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Cop30 in Brasile e la guerra a Madre Natura. Intervista a Antonio Lupo
Il Brasile ospiterà la Cop30, partendo già male in nome del greenwashing, dell’agrobusiness e della Guerra a Madre Natura. Ne parliamo con Antonio Lupo, oncologo ed ematologo ex-aiuto primario all’Ospedale Niguarda di Milano, membro di Medici per l’Ambiente -ISDE e del Comitato Amigos Sem Terra Italia. Ambientalista da molti anni a fianco del Movimento Sem Terra in Brasile, con cui ha avuto esperienza di medicina territoriale; del Movimento La Via Campesina, una delle più grandi organizzazioni contadine ed ecologiste del Sud del Mondo a cui aderiscono più di 200 milioni di contadini e di Navdanya International, organizzazione ecologista e contadina internazionale fondata dall’attivista indiana Vandana Shiva, che si occupa di agroecologia e conservazioni dei semi. Qual è la tua esperienza nei movimenti ecologisti internazionali? Sono un vecchio medico ospedaliero, negli ultimi anni di attività anche medico di Base.  Nei primi anni ’90, avendo collaborato per diversi anni con il NAGA , una importante associazione di volontariato di Milano, ancora molto attiva, che cura ogni giorno i migranti senza permesso di soggiorno, ho imparato dai migranti tante cose sul percorso di “malattia” di ogni persona, che è anche un fatto sociale e culturale, tutte cose che non mi avevano insegnato né insegnano all’Università. Essendo nato e vissuto a Milano fino alla pensione conoscevo ben poco di  Madre Natura e dei suoi cicli: ho iniziato a imparare qualcosa dal 2004, quando abbiamo iniziato ad andare in Brasile, conoscendo il Movimento Sem Terra (MST) e vivendo per lunghi periodi negli accampamenti  dei suoi meravigliosi contadini, che occupano le terre incolte, per restare contadini e non essere espulsi nelle tremende Favelas delle megalopoli del Brasile, dove vivono 16,4 milioni di persone (dati 2022), e dove in gran parte comandano le bande mafiose, spesso in “buoni” rapporti con la polizia. Siamo tornati in Brasile 6 volte e siamo andati a conoscere anche i contadini e i popoli di Bolivia, Cile, Argentina, Cuba e  Honduras in America Latina, un Continente ancora “sotto il tacco”,  non solo degli USA, ma di tutto il colonialismo europeo, che lo ha invaso e massacrato nel 1500 e continua a condizionarlo, con speculazioni sulla sua produzione di materie prime ed export. Da 28 anni siamo fuggiti da Milano e dalla sua aria velenosa, come quella di tutta la Pianura Padana, la terza  area per maggior inquinamento dell’aria in UE, dopo Polonia e Repubblica Ceca. Viviamo in una città della Liguria, a pochi metri dal mare, tutti giorni vediamo il nostro splendido Mediterraneo soffrire, ancor più di tutti mari e Oceani, e maledirci per l’inquinamento e il surriscaldamento dell’acqua marina di origine antropica, che continua a danneggiare il fitoplancton e quindi la metabolizzazione della CO2, che produce ossigeno. I Mari e gli Oceani ricoprono il 70% della superficie terrestre e con l’atmosfera, comandano e rego-lano tutti i cicli naturali e quindi anche la terra (che è solo il 30%) e i suoi abitanti. Ricordiamocelo! Da qualche anno non andiamo in Brasile, ma siamo sempre grandi amigos di Via Campesina Inter-nazionale (un movimento mondiale di 200 milioni di piccoli contadini) e dei contadini brasiliani Sem Terra, che sono diminuiti di numero per l’offensiva spietata delle multinazionali mondiali dell’agrobusiness, che li espellono dalla terra ( l’urbanizzazione in Brasile è arrivata al 92%, come in Argentina!) e continuano a deforestare, per coltivare prodotti per i mangimi, da esportare per gli allevamenti intensivi in Europa e Cina. Questi prodotti agricoli sono soprattutto  la soia OGM e Mais OGM, coltivati in Brasile  (e anche in Argentina), dove si utilizzano pesticidi proibiti in UE (atrazina, acefato, clorotalonil e clorpirifos, i 4 più usati, pesticidi venduti in Brasile, anche da aziende con sede in Ue. Che vergogna!. E poi noi italiani, dove finora è proibito fare coltivazioni OGM, mangiamo, beati, questi prodotti, spesso ultraprocessati, di animali nutriti nei nostri allevamenti intensivi con questi foraggi, coltivati con pesticidi proibiti  in Ue, perchè patogeni! Come siamo stupidi! D’altronde sulle etichette di questi prodotti è proibito scrivere cosa ha mangiato l’animale, la grande tedesca Bayer, che produce enormi quantità di pesticidi, anche proibiti, e medicinali  non vuole! Cosa pensi della Cop30 che si terrà in Brasile? Dal 10 al 21 novembre la COP 30 si svolgerà in Brasile a Belem, alla Foce del Rio delle Amazzoni, 6.400 Km, il secondo fiume più lungo del mondo, dopo il Nilo. Tranne che su media specializzati, se ne è parlato pochissimo sui media, anche perchè il genocidio  ( non  una guerra!) a Gaza e la guerra in Ucraina hanno monopolizzato opinione pubblica e stampa. I Movimenti mondiali, soprattutto quelli contadini ed ecologisti, prevedono che ne uscirà ben poco. Joao Pedro Stedile, uno dei fondatori e leader  del MST, ha affermato pubblicamente che la COP30 sarà una grande farsa, nonostante l’urgenza di affrontare la crisi climatica in aumento vertiginoso, sopra-tutto il surriscaldamento globale, con conseguenti desertificazione, crisi idriche, eventi estremi ecc. Si parla genericamente di crisi climatica e di transizione ecologica, ma in realtà siamo nel CAOS climatico: l’unica sola via è smettere di fare la Guerra al Madre Natura ed  eliminare l’utilizzo di  carbonfossili e la conseguente emissione di gas serra. Il Re Petrolio continuerà ad essere centrale come sempre nelle politiche internazionali e nella geopolitica? Gli impegni assunti nel 2015 da 196 Paesi, con l’Accordo di Parigi alla COP21, per limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C  sono falliti, per “l’insufficienza degli stanziamenti finanziari, mentre 956 miliardi di dollari sono stati spesi dai governi nel 2023 in sussidi netti ai combustibili fossili.  