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Dopo soli sette giorni di detenzione: muore il detenuto Samir Al-Rifai di Jenin
Jenin. La Commissione per gli Affari dei detenuti ed ex detenuti e la Società dei Prigionieri palestinesi hanno annunciato la morte di Samir Muhammad Al-Rifai, 53 anni, originario della cittadina di Rummanah, nel governatorato di Jenin, mentre si trovava in custodia israeliana. In una dichiarazione congiunta diffusa giovedì, le due organizzazioni hanno riferito che Al-Rifai, sposato e padre di cinque figli, era stato arrestato dalle forze di occupazione israeliane nella sua abitazione il 10 luglio. Era atteso per la sua prima udienza presso il tribunale militare di Salem, ieri. Hanno inoltre sottolineato che, secondo i referti medici forniti dalla famiglia, Al-Rifai soffriva già di problemi cardiaci prima dell’arresto e necessitava urgentemente di cure mediche continuative. Con il suo decesso, il numero complessivo di prigionieri palestinesi morti dall’inizio dell’attuale guerra di genocidio condotta da Israele — iniziata quasi due anni fa — è salito a 74, mentre molti altri risultano ancora vittime di sparizioni forzate, rendendo questo periodo uno dei più cruenti nella storia del movimento palestinese dei prigionieri. Dal 1967, il numero totale di prigionieri martiri documentati ha raggiunto 311. Il comunicato ha evidenziato che l’aumento dei decessi tra i detenuti è divenuto una conseguenza inevitabile, e sta assumendo proporzioni sempre più gravi, poiché migliaia di prigionieri sono ancora rinchiusi nelle carceri israeliane, sottoposti a sistematici abusi, tra cui torture, fame, violenze di ogni tipo, crimini medici, violenza sessuale, e l’imposizione deliberata di condizioni che provocano gravi malattie infettive, in particolare la scabbia. A ciò si aggiungono politiche di privazione senza precedenti. Le due organizzazioni hanno affermato che la morte di Samir Al-Rifai rappresenta un ulteriore crimine che si aggiunge al lungo elenco di atrocità commesse da Israele, che continua a perseguitare e uccidere i prigionieri con ogni mezzo, come parte integrante del genocidio in corso. Hanno ritenuto Israele pienamente responsabile della sua morte e hanno rinnovato l’appello alla comunità internazionale e alle organizzazioni per i diritti umani affinché adottino misure concrete per perseguire i responsabili israeliani per i crimini di guerra commessi contro il popolo palestinese. Hanno infine richiesto sanzioni internazionali per isolare Israele sul piano diplomatico e ristabilire il ruolo originario del sistema internazionale per i diritti umani, oggi paralizzato da questa guerra genocida. Hanno anche sollecitato la fine dell’impunità eccezionale che consente a Israele di agire al di sopra della legge, sfuggendo a ogni forma di responsabilità, giustizia e punizione. Traduzione per InfoPal di F.L.
Il dottor Abu Safiya sta affrontando torture, negligenza medica e dure condizioni carcerarie
Cisgiordania. L’avvocato palestinese Ghaid Qassem ha affermato che il dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan, rapito da Gaza il 27 dicembre 2024, soffre di gravi problemi di salute a causa della sua esposizione a torture e deliberata negligenza medica nelle carceri israeliane. In recenti dichiarazioni sui social media, l’avvocato Qassem ha spiegato che il dottor Abu Safiya ha perso oltre 40 chili da quando è stato rapito da Gaza e ha iniziato ad affrontare condizioni di detenzione dure e pericolose per la vita. L’avvocato ha affermato di aver appreso che il peso del dottor Abu Safiya era sceso da 100 chili a meno di 60 quando gli ha fatto visita il 9 luglio 2025, confermando che era stato duramente picchiato dai carcerieri israeliani il 24 giugno nella sua cella nel carcere di Ofer. A seguito di quell’aggressione, durata più di mezz’ora, il dottor Abu Safiya ha riportato gravi ferite e contusioni al petto, al viso, alla testa, alla schiena e al collo, secondo l’avvocato. L’avvocato di Abu Safiya ha riferito che quest’ultimo ha ripetutamente e urgentemente richiesto esami medici approfonditi e una valutazione da parte di un cardiologo specializzato. Nonostante i suoi continui problemi di battito cardiaco irregolare e ipertensione cronica, l’amministrazione penitenziaria ha costantemente respinto tali richieste. L’avvocato ha inoltre osservato che anche gli occhiali da vista prescritti di recente ad Abu Safiya erano rotti, aggravando i suoi problemi di salute. “Abu Safiya continua a indossare abiti invernali mentre è confinato nel sottosuolo, privato della luce solare e tenuto in completo isolamento”, ha dichiarato l’avvocato.
