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Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente
Stiamo vivendo un momento importante, il corso della storia sta davvero virando, ci sono segni di cedimento di quella continuità plurisecolare che ha visto il cosiddetto occidente egemonizzare il mondo con dosi massicce di colonialismo, genocidi, guerre, razzismo mascherato prima … Leggi tutto L'articolo Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Rompere l’assedio, fermare il genocidio
La Global Sumud Flottilla, carica di aiuti alimentari e sanitari, composta da più di 50 imbarcazioni provenienti da tutta Europa battenti bandiera di diversi Paesi, è salpata da Barcellona per dirigersi verso Gaza, congiungendosi con le imbarcazioni che sono salpate da Genova, Tunisi e quelle che salperanno dai porti siciliani e greci. Le imbarcazioni si incontreranno tutte in acque internazionali, dove proseguiranno il loro viaggio verso la Striscia di Gaza con la partecipazione di attivisti e volontari provenienti da oltre 44 Paesi. L’obiettivo è esplicito: “rompere il blocco illegale di Gaza e aprire un corridoio umanitario e porre fine al genocidio in corso del popolo palestinese”, rompere l’assedio piratesco che Israele impone al popolo di Gaza che genera carestia e morte. Oltre al valore umanitario, la spedizione è un atto simbolico di disobbedienza civile nei confronti delle restrizioni imposte in modo piratesco da Israele. La Global Sumud Flottilla vuole essere un richiamo ai principi di diritto internazionale e alla necessità di garantire corridoi umanitari sicuri per una popolazione, quella gazawi, allo stremo. Il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha in modo criminale dichiarato che: “Gli attivisti della Sumud Flotilla saranno trattati come terroristi; gli attivisti saranno arrestati e trattenuti in detenzione prolungata – a differenza della precedente prassi – nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon, utilizzate per detenere i terroristi in condizioni rigorose tipicamente riservate ai prigionieri di sicurezza; tutte le navi che partecipano alla flottiglia saranno confiscate e riutilizzate per le forze dell’ordine israeliane.” Vedremo cosa faranno i Governi del “democratico” occidente, che si appellano al diritto internazionale in relazione alle azioni dello Yemen nel mar Rosso contro le navi dirette in Israele, nei confronti delle eventuali azioni piratesche della marina israeliana contro le imbarcazioni umanitarie della Global Sumud Flottilla. Tante imbarcazioni della Sumud Flottilla battono bandiera italiana e lo Stato Italiano ha il dovere di garantire la libertà di navigazione e la sicurezza dei propri cittadini che agiscono per scopi altamente umanitari. Mentre la Global Sumud Flottilla prende il largo, il Parlamento dello Stato sionista ha dato via libera a nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, rendendo impossibile la creazione di una entità statuale palestinese, e ponendo le basi all’annessione di tutta la regione all’interno di Israele, violando diverse risoluzioni dell’ONU. In contemporanea l’esercito israeliano sta intensificando le sue azioni nella striscia di Gaza con l’obiettivo dichiarato dell’occupazione di tutta Gaza City, dove sono presenti più di un milione di civili. Questa mossa arriva in un momento di grave preoccupazione per la crisi umanitaria a Gaza, dove centinaia di migliaia di civili sono sfollati e a rischio carestia. In modo parallelo arriva la decisione del Governo Trump di negare l’ingresso alla delegazione dell’Autorità palestinese a New York per potersi recare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una decisione che delegittima le stesse Nazioni Unite. Fa specie la dichiarazione del presidente statunitense Trump sul premier israeliano Netanyahu: «È un eroe di guerra, […] E anche un brav’uomo», proprio mentre il Governo reazionario sionista di Israele sta in modo incontrastato portando avanti la politica di pulizia etnica e la realizzazione del progetto del “grande Israele”. Persino il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che “L’offensiva militare israeliana a Gaza non può che portare a un vero disastro per i due popoli e trascinerà la regione in una guerra permanente». La politica genocida del Governo sionista ultranazionalista e integralista di Israele non è contrastata da nessun Paese del “democratico” occidente. Continuano in modo normale le relazioni politiche e commerciali. Il traffico di armi non si è mai interrotto. Il colosso industriale bellico italiano Leonardo spa fa affari milionari continuando ad esportare in Israele sistemi bellici di alto livello tecnologico che vengono usati per mietere vittime fra i i civili palestinesi. I paesi occidentali, quelli del cosiddetto BRICS, quelli arabi (a cominciare da Egitto, Giordania, Arabia Saudita, emirati del Golfo, ecc.) assistono