Le strategie di aumento della produzione dei 100 colossi mondiali del petrolio e del gas porterebbero le loro emissioni a superare di quasi tre volte i livelli compatibili con il limite degli 1,5°C. E tuttora le banche private investono nel fossile.” Re Petrolio continuerà a comandare, all’aumento delle Rinnovabili in molti paesi “ricchi” non corrisponde una diminuzione dei consumi di Petrolio e gas: ad es. “in Italia nel 3° trimestre 2024, la produzione energetica da fonti rinnovabili è cresciuta dell’8%, ma accanto al calo del carbone, c’è stato un maggiore utilizzo di gas (+3%) e petrolio (+2,5%), con il primo in ripresa nella generazione elettrica e il secondo trainato dall’aumento della mobilità”  E’ inutile girarci attorno, il problema rimangono i Paesi più industrializzati… Abissali sono le differenze di consumi elettrici/ab ed emissioni di CO2/ ab tra i paesi ricchi e quelli del Sud del mondo, più che evidenti se confrontiamo ad es. i dati 2022 di USA e Nigeria, due paesi con centinaia di   milioni di abitanti: 1- Speranza vita: USA Uomini 74 anni, Donne 80 anni, Nigeria Uomini 53 anni, Donne 54 2- Consumi elettrici/ab :   -USA12.393 kWh , Nigeria  144 kWh 3-  Emissioni di CO2/ ab:  USA  14,95 Ton.,   Nigeria 0,59 Ton. Confrontiamo anche i dati 2022 del Brasile, una colonia fino al 1822, con 213 milioni di abitanti,  grande 27 volte l’Italia (densità 25 ab.Kmq), e dell’Italia, 59 milioni abitanti ( densità 195 ab.Kmq): 1- Speranza vita:              Brasile Uomini 70 anni, Donne 76 anni, Italia Uomini 79 anni, Donne 86 2- Consumi elettrici/ab :  Brasile 2710  kWh , Italia 4872 kWh 3-  Emissioni di CO2/ab:  Brasile 2,25 Ton.,    Italia 5,73 Ton. Alla Cop30 quindi si discuteranno le false soluzioni alla crisi climatica? A Belem (Stato del Parà), dal 12 al 16 novembre si terrà la Cupola dei Popoli, in parallelo alla riunione di COP30, organizzata dai movimenti dell’America Latina, compreso MST, a cui parteciperanno circa 15 mila delegati di tutti i movimenti mondiali,  per confrontarsi e sollecitare  ai Governi riuniti nella COP30 vere soluzioni, non quelle false come i Mercati del Carbonio, la geoingegneria, il sequestro e stoccaggio del carbonio. Tutti i movimenti sono contro i Crediti di Carbonio, una nuova forma di colonizzazione capitalista, uno strumento finanziario, per cui un’entità, che non può ridurre direttamente le proprie emissioni, può acquistare il diritto a emettere CO2, compensando tale emissione attraverso investimenti in progetti che la riducono altrove. In un manifesto pubblicato alla vigilia della COP30, 55 movimenti e organizzazioni di 14 paesi dell’America Latina e dei Caraibi si sono riuniti per respingere i mercati del carbonio e difendere i loro territori contro una valanga di progetti di compensazione del carbonio che sta causando danni in tutta la regione. Una nuova ricerca di Oxfam e del CARE Climate Justice Centre, pubblicata il 6 Ottobre 2025 rileva che per ogni 5 dollari ricevuti, i paesi in via di sviluppo ne restituiscono 7. A livello globale, quasi il 70% dei finanziamenti viene erogato sotto forma di prestiti anziché di sovvenzioni. Il fatto che la Cop30 avverrà nel Brasile di Lula è un segnale di multipolarismo o di ennesimo avallo all’estrattivismo? La Cop30 sarà presieduta da Lula, Presidente del Brasile, il cui Governo, che ha aderito all’Opec, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, nel febbraio 2025). Dopo 5 anni di battaglia tra Petrobras, l’industria petrolifera statale brasiliana, e Ibama, l’organismo di controllo ambientale, il governo Lula ha autorizzato il 20 ottobre 2025 l‘esplorazione, ai fini di successive trivellazioni di 19 Blocchi alla Foce del Rio delle Amazzoni. “Il progetto prevede la perforazione di un pozzo esplorativo nel Blocco 59, un sito offshore a 500 km dalla foce del Rio delle Amazzoni e a 160 km dalla costa, ad una profondità di oltre 2.800 metri. L’area, nota come Margine equatoriale, è considerata una promettente nuova frontiera petrolifera, sull’onda delle grandi scoperte offshore operate nella vicina Guyana. Secondo Petrobras, le trivellazioni,  inizieranno immediatamente e dureranno cinque mesi. E’ un  progetto prioritario per Lula, che sostiene che le maggiori entrate derivanti dal petrolio saranno fondamentali per finanziare la transizione climatica del Brasile, un Paese che, pur essendo l’8° produttore mondiale di petrolio, ricava circa metà della sua energia da fonti rinnovabili.”   “Mentre lo shale oil sta calando, a livello mondiale quello estratto con trivellazioni offshore da acque profonde (Deep Water) vedrà un’impennata del 60% entro il 2030. Per trovare giacimenti di petrolio e gas sotto il fondo marino, le compagnie energetiche usano cannoni ad aria compressa per creare mappe sismiche”. Dopo la fase di esplorazione l’ANP, l’Agenzia Nazionale Petrolio brasiliana, ha già concesso alle industrie petrolífere Petrobras, ExxonMobil, Chevron e CNPC 19 blocchi per lo sfruttamento di petrolio e gas alla Foce del Rio Amazonas: 10 blocchi alla statale Petrobras e alla ExxonMobil, in un consorzio 50/50 gli altri 9 blocchi a un consorzio composto da Chevron (65%) e dalla statale cinese CNPC (35%), che nel frattempo  ha dato il via a trivellazioni in acque ultra-profonde, fino 11 mila metri per la ricerca di petrolio e gas, per cercare di affrancarsi dal petrolio straniero . In Brasile il Petrolio è ora il principale prodotto di esportazione, avendo superato la soia.Nel 2006 c’è stata in Brasile la prima estrazione di Petrolio PreSal, a profondità fino ai 7000 metri, sotto uno strato di sale spesso fino a 2.500 metri, ma nell’ultimo trimestre 2024 la produzione di  è diminuita del 3,4%, per la necessità di più frequenti fermate per manutenzione dell’estrazione dai pozzi, ma il petrolio da presal, estratto nei bacini di Santos e Campos,  rappresenta ancora a novembre 2024 il 71,5 della produzione totale di petrolio in Brasile. Anche per questa crisi del PreSal il governo punta ad estrazioni offshore a minor profondità e in altre località del mare. Inoltre è da tener presente che il Brasile produce Petrolio greggio da raffinare, ma ha solo 14 raffinerie ( l’Italia ne ha 11), molte  vecchie e con limitazioni tecnologiche per la lavorazione del petrolio pre-sal, che è più leggero e richiede adattamenti. Il Brasile esporta attualmente il 52,1% della sua produzione di petrolio (dati 2024 INEEP (Istituto per gli Studi Strategici su Petrolio, Gas e Biocarburanti). Questo petrolio finisce per essere raffinato in altri Paesi e una parte torna persino in Brasile come combustibile. La Cina importa il 50% del petrolio estratto dal presal non raffinato. Il Brasile importa ancora fino al 25% del suo gasolio ( con cui alimenta  camion, trattori, autobus e macchinari agricoli) e il 10% della  benzina che consuma. Non c’è una Sovranità energetica.  