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Due morti, una sola sconfitta
Il 6 agosto, nel carcere di Gazzi a Messina, Stefano Argentino si è tolto la vita. Era detenuto con l’accusa di aver ucciso, il 31 marzo scorso, Sara Campanella, aggredita e accoltellata all’uscita dell’università. Un delitto avvenuto in pieno giorno, nel cuore della città, nei pressi di un luogo di formazione e pertanto simbolo di conoscenza, libertà, futuro. Messina ne è rimasta sconvolta, colpita nella sua identità di città universitaria, di luogo che avrebbe dovuto essere sicuro, accogliente, vitale. Sara è stata uccisa a 22 anni da un suo coetaneo che conosceva e che aveva mostrato segnali di ossessione e controllo: era suo compagno di studi, non era uno “sconosciuto”. E Sara era una ragazza dentro una rete fitta, silenziosa e sistemica: quella della violenza di genere. Non l’abbiamo protetta. Come accade troppo spesso, non abbiamo letto i segnali, non abbiamo costruito una rete di prevenzione e sostegno sufficiente. Non è stato solo Stefano a fallire: è stato anche il contesto che lo ha lasciato agire. La morte di Stefano ha suscitato un’ondata emotiva di reazioni sui social e molte sono state di esultanza. Ma dietro l’apparente liberazione collettiva, dietro la fine prematura del “carnefice”, non c’è giustizia. C’è solo una nuova ferita. C’è solo una seconda sconfitta. Come ricorda Stefania Prandi, nel libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta”, ‘Quando una donna muore per mano di un uomo non viene distrutta soltanto una vita…’, sottolineando quanto il trauma del femminicidio si estenda ben oltre la donna uccisa, penetrando nella quotidianità di chi resta — figli, genitori e fratelli. Quando si parla di chi resta si pensa anche a figli, genitori e fratelli del femminicida. La morte di Stefano, avvenuta poco prima dell’inizio del processo, ha interrotto il percorso giudiziario, ha cancellato la possibilità per i familiari di Sara di guardare in faccia la verità e ha impedito allo Stato di rendere giustizia attraverso il diritto, non attraverso l’abbandono. Il carcere non è solo un luogo di detenzione. È o dovrebbe essere un presidio di responsabilità collettiva, anche per chi ha commesso reati gravissimi. Quando un detenuto si suicida, lo Stato fallisce. Quando la società esulta, falliamo tutti. Chi applaude alla morte del colpevole dimentica che la giustizia non serve ai morti, ma ai vivi. Serve a stabilire verità, responsabilità, riparazione. Serve a insegnare, anche ai colpevoli, che la violenza non è accettabile. Quando ci limitiamo ad augurare la morte a chi uccide, riproduciamo la stessa logica che vorremmo condannare: una logica binaria, spietata, incapace di vedere l’essere umano. Non esiste una giustizia fatta di vendetta. Esiste solo la giustizia come atto di civiltà, come processo condiviso, come limite alla barbarie. Quando muore l’autore di un femminicidio, non è il cerchio che si chiude. È il sistema che si spezza. Il femminicidio non è un raptus. Non è un caso isolato. È l’espressione finale di una cultura che tollera, giustifica, banalizza la violenza maschile contro le donne. Una cultura che cresce in famiglia, nella scuola, nei tribunali, nei media. Se rispondiamo con la stessa violenza, esultando per il suicidio di un uomo, non stiamo combattendo quella cultura. Stiamo solo cambiando bersaglio. Ma l’odio resta. Il femminicidio è un crimine sistemico e come tale, coinvolge tutti: uomini e donne, genitori e figli, insegnanti e operatori, giudici e giornalisti. Non possiamo pensare di uscirne col pugno di ferro, con la morte in carcere, con la gogna pubblica. Dobbiamo entrarci, sporcarci le mani, chiederci dove e quando avremmo potuto fare qualcosa di diverso. E poi iniziare a farlo. La morte di Sara Campanella è una tragedia che non doveva accadere. Il suicidio di Stefano Argentino è un’altra tragedia che si poteva evitare. La prima è colpa della violenza maschile e della mancanza di prevenzione. La seconda è colpa di un sistema penale che punisce ma non cura, che isola ma non ascolta. Entrambe le morti sono anche una responsabilità collettiva. Di una comunità che non ha ancora compreso che la violenza di genere non si estirpa con l’odio, né con la sola logica punitiva. Si contrasta con l’educazione, con la consapevolezza di sé e degli altri, con la prevenzione e la trasformazione culturale. Venera Leto
