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Il posto vuoto che ci riguarda tutti: memoria, responsabilità e impegno contro la violenza sulle donne
Ogni femminicidio lascia un vuoto. Non solo negli affetti, ma nello spazio pubblico, nella coscienza collettiva, nella società che osserva, commenta, si indigna, ma poi spesso dimentica. Per provare a contrastare questa rimozione, la sezione ANPI collinare Aedo Violante porta avanti da tempo l’iniziativa Il Posto Occupato: una sedia lasciata vuota, presente in ogni assemblea, manifestazione o incontro pubblico. È il posto che sarebbe spettato a una donna che non può più sedere accanto a noi, perché uccisa da un uomo, spesso il marito, il fidanzato, un familiare o un conoscente. Quel posto vuoto non è un semplice simbolo, ma un atto di responsabilità. Ricorda che ogni donna aveva una vita, dei progetti, dei sogni, e che la sua assenza pesa. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’Interno, nel 2024 in Italia sono state uccise oltre cento donne. Nella grande maggioranza dei casi l’autore è un uomo conosciuto. La violenza non è destino e non è fatalità. È un sistema che continua a trovare spazio, linguaggi, giustificazioni e silenzi. Quest’anno, nell’ambito della rassegna Memoria Attiva, l’ANPI insieme all’associazione IoCiSto ha scelto di accompagnare il gesto del Posto Occupato con un momento di approfondimento e testimonianza, presentando il libro di Lella Palladino Non è un destino. L’autrice, da anni impegnata nella costruzione e nel rafforzamento dei Centri Antiviolenza in Campania, ha condiviso storie che attraversano paura, dolore, ma anche ricostruzione e libertà. Racconti che dimostrano quanto sia urgente garantire alle donne strumenti, luoghi sicuri e reti territoriali capaci di sostenerle. Dalle parole dell’autrice emerge un punto essenziale: la protezione delle donne non può essere affidata solo al coraggio individuale, ma deve diventare un diritto garantito. La violenza si combatte anche prima che accada, riconoscendone i segnali, contrastando gli stereotipi, educando al rispetto, al limite e al consenso. L’impegno quindi non può esaurirsi in una giornata. La lotta alla violenza sulle donne è un percorso quotidiano, che parte dal contrasto a ogni forma di patriarcato, anche quelle più sottili e normalizzate. È un lavoro di educazione, responsabilità sociale, vicinanza alle realtà che operano sul territorio, costruzione di una cultura libera dalla prevaricazione e dalla paura. Come nella Resistenza, è una questione di libertà, dignità e responsabilità collettiva. Alle donne che non ci sono più. A quelle che resistono, denunciano e ricominciano. A chi ogni giorno le accompagna. Il posto vuoto continuerà a ricordarcelo. Redazione Napoli
Napoli, 25 novembre: la violenza si combatte molto prima della violenza
Arte, scuola, istituzioni, cultura e testimonianze. Un’unica direzione: educare alla libertà. Le notizie arrivano così fitte che i volti delle donne sembrano quasi sovrapporsi, uno sull’altro, senza il tempo di essere riconosciuti. Quando pensiamo di aver trovato le parole giuste per l’ennesimo femminicidio, arriva sempre un nuovo giorno che ci costringe a riformularle. Riaffiorano allora immagini che l’Italia non riesce a dimenticare. La pancia di Giulia Tramontano, spezzata insieme al figlio che portava in grembo. Il volto giovane di Giulia Cecchettin. La vicenda di Tiziana Cantone, divorata dalla violenza digitale. La vita interrotta di Martina Carbonaro, a soli quattordici anni. La storia di Roua Nabi, uccisa nonostante il braccialetto elettronico al marito. Storie diverse, lontane tra loro, eppure accomunate dalla stessa radice: la cancellazione della libertà altrui. E ancora una volta, la cronaca recente ci obbliga a fermarci. A Qualiano, vicino Napoli, un uomo già denunciato, già sottoposto a codice rosso e ai domiciliari con braccialetto elettronico, ha