I colli di bottiglia nella raffinazione mostrano una contraddizione che grava pesantemente sulle tasche dei brasiliani, secondo i dati dell’OEC. E’ bene sapere che in Brasile la popolazione è costretta a viaggiare in bus e auto, i binari per trasporto di treni passeggeri sono solo 1500 km, rispetto ai 30.129 mila Km per trasporto merci dei quali solo 1121 elettrificati. E’ un bene che in Brasile nel 2024  ci sia stato una diminuzione delle emissioni di CO2 del 16,7% , secondo l’Osservatorio brasiliano sul clima, una rete di ONG ambientaliste, attribuita al successo del governo di Lula nella lotta alla deforestazione, ma le enormi contraddizioni di Lula stanno esplodendo alla vigilia della sua presidenza della COP 30. Lula ha sempre considerato il Petrolio fondamentale per lo sviluppo del Paese e nell’ultimo anno l’ha difesa più volte dal essere considerata responsabile dell’aumento dei prezzi dei combustibili, ma nell’ultimo anno le ha chiesto di non pensare solo agli azionisti. Che posizione ha il Movimento Sem Terra di fronte a queste contraddizioni? Nell’ultimo mese come Comitato Amigos MST Italia abbiamo chiesto al MST  la sua posizione ufficiale in merito all’autorizzazione per le trivellazioni alla foce del Rio delle Amazzoni, concessa dal governo Lula, che include, per il 65% aziende americane (ExxonMobil e Chevron). Abbiamo scritto: “Il Brasile fa parte dei BRICS (che includono anche governi razzisti e autoritari, come Iran, India, Egitto, ecc.) permetterà agli Stati Uniti di massacrare il Mar del Pará (un oceano che, essendo il più forte, reagirà inevitabilmente, con conseguenze gravi e non del tutto prevedibili per i cambiamenti climatici e anche per la regione amazzonica), tutto questo alla vigilia della COP 30, che il governo Lula presiederà?”. Stedile ci ha risposto: “Avete assolutamente ragione. In effetti, stiamo vivendo molte contraddizioni in ambito ambientale sotto il governo Lula …. ma le forze del capitale sono più forti.” I movimenti ecologisti, contadini, indigeni e terzomondisti continueranno la loro lotta contro quella che Vandana Shiva chiama “ecoapartheid”? Tutta Via Campesina, i movimenti ambientalisti mondiali e  tutti movimenti brasiliani lottano e lotteranno contro questo ecocidio. Anche la Commissione per l’Ecologia Integrale dei vescovi brasiliani CNBB ha preso una posizione durissima: “La Conferenza episcopale brasiliana (CNBB) condanna le trivellazioni petrolifere nel Margine equatoriale e mette in guardia dall’incoerenza del governo in materia di clima” CNBB ha ricordato che due anni fa, Papa Francesco, nella sua esortazione Laudato Deum sulla crisi climatica, avvertiva: «Le compagnie petrolifere e del gas hanno l’ambizione di realizzare nuovi progetti per espandere ulteriormente la loro produzione. (…) Ciò significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti dei cambiamenti climatici”(LD 53). Vedremo come i movimenti riusciranno a incidere sulla COP 30 dei Governi. La nostra lotta, senza guerra, continua, come ci hanno insegnato in America Latina. Ricordiamoci sempre le parole illuminanti di Papa Bergoglio “Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la Natura non perdona mai”, di certo non perchè Madre Natura sia matrigna, come affermava l’illustre oncologo Umberto Veronesi.E’ l’uomo e il patriarcato che sono spesso patrigni. Stop alla Guerra a MADRE NATURA! Stop all’estrazione di Petrolio e al Massacro dei Mari! Lorenzo Poli
Dedollarizzazione #nucleare LEVANTE 27.10.2025 - Casa del Sole Tv I #BRICS hanno prestato l'equivalente di 480 miliardi di dollari in yuan, un aumento del 50% in un anno. La #Cina sta promuovendo in maniera sempre più aggressiva la sua valuta nel commercio globale. Al tempo stesso, la #Russia ha completato con successo i test del missile da crociera a propulsione nucleare #Burevestnik, un’arma che Vladimir Putin ha definito “unica al mondo” e con “gittata illimitata”.https://www.youtube.com/watch?v=7WuvaGnFpvk
Russia-Africa, le sfide attuali
> Il volto dell’Africa e la percezione che se ne ha a livello globale stanno > cambiando radicalmente. Fino a poco tempo fa, l’Occidente e i suoi > rappresentanti descrivevano il continente come un oggetto, non come un > soggetto, della politica internazionale, bisognoso di consigli e tutela > esterni. La regione era etichettata come “senza speranza”. Questi stereotipi > sono ovviamente diventati obsoleti. Gli africani hanno preso in mano il > proprio destino, promuovendo lo slogan: “Soluzioni africane ai problemi > africani”. L’Africa sta avanzando con sicurezza alla prima linea della politica e dell’economia globale. Durante il dibattito politico generale dell’80ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha descritto questa tendenza come un “nuovo risveglio” del continente. La sua affermazione come polo indipendente di un mondo multipolare è guidata da fattori oggettivi. Tra questi figurano la sua posizione geografica strategica, le risorse naturali e il grande potenziale demografico: oltre un miliardo di persone, per lo più giovani. Delle venti economie in più rapida crescita al mondo, dodici si trovano in Africa. La creazione dell’Area di Libero Scambio Continentale Africana (AfCFTA) nel 2021 consente al commercio intracontinentale di raggiungere livelli record nel prossimo futuro. Secondo le stime della Banca Mondiale, le esportazioni intracontinentali potrebbero aumentare di oltre l’80% entro il 2035. Assistenza umanitaria La Federazione Russa è tradizionalmente pronta ad aiutare i suoi amici africani. Contrariamente a quanto si pensa, la Russia non ha mai abbandonato l’Africa, nemmeno nei momenti difficili, impegnandosi a fornire assistenza umanitaria. Nell’ambito del suo programma di alleggerimento del debito, la parte russa ha cancellato 23 miliardi di dollari di prestiti precedentemente concessi. Oggi, i debiti più consistenti vengono convertiti in programmi di “debito per lo sviluppo”, che consentono alla Russia di compensare il debito dei paesi africani investendo in progetti di trasformazione socioeconomica nazionale. Ad esempio, insieme al Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM), la Russia sta attuando un’iniziativa per convertire il debito del Mozambico nella creazione di un sistema sostenibile di alimentazione scolastica sul territorio. Inoltre, negli ultimi quattro anni, il PAM ha fornito 50 milioni di dollari in aiuti a 15 paesi africani. La Russia ha offerto una mano agli africani durante la pandemia di coronavirus e le interruzioni delle catene di approvvigionamento agricolo indotte dall’Occidente, nel contesto della crisi ucraina. Sei dei paesi più poveri del continente – Burkina Faso, Zimbabwe, Mali, Somalia, Repubblica Centrafricana ed Eritrea – hanno ricevuto 200.000 tonnellate di cereali come aiuti umanitari, coprendo fino al 20% del loro fabbisogno. Vertici Russia-Africa I vertici Russia-Africa del 2019 e del 2023 hanno dato un forte impulso all’ulteriore sviluppo della cooperazione. Il Forum di Partenariato Russia-Africa si è affermato come fondamento di questa relazione reciprocamente vantaggiosa dalle molteplici sfaccettature. L’attuazione degli accordi raggiunti dai leader è coordinata attraverso conferenze ministeriali. Nel 2024 si è tenuta a Sochi la Prima Conferenza Ministeriale