10.800 palestinesi nelle carceri israeliane: il numero più alto dalla Seconda Intifada
InfoPal. Il numero di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è salito a 10.800, il più alto dalla Seconda Intifada, con un forte aumento delle detenzioni amministrative di donne, bambini e detenuti provenienti da Gaza. Le organizzazioni palestinesi di supporto ai prigionieri hanno riferito martedì che il numero di palestinesi detenuti nelle carceri dell’occupazione israeliane è salito a circa 10.800 all’inizio di luglio, segnando il più alto dalla Seconda Intifada, nel 2000. Questo totale non include i detenuti nei campi militari di occupazione, il cui status rimane in gran parte sconosciuto. In una dichiarazione congiunta, le organizzazioni hanno osservato che il numero di detenuti amministrativi è salito a 3.629, la percentuale più alta rispetto ai prigionieri condannati e a quelli etichettati come “combattenti illegali”. Questo sistema consente alle autorità di occupazione di detenere individui senza accusa né processo, una pratica ampiamente condannata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Nel frattempo, il numero di prigionieri classificati come “combattenti illegali” ha raggiunto quota 2.454, esclusi i numerosi cittadini di Gaza detenuti nei campi militari. Secondo la dichiarazione, questa cifra è la più alta registrata dall’inizio della guerra genocida in corso condotta dall’occupazione contro Gaza. Il rapporto ha aggiunto che la classificazione di “combattenti illegali” include anche detenuti arabi provenienti da Libano e Siria, riflettendo ulteriormente la più ampia portata regionale delle politiche di detenzione di “Israele”. Ad oggi, 50 donne palestinesi sono detenute nelle carceri israeliane, tra cui due di Gaza, mentre il numero di minorenni palestinesi ha superato i 450. Le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente espresso preoccupazione per le condizioni e il trattamento di questi gruppi vulnerabili sotto custodia dell’occupazione. Secondo una dichiarazione dell’Ufficio Stampa dei Prigionieri palestinesi, le prigioniere palestinesi stanno sopportando condizioni sempre più dure nel carcere di Damon, sotto l’occupazione israeliana, il che mette in guardia da una grave e senza precedenti escalation da parte dell’amministrazione penitenziaria. Secondo quanto riferito, le autorità carcerarie israeliane hanno ridotto il tempo di ricreazione giornaliero a soli 15 minuti, che ora è dedicato esclusivamente all’uso dei servizi igienici. Per il resto del tempo, la sezione rimane chiusa per ore con il pretesto delle “procedure di sicurezza”. Parallelamente, le razioni alimentari sono state significativamente ridotte, peggiorando ulteriormente le condizioni umanitarie. Il rapporto ha anche descritto la brutale repressione attuata all’inizio dell’aggressione dell’occupazione israeliana contro l’Iran, durante la quale cinque detenuti palestinesi, Islam Shouli, Tasneem Odeh, Lin Misk, Samah Hijjawi e Fatima Jasrawi, sono stati aggrediti violentemente, sottoposti a isolamento, a sputi, insultati e persino minacciati di stupro. Le istituzioni palestinesi continuano a chiedere conto alla comunità internazionale, mentre il numero dei prigionieri aumenta a livelli mai visti da oltre due decenni, in una crescente campagna di arresti, incursioni e detenzioni arbitrarie. (Fonti: Al-Mayadeen, Quds News, PIC).
Israele uccide 6 ex prigionieri palestinesi a Gaza in linea con la “politica di vendetta”, afferma Hamas
Presstv. L’alto funzionario di Hamas, Abdul-Karim Hanini, ha dichiarato che Israele ha ucciso sei palestinesi precedentemente liberati dalla prigione, durante un attacco contro la Striscia di Gaza assediata. In una dichiarazione rilasciata martedì, Hanini ha definito l’accaduto una prova della continua “politica di vendetta e dell’uccisione sistematica contro coloro che resistono alle forze del regime occupante”. «Mentre piangiamo con orgoglio e onoriamo i nostri martiri, caduti a causa di un vile crimine di assassinio sionista, ribadiamo che questo non minerà la determinazione del nostro popolo, dei suoi prigionieri e dei suoi liberatori a proseguire sul cammino della libertà», ha affermato Hanini. «Tutta l’arroganza dell’occupazione non riuscirà a distoglierci dai nostri principi né dalla nostra scelta di resistere all’occupazione finché essa non sarà eliminata». Le vittime, in gran parte esiliate dalla Cisgiordania occupata, hanno perso la vita quando aerei da guerra hanno colpito tende che ospitavano sfollati nella città di Zawayda, nel centro della Striscia di Gaza, e nella zona di Mawasi, a ovest di Khan Yunis. Cinque di loro erano state liberate nel 2011 nell’ambito dello scambio di prigionieri tra Hamas e Israele per il rilascio del soldato israeliano catturato Gilad Shalit. La sesta persona era tra coloro che furono esiliati dalla Chiesa della Natività di Betlemme, nella Cisgiordania meridionale, nel 2002. Nuove testimonianze definite “scioccanti” da parte di palestinesi hanno rivelato pratiche di “tortura e abusi sistematici” ai danni di cittadini di Gaza detenuti nelle carceri israeliane. Le testimonianze parlano di pestaggi ripetuti, minacce, fame forzata e isolamento inflitti a donne prigioniere. Dallo scorso 7 ottobre 2023, migliaia di palestinesi della Cisgiordania sono stati arrestati arbitrariamente da Israele. Molti altri risultano “fatti sparire con la forza” dalla Striscia di Gaza. Secondo i dati della Società per i prigionieri palestinesi (PPS), oltre 450 minorenni e 50 donne si trovano tra gli oltre 10.800 palestinesi attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Si tratta del numero più alto registrato dal 2000, senza contare i detenuti rinchiusi nei campi militari israeliani. Le autorità israeliane hanno recentemente annunciato l’inizio del trasferimento dei prigionieri dalla base militare dismessa di Sde Teiman, nel deserto del Negev, dopo le richieste di chiusura da parte di gruppi per i diritti umani. Decine di palestinesi sono morti sotto custodia israeliana dall’ottobre 2023. Traduzione per InfoPal di F.L.
26 giugno, Giornata mondiale in supporto delle persone sopravvissute a tortura. Rapporto MSF “Disumani”: tortura elemento strutturale della rotta migratoria del Mediterraneo
Sono soprattutto uomini, con un’età media di 25 anni. Poco più della metà delle torture documentate sono avvenute in Libia, mentre un terzo in 9 Paesi considerati sicuri dall’Italia. Quanto alle donne, l’80% delle pazienti ha subito uno o più episodi di violenza sessuale. Complessivamente, il 67% presenta sintomi da stress post-traumatico e soprattutto solo il 22% ha ottenuto lo status di rifugiato, nonostante le torture subite. Sono i dati dei pazienti sopravvissuti a tortura assistiti a Palermo dal team di Medici Senza Frontiere (MSF) in collaborazione con  l’l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico “Paolo Giaccone”, il Dipartimento PROMISE, la CLEDU (Clinica Legale per i Diritti Umani) e l’Università degli Studi di Palermo, pubblicati nel rapporto internazionale “Disumani” (PDF), in occasione della Giornata mondiale in supporto delle vittime di tortura. Il rapporto racconta le conseguenze devastanti di queste violenze sulla vita di migliaia di persone in mancanza di vie legali e sicure per la ricerca di protezione, che dimostrano la necessità di percorsi e servizi integrati di cura e impongono maggiore attenzione, responsabilità e risposte adeguate da parte dei Paesi di accoglienza, a partire dall’Italia. “Forme di violenza estrema, tra cui la tortura, sono un elemento strutturale e diffuso lungo la rotta migratoria mediterranea” afferma Elisa Galli, responsabile del progetto di MSF a Palermo. “Lasciano cicatrici profonde e durature che vanno trattate con un percorso di cure che permette la ricostruzione della propria identità e di ritrovare fiducia negli altri e speranza nel futuro. Un supporto specialistico adeguato è essenziale affinché la vita di queste persone possa ricominciare, a partire dalla loro salute”. Il rapporto viene presentato durante il convegno “Tortura: Universalmente vietata, universalmente praticata”  il 26 giugno presso l’Università di Palermo, dove esperti e rappresentanti delle istituzioni e di realtà territoriali analizzano il fenomeno della tortura sotto il profilo giuridico, medico, psicologico e sociale, confrontandosi su strategie e modelli di presa in carico di persone sopravvissute a violenza intenzionale e tortura (programma completo). Durante il convegno viene presentato il progetto multimediale della fotografa Valentina Tamborra “Restano i fiori – L’identità che sopravvive alla tortura” che comprende foto, video e testimonianze di alcuni pazienti del progetto di Palermo. Tra i pazienti MSF: 60% delle torture avvenute in Libia, in aumento gli episodi in Tunisia e Algeria, 1 caso su 3 avvenuto in 9 Paesi considerati sicuri dall’Italia Tra gennaio 2023 e febbraio 2025, 160 persone sono state prese in carico dal progetto di Palermo dedicato a sopravvissuti a tortura. Le persone assistite provengono da 20 diversi Paesi, tra cui la maggior parte da Bangladesh, Gambia e Costa d’Avorio. L’età media è di 25 anni e il 75% sono uomini. Il 60% degli episodi di torture e trattamenti degradanti riportati dai pazienti sono avvenuti in Libia – un dato che conferma quanto la violenza sia sistematica nel Paese – e il 36,5% degli episodi sono avvenuti in 9 Paesi inseriti nella lista di Paesi designati come sicuri dal Governo italiano e dalla Commissione Europea ai fini del rimpatrio: Algeria, Bangladesh, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Marocco, Tunisia e Senegal. Alcuni pazienti (2%) hanno riportato di aver subito torture anche nei Paesi di arrivo, tra cui l’Italia. Nel 60,3% dei casi riportati, i responsabili della tortura sono i trafficanti, e nel 29% dei casi sono ufficiali delle forze dell’ordine. Rispetto al 2023, nel 2024 si registra un aumento dei casi di tortura avvenuti in Tunisia e Algeria tra le persone assistite da MSF, con un aumento rispettivo dall’11% al 24% e dal 3% al 15%. Violenze sessuali e di genere sono comuni lungo il percorso migratorio, specialmente per le donne: l’80% delle pazienti riferisce di aver subito uno o più episodi di violenza sessuale e il 70% ha subito violenza di genere nel Paese di origine. Gli uomini non sono esclusi: alcuni pazienti hanno raccontato di aver subito torture che includevano violenza sessuale o di essere stati costretti ad assistere allo stupro della propria moglie o sorella. “Mia moglie ed io siamo dovuti scappare dal Camerun, suo padre l’ha violentata e perseguitata da quando era piccola. In Libia siamo stati rapiti e venduti ai trafficanti. Mi hanno costretto a lavorare per loro e quando ho provato a ribellarmi, a fuggire, mi hanno torturato: non mi davano da bere né da mangiare, mi hanno picchiato, frustato. Mi hanno costretto a prendere dei vetri rotti e a stringerli tra le mani” ha raccontato un paziente ai team di MSF. “Ma la cosa peggiore che hanno fatto è stata violentare mia moglie davanti a me, poi l’hanno costretta a prostituirsi. Mi hanno torturato ogni volta che ho provato a ribellarmi. Mi dicevano che l’avrebbero uccisa se non obbedivo”. Gli effetti della tortura: conseguenze fisiche e psicologiche. Stress post-traumatico nel 67% dei casi Torture e maltrattamenti – come percosse, frustate, bruciature, rimozione delle unghie, folgorazioni, soffocamento – possono avere effetti molteplici e profondi a livello fisico, psicologico, culturale e sociale. Il dolore cronico rappresenta una conseguenza comune tra le persone sopravvissute, considerando la brutalità fisica di molte pratiche di tortura che in alcuni casi vengono inflitte in modo ripetuto. Oltre alle conseguenze fisiche, che comprendono sintomi muscoloscheletrici (15%), all’apparato digerente (12%), neurologici (9%), oculistici (6%) e ginecologici (6%), la tortura lascia anche profonde cicatrici persistenti e debilitanti in termini di salute mentale, che tendono a influenzare tutti gli aspetti della vita della persona. Il 67% delle persone assistite presenta stress post-traumatico, con depressione e disturbi dell’ansia, il 3% dei pazienti ha manifestato pensieri suicidari. “Lavoriamo con i pazienti per fare in modo che i flashback e i pensieri intrusivi si trasformino in ricordi piuttosto che in esperienze ritraumatizzanti” dichiara Carmela Virga, psicologa di MSF a Palermo. “Il percorso terapeutico parte dalla creazione di una relazione di fiducia, uno spazio sicuro in cui il paziente possa sentirsi nuovamente un essere umano libero di scegliere e decidere per sé stesso, spezzando le dinamiche di potere esercitate dai responsabili delle torture”. Vulnerabilità giuridica delle persone sopravvissute a tortura: solo il 22% ha ottenuto status di rifugiato Nonostante le persone assistite dal progetto siano sopravvissute a torture e trattamenti inumani e degradanti, solo il 22% di coloro di cui è stato riportato lo status giuridico al momento dell’ammissione e della dimissione dal progetto è titolare dello status di rifugiato e il 5% di protezione sussidiaria. Il resto dei pazienti non solo deve affrontare le conseguenze fisiche e psicologiche della tortura, ma si ritrova anche in una condizione di vulnerabilità e precarietà dal punto di vista giuridico, che aggrava la loro condizione di incertezza e instabilità sociale ed economica. Un quadro estremamente preoccupante della gestione emergenziale e deumanizzante del sistema di accoglienza italiano, aggravato da normative sempre più restrittive e limitanti in materia di migrazione e riconoscimento della protezione internazionale. Le richieste di MSF: necessarie risposte istituzionali adeguate Alla luce delle evidenze emerse dal rapporto, che mostrano gli effetti debilitanti della tortura sull’individuo, MSF sollecita risposte istituzionali adeguate ai bisogni di cura e assistenza delle persone migranti sopravvissute a tortura, nel rispetto degli obblighi che l’Italia ha nei loro confronti. Pertanto, MSF chiede che: * L’Italia si conformi pienamente agli obblighi sanciti dalla Convenzione contro la tortura (1984), in particolare all’articolo 14, che riconosce alle vittime il diritto alla riabilitazione più completa possibile, assicurando un adeguamento efficace del sistema di accoglienza e dei servizi sociosanitari dedicati. * Le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione adottate dal Ministero della Salute nel 2017 vengano rigorosamente attuate su tutto il territorio nazionale, superando disomogeneità e carenze esistenti, per consentire  alle persone sopravvissute a tortura di accedere realmente a un supporto adeguato ai loro bisogni, in conformità con gli obblighi dell’Italia verso il diritto internazionale. * Vengano superate le barriere istituzionali e le politiche migratorie restrittive, ripristinando e potenziando un sistema di accoglienza e assistenza inclusivo e ben strutturato, capace di assicurare una tempestiva identificazione delle vulnerabilità, un’effettiva presa in carico e riabilitazione delle persone sopravvissute a tortura. * Siano sostenuti e garantiti percorsi di accesso sicuri, evitando che le persone siano costrette a transitare attraverso Paesi o territori in cui sono notoriamente esposte a pratiche di tortura e violenze. Il progetto di Palermo per persone migranti sopravvissute a violenza intenzionale e tortura A Palermo, Medici Senza Frontiere (MSF), l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico “Paolo Giaccone”, l’Università degli Studi di Palermo, il Dipartimento PROMISE e la Clinica Legale per i Diritti Umani (CLEDU) gestiscono un servizio specialistico per la presa in carico di persone migranti e rifugiate sopravvissute a violenza intenzionale e tortura. Un progetto nato alla fine del 2020 che propone un modello di cura basato su équipe interdisciplinari composte da medici, psicologi, operatori sociali, mediatori interculturali e altri specialisti per dare una risposta coordinata, integrata e personalizzata ai bisogni dei pazienti. Da gennaio 2021 ad oggi sono stati presi in carico circa 320 pazienti. ReSST, la Rete Italiana per il Supporto alle Persone Sopravvissute a Tortura  MSF, in collaborazione con Caritas, Ciac, Kasbah, Medici Contro la Tortura, MEDU, NAGA e SaMiFo ASLRoma 1, ha dato vita a dicembre 2024 alla Rete Italiana per il Supporto alle Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST). Tra i suoi obiettivi, quelli di informare e sensibilizzare sulla tortura e le sue conseguenze, migliorare la disponibilità e la qualità dei servizi per la riabilitazione delle persone sopravvissute a tortura, promuovere attività di ricerca scientifica, formazione e aggiornamento professionale. La ReSSt ha presentato il 25 giugno il Primo Report annuale 2024. Per maggiori informazioni: https://controlatortura.it/       Medecins sans Frontieres
ABUSI IN DIVISA: 16 AGENTI A PROCESSO PER I PESTAGGI ALLA QUESTURA DI VERONA
Sono diventati 16 i poliziotti indagati per torture e lesioni che sarebbero avvenute all’interno della Questura di Verona tra agosto e novembre 2022. Nove gli agenti che, dalla scorsa settimana, hanno allungato la lista degli indagati e che compariranno in udienza preliminare il prossimo 22 settembre 2025. L’indagine è partita dopo che i due cittadini fermati per “accertamenti”, hanno denunciato le violenze subite in diversi locali della Polizia in lungadige Galtarossa, in particolare in una stanza denominata “Acquario”. Le immagini delle violenze, già diffuse lo scorso giugno, mostrano tra l’altro i poliziotti delle volanti mentre trascinano un fermato a terra tra le sue urine o mentre sferrano pugni. Due i giudizi immediati già concordati tramite patteggiamento, per altri otto agenti l’inchiesta si era chiusa con l’archiviazione delle accuse. Nell’intervista la ricostruzione della vicenda e il commento di Daniele Todesco, dell’Osservatorio Migranti di Verona, che punta il dito anche sulla gestione della sicurezza in città, in seguito alla recente istituzione delle zone rosse. Ascolta o scarica
Pericolose rimozioni
MENTRE IL PARLAMENTO FA DIVENTARE UN REATO IL DISSENSO, A ROMA, IL PORTAVOCE DELLA RETE NO DL SICUREZZA E ASSESSORE MUNICIPALE, LUCA BLASI, VIENE MANGANELLATO NEL CORSO DI UNA MEDIAZIONE TRA MANIFESTANTI E POLIZIOTTI. INTANTO A MONZA VIENE NOMINATO QUESTORE UN POLIZIOTTO CONDANNATO A TRE ANNI E OTTO MESI NEL PROCESSO DIAZ. TUTTO QUESTO ACCADE IN UN PAESE NEL QUALE LE FORZE DI POLIZIA – I LORO VERTICI MA ANCHE I LORO SINDACATI – NON HANNO VOLUTO AFFRONTARE IL CASO GENOVA 2001 PER QUEL CHE È STATO E PER QUANTO LASCIAVA INTRAVEDERE. UN PAESE CHE 2020, CON LE VIOLENZE CONTRO I DETENUTI NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA A VETERE, HA PRESO ATTO CHE LA TORTURA FA PARTE DELLA NOSTRA STORIA E DEL NOSTRO PRESENTE. “IN UNA SITUAZIONE COSÌ CRITICA – SCRIVE LORENZO GUADAGNUCCI – AVREMMO BISOGNO DI FORZE DI POLIZIA AUTENTICAMENTE DEMOCRATICHE NELLA VITA INTERNA E NELLA DIALETTICA COL RESTO DELLA SOCIETÀ, IN GRADO DI SOTTRARSI ALLE INGERENZE DEL POTERE POLITICO, CAPACI DI ISPIRARSI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE AI DETTAMI E ALLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE. NON ABBIAMO NIENTE DEL GENERE…” Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Vorrei partire in questa mia breve riflessione dalla definizione che lo staff di Amnesty International ha scelto per annunciare il mio intervento (durante la giornata di riflessione promossa a Roma in occasione dei cinquant’anni di Amnenesty international): “Vittima di tortura durante il G8 di Genova”. In effetti è così, la notte del 21 luglio 2001 mi trovai fra i 92 malcapitati presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia di stato. Fummo picchiati selvaggiamente e subito dopo arrestati con accuse inventate, molto fantasiose anche sul piano strettamente giudiziario – primo caso nella storia di arresto in flagranza per associazione a delinquere (finalizzata nel nostro caso alla devastazione e al saccheggio) – e sulla base di false ricostruzioni dei fatti e perfino con prove costruite ad hoc: le due bombe molotov introdotte nella scuola dalla stessa polizia. E tuttavia è solo dal 2015 che parliamo della vicenda Diaz come di un caso di tortura. Da quando l’Italia, su nostro ricorso, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per non avere fatto giustizia, nonostante le condanne inflitte in via definita a una decina di funzionari e dirigenti di polizia. La Corte di Strasburgo, per la prima volta, definì come tortura la “macelleria messicana” alla scuola Diaz, secondo la colorita rappresentazione che ne diede uno dei funzionari responsabili dell’intervento. Fino al 2015 si parlava di blitz, di irruzione, o di pestaggio e spedizione punitiva, oppure – in modo metaforico – appunto di macelleria messicana o ancora di tonnara, come ebbi a scrivere io stesso nel mio libro Noi della Diaz. Non so perché non abbiamo parlato fin da subito di tortura, e perché nemmeno i media lo abbiano mai fatto prima del 2015: eppure l’operazione Diaz, violentissima, durò ben due ore, in un luogo chiuso nel pieno controllo della polizia, insomma aveva tutti i crismi di un caso di tortura, secondo la definizione accettata a livello internazionale. Forse l’omissione è avvenuta perché la tortura è istintivamente associata alle carceri, a persone detenute e sottoposte a violenze nel rapporto molti a uno, col torturato solo in una stanza chiusa di fronte ai suoi aguzzini, o forse perché prevalevano nei media e nella società italiano il