in silenzio ad una delle pagine più buie della storia contemporanea. Chi si oppone al massacro sono le centinaia di migliaia di donne e uomini che invadono le piazze delle maggiori città del Pianeta, che in modo unanime chiedono la fine del genocidio del popolo palestinese e una pace permanente in Medio Oriente. Quello che fa sperare è la crescente opposizione al Governo sionista israeliano che si intravede all’interno dello stesso Israele contro la guerra genocida che si trascina ormai da quasi due anni. Il riuscitissimo sciopero generale contro il Governo Netanyahu, che ha visto oltre un milione di israeliani scendere in piazza non solo per il rilascio degli ostaggi ancora in mano alle milizie palestinesi, ma esplicitamente contro la guerra e contro il genocidio del popolo palestinese è un nervo scoperto all’interno della società israeliana. In migliaia hanno invaso le strade di Jerusalem, Tell Aviv, di tante altre città. Blocchi stradali hanno interessato le principali arterie del Paese. Diverse decine di manifestanti sono stati gli arresti. Sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che si sottraggono all’arruolamento rifiutando di indossare la divisa dell’IDF. La protesta dell’opposizione israeliana alla guerra apre nuove prospettive per la creazione di un fronte transnazionale per fermare in Israele la deriva sciovinista, nazionalista, permeata da estremismo religioso che sta alla base della pulizia etnica e del genocidio del popolo palestinese. Gli stati nazione basati sul modernismo capitalista, gli stati teocratici (sia quello sionista che l’utopico stato palestinese) creano barriere, divisione, odio. La cooperazione fra i popoli, la fratellanza fra genti diverse sono la medicina contro la guerra e la sopraffazione. La creazione di una entità confederale democratica dove coesistano palestinesi, musulmani, cristiani, ebrei, atei; dove ogni cittadino sia considerato come tale, con pieni e pari diritti di ogni altro; dove sia garantito il ritorno dei profughi e il diritto di cittadinanza per tutte e tutti; dove ci sia il massimo rispetto per ogni credo liberato da ogni integralismo fanatico, questa è la prospettiva reale per quella terra martoriata da soprusi, apartheid, guerre.   Renato Franzitta
Il Brasile rifiuta il nuovo ambasciatore israeliano e Tel Aviv dichiara Lula “persona non grata”
Brasilia-InfoPal. Si è aggravata la frattura diplomatica tra Israele e Brasile dopo che il paese latinoamericano ha rifiutato di accettare il candidato di Tel Aviv come nuovo ambasciatore, spingendo il regime occupante a declassare le relazioni diplomatiche e a dichiarare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva “persona non grata”. Lula ha respinto lunedì la nomina di Gali Dagan, ex ambasciatore in Colombia, come nuovo inviato a Brasilia, lasciando la sede vacante. Il Times of Israel ha citato il ministero degli Esteri israeliano, che ha confermato come i rapporti con il Brasile siano ora condotti a un livello inferiore: “Dopo che il Brasile, in modo inusuale, ha evitato di rispondere alla richiesta di gradimento per l’ambasciatore Dagan, Israele ha ritirato la candidatura e i rapporti tra i due paesi sono ora condotti a un livello diplomatico più basso”. L’episodio segna un nuovo punto critico nelle relazioni tra Brasilia e Tel Aviv, già tese per via del genocidio israeliano a Gaza. Il Brasile aveva già richiamato il proprio ambasciatore da Israele lo scorso anno in segno di protesta contro l’altissimo numero di vittime civili, senza poi nominarne uno nuovo. In risposta, Israele aveva dichiarato Lula “persona non grata”, dopo che il presidente aveva paragonato il genocidio di Gaza alle azioni della Germania nazista: “Quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza non è una guerra. È un genocidio. Non è una guerra tra soldati contro soldati. È una guerra di un esercito addestrato contro donne e bambini”, aveva dichiarato Lula. Lunedì Israele ha ribadito lo status di “persona non grata” per Lula. In diplomazia, tale definizione indica che un rappresentante straniero è considerato inaccettabile e, solitamente, costretto a lasciare il paese ospitante. Il Brasile si è distinto fin dall’inizio del genocidio israeliano a Gaza, nel 2023, come sostenitore della causa palestinese. In una mossa diplomatica significativa, a luglio ha annunciato la sua intenzione di aderire al ricorso del Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia, coerentemente con la sua politica di lungo corso: già nel 2010, infatti, aveva riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato entro i confini del 1967. Nel frattempo, l’esercito israeliano continua a massacrare civili palestinesi a Gaza, colpendo l’enclave assediata con bombardamenti aerei e di artiglieria. Dal 7 ottobre 2023, la campagna genocida israeliana ha provocato almeno 62.744 morti palestinesi nella Striscia.
Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
 Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump? I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia_ Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male.  Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata. Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi). Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il saldo finanziario bilaterale Ue-Usa nel 2024 alla voce investimenti diretti esteri è pressoché in equilibrio. Nel 2022 – ultimo dato disponibile -, erano gli Usa a essere in avanzo sulle transazioni finanziarie, ovvero a rivendicare una prevalenza di attività (assets) rispetto alle passività (liabilities) dovute ai Paesi oltreoceano, con un avanzo di circa $49 miliardi. La bilancia dei pagamenti (bilancia commerciale e movimenti dei capitali) tra Usa e UE è quindi sostanzialmente in pareggio. Di conseguenza non c’è nessuna ragione economica che può legittimare l’imposizione di dazi. Vi sono però giustificazioni e motivazioni politiche. È noto che Trump ha ereditato dall’amministrazione Biden un’economia con un tasso di crescita positivo, ma con elevata inflazione e un forte e crescente indebitamento, sia nei conti con l’estero che in termini di debito pubblico. Un indebitamento che richiede un costante finanziamento sui mercati speculativi finanziari e sul mercato dei titoli pubblici. La politica monetaria Usa per tale motivo non ha ritenuto opportuno abbassare i tassi d’interesse, anche in previsione di una riduzione dell’inflazione (entrando in conflitto con lo stesso Trump) per mantenere quel ruolo di attrattore di capitali esteri necessari per ripagare i due debiti. La possibilità di attrarre capitali esteri (soprattutto dai paesi che vantano i più alti surplus commerciali con gli Usa, Cina e Giappone in testa) dipende dalla capacità del dollaro di mantenere la sua posizione dominante di valuta di riserva e di scambio internazionale. In contemporanea è necessario che anche gli indici delle borse americane (Dow Jones, Nasdaq, S&P500) si mantengano su livelli elevati, senza pagare eccessivamente le conseguenze di alti tassi d’interesse. Il primo semestre 2025 ha dato segnali contradditori che al momento non consentono ancora di valutare l’efficacia della politica di Trump nell’obiettivo di rimarcare l’egemonia unipolare Usa come principale condizione (tra le altre) per mantenere la stabilità e la solvibilità economica. L’andamento del PIL Usa ha fatto registrare un aumento del 3% nel II trimestre dopo un calo, inatteso, dello 0,5% nel I trimestre (dovuto all’incremento dell’import dei semilavorati del 41% per fare magazzino prima dell’imposizione dei dazi). Il dato del II trimestre, tuttavia, non deve ingannare.  Uno dei principali motori di questo rimbalzo è stato il contributo delle esportazioni nette (grazie anche, come vedremo, alla svalutazione del dollaro), che hanno aggiunto ben 5 punti percentuali al PIL. Tuttavia, il quadro non è completamente roseo: i consumi interni – storicamente il cuore pulsante dell’economia americana – hanno rallentato, con un aumento dell’1,4%, registrando, in due trimestri consecutivi, il ritmo più contenuto da quando è scoppiata la pandemia. Anche gli investimenti privati mostrano segni di indebolimento, mentre la domanda interna, misurata dalle vendite finali ai consumatori privati statunitensi, è cresciuta solo dell’1,2%, toccando il minimo da fine 2022. L’inflazione, infine, si è attestata al 2,5%, confermando che le pressioni inflazionistiche restano presenti, anche perché tale dato non tiene conto dell’andamento dei prezzi dei beni energetici e alimentari. Sul piano finanziario, il movimento dei capitali tra Usa ed Europa a partire dal 2025 ha mostrato una inversione di tendenza, con lo spostamento di fondi dagli Stati Uniti verso il continente europeo (e anche verso altri paesi), con il 39% dei gestori di fondi che ha sovrappesato le azioni europee a marzo 2025 (ovvero, assegnato un peso maggiore a una determinata azione o titolo rispetto a come sarebbe rappresentato nell’indice di riferimento: indice di aspettative positive al rialzo), mentre il 23% ha sottopesato i titoli statunitensi, la percentuale più alta mai registrata da Bank of America. Tale dinamica significa che è diminuita la fiducia negli investimenti finanziari verso gli Stati Uniti e la capacità attrattiva di Wall Street, dopo che al 30 giugno 2024 – secondo i dati del Ministero del Tesoro –  il valore totale degli investimenti esteri in attività finanziarie americane aveva raggiunto il suo