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COP30 a Belém: lotte indigene tra estrattivismo ed emergenza climatica
Le immagini che più di tutte racchiudono il significato e la portata delle mobilitazioni per la giustizia climatica che si sono tenute a Belém – in occasione della 30esima Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici, la COP30 – appaiono tra le migliaia e migliaia di manifestanti che il 15 novembre scorso hanno riempito le strade nella città brasiliana nella marcia per il clima. Una maschera di cartone di Chico Mendes accanto ad una bandiera palestinese, ed un “funerale” del carbone e del petrolio, nel mezzo di rappresentanti di movimenti sociali ed indigeni che nei giorni precedenti avevano partecipato ai lavori della Cupula dos Povos, organizzata all’interno dell’Università dello Stato di Parà. Immagini che uniscono vertenze, lotte, piattaforme per l’autodeterminazione dei popoli, la giustizia ecologica, la protezione dei territori e degli ecosistemi, intersezionalità e diritti contadini e al cibo, e che evocano guerre e violenza epistemica, quella dell’estrattivismo e quella della colonialità del potere. Non è un caso che proprio i giorni prima della marcia si fosse commemorato il 30esimo anniversario dell’esecuzione di Ken Saro Wiwa, ucciso assieme ad altri 8 attivisti del popolo Ogoni per essersi opposto alle attività di estrazione di petrolio nel delta del Niger da parte della Shell. Così i padiglioni e le tende allestite all’università di Parà hanno legato, connesso storie, analisi, proposte, esperienze di resistenza dal basso, organizzate attorno ad alcuni assi tematici, dalla transizione giusta alla liberazione dei popoli, alla resistenza all’estrattivismo, alle economie popolari. Un’evento che ha visto per la maggior parte la partecipazione di movimenti brasiliani, dai Sem Terra, ai popoli indigeni, a quelli per il diritto all’educazione, all’acqua, i movimenti di comunità vittime di megainfrastrutture quali le idrovie nel Cerrado brasiliano o le grandi dighe, che proprio nello stato di Parà hanno segnato in passato la storia della resistenza territoriale. Basti pensare alla storica riunione dei popoli indigeni di Altamira nel 1989, organizzata dal popolo Kayapò mobilitato contro le dighe sul fiume Xingù, e dal suo leader “spirituale”, Raoni, anch’esso presente a Belem. > I corsi e ricorsi storici riaffiorano nelle contraddizioni del modello e del > paradigma di riferimento dei governi “progressisti” dell’America Latina, > quelli ancora rimasti. In primis c’è il sostegno dei governi del PT alla > megadiga di Belo Monte, all’annuncio fatto da Lula, proprio alla vigilia della > COP30, di concessioni di esplorazione petrolifera all’impresa statale > Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni. Un vero elefante nella stanza per il governo Lula, scisso tra cultura sviluppista e rivendicazioni ambientali e dei popoli indigeni incarnate da due donne, la ministra per l’Ambiente Marina Silva e quella per le questioni indigene, Sonia Guajajara presenti alla marcia per la giustizia climatica. La contraddizione però, è passata in sordina, per evitare di dare alle destre un’argomento da utilizzare alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali. Il tutto è stato celato quindi all’interno di una rivendicazione generica sulla messa al bando dei combustibili fossili da parte di movimenti e di un numero crescente di governi che hanno aderito all’iniziativa internazionale per un Trattato vincolante sulla non proliferazione fossile. Non a caso la Colombia di Gustavo Petro è stata a prima ad annunciare la decisione di proibire ogni forma di estrattivismo fossile e minerario nella sua parte di Amazzonia e la convocazione di una conferenza internazionale sulla nonproliferazione fossile che si terrà nell’aprile 2026 a ridosso della nuova tornata elettorale nel paese. Poco prima, a marzo, è in programma il Forum Sociale PanaAmazzonico (FOSPA) che si svolgerà nella regione ecuadoriana del Pastaza, a Puyo, al cuore dell’Amazzonia ecuadoriana, zona di forte presenza di imprese petrolifere e di acerrima resistenza da parte dei popoli indigeni. Anni or sono, in quei luoghi si decise di mantenere il petrolio nel sottosuolo dell’area forestale di Yasuni, una vittoria consolidata lo scorso anno da un referendum popolare che vanificò i tentativi di boicottaggio da parte del governo del Presidente