Delitto di “femminicidio”: tra securitarismo e retorica patriarcale
Presentato il 31 marzo 2025 e attualmente approvato in Senato, il DDL 1433 dal titolo  «Femminicidio e contrasto alla violenza sulle donne» segna un nuovo punto critico nel percorso legislativo italiano sul tema della violenza di genere, presentandosi, fin dalle sue primissime battute, come l’ennesimo tentativo da parte del governo Meloni di strumentalizzare un tema prioritario al fine di rafforzare il proprio personalissimo piano securitario. Che al governo Meloni non sia mai interessata realmente la “questione di genere” non è una novità: lo si evince banalmente dalla fin troppo spesso sbandierata retorica del “Dio, Patria, Famiglia” e dalla connessa azione politica di ritorno a un “ordine naturale”, paradossalmente tanto anacronistico quanto risonante nelle agende politiche contemporanee, non solo europee. In linea con questa retorica, da quando si è insediato nell’ottobre del 2022, il governo Meloni ha portato avanti un chiaro progetto di smantellamento delle politiche economiche, sociali e sanitarie dei governi precedenti, i quali – anche in seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 – avevano aumentato i fondi a sostegno del sistema antiviolenza del 156% in quasi dieci anni. > In meno di mille giorni di governo Meloni, invece – solo per citare alcuni > provvedimenti – sono stati tagliati del 70% i fondi destinati alla prevenzione > della violenza di genere; sono stati ridotti drasticamente i fondi pubblici > per gli screening oncologici ginecologici; sono stati dirottati quelli > previsti per l’educazione sessuo-affettiva verso iniziative legate alla > “fertilità”; ed è stata condotta una campagna senza precedenti a sostegno > delle realtà pro-life. Inoltre, l’attuale governo è stato scandalosamente inattivo – se non apertamente ostracista – sul piano normativo nell’ambito della prevenzione alla violenza di genere. Nel corso della XIX legislatura, dei 166 emendamenti riconducibili alla questione in esame e presentati alla Camera e al Senato, solo 15 portano la firma della maggioranza. Inoltre, l’attuale governo è stato scandalosamente inattivo – se non apertamente ostracista – sul piano normativo nell’ambito della prevenzione alla violenza di genere. Nel corso della XIX legislatura, dei 166 emendamenti riconducibili alla questione in esame e presentati alla Camera e al Senato, solo 15 portano la firma della maggioranza. IL SILENZIO ASSORDANTE DELLA PROPAGANDA: IL VUOTO REALE DIETRO L’AZIONE DI GOVERNO Già nel maggio 2023, a pochi mesi dall’insediamento, il governo Meloni aveva espresso chiaramente la propria linea in Parlamento europeo, astenendosi in massa – e in alcuni casi votando contro – sull’adesione alla Risoluzione della Convenzione di Istanbul, al fianco di Paesi come Polonia, Ungheria e Turchia, accusandola di fondarsi sull’ideologia gender. Alla crescente richiesta europea di allineamento e in seguito a casi emblematici come il femminicidio di Giulia Cecchettin, lo stupro di gruppo a Palermo o quello di Caivano, il governo ha messo in campo una serie di risoluzioni di facciata, il cui scopo è sempre stato esclusivamente quello di accontentare il proprio elettorato. Una sorta di “soluzioni-bandiera”, tra cui figurano il protocollo d’intesa Valditara/Giuli e il farraginoso e confusionario progetto “Educare alle relazioni”, affidato all’“esperto” Alessandro Amadori, che nel suo libro La guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere esorta a non sottovalutare mai «il male e la cattiveria insiti nelle donne». In questo scenario si inserisce il DDL 1433: una proposta normativa dai contorni repressivi che si fonde perfettamente con la più ampia visione punitivo-securitaria già rappresentata dal Decreto Sicurezza (L. 80/2025) e dai centri di “permanenza” per migrantə irregolarə in Albania. > Ciò che salta all’occhio è la reale assenza di una volontà preventiva ed > educativa legata alla violenza di genere. In una logica tutta italiana di “mettere un semaforo dove ci scappa il morto”, invece di prevenire l’incidente educando al rispetto del convivere civile, il Ministro della Giustizia Nordio, affiancato dal Ministro dell’Interno Piantedosi e dalla Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Roccella, concentra in otto articoli tutta l’ipocrisia e la violenza che solo un governo di destra può incarnare. Come si legge nel testo del DDL 1433, l’obiettivo dichiarato è quello di «rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne». In realtà, il disegno di legge si inserisce perfettamente nella linea escludente e repressiva che attraversa tutte le politiche del governo Meloni in tema di violenza di genere e non. Il tentativo non è comunque nuovo a questo governo, che aveva già affrontato il tema nel 2023 con la Legge 168, nota come Legge Roccella, intitolata «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica». La legge introduce modifiche al Codice Penale che potrebbero sembrare, a unə osservatorə inespertə, positive, ma che – come osserva Anna Maria Maugeri, Ordinaria di Diritto penale all’Università degli Studi di Catania – «strumentalizzano le ansie punitive suscitate dai crimini efferati per affermare politiche populiste e reocentriche, esemplificate tramite le logiche del “diritto penale del nemico” ». In sostanza: «giustizia è fatta se condanna è emessa». Di Eric Moreu – unsplash IL DELITTO DI FEMMINICIDIO: UNA LEGGE ESSENZIALISTA PER UNA GIUSTIZIA PATRIARCALE Degli otto articoli, sei riguardano modifiche al Codice di procedura penale in merito ai diritti informativi, di protezione e partecipazione delle vittime di reato, oltre a interventi sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. Particolarmente degni di approfondimento critico sono i restanti articoli (1 e 7), e in particolare l’art. 577-bis, che introduce il delitto di “femminicidio” come «nuova fattispecie il cui soggetto attivo può essere chiunque e il cui soggetto passivo è una donna», prevedendo l’ergastolo nei casi in cui il fatto venga commesso come atto di discriminazione o odio, o finalizzato a reprimere i diritti, la libertà o l’espressione della “personalità” della persona offesa in quanto donna. La linea negazionista del genere e il fondamento biologico della differenza su cui si basa l’art. 577-bis rappresentano solo alcune delle incongruenze rispetto alla realtà della violenza di genere. Fondare l’incriminazione per femminicidio esclusivamente sulla discriminante del sesso biologico apre enormi crepe normative, a partire dalla gerarchizzazione delle vittime e dall’esclusione di tutte le soggettività diverse dalle donne cisgender. In particolare, le donne trans – anche in fase di transizione di genere – non rientrerebbero nella sanzione, poiché non AFAB (Assigned Female At Birth); eppure, secondo l’Osservatorio di Non una di Meno sui femminicidi, lesbicidi e trans*cidi, i tassi di violenza contro le persone trans sono ogni anno più preoccupanti. La chiara connotazione “essenzialista” dell’articolo, oltre a rafforzare l’invisibilizzazione di soggettività già marginalizzate e discriminate, ritaglia sulle donne cisgender il ruolo della “vittima speciale”, destinataria di una protezione specifica, relegandola a una posizione di subordinazione passiva. > La madre generatrice dunque, il cui corpo fecondo è stato tolto alla patria e > che reclama una vendetta giuridica degna del suo ruolo sacro. D’altronde, porre l’accento sul sesso alla nascita e sulle differenze biologiche è da sempre terreno di caccia ideologico e politico delle destre antiabortiste, eteronormative e bi-genderizzate. Non sorprende, dunque, che il DDL 1433 sia stato formulato in totale assenza di dialogo o confronto con tutte quelle realtà e organizzazioni che da anni si occupano di violenza di genere, operando sul territorio nazionale nella gestione di centri antiviolenza e case rifugio. Inoltre, considerare la violenza di genere come un’espressione di odio o discriminazione fondata su caratteristiche biologiche, sottintende l’ammissione implicita dell’esistenza di una sorta di “razzismo” verso le connotazioni fisiche delle donne, come se queste fossero all’origine delle violenze subite. Ma le donne non sono una razza, né un’etnia, né una categoria: e, per quanto il governo Meloni non voglia ammetterlo, la violenza contro le donne è culturale e sistemica, figlia della visione patriarcale della subalternità di genere, del machismo tossico e della cultura dello stupro. Negando la dimensione strutturale della violenza di genere e limitandosi a parlare della “personalità” della vittima, si genera un’indeterminatezza giuridica che affida al progressismo o al conservatorismo personale dei giudici il destino del procedimento penale. Inoltre, l’assenza di un ancoraggio alla dimensione sistemica e patriarcale della violenza produrrà, nei processi, un’impasse argomentativa che favorirà l’invocazione di moventi psicologici o individuali tutti da dimostrare, aprendo ulteriormente la strada a garantismi fondati su raptus e a ulteriore vittimizzazioni secondarie. PUNIRE NON SERVE: L’ERGASTOLO E IL VUOTO CULTURALE Un’ultima riflessione va fatta rispetto alla sanzione punitiva dell’ergastolo prevista per il delitto di femminicidio introdotto dal DDL 1433. Dal 2001 a oggi, numerosi interventi legislativi sono stati adottati, da parte di tutte le coalizioni di governo, con l’obiettivo dichiarato di arginare il fenomeno crescente della violenza di genere. Nel 2009 è stato introdotto il reato di stalking con la legge n.38/2009, seguito nel 2013 dalla legge n. 119/2013, la cosiddetta “Legge sul femminicidio”, che ha inasprito gli strumenti di controllo con misure come il braccialetto elettronico. Nel 2019, la legge n. 69/2019, nota come “Codice Rosso”, ha inserito nuove aggravanti per reati commessi in ambito relazionale o affettivo. Ciò che emerge con chiarezza è l’inefficacia della logica esclusivamente punitiva fin qui adottata, che tenta di risolvere una questione sistemica attraverso “pezze legislative” chiaramente inefficaci. I dati parlano chiaro: secondo il ventunesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, negli ultimi trent’anni gli omicidi volontari contro uomini sono diminuiti del 75%, mentre quelli contro le donne sono rimasti pressoché invariati. Secondo l’Osservatorio di Non Una di Meno, negli ultimi cinque anni i femminicidi riconosciuti sono stati quasi seicento — una media di uno ogni tre giorni. Più della metà degli autori erano partner o conviventi; quasi due su dieci, ex partner. Cosa ci dicono questi numeri? Che l’inasprimento sanzionatorio, se non accompagnato da politiche educative e trasformative in grado di scardinare la logica patriarcale, non funziona. La risposta meramente penalisitca, fondata sullo spauracchio dell’ergastolo, può al massimo acquietare le spinte di vendetta di un populismo punitivo non risolutivo, intervenendo quando il danno è fatto e privilegiando una logica reattiva e non preventiva. D’altronde, il nostro ordinamento penale prevede già l’ergastolo nei casi di omicidio aggravato da vincoli familiari o affettivi, o in presenza di condotte persecutorie e di stalking. > Quello che la deriva giuridico-repressiva manca del tutto di prendere in > considerazione è però la voce dellə sopravvissutə. Chi subisce violenza di genere desidera prima di tutto che la propria voce venga ascoltata, chiede riconoscimento, chiede libertà, chiede autodeterminazione. E in uno scenario come quello attuale — con un Paese al collasso economico, segnato da una cultura patriarcale colonialista, dall’odio verso le identità non conformi e le persone migranti, dall’isolamento social, dalla precarietà lavorativa, dalla crisi dell’istruzione e della cultura e dalla corsa al riarmo — l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un pensiero punitivo che costruisca vittime a carnefici, deresponsabilizzando lo Stato. L’immagine di copertina è di Valeria Altavilla SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Delitto di “femminicidio”: tra securitarismo e retorica patriarcale proviene da DINAMOpress.