del Forum di Partenariato Russia-Africa; quest’anno si terrà il 18-19 novembre al Cairo. L’impegno della Russia ad approfondire il coinvolgimento multilaterale con gli africani si è già dimostrato nella struttura del Ministero degli Affari Esteri russo. Quest’anno è stato istituito il Dipartimento per il Partenariato con l’Africa e recentemente sono state aperte nuove ambasciate in otto paesi, con altre due in arrivo: in Liberia e alle Comore. A margine della settimana di Alto Livello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, conclusasi di recente, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha tenuto una serie di incontri con i suoi omologhi africani di Algeria, Burundi, Egitto, Marocco, Nigeria, Sudan, Ciad e Sud Sudan. Ha inoltre partecipato a un incontro con i capi delle agenzie degli affari esteri della Conferenza degli Stati del Sahel. Il commercio della Russia con l’Africa Il fatturato commerciale della Russia con l’Africa è in costante crescita: in cinque anni è aumentato di oltre il 60% (da 16,8 miliardi di dollari a 27,7 miliardi di dollari). È stato lanciato uno speciale meccanismo di investimento per sostenere gli operatori economici russi che operano nel continente. La cooperazione umanitaria è in espansione. Il numero di africani che studiano in Russia è quasi raddoppiato. Tra i progetti in programma c’è l’apertura di un Museo della Cultura Africana. Dei 23 partecipanti al concorso Intervision (concorso canoro internazionale), che si è recentemente svolto a Mosca, cinque rappresentavano questo continente (Egitto, Kenya, Madagascar, Etiopia e Sudafrica). L’Africa sta dimostrando una crescente capacità di gestione e indipendenza nelle relazioni internazionali. I processi di integrazione stanno accelerando sotto l’egida, in primo luogo, dell’Unione Africana. La Russia apprezza molto le prospettive di cooperazione tra le istituzioni regionali con i BRICS (organizzazione di economie emergenti che comprende Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e altri Paesi), l’EAEU (unione economica tra Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia e Kirghizistan) e la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che include Cina, India, Russia, Pakistan, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Bielorussia, con altri 16 Paesi affiliati come osservatori o partner di dialogo). La Russia è pronta a creare un “ponte” intercontinentale affidabile. Attualmente sta implementando attivamente l’iniziativa principale del presidente russo Vladimir Putin per costruire un Partenariato Eurasiatico Allargato, che la Russia considera un catalizzatore per il processo di “integrazione delle integrazioni”. Di conseguenza, si stanno creando le condizioni per la convergenza dell’AfCFTA (Trattato di Libero Commercio Continentale Africano: è un trattato internazionale che regola l’apertura delle frontiere e la creazione di un’area di libero scambio tra i Paesi africani membri) e delle sue controparti eurasiatiche. La Russia sostiene la voce dell’Africa Inoltre, la Russia sta rafforzando costantemente la posizione e il potenziale dell’Africa. La Russia sostiene l’aumento dell’influenza dell’Africa nel Gruppo G20. Le presidenze BRICS di questo forum nel periodo 2022-2025, incentrate sulla promozione degli interessi della maggioranza globale, hanno svolto un ruolo significativo nel consolidare il continente come partecipante integrale al G20. Un evento significativo è stata l’ammissione dell’Unione Africana al G20 nel 2023. Tra i paesi invitati, l’Egitto e la Nigeria hanno già ottenuto lo status di membri permanenti del G20, insieme ad attori asiatici chiave nelle relazioni economiche internazionali come Singapore e gli Emirati Arabi Uniti. Quest’anno segna il debutto dell’Africa al G20, guidata da un partner che condivide gli stessi ideali, il Sudafrica. Su iniziativa di Pretoria, l’agenda del forum include questioni urgenti come la riforma istituzionale, in primo luogo del FMI, della Banca mondiale e dell’OMC, nell’interesse dei paesi del Sud e dell’Est del mondo, al fine di porre fine al dominio collettivo dell’Occidente. Un altro obiettivo, condiviso dalla Russia, è lo sviluppo di meccanismi efficaci per stimolare la crescita economica in Africa, principalmente attraverso la riduzione del costo del capitale. Gli investimenti occidentali aggravano le disparità Nel frattempo, continua lo sfruttamento della maggioranza globale attraverso accordi militari-politici ed economici non equi e l’espansione culturale e linguistica delle élite neoliberiste. Gli investimenti occidentali non fanno che aggravare le disparità e il divario tecnologico e digitale lungo l’asse nord-sud. Un esempio da manuale: sebbene il mercato globale del caffè abbia un valore di 460 miliardi di dollari, l’Africa, che fornisce la materia prima, riceve meno del 10% dei profitti; il resto va ai Paesi del “miliardo d’oro” (Golden Billion:  Paesi appartenenti al sistema occidentale guidati dagli Stati Uniti). Il ministro degli Esteri sudafricano Rafik Lamola ha osservato in modo eloquente che il continente viene privato delle sue risorse, mentre i prodotti finiti vengono importati a prezzi gonfiati. A differenza dell’egemonia occidentale, che per secoli ha considerato l’Africa come un’appendice arretrata ricca di risorse, la Russia ha sempre costruito relazioni di reciproco rispetto con gli africani su un piano di parità. La Russia ha dato un contributo significativo al processo di decolonizzazione, uno sviluppo fondamentale nella formazione della multipolarità, facilitando così la realizzazione di uno dei principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite: l’autodeterminazione dei popoli. La lotta contro la discriminazione razziale, la schiavitù e l’oppressione in Africa, Asia e America Latina è sempre stata al centro degli sforzi internazionali della Russia. 65 anni fa, su iniziativa dell’URSS, era stata adottata la Dichiarazione sulla Concessione dell’Indipendenza ai Paesi e ai Popoli Coloniali. La Russia condivide la posizione dell’Unione Africana secondo cui le ex potenze coloniali devono risarcire i danni inflitti all’Africa con saccheggi, violenze e sfruttamento sotto il falso pretesto del “fardello dell’uomo bianco” (poesia di Rudyard Kipling del 1899 spesso usata come una sorta di manifesto del colonialismo e dell’imperialismo) e della “missione civilizzatrice”. La Russia ritiene inaccettabile un approccio neocoloniale così cinico. Infatti, la Russia continuerà a rafforzare la posizione dell’Africa nel G20 e prevede di dare un contributo notevole alla formazione di accordi significativi al vertice del G20 a Johannesburg (22-23 novembre) nell’interesse dell’Africa e dell’intero Sud e Est del mondo. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. -------------------------------------------------------------------------------- Mikhail Berdyev è Ambasciatore straordinario del Ministero degli Affari Esteri russo.  Pressenza New York