manomesso il dispositivo, ha raggiunto l’ex compagna e l’ha colpita più volte con un coltello. È viva per miracolo, dicono i medici. Ma quante volte ancora dovremo affidarci alla parola miracolo dopo che tutto il resto non ha funzionato? Questo episodio, come altri, mostra che la repressione, pur necessaria, non basta. Spesso arriva dopo, quando è già tardi. La violenza sulle donne non si esaurisce nelle storie che finiscono in prima pagina, con un nome, una fotografia e una sentenza. Esiste un territorio sommerso, silenzioso e ostinato, fatto di manipolazione, controllo, dipendenza affettiva, svalutazione e isolamento. È una violenza che non lascia lividi sulla pelle, ma scava dentro, corrode lentamente la voce, l’autostima, la libertà interiore. È quella che ti convince che sei tu il problema, che stai esagerando, che forse te la sei cercata. È fatta di parole trattenute, telefoni controllati, amori che diventano confini, e di una casa che, invece di proteggere, diventa prigione emotiva. È una violenza domestica non perché avviene tra quattro mura, ma perché mette la paura dentro la vita. Ha un effetto farfalla. Genera altre fragilità, altre bambine cresciute nella sudditanza, altri bambini educati all’idea del possesso. Perché in un contesto dove non si è liberi non si può insegnare la libertà, e nessuno può trasmettere ciò che non ha il permesso di vivere. I dati ci obbligano a non voltare lo sguardo. In Europa una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale. In Italia il 31,5 per cento delle donne tra i sedici e i settant’anni ha subito violenza. Tra le ragazze più giovani quella psicologica raggiunge il 35 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati denunciati 8.592 atti persecutori, e nel 74 per cento dei casi le vittime erano donne. Il 75 per cento delle italiane ritiene che la violenza psicologica non venga riconosciuta come tale. La prevenzione autentica comincia molto prima della violenza. Prima dei tribunali, delle misure cautelari e dei braccialetti elettronici. Comincia nell’infanzia, nelle famiglie e soprattutto nelle scuole. È un’educazione quotidiana quella che serve, fatta di rispetto, limite, empatia, consenso e libertà. In questa direzione si muovono anche alcuni provvedimenti oggi in discussione in Parlamento: il Disegno di Legge S 979, che propone di introdurre in modo strutturato l’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici, e due proposte alla Camera, l’AC 2278, che riguarda l’educazione alle relazioni e al riconoscimento dell’identità di genere, e il C 2271, che disciplina le attività scolastiche sui temi dell’affettività e della sessualità prevedendo il consenso informato delle famiglie. È un segnale chiaro. Non è più possibile rimandare. Anche Napoli risponde, e lo fa attraverso linguaggi diversi: l’arte, la cultura, la memoria, l’esperienza, la cura. In Piazza Municipio, la ASL Napoli 1 Centro ha trasformato la riflessione in un’esperienza. All’interno di un grande cubo nero, simbolo del buio e dell’isolamento, si attraversa un labirinto sonoro fatto di voci, rumori, testimonianze e dati. Ogni passo è un frammento di paura, fragilità, controllo, ma anche resistenza. L’uscita è una Porta Rosa, luminosa, simbolo di rinascita. Fuori, operatori e volontari informano sui Percorsi Rosa attivi nei Pronto Soccorso cittadini, offrendo orientamento e protezione. La Direzione regionale Musei nazionali Campania ha diffuso il suo impegno lungo un’intera settimana, dal ventidue al ventinove novembre, trasformando musei e luoghi culturali in spazi di consapevolezza. A Montesarchio, la mostra fotografica Per Lei di Michele Stanzione racconta la presenza femminile attraverso luce, assenza e memoria. A Santa Maria Capua Vetere, l’Anfiteatro Campano si accende di arancione al crepuscolo, in un gesto collettivo che invita a dire insieme: accendiamo il rispetto. A Benevento, il Teatro