massimo storico con un valore pari a 30.881 miliardi di dollari con un aumento di circa il 20% rispetto al 30 giugno 2023: tale cifra consisteva per il 60% circa di azioni delle corporation americane e per il restante 40% di titoli di stato. I principali creditori risultano essere, in ordine di impegno, la Gran Bretagna, Isole Cayman, Giappone, Canada, Lussemburgo, Irlanda, Cina e Svizzera. Nel corso dell’ultimo anno, il blocco Cina + Hong Kong ha venduto titoli di stato americani per un importo pari a 30 miliardi nel mese di marzo 2025, riducendo lo stock di titoli USA a 1033 miliardi di dollari. Nonostante la flessione mensile, su base annua la Cina registra ancora un saldo netto di acquisto di titoli americani per 53 miliardi di dollari. Rispetto al picco del 2015, il saldo complessivo ha registrato una contrazione di circa un terzo, a conferma di una strategia di progressiva diversificazione degli investimenti cinesi delle riserve Usa in valuta estera. È prevedibile che tale dinamica continui anche nell’immediato futuro e possa essere accentuata dal conflitto commerciale in atto sui dazi. Il risultato di questa inversione di tendenza ha avuto effetti non secondari sulla quotazione del dollaro, che a partire da quest’anno ha cominciato a svalutarsi per una quota più o meno del 10%. È difficile prevedere se tale svalutazione del dollaro sia solo congiunturale o nasconda qualcosa di più strutturale. La politica dei dazi di Trump nel breve periodo potrebbe favorire un incremento di entrate per le casse federali. Secondo Il New York Times, con i dazi introdotti da aprile, prima ancora che entrino in vigore dall’8 agosto quelli nuovi, Donald Trump ha incassato finora 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. Solo a luglio le tariffe hanno fruttato quasi 30 miliardi di dollari. Gli analisti prevedono che nel tempo i nuovi dazi di agosto potrebbero generare entrate aggiuntive per oltre 2000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, ovvero 200 miliardi all’anno. Un effetto positivo che rischia però di essere vanificato dal rischio di un aumento dei prezzi. Secondo il Budget Lab di Yale, un centro di ricerca politica indipendente, i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia. Inoltre Trump, grazie all’effetto clava della politica dei dazi, soprattutto in sede di trattativa con l’Europa, ha ottenuto notevoli vantaggi fiscali per le imprese americane. Durante la riunione del G7 in Canada che si è svolto lo scorso 16-17 giugno, si è deciso, su pressione degli Usa, di non applicare la tassa minima globale sui profitti delle multinazionali che governano le piattaforme globali sotto il controllo americano. La proposta era già di per sé minima, considerando che l’aliquota proposta era pari solo al 15% (mentre ogni lavorator* o pensionat* paga aliquote ben più alte) ma era comunque qualcosa. C’è anche chi ha parlato, sfidando il ridicolo, di “compromesso onorevole” (il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti). Ma non basta. In sede di discussione del bilancio pluriennale europeo 2028-2034, oltre a ratificare il piano “ReArm Europe (che porta, come richiesto sempre da Trump e dalla Nato, le spese militari di ogni paese membro al 6% del Pil), la Commissione Europea ha deliberato di eliminare anche la proposta della digital tax, prelievo mirato a colpire i big della rete come Google, Meta e Amazon. L’insieme di queste decisioni ha galvanizzato la borsa americana, a seguito dei crescenti profitti che le imprese americane si apprestano a ottenere, grazie alla complicità fiscale. La svalutazione della valuta americana e la riduzione degli investimenti esteri in Usa non ha, per il momento, avuto effetto sulle aspettative speculative in atto, se non per un breve periodo. Dopo aver toccato il massimo a fine gennaio 2025 (44.850 punti), l’indice Dow Jones mostra segni di cedimento proprio per la svalutazione della valuta Usa e le incertezze della politica economica, sino a toccare il minimo a inizio aprile (37.645 punti), per stabilizzarsi sui 40.000 punti sino a metà giugno, quando le aspettative sono ritornate positive per le corporation americane. Oggi, il Dow Jones si colloca sui 45.000 punti.  