Geraldina Colotti: a Sassari la voce del Venezuela contro l’oblio
Sono ripartiti gli incontri di formazione politica organizzati da Sa Domo de Totus. Lo scorso giovedì la storica sede dell’associazione sassarese si è trasformata in un laboratorio di riflessione internazionalista. L’occasione è stata l’incontro intitolato “La rivoluzione chavista in Venezuela: dalla resistenza antimperialista al mondo multipolare”, con la partecipazione della giornalista e scrittrice Geraldina Colotti, tra le massime conoscitrici dell’America Latina contemporanea e direttrice dell’ edizione italiana di Le Monde Diplomatique. Colotti ha alle spalle una lunga carriera di reportage e pubblicazioni che raccontano la trasformazione politica e sociale del Venezuela bolivariano e più in generale dell’America Latina. Autrice di testi come “Talpe a Caracas” e “Dopo Chávez”, ha presentato al pubblico sassarese il suo ultimo libro, “Lo spazio dei dinosauri” (Dei Merangoli), che intreccia memoria, geopolitica e analisi dei processi rivoluzionari latinoamericani. Venezuela, BRICS e la sfida al mondo unipolare Il cuore dell’incontro ha ruotato attorno al ruolo del Venezuela nel contesto internazionale in un momento in cui si fa sempre più concreta l’ipotesi di un attacco armato statunitense: “il Venezuela è molto più vicino alla Sardegna di quanto si pensi – ha esordito Colotti – la vostra isola è infatti una terra occupata militarmente e colonizzata e questa condizione presenta molte similitudini con l’America Latina che lotta per la sua emancipazione dal sistema coloniale”. Colotti ha poi spiegato come il chavismo, nato come risposta alla povertà e all’esclusione sociale e come pratica partecipativa popolare, sia divenuto anche un attore centrale nella costruzione di un ordine mondiale multipolare, in contrapposizione all’egemonia statunitense. Le guerre globali e la Palestina L’incontro ha infatti allargato lo sguardo oltre i confini latinoamericani. Si è discusso delle conseguenze planetarie del conflitto per procura in Ucraina, dei nuovi equilibri che ne derivano e delle lotte dei popoli oppressi. Particolare attenzione è stata rivolta al tema del genocidio palestinese definito dall’autrice “una ferita aperta che svela l’ipocrisia dell’occidente e che interroga le coscienze di tutti i popoli del mondo che si stanno ribellando all’imperialismo”. La memoria come arma di liberazione Ma per capire il presente – ha concluso l’autrice – è fondamentale ritornare al passato, perché “è vero ciò che si dice, che senza memoria non c’è futoro”. Al centro del romanzo c’è, infatti il massacro di Cantaura. Un massacro di guerriglieri, avvenuto in Venezuela nel 1982, durante le democrazie camuffate della Cuarta repubblica. In quell’anno – ha incalzato l’autrice – in Italia si è praticata la tortura di stato contro i rivoluzionari. “Anche noi – ha aggiunto – abbiamo vissuto in una democrazia camuffata, quella di Gladio, della Cia e delle stragi fasciste impunite. Solo che, a differenza del Venezuela, dove gli ex guerriglieri governano e la loro storia è una leva per costruire il futuro, noi siamo diventati un paese anomico in cui i becchini della memoria, a colpi di dietrologia, legalitarismo, ricatti e rivisitazioni, hanno spalancato la strada al ritorno mefitico della nuova Internazionale nera. Cristiano Sabino
Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente
Stiamo vivendo un momento importante, il corso della storia sta davvero virando, ci sono segni di cedimento di quella continuità plurisecolare che ha visto il cosiddetto occidente egemonizzare il mondo con dosi massicce di colonialismo, genocidi, guerre, razzismo mascherato prima … Leggi tutto L'articolo Il viaggio della Global Sumud Flotilla e la vergogna dell’Occidente sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Rompere l’assedio, fermare il genocidio
La Global Sumud Flottilla, carica di aiuti alimentari e sanitari, composta da più di 50 imbarcazioni provenienti da tutta Europa battenti bandiera di diversi Paesi, è salpata da Barcellona per dirigersi verso Gaza, congiungendosi con le imbarcazioni che sono salpate da Genova, Tunisi e quelle che salperanno dai porti siciliani e greci. Le imbarcazioni si incontreranno tutte in acque internazionali, dove proseguiranno il loro viaggio verso la Striscia di Gaza con la partecipazione di attivisti e volontari provenienti da oltre 44 Paesi. L’obiettivo è esplicito: “rompere il blocco illegale di Gaza e aprire un corridoio umanitario e porre fine al genocidio in corso del popolo palestinese”, rompere l’assedio piratesco che Israele impone al popolo di Gaza che genera carestia e morte. Oltre al valore umanitario, la spedizione è un atto simbolico di disobbedienza civile nei confronti delle restrizioni imposte in modo piratesco da Israele. La Global Sumud Flottilla vuole essere un richiamo ai principi di diritto internazionale e alla necessità di garantire corridoi umanitari sicuri per una popolazione, quella gazawi, allo stremo. Il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha in modo criminale dichiarato che: “Gli attivisti della Sumud Flotilla saranno trattati come terroristi; gli attivisti saranno arrestati e trattenuti in detenzione prolungata – a differenza della precedente prassi – nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon, utilizzate per detenere i terroristi in condizioni rigorose tipicamente riservate ai prigionieri di sicurezza; tutte le navi che partecipano alla flottiglia saranno confiscate e riutilizzate per le forze dell’ordine israeliane.” Vedremo cosa faranno i Governi del “democratico” occidente, che si appellano al diritto internazionale in relazione alle azioni dello Yemen nel mar Rosso contro le navi dirette in Israele, nei confronti delle eventuali azioni piratesche della marina israeliana contro le imbarcazioni umanitarie della Global Sumud Flottilla. Tante imbarcazioni della Sumud Flottilla battono bandiera italiana e lo Stato Italiano ha il dovere di garantire la libertà di navigazione e la sicurezza dei propri cittadini che agiscono per scopi altamente umanitari. Mentre la Global Sumud Flottilla prende il largo, il Parlamento dello Stato sionista ha dato via libera a nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, rendendo impossibile la creazione di una entità statuale palestinese, e ponendo le basi all’annessione di tutta la regione all’interno di Israele, violando