pudore, o perfino la paura, nel dover riconoscere che in Italia si era potuto praticarla in modo così plateale, in una scuola adibita a dormitorio, contro decine di persone inermi, utilizzando reparti specializzati e alla presenza fisica di quasi tutti i dirigenti di rango più alto della polizia di stato. Anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per accettare questa definizione: vittima di tortura. Ma poi ho capito – studiando un po’ – che la tortura fa parte della nostra storia e del nostro presente. Al G8 di Genova fu praticata su larga scala: alla Diaz, nella caserma di polizia di Bolzaneto – oggetto di uno specifico processo – e anche nella centrale operativa dei carabinieri, a Forte San Giuliano, per quanto su quest’ultimo caso non ci siano state inchieste della magistratura. Le torture a Genova hanno coinvolto centinaia e centinaia di agenti di tutte le forze dell’ordine – polizia di stato, carabinieri, polizia penitenziaria – come autori o come agenti necessariamente consapevoli di quel che avveniva attorno a loro, e qui mi riferiscono in particolare alla caserma di Bolzaneto, dove le torture fisiche e psicologiche andarono avanti per ben tre giorni. Le torture al G8 di Genova hanno avuto due principali caratteristiche. Hanno colpito non carcerati ma gente comune, attivisti, manifestanti qualunque, persone fermate per strada sostanzialmente a casaccio, e sono state praticate per ragioni prettamente politiche, cioè per colpire e mettere fuori gioco un movimento nascente, giudicato politicamente pericoloso – per la fase espansiva che stava attraversando – dall’establishment internazionale. Un’operazione di verità Le torture al G8 di Genova sono state un’operazione di verità. Hanno mostrato il lato oscuro delle nostre forze dell’ordine, un lato che avevamo dimenticato, o che fingevamo di non vedere; i fatti del luglio 2001 hanno chiarito che la tortura è una pratica che accompagna tutta la storia delle polizie dell’Italia repubblicana: a Genova fu praticata su larga scala e su cittadini qualunque, ma fu possibile perché c’era una “tradizione” pregressa. Il G8 di Genova è stato anche un disastro per la gestione dell’ordine pubblico, che fu colpevolmente militarizzata, con esiti fallimentari: l’uccisione a colpi di pistola di un ragazzo di 23 anni, centinaia di arresti arbitrari e illegittimi, una catena di abusi e violenze di strada da parte delle forze di polizia. Il G8 di Genova è stato inoltre un festival del falso in atto pubblico, con innumerevoli verbali infedeli consegnati alla magistratura, il festival della menzogna messa nero su bianco su carta intestata. Le violenze di Genova ci hanno fatto poi capire che la riforma del 1981, quella che aveva smilitarizzato la polizia di stato, quella che aveva introdotto la nozione di “polizia democratica”, ad appena vent’anni dalla sua introduzione era già evaporata. Ci hanno fatto capire che la pratica della tortura è una presenza costante, e incombente, nella vita delle forze dell’ordine, e che perciò andrebbe portata alla luce, dovrebbe essere discussa e combattuta insieme con gli agenti e nel discorso pubblico, invece di negarla, di sottovalutarla, di fingere che non ci sia. Voglio ricordare che a Genova, alla scuola Diaz, alcuni agenti usarono perfino strumenti portati alla bisogna, non solo i manganelli in dotazione – fra l’altro erano i tonfa, classificati come armi potenzialmente letali dalla stessa polizia – ma anche mazze fuori ordinanza, e manganelli elettrici, che io stesso ho provato sulla mia schiena. E voglio anche ricordare che le varie tecniche di tortura praticate a Bolzaneto – il “comitato di accoglienza” con le due file di agenti a colpire i detenuti, costretti a passare in mezzo, con sputi, calci, pugni; la posizione del cigno; le nudità imposte; i segni a pennarello sul viso; e poi gli insulti, le derisioni, le minacce (sulle ragazze anche minacce di violenza sessuale) e via elencando – fecero sorgere il legittimo dubbio che ci fosse una competenza specifica, una pratica diffusa, una trasmissione “professionale” di tali tecniche fra una generazione e l’altra di agenti. Un dubbio legittimo. Di tutto questo non si è mai parlato. Le forze di polizia – i loro vertici ma anche i loro sindacati – non hanno voluto affrontare il caso Genova per quel che è stato e per quanto lasciava intravedere. Non hanno voluto un’operazione di verità, di presa di coscienza, di ripudio degli abusi e quindi di ripartenza su nuove basi, con trasparenza, in dialogo col resto della società. Le forze di