Daniel Noboa. di Rosa Jijon I diritti della Natura riconosciuti dalla Costituzione ecuadoriana sono stati al centro di varie iniziative all’interno della Cupula dos Povos, tra cui la sesta sessione del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, Verso un nuovo impegno con la Madre Natura, appuntamento conclusivo di una serie di sessioni tematiche su combustibili fossili e imprese minerarie canadesi. Prima in occasione della Climate Week di New York del settembre dello scorso anno, poi in tre sessioni (Serbia, Quito e Toronto) il Tribunale ha analizzato decine di casi di estrazione petrolifera, e progetti minerari di imprese canadesi, per lo più impegnate nella prospezione o estrazione di minerali “critici” o di “transizione”; necessari per la “transizione energetica” evidenziando le violazioni dei diritti delle comunità, dei difensori e difensore della Madre Terra, e della Natura. Parte del Tribunale, presieduto da Nnimmo Bassey storico attivista nigeriano e Ana Alfinito, avvocata brasiliana, è stata così dedicata all’analisi delle contraddizioni del modello di transizione energetica e la sua incompatibilità con il paradigma di riferimento del capitalismo estrattivista. Non a caso due importanti ricercatori del Pacto Ecosocial ed Intercultural del Sur, Maristella Svampa e Breno Bringel, hanno definito questa fase come quella del consenso della decarbonizzazione, caratterizzata da nuove forme di colonialismo e creazione di nuove zone di sacrificio per alimentare la transizione energetica nei vari Nord del mondo. Il Tribunale ha poi presentato le sue sentenze su combustibili fossili e imprese minerarie e la sua politica sui difensori della Madre Natura introdotta dall’intervento del Relatore Speciale ONU per i difensori dell’ambiente Michel Forst, ed adottato la sua dichiarazione finale “Per un nuovo impegno con la Madre Terra”, contributo politico ai lavori della Cupula dos Povos. > Nella sua dichiarazione il Tribunale afferma che la policrisi attuale ha > origine nei sistemi economici, politici, i e sociali determinati dalla > capitalismo, orientato alla crescita, oltre che al patriarcato, il razzismo e > l’antropocentrismo. Chiede che l’Amazzonia venga riconosciuta come soggetto di > diritto in base alla recente opinione consultiva della Corte Interamericana > dei Diritti Umani che per la prima volta riconosce i diritti intrinseci della > Natura. Questo però non basta, sarà urgente infatti porre fine all’estrazione di minerali e combustibili fossili dal suo sottosuolo oltre a rigettare false soluzioni alla crisi climatica quali il carbon trading o altre forme di “mercantilizzazione” della natura, o forme di “transizione verde” che vengono imposte a discapito dei diritti della Natura e dei popoli. Il Tribunale annuncia poi l’intenzione di tenere una sessione specifica su petrolio in Amazzonia proprio in concomitanza con il FOSPA in Ecuador, e riconosce il ruolo chiave delle comunità e dei difensori e difensore della Madre Terra, esortando la comunità internazionale a “riparare” ai danni causati da decenni di estrattivismo. Nel corso della Cupula dos Povos si sono tenuti altri Tribunali etici o di opinione, uno contro l’ecogenocidio convocato da movimenti di base brasiliani, confluiti nell’inizativa parallela della COP do Povo, altri due sul tema della transizione giusta ed il razzismo ambientale, e l’impatto delle imprese minerarie sui diritti dei popoli nello stato di Parà svoltosi in una zona periferica di Belem. Il Tribunale sulla transizione giusta promosso da ActionAid Brasile, ed ispirato alla sessione sul Cerrado del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), ha analizzato vari casi portati alla sua attenzione da comunità di donne “quilomboas”, (popolazioni afrodiscendenti) relative alla contaminazione causata dalle imprese minerarie, o dall’imposizione di megaimpianti eolici “made in France” per la produzione di idrogeno verde da esportare in Europa, in particolare nello stato di Cearà, esempio evidente di come il Green New Deal europeo contribuisce a perpetuare ingiustizie storiche nei confronti di territori sacrificabili allo sviluppo, verde o marrone che sia. Altro caso presentato da comunità “quilomboas” di Belém era relativo agli impatti provocati dai lavori per la preparazione delle infrastrutture necessarie per ospitare le decine di migliaia di delegati alla COP30. Tra questi l’inquinamento provocato da infrastrutture fognarie che scaricano reflui nei quartieri periferici di Belém, oppure un’operazione in puro stile greenwashing, con la piantumazione di alberi per creare una foresta ai margini dell’aeroporto di Belém e che invece non è stata mai ultimata lasciandosi dietro gravi danni ambientali per le popolazioni afrodiscendenti. > Uno dei leitmotiv delle mobilitazioni a Belém è stato proprio la forte > presenza di popoli indigeni e afrodiscendenti, “invisibili” al potere, ed alle > istituzioni e che a Belém hanno preso parola per denunciare le loro condizioni > di vita inique. Per molti popoli indigeni brasiliani e quilomboas Belém ha > forse rappresentato l’ultima opportunità di visibilità e di amplificazione > delle proprie richieste a fronte del rischio di un ritorno delle destre al > potere. E per questo è stato necessario alzare il livello delle mobilitazioni, con ben due irruzioni all’interno della zona “blu” quella dove si svolgono i negoziati ufficiali ben distante in termini topografici e politici dalla Cupula dos Povos. Proprio all’indomani dell’ultima azione di protesta del popolo Mundurukù, Sonia Guajajara annunciava la decisione di demarcare quelle terre, ed il lancio di una iniziativa intergovernamentale di 15 paesi, la prima in assoluto nel suo genere, per la demarcazione ed il riconoscimento dei diritti territoriali di popoli indigeni e comunità locali ed afrodiscendenti, e la protezione delle foreste. Dieci saranno quindi le terre indigene demarcate in Brasile, su un totale di 63 milioni di ettari che il governo intende regolalizzare, 59 milioni dei quali per i popoli indigeni e 4 per le comunità quilomboas. Colombia e Congo hanno annunciato iniziative simili. di Rosa Jijon L’appello alla demarcazione delle terre indigene era stato ripreso anche nella dichiarazione finale della Cupula dos Povos nella quale si chiedono anche il riconoscimento del ruolo centrale delle conoscenze ancestrali, la riforma agraria e la promozione dell’agroecologia, il contrasto a forme di razzismo ambientale, si condanna il genocidio del popolo palestinese e si chiede che le spese militari vengano destinate al recupero e risarcimento del debito ecologico causato dai disastri climatici e dall’estrattivismo fossile. La dichiarazione della Cupula sostiene la richiesta di nonproliferazione fossile ed una transizione giusta, sovrana e popolare fatta dai popoli e per i popoli, respingendo ogni forma di “falsa soluzione di mercato”. Tra queste il programma TFFF (Tropical Forests Forever Fund) un fondo promosso dal governo brasiliano con la leadership della Banca Mondiale che dovrebbe convogliare capitali pubblici e privati per 4 miliardi di dollari l’anno alla protezione delle foreste. > Il rischio, secondo le decine di organizzazioni che hanno firmato una > dichiarazione congiunta al riguardo, è che questo programma possa offrire alle > imprese l’ennesima occasione di greenwashing, oltre a non affrontare alla > radice le cause della deforestazione senza mettere al centro i diritti dei > popoli delle foreste. Temi questi che hanno caratterizzato anche il viaggio della Flotilla Amazzonica Yaku Mama che, partita dall’Ecuador, è arrivata a Belém dopo tremila kilometri di navigazione , richiamando alla memoria la storica “navigazione” della Senna da parte di una flotilla indigena in occasione della COP di Parigi di 15 anni fa. Il messaggio era e resta uno: è il momento di tracciare una linea rossa, la fine dell’economia fossile e del capitalismo estrattivista. Belém dimostra che da allora i movimenti sono cresciuti, si sono consolidati, e offrono alternative concrete e praticabili e sopratutto quanto mai urgenti, come si legge nella diachiazione di Belém del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, per noi umani e per tutto il vivente. La copertina è di Rosa Jijon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo COP30 a Belém: lotte indigene tra estrattivismo ed emergenza climatica proviene da DINAMOpress.
Cop30, tra le proteste indigene
Martedì, contestualmente alla conferenza COP30 (30ª Conferenza delle Parti sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che sta avendo luogo in questi giorni a Belém in Brasile, è scoppiata una nutrita protesta da parte di comunità indigene e attivisti per il clima, che ha visto dozzine di manifestanti – […] L'articolo Cop30, tra le proteste indigene su Contropiano.
BRASILE: I POPOLI INDIGENI SBARCANO ALLA COP30, “L’UNICA RISPOSTA ALL’EMERGENZA CLIMATICA SIAMO NOI”
Prosegue a Belem, capitale dello stato brasiliano del Parà, la Cop30, la trentesima conferenza dell’Onu sul clima. Almeno 5 mila rappresentanti dei popoli amazzonici sono sbarcati in città in quella che è stata definita “la barqueata dos povos”: in migliaia hanno navigato per settimane a bordo di circa 300 imbarcazioni. Erano partiti dal cuore dell’Amazzonia, dal Perù alla Colombia all’Ecuador, in alcuni casi percorrendo anche 3 mila chilometri, per arrivare al cospetto di potenti, delegati e leader mondiali riuniti alla Cop30. “L’Amazzonia non è dei ricchi, nessuno tocchi la nostra terra” hanno detto gli indigeni, dando il via al parallelo “Vertice dei Popoli” iniziato in queste ore e che vuole denunciare lo sfruttamento dei fiumi amazzonici e l’impatto dell’espansione del settore agricolo sulla foresta. L’intervento ai nostri microfoni di Antonio Lupo, membro del direttivo del Comitato Amigos Movimento Sin Terra Italia e presidente di ISDE Liguria, medici per l’ambiente. Ascolta o scarica
La sfiducia verso gli altri mondi
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Occasionalmente, anche se raramente, troviamo echi nel modo in cui vediamo il mondo, e in particolare, il nostro mondo. Una recente intervista sul sito Comune, condotta da Gianluca Carmosino con l’antropologa italiana Stefania Consigliere, è particolarmente stimolante. Intitolata “Perché è difficile riconoscere nuovi mondi?“, presenta una prospettiva interessante. L’antropologa sostiene che altri mondi, o mondi nuovi, esistano già, anche se appaiono disorganizzati e imperfetti. Individua due ragioni che ci impediscono di vederli, riconoscerli e dare loro l’importanza che meritano. La prima è “lo sguardo coloniale”. A suo avviso, “se un mondo non è tecnologicamente avanzato, ad esempio, o non ha una struttura sociale come la nostra, è un mondo un po’ selvaggio, meno desiderabile e primitivo”. Si tratta di un’“arroganza coloniale” che non è affatto esclusiva dell’Europa o del Nord del mondo, ma è atteggiamento consueto tra la sinistra e gli accademici latinoamericani, che tendono a guardare con distacco e disprezzo le iniziative provenienti dal basso e dalla sinistra. Una riflessione che condividiamo. Il secondo tema affrontato riguarda “l’approccio eroico all’idea di cambiamento”, ereditato dalla nozione tradizionale di “rivoluzione come presa del potere, con il momento magico escatologico nel quale finalmente arriviamo alle leve del comando e dirigiamo la macchina dove ci piace…”. Riesce a collegare la presa del potere statale con “la tentazione del dominio”, che, secondo l’autrice, risulta essere l’aspetto meno esplorato dei movimenti antisistemici. Credo che entrambe le riflessioni siano molto importanti, a patto che riusciamo ad accoglierle come un nostro problema e non come un problema altrui, lontano da noi. Tutti noi che sosteniamo lo zapatismo abbiamo sperimentato persone di sinistra e di altri movimenti che alzavano le spalle quando raccontavamo loro di aver partecipato a un incontro e di aver condiviso le nostre esperienze con i compagni, o che stavamo sostenendo la costruzione di un ospedale, di una scuola o la distribuzione di caffè biologico. L’immagine eroica degli operai bolscevichi che entrano nel Palazzo d’Inverno sembra davvero importante, mentre partecipare a un evento per ascoltare e imparare sembra secondario, quasi irrilevante. Una citazione della scrittrice Simone Weil nell’intervista sopracitata riassume questo atteggiamento avanguardista di non ascolto: “… l’attenzione è la più alta e rara delle virtù. Quindi stare attenti, stare in ascolto, sentirsi, anziché performare”. Questi sono i passaggi preliminari necessari per intraprendere azioni profonde e, quindi, durature. L’immagine della presa del potere come ingresso al palazzo è diventata una cartolina, un’immagine che racchiude le idee semplicistiche di rivoluzione che hanno così profondamente permeato l’immaginario della sinistra mondiale. Tutto ciò che non si allinea con questo è quasi una perdita di tempo. Un grosso problema di questa sinistra è che decontestualizza il prima e il dopo del benedetto binomio “rivoluzione = presa del potere”, isolando quell’evento e trasformandolo in un paradigma di ciò che è desiderabile, dell’unica cosa che ha veramente valore. Ma quel passo è sempre stato preceduto, in ogni caso, da migliaia di piccole azioni che non sembravano importanti, né si sapeva che potessero portare ad azioni più grandi. Un fornaio indipendentista catalano scrisse delle centinaia di forni per il pane di Barcellona, che lavoravano tonnellate di farina ogni giorno per mano di migliaia di persone, come un importante antecedente alla rivoluzione di Barcellona del 1936, seguita al colpo di stato di Franco. Sono appena tornato dal Perù, dove ho avuto una lunga conversazione con uno dei consulenti più esperti dell’organizzazione amazzonica AIDESEP (Associazione Interetnica per lo Sviluppo della Foresta Pluviale Peruviana), che riunisce quasi 2.500 comunità in nove federazioni. Abbiamo parlato a lungo dei 15 governi autonomi che altrettante comunità hanno creato a causa dell’impossibilità di dialogo e negoziazione con il governo di Lima. Quando gli ho chiesto perché i popoli indigeni delle Ande, Quechua e Aymara, non abbiano intrapreso un percorso simile, il suo racconto mi ha sorpreso. La CONACAMI (Confederazione Nazionale delle Comunità del Perù Colpite dall’Attività Mineraria), che rappresentava più della metà delle sei comunità andine del Paese, ha iniziato a discutere la possibilità di adottare un’identità indigena, poiché fino ad allora le organizzazioni si identificavano solo come contadine. Adottare un orientamento indigeno significava rompere con la tradizione di mobilitarsi per rivendicare qualcosa dallo Stato, poiché non riuscivano a concepire altra opzione che negoziare per ottenere risorse. La posizione indigena fu sostenuta, tra gli altri, dal nostro compagno Hugo Blanco. Tuttavia, i partiti di sinistra peruviani si rifiutarono di consentire questo passo, perché ritenevano di perdere il controllo della “loro” base, rigorosamente controllata dalle gerarchie di partito e da movimenti come il PCC (Confederazione Contadina Peruviana). Usarono la minaccia di tagliare i finanziamenti al movimento attraverso le ONG da loro controllate come ricatto, riuscendo così a bloccare questo passo storico che avrebbe condotto i popoli andini verso percorsi più vicini alla costruzione dell’autonomia. Sollevo questa questione perché sento che, oltre allo sguardo coloniale e alla visione eroica dei cambiamenti che analizza Consigliere, ci sono gli interessi personali e politici meschini di coloro che vivono a scapito dello sforzo dei popoli e usano la loro influenza per ottenere qualche tipo di vantaggio. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Desinformemonos con il titolo La desconfianza de la izquierda hacia los mundos otros -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI L’INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La sfiducia verso gli altri mondi proviene da Comune-info.