Meglio ancora ha fatto lo S&P500 che a fine luglio ha superato del 4% il massimo storico di inizio febbraio 2025. Siamo dunque in presenza di segnali ambivalenti. Ma su un punto si può concordare: nonostante gli sforzi corporativi di Trump, la capacità Usa di guidare e dominare l’economia mondiale come ai bei tempi del Washington Consensus, a cavallo del millennio, è in declino. Non solo per le difficoltà debitorie dell’economia statunitense ma soprattutto per il fatto che negli ultimi trent’anni sono nati competitors sempre più agguerriti su scala globale, in grado di operare con innovatività, efficienza e cultura economica diversa. Stiamo ovviamente parlando di Cina, India, Brasile e gli altri paesi Brics+, non a caso i paesi che maggiormente sono stati attaccati da Trump con la politica dei dazi. È interessante notare che per India e Brasile, la giustificazione dei dazi non è di natura economica ma politica. Il Brasile viene sanzionato perché Lula sta avviando il procedimento di accusa per colpo di Stato al precedente presidente Bolsonaro e l’India perché acquista petrolio e gas dalla Russia di Putin. Più sfumata la posizione con la Cina e altri paesi del Sud-Est asiatico, con l’esclusione dei più piccoli. Tale prudenza non sorprende. Le grandi imprese americane sono fortemente internazionalizzate e hanno bisogno delle produzioni asiatiche di semilavorati e delle materie prime, oggi nevralgiche per l’innovazione tecnologica nell’industria dell’elettrico, dei big data e dell’intelligenza artificiale. L’introduzione di dazi in questi settori avrebbe forti ripercussioni sui prezzi dei beni americani e sulla profittabilità delle aziende. I proclami di Trump di riterritorializzare la produzione e/o di ridefinire linee di subfornitura “friend-shoring” (cioè con paesi amici, che non gravitano nell’area Brics+) difficilmente potranno diventare realtà nel breve termine. Ma l’egemonia politica internazionale non si gioca solo sul piano economico, ma anche logistico, militare e finanziario. A quest’ultimo riguardo, come abbiamo visto, è in atto, ma ancora in forma debole, un processo di de-dollarizzazione, seppur in presenza di una centralità delle borse americane del dettare le convenzioni speculative. Interessante notare la prudenza della Cina (e della Russia) di non accelerare verso la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro (che si dovrebbe chiamare R5), soprattutto se ancorata alle terre rare. Questo è stato uno dei punti in agenda durante il vertice Brics+ di Johannesburg del 2023.Ma tale opzione ha avuto al momento uno stop nell’incontro Brics+ 2024 a Kazan, dove si è chiesto piuttosto una riforma del FMI e nel summit recente di Rio 2025 dove i BRICS+ hanno chiesto maggior potere decisionale all’interno del FMI. In ogni caso, la realtà ci dice che l’ammontare delle transazioni commerciali tra i paesi BRICS che non si basano sul sistema Swift (dollaro) sono in forte aumento e che oggi tali transazioni rappresentano circa un quarto del commercio mondiale (24%). Se i tempi per una nuova valuta di riferimento internazionale in grado di sostituire il dollaro non sono ancora maturi, Trump può favorire tale maturazione se la politica dei dazi con l’obiettivo di ridurre il debito estero favorisce una fase recessiva e quindi una possibile svalutazione del dollaro, come sta, in parte, già avvenendo. Sul piano logistico-tecnologico, la supremazia dei BRICS+ è oggi senza discussione, anche se è in corso un tentativo di recupero delle big tech americane. Il problema piuttosto è l’emergere di tensioni competitive all’interno di un gruppo eterogeneo come quello dei Brics soprattutto tra India e Cina. Sul piano militare, la supremazia Usa non è soverchiante, anzi. Nel campo della tecnologia militare e dei nuovi metodi di combattimento (i droni), ad esempio, la Russia dispone di tecnologia più avanzata e la Cina è il paese che ha maggiormente aumentato la spesa militare. La richiesta di riarmo europeo a vantaggio del militare Usa cerca di sopperire a questa situazione. In conclusione, la visione degli Usa come potenza egemone richiede oggi una qualche revisione così come l’idea che oggi esiste un unico imperialismo, quello statunitense. Esistono diversi imperialismi con metodologie e logiche diverse (basti pensare alla penetrazione commerciale della Cina in Africa e oggi in Sudamerica). È il frutto della globalizzazione neoliberista. Da questo punto di vista, aveva ragione Marx nel Discorso sul libero scambio, pronunciato all’Associazione Democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1848 e poi pubblicato in appendice a Miseria della filosofia: > “… ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema > del libero scambio è distruttivo. Il libero scambio dissolve le antiche > nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il > proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la > rivoluzione sociale. È solo per questo esito rivoluzionario, signori, che io > voto in favore del libero scambio”. *DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA Redazione Italia