Romano ospita studenti, psicologi e musicisti per riflettere sull’impatto invisibile della violenza. A Pontecagnano, una serata tra mito, danza e parola prova a immaginare relazioni libere da ruoli imposti. A Eboli, con Clitennestra o del crimine, il mito diventa voce contemporanea, che chiede ascolto e non solo giudizio. Anche il Teatro Trianon Viviani contribuisce a questo percorso. Il 25 novembre, dalle ore 10 alle 13, la Fondazione Campania dei Festival, insieme alla Regione Campania, promuove un incontro dedicato a studenti e famiglie, con interventi di istituzioni, associazioni e realtà impegnate nella tutela dei diritti e nella costruzione di una cultura del rispetto. È previsto anche un breve contributo artistico, con testimonianze e monologhi curati dall’Associazione Forti Guerriere, come forma di narrazione civile e restituzione della voce. Questi sono solo alcuni degli appuntamenti che Napoli e la Campania dedicano, lungo tutta la settimana, non a una celebrazione, ma a un impegno diffuso. Perché la consapevolezza non si costruisce in un giorno, e soprattutto non si costruisce da soli. Il venticinque novembre non è una data. È una domanda. A ciascuno di noi. E Napoli risponde mettendo al centro non solo la tragedia, ma la prevenzione. La cultura, l’ascolto, il linguaggio, la scuola, l’arte, la relazione. Perché la violenza si combatte molto prima della violenza. Nei gesti quotidiani. Nei bambini che imparano a rispettare. Nelle bambine che imparano a non abbassare gli occhi. Se vogliamo cambiare davvero questo tempo, dobbiamo ricominciare da lì. Dalle radici. Lucia Montanaro
Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana Sgrena
Dalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità. Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni: sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse, polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali. Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco», ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società moderne. Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre strumenti fondamentali per comprendere il presente. Di seguito, la conversazione integrale. INTERVISTA A GIULIANA SGRENA «Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde? La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero. Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile difendersi e accedere a informazioni sicure? Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq. «La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa affermazione? Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni, alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo. Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una falsa didascalia. Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del social? I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto Trump. Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta così dannosa? Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione. Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni che questo tipo di inchieste avrebbero comportato? Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che condividono le mie critiche. Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che cercano di reagire ai loro carnefici? Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case chiuse. Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno? Preferirei non rispondere a questa domanda. Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni, denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un atto di responsabilità collettiva. Lucia Montanaro
Cosa contiamo quando contiamo i femminicidi?
Nel dibattito italiano sulla violenza di genere, i dati vengono sempre più spesso usati per negare l’emergenza. Ma dietro le cifre si nasconde… L'articolo Cosa contiamo quando contiamo i femminicidi? sembra essere il primo su L'INDISCRETO.
HOPE – La rinascita attraverso il dolore: quando il corpo diventa linguaggio
Il nuovo lavoro di Matteo Anatrella usa il corpo nudo come linguaggio essenziale, vulnerabile e potentissimo. La bellezza salverà il mondo? La domanda resta aperta, ma una cosa è certa: l’arte continua a mostrarci ciò che spesso non vogliamo vedere. È un linguaggio che non consola, ma rivela; che non nasconde, ma espone l’essenziale. E quando sceglie il corpo come strumento, lo fa nella sua forma più sincera, priva del superfluo. In questa nudità, vulnerabile e potentissima, nasce HOPE , il nuovo lavoro di Matteo Anatrella. Nel video HOPE , la figura femminile emerge dal simulacro della sofferenza per ritrovare sé stessa. Un percorso visivo e simbolico che trasforma il corpo in linguaggio universale di libertà. HOPE è un’opera intensa e viscerale del videoartista napoletano Matteo Anatrella, realizzata nell’ambito di Anema Project, una ricerca visiva che esplora i confini tra arte, corpo e spirito. Il video si apre con un’immagine quasi claustrofobica: una figura femminile, velata di bianco, chiusa in un involucro che ricorda un sudario insanguinato. È il simbolo di una prigionia interiore, della paura e del dolore che immobilizzano l’essere umano. Poco a poco, il corpo inizia a muoversi e a liberarsi. La pelle si ripulisce lentamente dal sangue, metafora di ferita ma anche di vita che pulsa, di rinascita che passa attraverso il dolore. Il movimento della modella, Giada Onofrio, è allo stesso tempo contorto e liberatorio: ogni gesto diventa un atto di resistenza e un grido di speranza. Nella sequenza finale, la figura alza le mani verso l’alto, i palmi aperti verso chi guarda. È un gesto che contiene insieme resa e rivelazione, vulnerabilità e potenza. L’essere umano, spogliato di ogni maschera, torna a respirare e ad affermare la propria esistenza. La forza dell’opera sta nel suo linguaggio visivo puro, privo di parole ma capace di evocare con immediatezza la condizione umana: la sofferenza, la trasformazione, la speranza. Il lavoro si inserisce nel percorso di Anema Project, che unisce arte visiva, performance e ricerca spirituale in una visione condivisa da Annarita Mattei, con la collaborazione di Aldo Romana come primo assistente, Giuseppe Maturo come fotografo di backstage e Luca Anatrella per l’editing. HOPE si lega idealmente a un altro progetto di Matteo Anatrella: In Memoriam – Manifesto Visivo , presentato ai Magazzini Fotografici di Napoli nel maggio 2025. In quell’occasione l’artista, insieme al team di Anema Project, trasformò lo spazio espositivo in un luogo di commemorazione e denuncia, invitando decine di donne a offrire il proprio corpo e il proprio volto contro il femminicidio. Il corpo vivo, guidato a terra e chiuso in un sacco scuro, diventava simbolo di assenza e resistenza. Un atto corale, politico e poetico, capace di rendere visibile il lutto e la memoria attraverso la partecipazione diretta. Con HOPE , questa ricerca prosegue in una dimensione più intima e individuale, ma non meno universale. Se In Memoriam rappresentava il lutto collettivo, HOPE incarna la rinascita. L’interesse di Anatrella per i temi sociali non si limita alla violenza di genere. La sua visione artistica, richiamata anche in contesti di cittadinanza attiva e di autodeterminazione femminile, unisce interiorità e collettività, spiritualità e responsabilità. Le sue opere ci ricordano che la libertà passa attraverso la consapevolezza e che ogni gesto artistico può essere un atto di liberazione. In chiusura dell’articolo sarà possibile trovare il link al video HOPE e alcune immagini tratte dal backstage. La visione diretta è essenziale: nessuna descrizione può sostituire la forza del corpo che prende forma nell’immagine, il gesto che si compie, la trasformazione che accade sotto lo sguardo. Crediti Videoartista: Matteo Anatrella Produttore: Annarita Mattei Modella: Giada Onofrio Primo assistente: Aldo Romana Fotografo di backstage: Giuseppe Maturo Montaggio: Luca Anatrella Progetto: Anema Project DAL SET DI HOPE: ALCUNI MOMENTI DIETRO LE QUINTE” Il video https://www.instagram.com/reel/DQKLF3dCZG4/?igsh=eXF4bzZzODkxc245 Articolo “In Memoriam: la fotografia contro il femminicidio” > In Memoriam: la fotografia contro il femminicidio Lucia Montanaro
NON UNA DI MENO: DALL’OSSERVATORIO FLT DATI SPAVENTOSI SULLA VIOLENZA DI GENERE. AGGIORNAMENTO ALL’8 NOVEMBRE 2025
Come ogni 8 del mese, l’Osservatorio nazionale di Non Una Di Meno rende noti i dati dei casi di femminicidi, lesbicidi e trans*cidi in Italia nel 2025. All’8 novembre 2025, l’Osservatorio FLT di Non Una Di Meno ha registrato 𝟕𝟖 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢, 𝟑 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢 𝐢𝐧𝐝𝐨𝐭𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐞, 𝟐 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢 𝐢𝐧𝐝𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐮𝐞 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐧𝐬, 𝟏 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐛𝐢𝐧𝐚𝐫𝐢𝐚, 𝟏 𝐬𝐮𝐢𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐢𝐧𝐝𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐨, 𝟔 𝐜𝐚𝐬𝐢 𝐢𝐧 𝐟𝐚𝐬𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐫𝐭𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨. “Si tratta – spiega la rete transfemminista nazionale, che dal 2020 ha attivato l’attività del proprio Osservatorio  – di morti indotte da violenza di genere e eterocispatriarcale. Inoltre, ci sono almeno altri 𝟔𝟕 tentati femminicidi riportati nelle cronache online di media nazionali e locali e almeno 𝟐 figlicidi, di due ragazzi uccisi dal padre per difendersi dalla violenza del padre verso la madre Siamo e saremo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne, frocie e trans che più non hanno voce”. Su Radio Onda d’Urto l’intervista sui dati – drammatici – di femminicidi, lesbicidi trans*cidi in Italia con Renata De Marco, compagna che fa parte dell’Osservatorio FLT e del Comitato transfemminista 8 Marzo di Brescia.  Ascolta o scarica   Di seguito, gli altri dati elaboratori dall’Osservatorio FLT tra l’8 gennaio e l’8 novembre 2025:
VIOLENZA DI GENERE: ENNESIMO FEMMINICIDIO. NUDM VERONA CHIAMA UNA “PIAZZA ARRABBIATA PER JESSICA E PER TUTT3”
È stata uccisa dall’ex compagno con decine di coltellate. Il suo nome era Jessica Stapazzolo, aveva 33 anni ed è l’ennesima vittima di femminicidio in Italia. Douglas Reies Pedriso – il 41enne che le ha tolto la vita nel suo appartamento a Castelnuovo del Garda, nel veronese, nella notte tra domenica 26 e lunedì 27 ottobre – ha prima tolto il braccialetto elettronico per aggirare il divieto di avvicinamento alla donna che gli era già stato imposto, quindi l’ha uccisa. L’uomo era già indagato per maltrattamenti ed era stato accusato di avere abusato della cognata, mentre alla donna era stata tolta la custodia della figlia proprio per l’alto livello di pericolosità a cui era esposta a causa dell’ex compagno. “In avvicinamento al 25 novembre, domani giovedì 30 novembre dalle 19 alle 20 ci troviamo sul Liston in Piazza Bra per un presidio – scrive oggi Non Una di Meno Verona  – una piazza arrabbiata per Jessica, uccisa questa settimana a Castelnuovo del Garda, e per tutt3 le altr3 più di 70 sorelle uccis3 in femminicidi, lesbicidi e trans*cidi del 2025″. Abbiamo approfondito i contorni di questo ennesimo femminicidio e del presidio di giovedì con Elena, di Non Una di Meno Verona Ascolta o scarica
MILANO: LA COMUNITÀ DI BRUZZANO SCENDE IN PIAZZA PER LUCIANA E “CONTRO OGNI FORMA DI VIOLENZA DI GENERE”
