "Flottiglia delle Mille Navi", mira a far partire imbarcazioni da più continenti in uno sforzo coordinato per consegnare aiuti umanitari e fare pressione su Israele affinché ponga fine al suo assedio. L’iniziativa è stata presentata durante una conferenza stampa a Kuala Lumpur da Azmi Abdul Hamid, presidente del Consiglio Consultivo delle Organizzazioni Islamiche della Malesia (MAPIM). Abdul Hamid ha affermato che questo sforzo è una risposta diretta alla sempre più brutale campagna militare israeliana e ai "crimini genocidi" commessi a Gaza. Secondo Abdul Hamid, è già in corso un coordinamento con gruppi della società civile in Europa, Asia e America Latina, e l’idea della flottiglia ha ricevuto un "sostegno senza precedenti". Ha citato il recente sequestro da parte dell’esercito israeliano della nave umanitaria Madleen come un punto di svolta cruciale. Anche se quella nave non è riuscita a raggiungere Gaza, secondo lui ha avuto successo nel riportare l’attenzione mondiale sulla crisi nella Striscia. Ha aggiunto che la flottiglia in programma sarà "più grande e meglio organizzata" rispetto alla Mavi Marmara del 2010, che si concluse con l’uccisione di dieci attivisti da parte delle forze israeliane. Una dichiarazione congiunta firmata da decine di organizzazioni malesi ha delineato gli obiettivi della flottiglia: revocare il blocco di Gaza, facilitare la consegna di aiuti umanitari, ottenere protezione internazionale per i palestinesi e chiedere giustizia per i crimini di guerra israeliani. Gli organizzatori hanno inoltre lanciato un appello ai governi di tutto il mondo affinché proteggano i propri cittadini che parteciperanno alla flottiglia — un’iniziativa volta ad aumentare la pressione diplomatica su Israele tramite mezzi indiretti. Parallelamente, attivisti malesi hanno organizzato una manifestazione davanti alla sede dell’Autorità per lo Sviluppo degli Investimenti della Malesia, chiedendo la cessazione dei rapporti con le aziende che continuano a operare nei territori occupati. I manifestanti hanno denunciato in particolare l’azienda statunitense Caterpillar, che fornisce all’esercito israeliano bulldozer utilizzati nella demolizione di case palestinesi. I dimostranti hanno accusato queste aziende di complicità nell’aggressione in corso a Gaza. MAPIM ha inoltre annunciato la creazione di un segreteriato internazionale e di un fondo finanziario per coordinare la logistica, l’acquisto delle navi e le attività di sensibilizzazione. Il consiglio ha invitato individui, gruppi umanitari e aziende a contribuire con supporto tecnico e materiale. La proposta della flottiglia arriva in un momento di crescente frustrazione per l’incapacità delle istituzioni internazionali di fermare la guerra a Gaza o di far rispettare il diritto umanitario internazionale. Con l’aumento del sostegno pubblico alla Palestina in molte parti del mondo, gli organizzatori sperano che la campagna generi slancio politico. Hanno infine dichiarato che i preparativi sono in corso e che seguiranno ulteriori annunci nelle prossime settimane.   Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze