Napoli, 25 novembre: la violenza si combatte molto prima della violenzaArte, scuola, istituzioni, cultura e testimonianze. Un’unica direzione: educare
alla libertà.
Le notizie arrivano così fitte che i volti delle donne sembrano quasi
sovrapporsi, uno sull’altro, senza il tempo di essere riconosciuti. Quando
pensiamo di aver trovato le parole giuste per l’ennesimo femminicidio, arriva
sempre un nuovo giorno che ci costringe a riformularle.
Riaffiorano allora immagini che l’Italia non riesce a dimenticare. La pancia di
Giulia Tramontano, spezzata insieme al figlio che portava in grembo. Il volto
giovane di Giulia Cecchettin. La vicenda di Tiziana Cantone, divorata dalla
violenza digitale. La vita interrotta di Martina Carbonaro, a soli quattordici
anni. La storia di Roua Nabi, uccisa nonostante il braccialetto elettronico al
marito. Storie diverse, lontane tra loro, eppure accomunate dalla stessa radice:
la cancellazione della libertà altrui.
E ancora una volta, la cronaca recente ci obbliga a fermarci. A Qualiano, vicino
Napoli, un uomo già denunciato, già sottoposto a codice rosso e ai domiciliari
con braccialetto elettronico, ha manomesso il dispositivo, ha raggiunto l’ex
compagna e l’ha colpita più volte con un coltello. È viva per miracolo, dicono i
medici. Ma quante volte ancora dovremo affidarci alla parola miracolo dopo che
tutto il resto non ha funzionato? Questo episodio, come altri, mostra che la
repressione, pur necessaria, non basta. Spesso arriva dopo, quando è già tardi.
La violenza sulle donne non si esaurisce nelle storie che finiscono in prima
pagina, con un nome, una fotografia e una sentenza. Esiste un territorio
sommerso, silenzioso e ostinato, fatto di manipolazione, controllo, dipendenza
affettiva, svalutazione e isolamento. È una violenza che non lascia lividi sulla
pelle, ma scava dentro, corrode lentamente la voce, l’autostima, la libertà
interiore. È quella che ti convince che sei tu il problema, che stai esagerando,
che forse te la sei cercata. È fatta di parole trattenute, telefoni controllati,
amori che diventano confini, e di una casa che, invece di proteggere, diventa
prigione emotiva. È una violenza domestica non perché avviene tra quattro mura,
ma perché mette la paura dentro la vita.
Ha un effetto farfalla. Genera altre fragilità, altre bambine cresciute nella
sudditanza, altri bambini educati all’idea del possesso. Perché in un contesto
dove non si è liberi non si può insegnare la libertà, e nessuno può trasmettere
ciò che non ha il permesso di vivere.
I dati ci obbligano a non voltare lo sguardo. In Europa una donna su tre subisce
violenza fisica o sessuale. In Italia il 31,5 per cento delle donne tra i sedici
e i settant’anni ha subito violenza. Tra le ragazze più giovani quella
psicologica raggiunge il 35 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati
denunciati 8.592 atti persecutori, e nel 74 per cento dei casi le vittime erano
donne. Il 75 per cento delle italiane ritiene che la violenza psicologica non
venga riconosciuta come tale.
La prevenzione autentica comincia molto prima della violenza. Prima dei
tribunali, delle misure cautelari e dei braccialetti elettronici. Comincia
nell’infanzia, nelle famiglie e soprattutto nelle scuole. È un’educazione
quotidiana quella che serve, fatta di rispetto, limite, empatia, consenso e
libertà. In questa direzione si muovono anche alcuni provvedimenti oggi in
discussione in Parlamento: il Disegno di Legge S 979, che propone di introdurre
in modo strutturato l’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici,
e due proposte alla Camera, l’AC 2278, che riguarda l’educazione alle relazioni
e al riconoscimento dell’identità di genere, e il C 2271, che disciplina le
attività scolastiche sui temi dell’affettività e della sessualità prevedendo il
consenso informato delle famiglie. È un segnale chiaro. Non è più possibile
rimandare.
Anche Napoli risponde, e lo fa attraverso linguaggi diversi: l’arte, la cultura,
la memoria, l’esperienza, la cura.
In Piazza Municipio, la ASL Napoli 1 Centro ha trasformato la riflessione in
un’esperienza. All’interno di un grande cubo nero, simbolo del buio e
dell’isolamento, si attraversa un labirinto sonoro fatto di voci, rumori,
testimonianze e dati. Ogni passo è un frammento di paura, fragilità, controllo,
ma anche resistenza. L’uscita è una Porta Rosa, luminosa, simbolo di rinascita.
Fuori, operatori e volontari informano sui Percorsi Rosa attivi nei Pronto
Soccorso cittadini, offrendo orientamento e protezione.
La Direzione regionale Musei nazionali Campania ha diffuso il suo impegno lungo
un’intera settimana, dal ventidue al ventinove novembre, trasformando musei e
luoghi culturali in spazi di consapevolezza. A Montesarchio, la mostra
fotografica Per Lei di Michele Stanzione racconta la presenza femminile
attraverso luce, assenza e memoria. A Santa Maria Capua Vetere, l’Anfiteatro
Campano si accende di arancione al crepuscolo, in un gesto collettivo che invita
a dire insieme: accendiamo il rispetto. A Benevento, il Teatro Romano ospita
studenti, psicologi e musicisti per riflettere sull’impatto invisibile della
violenza. A Pontecagnano, una serata tra mito, danza e parola prova a immaginare
relazioni libere da ruoli imposti. A Eboli, con Clitennestra o del crimine, il
mito diventa voce contemporanea, che chiede ascolto e non solo giudizio.
Anche il Teatro Trianon Viviani contribuisce a questo percorso. Il 25 novembre,
dalle ore 10 alle 13, la Fondazione Campania dei Festival, insieme alla Regione
Campania, promuove un incontro dedicato a studenti e famiglie, con interventi di
istituzioni, associazioni e realtà impegnate nella tutela dei diritti e nella
costruzione di una cultura del rispetto. È previsto anche un breve contributo
artistico, con testimonianze e monologhi curati dall’Associazione Forti
Guerriere, come forma di narrazione civile e restituzione della voce.
Questi sono solo alcuni degli appuntamenti che Napoli e la Campania dedicano,
lungo tutta la settimana, non a una celebrazione, ma a un impegno diffuso.
Perché la consapevolezza non si costruisce in un giorno, e soprattutto non si
costruisce da soli.
Il venticinque novembre non è una data. È una domanda. A ciascuno di noi.
E Napoli risponde mettendo al centro non solo la tragedia, ma la prevenzione. La
cultura, l’ascolto, il linguaggio, la scuola, l’arte, la relazione.
Perché la violenza si combatte molto prima della violenza. Nei gesti quotidiani.
Nei bambini che imparano a rispettare. Nelle bambine che imparano a non
abbassare gli occhi. Se vogliamo cambiare davvero questo tempo, dobbiamo
ricominciare da lì. Dalle radici.
Lucia Montanaro