diverse risoluzioni dell’ONU. In contemporanea l’esercito israeliano sta intensificando le sue azioni nella striscia di Gaza con l’obiettivo dichiarato dell’occupazione di tutta Gaza City, dove sono presenti più di un milione di civili. Questa mossa arriva in un momento di grave preoccupazione per la crisi umanitaria a Gaza, dove centinaia di migliaia di civili sono sfollati e a rischio carestia. In modo parallelo arriva la decisione del Governo Trump di negare l’ingresso alla delegazione dell’Autorità palestinese a New York per potersi recare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una decisione che delegittima le stesse Nazioni Unite. Fa specie la dichiarazione del presidente statunitense Trump sul premier israeliano Netanyahu: «È un eroe di guerra, […] E anche un brav’uomo», proprio mentre il Governo reazionario sionista di Israele sta in modo incontrastato portando avanti la politica di pulizia etnica e la realizzazione del progetto del “grande Israele”. Persino il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che “L’offensiva militare israeliana a Gaza non può che portare a un vero disastro per i due popoli e trascinerà la regione in una guerra permanente». La politica genocida del Governo sionista ultranazionalista e integralista di Israele non è contrastata da nessun Paese del “democratico” occidente. Continuano in modo normale le relazioni politiche e commerciali. Il traffico di armi non si è mai interrotto. Il colosso industriale bellico italiano Leonardo spa fa affari milionari continuando ad esportare in Israele sistemi bellici di alto livello tecnologico che vengono usati per mietere vittime fra i i civili palestinesi. I paesi occidentali, quelli del cosiddetto BRICS, quelli arabi (a cominciare da Egitto, Giordania, Arabia Saudita, emirati del Golfo, ecc.) assistono in silenzio ad una delle pagine più buie della storia contemporanea. Chi si oppone al massacro sono le centinaia di migliaia di donne e uomini che invadono le piazze delle maggiori città del Pianeta, che in modo unanime chiedono la fine del genocidio del popolo palestinese e una pace permanente in Medio Oriente. Quello che fa sperare è la crescente opposizione al Governo sionista israeliano che si intravede all’interno dello stesso Israele contro la guerra genocida che si trascina ormai da quasi due anni. Il riuscitissimo sciopero generale contro il Governo Netanyahu, che ha visto oltre un milione di israeliani scendere in piazza non solo per il rilascio degli ostaggi ancora in mano alle milizie palestinesi, ma esplicitamente contro la guerra e contro il genocidio del popolo palestinese è un nervo scoperto all’interno della società israeliana. In migliaia hanno invaso le strade di Jerusalem, Tell Aviv, di tante altre città. Blocchi stradali hanno interessato le principali arterie del Paese. Diverse decine di manifestanti sono stati gli arresti. Sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che si sottraggono all’arruolamento rifiutando di indossare la divisa dell’IDF. La protesta dell’opposizione israeliana alla guerra apre nuove prospettive per la creazione di un fronte transnazionale per fermare in Israele la deriva sciovinista, nazionalista, permeata da estremismo religioso che sta alla base della pulizia etnica e del genocidio del popolo palestinese. Gli stati nazione basati sul modernismo capitalista, gli stati teocratici (sia quello sionista che l’utopico stato palestinese) creano barriere, divisione, odio. La cooperazione fra i popoli, la fratellanza fra genti diverse sono la medicina contro la guerra e la sopraffazione. La creazione di una entità confederale democratica dove coesistano palestinesi, musulmani, cristiani, ebrei, atei; dove ogni cittadino sia considerato come tale, con pieni e pari diritti di ogni altro; dove sia garantito il ritorno dei profughi e il diritto di cittadinanza per tutte e tutti; dove ci sia il massimo rispetto per ogni credo liberato da ogni integralismo fanatico, questa è la prospettiva reale per quella terra martoriata da soprusi, apartheid, guerre.   Renato Franzitta
Il Brasile rifiuta il nuovo ambasciatore israeliano e Tel Aviv dichiara Lula “persona non grata”
Brasilia-InfoPal. Si è aggravata la frattura diplomatica tra Israele e Brasile dopo che il paese latinoamericano ha rifiutato di accettare il candidato di Tel Aviv come nuovo ambasciatore, spingendo il regime occupante a declassare le relazioni diplomatiche e a dichiarare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva “persona non grata”. Lula ha respinto lunedì la nomina di Gali Dagan, ex ambasciatore in Colombia, come nuovo inviato a Brasilia, lasciando la sede vacante. Il Times of Israel ha citato il ministero degli Esteri israeliano, che ha confermato come i rapporti con il Brasile siano ora condotti a un livello inferiore: “Dopo che il Brasile, in modo inusuale, ha evitato di rispondere alla richiesta di gradimento per l’ambasciatore Dagan, Israele ha ritirato la candidatura e i rapporti tra i due paesi sono ora condotti a un livello diplomatico più basso”. L’episodio segna un nuovo punto critico nelle relazioni tra Brasilia e Tel Aviv, già tese per via del genocidio israeliano a Gaza. Il Brasile aveva già richiamato il proprio ambasciatore da Israele lo scorso anno in segno di protesta contro l’altissimo numero di vittime civili, senza poi nominarne uno nuovo. In risposta, Israele aveva dichiarato Lula “persona non grata”, dopo che il presidente aveva paragonato il genocidio di Gaza alle azioni della Germania nazista: “Quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza non è una guerra. È un genocidio. Non è una guerra tra soldati contro soldati. È una guerra di un esercito addestrato contro donne e bambini”, aveva dichiarato Lula. Lunedì Israele ha ribadito lo status di “persona non grata” per Lula. In diplomazia, tale definizione indica che un rappresentante straniero è considerato inaccettabile e, solitamente, costretto a lasciare il paese ospitante. Il Brasile si è distinto fin dall’inizio del genocidio israeliano a Gaza, nel 2023, come sostenitore della causa palestinese. In una mossa diplomatica significativa, a luglio ha annunciato la sua intenzione di aderire al ricorso del Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia, coerentemente con la sua politica di lungo corso: già nel 2010, infatti, aveva riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato entro i confini del 1967. Nel frattempo, l’esercito israeliano continua a massacrare civili palestinesi a Gaza, colpendo l’enclave assediata con bombardamenti aerei e di artiglieria. Dal 7 ottobre 2023, la campagna genocida israeliana ha provocato almeno 62.744 morti palestinesi nella Striscia.
Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
 Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump? I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia_ Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male.  Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata. Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi). Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il saldo finanziario bilaterale Ue-Usa nel 2024 alla voce investimenti diretti esteri è pressoché in equilibrio. Nel 2022 – ultimo dato disponibile -, erano gli Usa a essere in avanzo sulle transazioni finanziarie, ovvero a rivendicare una prevalenza di attività (assets) rispetto alle passività (liabilities) dovute ai Paesi oltreoceano, con un avanzo di circa $49 miliardi. La bilancia dei pagamenti (bilancia commerciale e movimenti dei capitali) tra Usa e UE è quindi sostanzialmente in pareggio. Di conseguenza non c’è nessuna ragione economica che può legittimare l’imposizione di dazi. Vi sono però giustificazioni e motivazioni politiche. È noto che Trump ha ereditato dall’amministrazione Biden un’economia con un tasso di crescita positivo, ma con elevata inflazione e un forte e crescente indebitamento, sia nei conti con l’estero che in termini di debito pubblico. Un indebitamento che richiede un costante finanziamento sui mercati speculativi finanziari e sul mercato dei titoli pubblici. La politica monetaria Usa per tale motivo non ha ritenuto opportuno abbassare i tassi d’interesse, anche in previsione di una riduzione dell’inflazione (entrando in conflitto con lo stesso Trump) per mantenere quel ruolo di attrattore di capitali esteri necessari per ripagare i due debiti. La possibilità di attrarre capitali esteri (soprattutto dai paesi che vantano i più alti surplus commerciali con gli Usa, Cina e Giappone in testa) dipende dalla capacità del dollaro di mantenere la sua posizione dominante di valuta di riserva e di scambio internazionale. In contemporanea è necessario che anche gli indici delle borse americane (Dow Jones, Nasdaq, S&P500) si mantengano su livelli elevati, senza pagare eccessivamente le conseguenze di alti tassi d’interesse. Il primo semestre 2025 ha dato segnali contradditori che al momento non consentono ancora di valutare l’efficacia della politica di Trump nell’obiettivo di rimarcare l’egemonia unipolare Usa come principale condizione (tra le altre) per mantenere la stabilità e la solvibilità economica. L’andamento del PIL Usa ha fatto registrare un aumento del 3% nel II trimestre dopo un calo, inatteso, dello 0,5% nel I trimestre (dovuto all’incremento dell’import dei semilavorati del 41% per fare magazzino prima dell’imposizione dei dazi). Il dato del II trimestre, tuttavia, non deve ingannare.  Uno dei principali motori di questo rimbalzo è stato il contributo delle esportazioni nette (grazie anche, come vedremo, alla svalutazione del dollaro), che hanno aggiunto ben 5 punti percentuali al PIL. Tuttavia, il quadro non è completamente roseo: i consumi interni – storicamente il cuore pulsante dell’economia americana – hanno rallentato, con un aumento dell’1,4%, registrando, in due trimestri consecutivi, il ritmo più contenuto da quando è scoppiata la pandemia. Anche gli investimenti privati mostrano segni di indebolimento, mentre la domanda interna, misurata dalle vendite finali ai consumatori privati statunitensi, è cresciuta solo dell’1,2%, toccando il minimo da fine 2022. L’inflazione, infine, si è attestata al 2,5%, confermando che le pressioni inflazionistiche restano presenti, anche perché tale dato non tiene conto dell’andamento dei prezzi dei beni energetici e alimentari. Sul piano finanziario, il movimento dei capitali tra Usa ed Europa a partire dal 2025 ha mostrato una inversione di tendenza, con lo spostamento di fondi dagli Stati Uniti verso il continente europeo (e anche verso altri paesi), con il 39% dei gestori di fondi che ha sovrappesato le azioni europee a marzo 2025 (ovvero, assegnato un peso maggiore a una determinata azione o titolo rispetto a come sarebbe rappresentato nell’indice di riferimento: indice di aspettative positive al rialzo), mentre il 23% ha sottopesato i titoli statunitensi, la percentuale più alta mai registrata da Bank of America. Tale dinamica significa che è diminuita la fiducia negli investimenti finanziari verso gli Stati Uniti e la capacità attrattiva di Wall Street, dopo che al 30 giugno 2024 – secondo i dati del Ministero del Tesoro –  il valore totale degli investimenti esteri in attività finanziarie americane aveva raggiunto il suo massimo storico con un valore pari a 30.881 miliardi di dollari con un aumento di circa il 20% rispetto al 30 giugno 2023: tale cifra consisteva per il 60% circa di azioni delle corporation americane e per il restante 40% di titoli di stato. I principali creditori risultano essere, in ordine di impegno, la Gran Bretagna, Isole Cayman, Giappone, Canada, Lussemburgo, Irlanda, Cina e Svizzera. Nel corso dell’ultimo anno, il blocco Cina + Hong Kong ha venduto titoli di stato americani per un importo pari a 30 miliardi nel mese di marzo 2025, riducendo lo stock di titoli USA a 1033 miliardi di dollari. Nonostante la flessione mensile, su base annua la Cina registra ancora un saldo netto di acquisto di titoli americani per 53 miliardi di dollari. Rispetto al picco del 2015, il saldo complessivo ha registrato una contrazione di circa un terzo, a conferma di una strategia di progressiva diversificazione degli investimenti cinesi delle riserve Usa in valuta estera. È prevedibile che tale dinamica continui anche nell’immediato futuro e possa essere accentuata dal conflitto commerciale in atto sui dazi. Il risultato di questa inversione di tendenza ha avuto effetti non secondari sulla quotazione del dollaro, che a partire da quest’anno ha cominciato a svalutarsi per una quota più o meno del 10%. È difficile prevedere se tale svalutazione del dollaro sia solo congiunturale o nasconda qualcosa di più strutturale. La politica dei dazi di Trump nel breve periodo potrebbe favorire un incremento di entrate per le casse federali. Secondo Il New York Times, con i dazi introdotti da aprile, prima ancora che entrino in vigore dall’8 agosto quelli nuovi, Donald Trump ha incassato finora 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. Solo a luglio le tariffe hanno fruttato quasi 30 miliardi di dollari. Gli analisti prevedono che nel tempo i nuovi dazi di agosto potrebbero generare entrate aggiuntive per oltre 2000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, ovvero 200 miliardi all’anno. Un effetto positivo che rischia però di essere vanificato dal rischio di un aumento dei prezzi. Secondo il Budget Lab di Yale, un centro di ricerca politica indipendente, i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia. Inoltre Trump, grazie all’effetto clava della politica dei dazi, soprattutto in sede di trattativa con l’Europa, ha ottenuto notevoli vantaggi fiscali per le imprese americane. Durante la riunione del G7 in Canada che si è svolto lo scorso 16-17 giugno, si è deciso, su pressione degli Usa, di non applicare la tassa minima globale sui profitti delle multinazionali che governano le piattaforme globali sotto il controllo americano. La proposta era già di per sé minima, considerando che l’aliquota proposta era pari solo al 15% (mentre ogni lavorator* o pensionat* paga aliquote ben più alte) ma era comunque qualcosa. C’è anche chi ha parlato, sfidando il ridicolo, di “compromesso onorevole” (il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti). Ma non basta. In sede di discussione del bilancio pluriennale europeo 2028-2034, oltre a ratificare il piano “ReArm Europe (che porta, come richiesto sempre da Trump e dalla Nato, le spese militari di ogni paese membro al 6% del Pil), la Commissione Europea ha deliberato di eliminare anche la proposta della digital tax, prelievo mirato a colpire i big della rete come Google, Meta e Amazon. L’insieme di queste decisioni ha galvanizzato la borsa americana, a seguito dei crescenti profitti che le imprese americane si apprestano a ottenere, grazie alla complicità fiscale. La svalutazione della valuta americana e la riduzione degli investimenti esteri in Usa non ha, per il momento, avuto effetto sulle aspettative speculative in atto, se non per un breve periodo. Dopo aver toccato il massimo a fine gennaio 2025 (44.850 punti), l’indice Dow Jones mostra segni di cedimento proprio per la svalutazione della valuta Usa e le incertezze della politica economica, sino a toccare il minimo a inizio aprile (37.645 punti), per stabilizzarsi sui 40.000 punti sino a metà giugno, quando le aspettative sono ritornate positive per le corporation americane. Oggi, il Dow Jones si colloca sui 45.000 punti.  Meglio ancora ha fatto lo S&P500 che a fine luglio ha superato del 4% il massimo storico di inizio febbraio 2025. Siamo dunque in presenza di segnali ambivalenti. Ma su un punto si può concordare: nonostante gli sforzi corporativi di Trump, la capacità Usa di guidare e dominare l’economia mondiale come ai bei tempi del Washington Consensus, a cavallo del millennio, è in declino. Non solo per le difficoltà debitorie dell’economia statunitense ma soprattutto per il fatto che negli ultimi trent’anni sono nati competitors sempre più agguerriti su scala globale, in grado di operare con innovatività, efficienza e cultura economica diversa. Stiamo ovviamente parlando di Cina, India, Brasile e gli altri paesi Brics+, non a caso i paesi che maggiormente sono stati attaccati da Trump con la politica dei dazi. È interessante notare che per India e Brasile, la giustificazione dei dazi non è di natura economica ma politica. Il Brasile viene sanzionato perché Lula sta avviando il procedimento di accusa per colpo di Stato al precedente presidente Bolsonaro e l’India perché acquista petrolio e gas dalla Russia di Putin. Più sfumata la posizione con la Cina e altri paesi del Sud-Est asiatico, con l’esclusione dei più piccoli. Tale prudenza non sorprende. Le grandi imprese americane sono fortemente internazionalizzate e hanno bisogno delle produzioni asiatiche di semilavorati e delle materie prime, oggi nevralgiche per l’innovazione tecnologica nell’industria dell’elettrico, dei big data e dell’intelligenza artificiale. L’introduzione di dazi in questi settori avrebbe forti ripercussioni sui prezzi dei beni americani e sulla profittabilità delle aziende. I proclami di Trump di riterritorializzare la produzione e/o di ridefinire linee di subfornitura “friend-shoring” (cioè con paesi amici, che non gravitano nell’area Brics+) difficilmente potranno diventare realtà nel breve termine. Ma l’egemonia politica internazionale non si gioca solo sul piano economico, ma anche logistico, militare e finanziario. A quest’ultimo riguardo, come abbiamo visto, è in atto, ma ancora in forma debole, un processo di de-dollarizzazione, seppur in presenza di una centralità delle borse americane del dettare le convenzioni speculative. Interessante notare la prudenza della Cina (e della Russia) di non accelerare verso la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro (che si dovrebbe chiamare R5), soprattutto se ancorata alle terre rare. Questo è stato uno dei punti in agenda durante il vertice Brics+ di Johannesburg del 2023.Ma tale opzione ha avuto al momento uno stop nell’incontro Brics+ 2024 a Kazan, dove si è chiesto piuttosto una riforma del FMI e nel summit recente di Rio 2025 dove i BRICS+ hanno chiesto maggior potere decisionale all’interno del FMI. In ogni caso, la realtà ci dice che l’ammontare delle transazioni commerciali tra i paesi BRICS che non si basano sul sistema Swift (dollaro) sono in forte aumento e che oggi tali transazioni rappresentano circa un quarto del commercio mondiale (24%). Se i tempi per una nuova valuta di riferimento internazionale in grado di sostituire il dollaro non sono ancora maturi, Trump può favorire tale maturazione se la politica dei dazi con l’obiettivo di ridurre il debito estero favorisce una fase recessiva e quindi una possibile svalutazione del dollaro, come sta, in parte, già avvenendo. Sul piano logistico-tecnologico, la supremazia dei BRICS+ è oggi senza discussione, anche se è in corso un tentativo di recupero delle big tech americane. Il problema piuttosto è l’emergere di tensioni competitive all’interno di un gruppo eterogeneo come quello dei Brics soprattutto tra India e Cina. Sul piano militare, la supremazia Usa non è soverchiante, anzi. Nel campo della tecnologia militare e dei nuovi metodi di combattimento (i droni), ad esempio, la Russia dispone di tecnologia più avanzata e la Cina è il paese che ha maggiormente aumentato la spesa militare. La richiesta di riarmo europeo a vantaggio del militare Usa cerca di sopperire a questa situazione. In conclusione, la visione degli Usa come potenza egemone richiede oggi una qualche revisione così come l’idea che oggi esiste un unico imperialismo, quello statunitense. Esistono diversi imperialismi con metodologie e logiche diverse (basti pensare alla penetrazione commerciale della Cina in Africa e oggi in Sudamerica). È il frutto della globalizzazione neoliberista. Da questo punto di vista, aveva ragione Marx nel Discorso sul libero scambio, pronunciato all’Associazione Democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1848 e poi pubblicato in appendice a Miseria della filosofia: > “… ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema > del libero scambio è distruttivo. Il libero scambio dissolve le antiche > nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il > proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la > rivoluzione sociale. È solo per questo esito rivoluzionario, signori, che io > voto in favore del libero scambio”. *DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA Redazione Italia
Conflitti globali e guerre in corso, un video
Il mondo sta affrontando un numero di conflitti che è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, con 56 conflitti attivi che coinvolgono 92 Paesi. Solo nel 2024 si contano più di 233mila vittime e oltre 100 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. A commentare in studio il tema caldo del momento Jeff Hoffman de “La Casa del Sole TV”, la giornalista Margherita Furlan, Angelo d’Orsi, già ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Torino e Antonio Mazzeo, giornalista, docente e attivista dell’Osservatorio, reduce dall’espulsione ad opera del governo israeliano per avere cercato di portare aiuti umanitari a Gaza a bordo della nave Handala di Freedom Flotilla. Qui il video della trasmissione  SCACCO MATTO 01.08.2025 – Il mondo in guerra –  Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Il Brasile si unisce alla lotta: un’altra nazione si oppone al genocidio israeliano a Gaza
Brasilia –Presstv.ir. Il Brasile si sta preparando a far valere il proprio peso legale a sostegno della causa per genocidio intentata dal Sudafrica contro il regime israeliano presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG). La decisione è stata inizialmente riportata dal quotidiano brasiliano Folha de S. Paulo e successivamente confermata da Reuters mercoledì, citando una fonte vicina alla vicenda. Il Sudafrica ha avviato la causa nel 2023, dopo che il regime ha sottoposto la striscia costiera a una vera e propria guerra genocida, accusando il brutale assalto militare di aver violato la Convenzione sul genocidio del 1948. Lo scorso ottobre, Pretoria ha presentato una memoria dettagliata al tribunale dell’Aja, illustrando le prove del genocidio. Al crescente coro di nazioni che chiedono l’accertamento delle responsabilità si sono già uniti Spagna, Turchia e Colombia, che hanno fatto richiesta di adesione alla causa. Gli esperti hanno definito la decisione di Brasilia audace, sottolineando come ponga la potenza latinoamericana in netto contrasto con gli Stati Uniti, il principale sostenitore del regime. «Il muro dell’impunità comincia a incrinarsi» Gli analisti hanno anche osservato come la crescente ondata di opposizione stia erodendo l’impunità del regime, garantita dagli Stati Uniti, che puntualmente pongono il veto a qualsiasi azione delle Nazioni Unite contro Tel Aviv. Washington ha accompagnato il suo pieno sostegno politico con un aiuto militare illimitato, fornendo a Tel Aviv miliardi di dollari lungo tutto il conflitto iniziato il 7 ottobre 2023. Finora, oltre 59.200 palestinesi — in gran parte donne e bambini — sono morti a causa dell’assalto. Il genocidio impiega anche la fame come “arma di guerra”, come dimostrato dall’assedio quasi totale imposto da Tel Aviv al territorio palestinese.