Conflitti globali e guerre in corso, un video
Il mondo sta affrontando un numero di conflitti che è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, con 56 conflitti attivi che coinvolgono 92 Paesi. Solo nel 2024 si contano più di 233mila vittime e oltre 100 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. A commentare in studio il tema caldo del momento Jeff Hoffman de “La Casa del Sole TV”, la giornalista Margherita Furlan, Angelo d’Orsi, già ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Torino e Antonio Mazzeo, giornalista, docente e attivista dell’Osservatorio, reduce dall’espulsione ad opera del governo israeliano per avere cercato di portare aiuti umanitari a Gaza a bordo della nave Handala di Freedom Flotilla. Qui il video della trasmissione  SCACCO MATTO 01.08.2025 – Il mondo in guerra –  Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Il Brasile si unisce alla lotta: un’altra nazione si oppone al genocidio israeliano a Gaza
Brasilia –Presstv.ir. Il Brasile si sta preparando a far valere il proprio peso legale a sostegno della causa per genocidio intentata dal Sudafrica contro il regime israeliano presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG). La decisione è stata inizialmente riportata dal quotidiano brasiliano Folha de S. Paulo e successivamente confermata da Reuters mercoledì, citando una fonte vicina alla vicenda. Il Sudafrica ha avviato la causa nel 2023, dopo che il regime ha sottoposto la striscia costiera a una vera e propria guerra genocida, accusando il brutale assalto militare di aver violato la Convenzione sul genocidio del 1948. Lo scorso ottobre, Pretoria ha presentato una memoria dettagliata al tribunale dell’Aja, illustrando le prove del genocidio. Al crescente coro di nazioni che chiedono l’accertamento delle responsabilità si sono già uniti Spagna, Turchia e Colombia, che hanno fatto richiesta di adesione alla causa. Gli esperti hanno definito la decisione di Brasilia audace, sottolineando come ponga la potenza latinoamericana in netto contrasto con gli Stati Uniti, il principale sostenitore del regime. «Il muro dell’impunità comincia a incrinarsi» Gli analisti hanno anche osservato come la crescente ondata di opposizione stia erodendo l’impunità del regime, garantita dagli Stati Uniti, che puntualmente pongono il veto a qualsiasi azione delle Nazioni Unite contro Tel Aviv. Washington ha accompagnato il suo pieno sostegno politico con un aiuto militare illimitato, fornendo a Tel Aviv miliardi di dollari lungo tutto il conflitto iniziato il 7 ottobre 2023. Finora, oltre 59.200 palestinesi — in gran parte donne e bambini — sono morti a causa dell’assalto. Il genocidio impiega anche la fame come “arma di guerra”, come dimostrato dall’assedio quasi totale imposto da Tel Aviv al territorio palestinese.
Quando l’aiuto uccide: i BRICS sfidano il modello letale di ‘assistenza umanitaria’ a Gaza
LA SOGLIA ETICA SI SPOSTA: I BRICS COME SPARTIACQUE INTERNAZIONALE Non è stato un vertice come gli altri. La dichiarazione dei BRICS a Rio de Janeiro, il 7 luglio 2025, non è stata solo ferma: è stata inedita. Per la prima volta, un blocco di nazioni influenti ha condannato ufficialmente l’uso della fame come arma di guerra e la militarizzazione dell’assistenza umanitaria. Il bersaglio non è stato esplicitamente nominato, ma è evidente: si tratta della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), creata dagli Stati Uniti con il sostegno operativo di Israele, finanziata ed eseguita da imprese private. La dichiarazione finale dei BRICS alza lo standard etico in un sistema internazionale paralizzato. Di fronte a un’ONU bloccata dai veti e a un Occidente incapace di distinguere tra aiuto e punizione, i BRICS hanno affermato ciò che nessuno aveva osato dire: l’aiuto è diventato un’arma. Non si tratta solo di un cambiamento diplomatico, ma di un punto di svolta morale. Nelle parole del presidente cileno Gabriel Boric, presente al vertice come ospite permanente: “Nessuna forma di assistenza può giustificare l’assassinio di persone affamate. Quello che sta accadendo a Gaza non è solo una tragedia umanitaria, è una violazione del cuore stesso del diritto internazionale.” Boric è stato il primo a menzionare direttamente la responsabilità di Stati Uniti e Israele in una sessione a porte chiuse, secondo fonti diplomatiche brasiliane. GAZA HUMANITARIAN FOUNDATION: ARCHITETTURA DI UN’ENTITÀ LETALE La GHF è stata