Un altro femminicidio a Milano, il secondo in meno di dieci giorni. La vittima questa volta è Luciana Ronchi, 62 anni, inseguita per le strade di Bruzzano – alla periferia Nord di Milano – e infine colpita con decine di coltellate dall’ex marito da cui si era separata tre anni fa, ma che continuava a pedinarla. L’uomo, Luigi Morcaldi, 62 anni, è stato catturato dopo una fuga durata ore, ma per Luciana non c’è stato nulla da fare: trasportata in ospedale è morta a causa delle ferite riportate. Questa sera, giovedì 23 ottobre, le associazioni e la comunità territoriale di Bruzzano si riuniranno alle 19,00 in via Grassini per dar vita a una camminana in memoria di Luciana e “contro ogni forma di violenza maschile sulle donne e di genere”. Un’iniziativa non dissimile da quella portata in piazza dalla comunità di Gorla in occasione del femminicidio di Pamela Genini, la donna di 29 anni uccisa il 14 ottobre nel suo appartamento dall’ex fidanzato Gianluca Soncin. Al loro fianco, come nel caso di Gorla, il nodo locale di Non Una di Meno, come ci racconta Elena, di Nudm Milano Ascolta o scarica
Il formaggio di Agitu torna in Africa
Nel 2020 fece clamore il femminicidio di Agitu Ideo Gudeta, imprenditrice agricola e ambientalista di origini etiopi, che in Trentino aveva trovato il luogo per realizzare un’economia sostenibile. Oggi il suo sogno è rinato in Burundi grazie a un’associazione che ha recuperato le attrezzature della pastora per avviare un caseificio gestito da donne. Un’eredità di resistenza che continua oltre i confini. Agitu Ideo Gudeta, una donna originaria dell’Etiopia, è una vittima di femminicidio. Fu assassinata il 29 dicembre 2020 a Frassilongo, un paesino del Trentino, da un pastore ghanese che lei aveva aiutato accogliendolo come collaboratore nella sua azienda agricola. Arrivata in Italia a 18 anni, conseguita la laurea in Sociologia a Trento, era tornata in Etiopia per dedicarsi a progetti di economia sostenibile contro l’inquinamento e la devastazione ambientale. Ma il suo impegno di attivista per i diritti degli allevatori e contro le speculazioni la rese invisa al governo. A rischio di arresto e minacciata di morte, fu costretta a lasciare il Paese natale. Tornò a Trento, e dopo un lungo peregrinare trovò nella Valle dei Mòcheni il luogo ideale per realizzare la sua visione: un’economia agricola sostenibile, in armonia con la natura, basata sull’allevamento della capra pezzata mòchena, razza autoctona dalle elevate capacità produttive. Grazie alle conoscenze apprese dalla nonna e dai pastori a fianco dei quali aveva combattuto in Etiopia, recuperò terreni abbandonati e li trasformò in risorse. Nel suo maso produceva formaggi con metodi tradizionali e li vendeva direttamente, diventando una figura nota nelle valli e nei borghi trentini. Tra questi, Brentonico, tra il Monte Baldo e il Lago di Garda, gemellato con Muyinga in Burundi. Dal Trentino al Burundi Mauro Dossi è stato il sindaco di questo Comune. «Nel 1994 facemmo una scelta famigliare e decidemmo di prendere in affido una ragazzina burundese di 13 anni, Josiane, che stava vivendo l’esperienza drammatica dello scontro fra gli Hutu e i Tutsi», racconta. «Nel 1997 venne ucciso suo padre e decidemmo di accompagnarla in Burundi al suo funerale». Là Doss irimase impressionato dalla situazione sociale che si viveva nel Paese e decise di fare qualcosa. Fondò l’associazione “Il Melograno” (https://www.associazionemelograno.com/, che negli anni costruì orfanotrofi, falegnamerie, officine e laboratori di cucito, con un modello economico in cui il 50% degli utili delle attività commerciali veniva destinato alle scuole materne e agli orfanotrofi. Nel 2007, Il Melograno avviò una cooperativa agricola con dieci donne burundesi, oggi cresciute fino a settanta. Una scelta volutamente femminile in un contesto in cui sono le donne a sostenere la vita quotidiana: lavorano la terra, raccolgono l’acqua, cucinano, crescono i figli e mantengono le abitazioni. Oggi, le socie lavoratrici stanno coinvolgendo i figli, educandoli a non ripetere gli errori dei padri. Grazie al microcredito interno, la cooperativa ha raggiunto l’autosufficienza alimentare, lavorando 6 ettari di terreno, un dato impressionante se si tiene conto che il Burundi è un Paese con una delle più alte densità abitative al mondo (è grande come il Piemonte, ma ci vivono 12 milioni di persone) e la terra è un bene preziosissimo. Casari senza frontiere Il Melograno aiutò la cooperativa con un allevamento di mucche, capre e maiali, e favorì l’adesione a un consorzio per la raccolta e la vendita del latte. Tuttavia, il limitato mercato locale non permetteva di sostenere i costi di produzione, e il trasporto fino alla capitale, distante 170 chilometri, era insostenibile. La soluzione fu la produzione di formaggio, un prodotto più facilmente trasportabile. Molti allevatori burundesi nemmeno sapevano cosa fosse il formaggio, ma accettarono l’idea e avviarono la costruzione di un caseificio. A quel punto sorse però il problema che in Burundi non ci sono attrezzature per i caseifici, anche perché in tutto il Paese ce ne sono solo tre. È allora che Dossi si ricordò di Agitu. «L’avevo conosciuta perché compravo i suoi formaggi», ricorda l’ex sindaco. «Mi venne l’idea di andare a vedere che fine avessero fatto le sue attrezzature. Nel retro del suo laboratorio a Frassilongo trovammo una situazione non idilliaca: l’attrezzatura era su un prato fuori dal caseificio. La esaminammo con un nostro esperto e decidemmo che tutto ciò che era recuperabile lo avremmo recuperato. Con un container la portammo tutta in Burundi. Avremmo potuto prenderla anche da un’altra parte, però aveva un significato prendere proprio quella». Pagina Facebook La capra felice In Trentino si era tentato più volte di riavviare l’attività di Agitu, senza successo. «Abbiamo fatto la proposta all’avvocato Molinari, curatore dei beni della pastora. La proposta fu accettata e quindi abbiamo portato tutto in Burundi. Abbiamo invitato ad andarvi dei nostri casari e abbiamo formato i casari loro. Fra l’altro abbiamo scelto e individuato anche una ragazza, che assomiglia tantissimo ad Agitu. Abbiamo formato lei e un ragazzo. Oggi il caseificio di Muyinga produce formaggio e funziona a pieno regime. Noi sistematicamente andiamo giù ogni sei mesi con dei casari e li aiutiamo a crescere, però loro intanto sono già diventati autonomi: producono il formaggio e lo portano nella capitale. Li abbiamo aiutati a trovare dei canali che consentano loro di venderlo in ristoranti e negozi. Il formaggio ovviamente si chiama “Agitu”». E il sogno non si ferma qui. «Vorremmo portare in Burundi anche il gregge di Agitu, o almeno gli animali sopravvissuti: quattro capre e un caprone», racconta Dossi. L’idea è quella di consolidare la capra mòchena, la razza che Agitu contribuì a salvare dall’estinzione, e far nascere un allevamento gestito dalla cooperativa femminile. Un progetto che chiuderebbe il cerchio, riportando idealmente Agitu nella sua terra. Le difficoltà burocratiche e sanitarie per il trasferimento degli animali rendono questa fase ancora incerta, ma quel che è certo è che, se Agitu avesse avuto la possibilità di ricostruire in Etiopia ciò che aveva realizzato in Trentino, lo avrebbe fatto senza esitazione. Oggi, nel caseificio di Muyinga, una targa in sua memoria sembra dire: “Guarda, tu sei qui. Ti abbiamo riportata in Africa attraverso la tua attrezzatura, in un contesto che avresti di sicuro amato”.   Africa Rivista
Raccontare un femminicidio senza uccidere due volte
I femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche Ho scelto di non scrivere subito del femminicidio di Lettomanoppello, accaduto il 9 ottobre. Non per distacco, ma per rispetto. Perché troppe volte, dopo un femminicidio, assistiamo a una corsa a occupare lo spazio del dolore — politici in cerca di consenso, media affamati di titoli, commentatori pronti a riempire il silenzio con parole vuote. Io credo che prima di parlare, serva ascoltare. Perché le parole contano, e quando sono sbagliate, possono ferire una seconda volta. E in effetti, ancora una volta, le parole sono state sbagliate. Nei giorni successivi al FEMMINICIDIO di Cleria Mancini, uccisa dall’ex marito Antonio Mancini, il racconto mediatico si è subito piegato verso la giustificazione, verso la spettacolarizzazione. I titoli dei giornali hanno parlato di “raptus”, di “tragedia familiare”, di un uomo “fuori di sé”, “pazzo”, “accecato dalla gelosia”. Ecco cos’è la narrazione tossica. È quella che, invece di nominare la violenza per ciò che è — un atto di potere — la svuota di significato politico. È quella che sposta il focus dall’assassinio di una donna alla disperazione dell’uomo che l’ha uccisa. È quella che descrive il carnefice come una vittima delle proprie emozioni, riducendo la violenza patriarcale a un gesto di follia individuale. Chiamare un femminicida “pazzo” non è solo un errore lessicale. È un modo per deresponsabilizzare — lui, e con lui la società intera. Se era “pazzo”, allora non poteva controllarsi. Se era “fuori di sé”, allora non c’era premeditazione. Se è “un raptus”, allora nessuno poteva evitarlo. Così, in un colpo solo, si cancella l’origine sistemica della violenza maschile e si solleva la collettività dal dovere di interrogarsi su cosa l’abbia resa possibile. Ma la verità è che non c’è nessun raptus. Ci sono dinamiche di controllo, di possesso, di dominio. C’è un uomo che non accetta la libertà della donna accanto a sé, e una cultura che, in mille modi sottili, lo autorizza a pensare che quella libertà gli appartenga. Emanuela voleva vivere la sua vita, e per questo è stata uccisa. È questo che bisogna dire. Tutto il resto — “il gesto di follia”, “il momento di buio”, “la mente malata” — sono tentativi di spostare lo sguardo, di allontanare la violenza da noi, di ridurla a un fatto privato. Invece no: i femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche. Accadono perché esiste un sistema che educa alla sopraffazione, che assegna agli uomini il potere e alle donne la colpa. Accadono perché lo Stato continua a tagliare risorse ai centri antiviolenza, perché la stampa continua a raccontare la violenza come un’anomalia, e non come un sintomo di un ordine sociale malato. La narrazione tossica non è solo una cattiva abitudine giornalistica. È un dispositivo culturale di difesa. Serve a mantenere l’illusione che la violenza sia eccezionale, imprevedibile, non nostra. Ma ogni volta che leggiamo “una donna è stata trovata morta” invece di “un uomo l’ha uccisa”, cancelliamo il soggetto. Ogni volta che scriviamo “lui l’amava troppo”, legittimiamo l’idea che l’amore possa essere una scusa per la violenza. Ogni volta che un giornale titola “tragedia della gelosia”, stiamo dicendo alle prossime Emanuele che la loro libertà è pericolosa. Per questo oggi non scrivo per commentare, ma per denunciare. Per dire che il modo in cui raccontiamo i femminicidi è parte del problema. Che il giornalismo, se non cambia sguardo, diventa complice. Fare cultura femminista significa questo: smontare le parole che proteggono il potere, nominare la violenza per quello che è, ridare voce e dignità alle donne che non possono più parlare. Cleria Mancini non è morta per un raptus. È stata uccisa da un uomo e da una cultura che gli ha permesso di credere che il suo corpo e la sua vita gli appartenessero. Raccontarlo senza ipocrisie è il primo passo per impedire che accada ancora. Le parole non bastano, ma sono l’inizio di ogni cambiamento. E allora che questo cambiamento cominci da noi — da chi scrive, da chi legge, da chi ascolta, da chi insegna. Perché ogni volta che scegliamo di raccontare la verità, togliamo ossigeno alla cultura della violenza e restituiamo giustizia a chi non può più difendersi. Benedetta La Penna