PONTE RADIO – 25 LUGLIO 2025 – DALLA VALSUSA AL CAUCA: LOTTARE PER IL TERRITORIO – CONDUCE RADIO BLACKOUT
Dallo studio mobile di Radio Blackout all’Alta Felicità (Venaus, Val Susa), ci colleghiamo in diretta con i territori della Liberación del Cauca colombiano, terre occupate e liberate dalle comunità indigene Nasa dal 2014, sottratte al latifondo e alla monocoltura della canna da zucchero e difese contro i violenti tentativi di sgombero da parte di polizia, […]
Il Brasile “ecologista” di Lula svende i giacimenti di petrolio. Monta la protesta indigena
Il Brasile del presidente Lula continua a spingere per la produzione di petrolio, davanti alle proteste crescenti della popolazione indigena e dei gruppi ambientalisti. il Paese ha infatti messo all’asta oltre 170 blocchi petroliferi offshore, molti dei quali situati in aree incontaminate, come per esempio alla foce del Rio della Amazzoni. Al termine dell’asta, tenutasi presso un hotel di lusso di Rio de Janeiro, l’agenzia petrolifera brasiliana ha osservato che i bonus di firma ammontavano a circa 180 milioni di dollari. Nel frattempo, fuori dall’albergo, i gruppi indigeni hanno organizzato una protesta per contestare l’asta e rivendicare il diritto a essere chiamati in causa nelle questioni che riguardano le aree di loro competenza. In generale, le associazioni ambientaliste e la popolazione indigena protestano da tempo contro le politiche di Lula, che sin dal suo insediamento si era posto l’obiettivo di tutelare l’Amazzonia. Ciononostante, il suo governo ha preso diverse decisioni giudicate controverse, rafforzando la produzione di petrolio del Paese e aprendo al disboscamento di ingenti aree dell’Amazzonia per costruire un’autostrada per Belém, sede della prossima Conferenza delle Parti sul Clima (COP30). L’asta indetta dal Brasile si è tenuta a Rio de Janeiro martedì 17 giugno. Di preciso, l’Agenzia Nazionale del Petrolio ha messo all’asta 172 blocchi offshore di petrolio; di questi, 47 erano località vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, e 2 siti nell’entroterra amazzonico vicino ai territori indigeni. L’Agenzia è riuscita a vendere un totale di 34 blocchi, di cui 19 alle multinazionali degli idrocarburi Chevron, ExxonMobil, Petrobras e CNPC. Un rappresentante dell’agenzia ha affermato che il premio più alto è stato assegnato a un blocco situato vicino alla foce del Rio delle Amazzoni, area giudicata particolarmente promettente dalle grandi multinazionali del petrolio. In una dichiarazione di apertura registrata all’inizio dell’evento, l’Agenzia nazionale per il petrolio ha affermato che le aste fanno parte della strategia di diversificazione energetica e allontanamento dal carbonio del Paese, e che prevedrebbero la sottoscrizione di contratti dotati di investimenti obbligatori in progetti di transizione energetica. Fuori dall’albergo dove si svolgeva l’asta, gruppi indigeni e ambientalisti hanno inscenato una protesta per denunciare i rischi dell’allargamento della produzione petrolifera nell’area interessata. Proprio i primi stanno guidando la protesta in difesa del territorio amazzonico, rivendicando il proprio diritto a essere consultati quando il governo prende decisioni sull’area: «Siamo venuti a Rio per contestare l’asta», ha dichiarato un membro della tribù amazzonica dei Manoki presente alla manifestazione. «Avremmo voluto essere consultati e vedere studi su come le trivellazioni petrolifere avrebbero potuto avere ripercussioni su di noi. Nulla di tutto ciò è stato fatto». In una intervista all’agenzia di stampa Associated Press, invece, Nicole Oliveira, direttrice esecutiva dell’organizzazione no-profit ambientale Arayara, ha sottolineato che alcuni dei bacini interessati dalle vendite «non hanno ancora ricevuto la licenza ambientale», e ha annunciato l’intenzione di muovere causa contro l’asta. In generale, i manifestanti giudicano il governo Lula incoerente, perché da un lato si presenta come strenuo difensore dell’ambientalismo, e dall’altro spinge sempre di più ad aumentare la produzione di petrolio. Sin dal suo insediamento nel 2023 Lula ha dichiarato che al centro della sua presidenza ci sarebbe stata proprio la tutela dell’Amazzonia. Lula aveva già portato avanti tale agenda negli anni in cui aveva governato il Brasile – dal 2003 al 2011 – in cui la deforestazione è diminuita da 27.700 chilometri quadrati all’anno a 4.500 chilometri quadrati all’anno. Una svolta resa possibile soprattutto dalla creazione di aree di conservazione e riserve indigene. Eppure, sono tante le scelte contrarie alle sue dichiarate intenzioni. Già durante la cerimonia di insediamento, infatti, il nuovo presidente si era detto favorevole alla costruzione di una grande autostrada in Amazzonia, presentandola come un capolavoro di «crescita e sviluppo». Il progetto era in cantiere da anni ed è stato lanciato da Bolsonaro, il predecessore di Lula: esso prevede il disboscamento di ettari di foresta per favorire la costruzione di un’autostrada a quattro corsie lunga 13,6 chilometri che porti alla città brasiliana di Belém, dove a novembre di quest’anno si terrà la COP30.   L'Indipendente