fondata nel febbraio 2025 come struttura alternativa al sistema di aiuti internazionali. Registrata nel Delaware (USA) e in Svizzera, ha iniziato le sue operazioni il 27 maggio con un modello di distribuzione autonomo e militarizzato. Con il pretesto dell’“efficienza umanitaria”, ha sostituito agenzie come l’ONU, la Croce Rossa e MSF con una rete di contractor armati e società di consulenza private. Tra i suoi partner operativi ci sono Safe Reach Solutions, guidata dall’ex paramilitare della CIA Phil Reilly, e UG Solutions, formata da ex militari delle forze speciali statunitensi. L’architettura è stata progettata da Boston Consulting Group sotto il nome in codice “Piano Aurora”, con l’obiettivo di facilitare il trasferimento di massa di fino a 500.000 palestinesi dal nord al sud della Striscia di Gaza. Il finanziamento iniziale ha incluso 30 milioni di dollari approvati dall’amministrazione Trump — nonostante 58 obiezioni interne dell’USAID — e capitali privati da McNally Capital, una società attiva nel settore della difesa e logistica. Il costo operativo mensile stimato della GHF supera i 140 milioni di dollari. CENTRI DI DISTRIBUZIONE O ZONE DI ESECUZIONE Dall’inizio delle sue operazioni, la GHF è stata teatro di violenze sistematiche. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, 843 persone sono state uccise e oltre 4.700 ferite nei pressi dei centri di distribuzione tra il 27 maggio e il 7 luglio 2025. Le morti sono state causate da proiettili veri, granate stordenti e spray al peperoncino contro folle di civili. Indagini di Associated Press, The Guardian e TRT Español hanno rivelato video in cui agenti di sicurezza sparano da postazioni sopraelevate su persone affamate. Alcuni video contengono frasi come “credo che l’hai preso”, pronunciate dai contractor. Alcuni agenti hanno riferito di non aver ricevuto formazione, di aver lavorato senza direttive chiare e che molti di loro erano stati assunti senza esperienza. Le regole d’ingaggio erano state autorizzate prima ancora di essere formalizzate. IL BUSINESS DELLO SFOLLAMENTO: ARCHITETTURA STRATEGICA E PROFITTO STRUTTURALE Il modello GHF non è solo un fallimento etico: è un affare. Un rapporto interno del BCG ha rivelato contratti da oltre un milione di dollari al mese. Anche se la società ha dichiarato che il lavoro era “pro bono”, fonti parlamentari britanniche hanno smentito. Dopo la fuga del Piano Aurora, BCG si è ritirata dal progetto e ha licenziato due soci. La GHF non era concepita solo come uno strumento per la distribuzione degli aiuti, ma come una piattaforma per il controllo territoriale e lo sfollamento pianificato. Nella fase operativa, la GHF ha tracciato percorsi che costringevano la popolazione del nord a spostarsi verso sud, liberando zone settentrionali suscettibili di occupazione militare. COLLASSO UMANITARIO E MERCATO NERO In parallelo, si è creato un mercato nero degli aiuti. Testimonianze riferiscono la rivendita di farina a un prezzo 15 volte superiore. I centri GHF sono diventati nodi di esclusione, repressione e speculazione. Oxfam, Save the Children, Human Rights Watch e Médecins Sans Frontières hanno chiesto l’immediata chiusura della GHF, denunciando che gli aiuti sono stati “privatizzati, militarizzati e usati come arma di deportazione forzata”. REAZIONI DA ORIENTE: LA RISPOSTA DEL SUD GLOBALE La Cina ha condannato il blocco come punizione collettiva e ha chiesto il rispetto del diritto internazionale. Ha inviato aiuti senza aderire a schemi privatizzati. La Russia è stata più diretta: il ministro Sergey Lavrov ha parlato di “punizione collettiva” e del doppio standard occidentale. Russia e Cina hanno appoggiato risoluzioni per un meccanismo di supervisione indipendente a Gaza, bloccate dal veto degli Stati Uniti. I BRICS hanno affermato: “Rifiutiamo l’uso della fame come metodo di guerra e ogni forma di politicizzazione o militarizzazione dell’assistenza umanitaria.” È la prima dichiarazione coordinata di questo tipo da parte del blocco. Oltre a Boric, Lula da Silva ha parlato di “apartheid umanitario” e Narendra Modi ha criticato “l’uso della logistica umanitaria per fini geopolitici, incompatibile con i principi di Bandung.” GAZA COME LABORATORIO DISTOPICO DEL NEOLIBERISMO ARMATO Il modello GHF rappresenta un salto di qualità nell’esternalizzazione della guerra. Non solo si privatizza il conflitto: si privatizza l’aiuto. Non si trae profitto solo dalla difesa, ma dalla miseria stessa. La sua architettura unisce privatizzazione, controllo demografico, deportazione, mercato nero e neutralizzazione delle