polizia si sono arroccate, anche rispetto alle inchieste della magistratura, affrontate con spirito omertoso e non collaborativo, al punto – cito dalla sentenza Diaz della Corte di Strasburgo – che la polizia di stato ha “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. La sentenza della Corte, come sappiamo, è stata subita quasi come un affronto e disapplicata nelle sue parti più significative, dove chiedeva il licenziamento dei condannati in via definitiva e l’introduzione dei codici identificativi obbligatori per gli agenti in servizio di ordine pubblico. La stessa legge sulla tortura del 2017 è stata approvata in un clima ostile, senza alcun serio dibattito interno alle forze di polizia, che l’hanno vissuta come un’impropria invasione di campo, dimostrando tutta la propria immaturità democratica. Un ponte fra passato e futuro Perciò oggi, a quasi venticinque anni dal G8 di Genova, tocca dire che il luglio genovese, anziché un punto di rottura e di frattura quale poteva essere, un’occasione cioè per un cambio di passo, è stato in verità un ponte fra passato e futuro, nel segno della continuità, e se vogliamo – visto quanto quei fatti sono stati plateali – una legittimazione anticipata del futuro, una sorta di annuncio che quanto accaduto sarebbe stato destinato a ripetersi. Come altro leggere quanto avvenuto in questi venticinque anni, i tanti troppi casi di abuso di potere e di violenza di polizia, in che altro modo interpretare le sconvolgenti, ma non sorprendenti, immagini registrate nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, immagini che invito a guardare rileggendo, simultaneamente, le testimonianze dei torturati di Bolzaneto: le immagini del 2020 corrispondono alle testimonianze del 2001, sono sovrapponibili. Santa Maria Capua a Vetere sembra, anzi è Bolzaneto: allora non vi fu alcuna vera autocritica e l’orrore si è immancabilmente ripetuto tale e quale. Genova G8 poteva essere un momento oscuro, una caduta grave e forse gravissima della legalità e dell’etica costituzionale nelle forze dell’ordine, ma era una caduta rimediabile, poteva essere una pagina nera da superare attraverso una seria assunzione di responsabilità. Dobbiamo invece considerarla un biglietto da visita, un precedente, una storia che non cessa di produrre effetti. Genova G8 non è finita Genova G8 è ancora nelle notizie di cronaca. E fa impressione, in questi giorni, sentire dell’ex capo della polizia e di un suo storico stretto collaboratore, Gianni De Gennaro e Francesco Gratteri (condannato quest’ultimo a quattro anni nel processo Diaz), nel frattempo diventati uno manager e l’altro consulente di importanti aziende private costruttrici, fa impressione saperli chiamati in causa per la vicenda del pm Michele Prestipino, cioè per i presunti scambi di informazioni riservate sulla vicenda del Ponte di Messina, il tutto sulla base di intercettazioni disposte per indagare su un depistaggio successivo alla strage di via D’Amelio (1993) e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, per i quali i sospetti sono concentrati su un defunto (nel 2002) funzionario, Arnaldo La Barbera, che partecipò, come dirigente più alto in grado (era il vice di De Gennaro), all’operazione Diaz. La cronaca ci consegna anche la nomina a questore di Monza di Filippo Ferri, un altro condannato – a 3 anni e 8 mesi – nel processo Diaz. Tutto questo allarma, specie in una fase storica come l’attuale, attraversata da evidenti pulsioni autoritarie, ben rappresentate dal recente decreto sicurezza. In una situazione così critica avremmo bisogno di forze di polizia autenticamente democratiche nella vita interna e nella dialettica col resto della società, in grado di sottrarsi alle ingerenze del potere politico, capaci di ispirarsi solo ed esclusivamente ai dettami e allo spirito della costituzione. Non abbiamo niente del genere e la preoccupazione è quindi legittima, perché siamo coscienti di non avere una soluzione a portata di mano, in un paese che dimostra di avere rimosso l’esperienza del G8 di Genova e che sembra assecondare le tensioni autoritarie in atto. Io non ho indicazioni da dare: dico solo che dobbiamo stare molto attenti, e ricordare, ricordare sempre tutto. -------------------------------------------------------------------------------- L’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci è Un’altra memoria (Altreconomia), da poco nelle librerie (di cui parla in questa intervista). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pericolose rimozioni proviene da Comune-info.