ONG. Non è un’eccezione: è un modello esportabile. La sua legalità è oscura, la responsabilità è diluita, la narrazione è controllata da agenzie e lobbisti. CONCLUSIONE: SVOLTA POLITICA, ETICA E NARRATIVA La condanna dei BRICS non è solo un gesto diplomatico: è un atto di sovranità narrativa. Il Sud Globale non parla più solo di diritti: rivendica un limite etico. A Gaza, l’aiuto uccide. Non come metafora, ma come statistica, struttura, sistema. Tra il 27 maggio e il 7 luglio 2025, 843 persone sono state uccise mentre aspettavano cibo. Non sono “morte”: sono state giustiziate da un sistema pianificato, finanziato e protetto. Il silenzio dell’Occidente non è una svista: è una dottrina. Per questo ciò che è accaduto a Rio de Janeiro segna un prima e un dopo. I BRICS hanno tracciato una linea. E quando la storia sarà scritta con onestà, questo gesto — questo atto di denuncia collettiva e sovrana — sarà ricordato come il momento in cui, chiaramente, una parte robusta del mondo organizzato ha detto: basta. Claudia Aranda
La Repubblica Socialista del Vietnam diventa 10° Paese partner dei BRICS
Mentre l’asse Usa-Israele avanza incontrastato, promuovendo l’unipolarismo a colpi di guerre, disconoscimento dei risultati elettorali scomodi, colpi di Stato, blocchi commerciali, sanzioni, esecuzioni extragiudiziarie e genocidi, la Repubblica Socialista del Vietnam diventa membro partner dei BRICS, con l’impegno di promuovere cooperazione, multipolarismo, pace e democrazia nei rapporti internazionali. Il Brasile, che attualmente presiede i BRICS, ha annunciato il 13 giugno che la Repubblica Socialista del Vietnam è entrata ufficialmente come il decimo paese partner. L’ingresso del Vietnam nei BRICS consolida l’ascesa del blocco come potenza globale, espandendo la sua rete di partner a 10 nazioni e accelerando lo slancio per un riallineamento finanziario sistemico. Questo sviluppo segna un ulteriore passo negli sforzi del blocco per approfondire i legami con nazioni strategicamente allineate nel Sud Globale. Il quadro dei Paesi partner, introdotto al 16º vertice dei BRICS tenutosi a Kazan nell’ottobre 2024, è stato progettato per permettere un coordinamento più stretto con i paesi che supportano la visione del gruppo senza esserne membri a pieno titolo. I BRICS operano come un forum per il coordinamento politico e diplomatico, affrontando un ampio spettro di questioni, dallo sviluppo economico alla riforma della governance multilaterale. L’annuncio afferma: > “Il governo del Brasile accoglie con favore la decisione del governo > vietnamita.” Con questa inclusione, il Vietnam si unisce ad altri nove Paesi partner: Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Thailandia, Uganda e Uzbekistan. L’attuale membro del BRICS comprende undici nazioni—Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU), Etiopia, Indonesia e Iran. La partecipazione del Vietnam segnala il suo allineamento con le priorità dei BRICS, incluso il supporto per un ordine internazionale più inclusivo e una maggiore cooperazione Sud-Sud. L’ingresso del Vietnam nel gruppo è visto come una riflessione della sua crescente rilevanza geopolitica e del suo ruolo crescente nella governance regionale e globale. Il Brasile ha sottolineato il ruolo strategico del Vietnam nell’economia globale: > “Con una popolazione di quasi 100 milioni e un’economia dinamica profondamente > integrata nelle catene del valore globali, il Vietnam si distingue come attore > rilevante in Asia.” Sostenitori dell’espansione dei BRICS sostengono che l’inclusione del Vietnam aggiunge un peso economico significativo e capacità innovative al blocco. I critici avvertono che l’espansione potrebbe complicare l’allineamento delle politiche interne, ma i sostenitori controbattono che le diverse prospettive di nuovi partner come il Vietnam potrebbero arricchire la direzione strategica del gruppo. Alla “grande divergenza” tra l’Occidente e il resto del mondo, cominciata con la Prima Guerra dell’Oppio che l’impero britannico scatenò nel XIX secolo contro la Cina, i BRICS e i Paesi del Sud globale contrappongono ora un processo di “grande convergenza”: il riscatto delle ex-colonie del blocco euroatlantico che non accettano più padroni e si sollevano contro le forme moderne di neocolonialismo ed imperialismo occidentali che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il mondo: dall’eurocentrismo al sionismo, dal “manifest destiny” all’eccezionalismo USA, dal “yellow peril” all’islamofobia.   https://brics.br/en/news/vietnam-joins-brics-as-a-partner-country Lorenzo Poli