PISA: “CI VOGLIAMO VIVE*. PER SAMANTHA, PER TUTTE*”. FIACCOLATA NEL QUARTIERE SANT’ERMETE
Il Senato ha approvato all’unanimità, nel pomeriggio di mercoledì 23 luglio 2025, il disegno di legge del governo Meloni sul femminicidio. Il provvedimento passerà ora alla Camera. La nuova norma introduce l’articolo 577-bis del codice penale e punisce con l’ergastolo chiunque provochi la morte di una donna “commettendo il fatto con atti di discriminazione, di odio o di prevaricazione, ovvero mediante atti di controllo, possesso o dominio verso la vittima in quanto donna”. Nel paese reale, però, la strage dei femminicidi continua. L’ultimo caso si è verificato ieri, martedì 22 luglio 2025, nel quartiere di Sant’Ermete a Pisa. Samantha Del Gratta, 45 anni, è stata uccisa da un uomo di 50, il suo compagno, una guardia giurata, che le ha sparato con la pistola d’ordinanza. “Ci vogliamo vive*, per Samantha, per tutte*”: con queste parole d’ordine la Comunità di quartiere di Sant’Ermete ha organizzato per questa sera, 23 luglio, alle 21, una fiaccolata. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto è intervenuta Carla, della Comunità di Quartiere di Sant’Ermete. Ascolta o scarica.
Diciamo “Basta alla violenza di genere”: al via la campagna di UN Women Italy
Il Comitato italiano dell’agenzia Onu per l’uguaglianza e l’empowerment femminile lancia “In tutte le lingue del mondo”, un’iniziativa di sensibilizzazione e raccolta fondi per fermare la strage silenziosa che si consuma ogni giorno in ogni angolo del globo: «La violenza sulle donne è un linguaggio universale, nessun Paese è immune, incluso il nostro, come dimostrano gli ultimi tragici casi di femminicidio» Roma, 26 giugno 2025 – Con una donna uccisa in media ogni dieci minuti, oltre 50 mila in un anno, il femminicidio è l’emblema di una strage silenziosa che si consuma ogni giorno in ogni angolo del globo. Si stima siano almeno 736 milioni (una su tre) le donne sopra i 15 anni che hanno subìto violenza fisica e/o sessuale almeno una volta nel corso della propria vita (9 su 10 per mano di un partner). E l’Italia non fa eccezione, come dimostrano gli ultimi tragici casi di cronaca, di cui a colpire è, oltre all’efferatezza, la giovane età delle vittime e dei presunti autori. Per fermare tutto questo è urgente uno sforzo collettivo che faccia leva sulla prevenzione e sull’educazione. Va in questa direzione la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “In tutte le lingue del mondo” lanciata da UN Women Italy per dire «basta» alla violenza di genere. Per sostenere l’organizzazione e i suoi programmi è possibile donare accedendo alla pagina dedicata dona.unwomenitaly.org. «La violenza contro le donne è, tragicamente, un linguaggio universale. Nessun Paese, neanche il nostro, è immune. Di fronte a un fenomeno inaccettabile dobbiamo moltiplicare gli sforzi. Serve una forte mobilitazione collettiva. Perché la violenza contro le donne non è inevitabile. Possiamo prevenirla. Eppure solo lo 0,2% della spesa globale in aiuti allo sviluppo va al contrasto alla violenza di genere», spiega Loredana Grimaldi, Head of Fundraising di UN Women Italy. LA VIOLENZA SULLE DONNE IN GUERRA Al di fuori delle mura domestiche il mondo si rivela un posto altrettanto ostile per donne e ragazze. In guerra in particolare violenza e abusi diventano una pratica sistematica. Il moltiplicarsi dei conflitti armati (135 quelli registrati nel 2024, inclusi 61 statali, il numero più alto dal 1946) ha conseguenze drammatiche per donne e ragazze. Mentre il numero di chi vive in zone di guerra ha superato i 600 milioni (in crescita del 50% rispetto al 2017), nel 2023 le vittime uccise in teatri bellici sono raddoppiate (4 su 10). Nella sola Striscia di Gaza, secondo le stime di UN Women, oltre 28 mila tra donne e ragazze hanno perso la vita dall’inizio del conflitto nell’ottobre 2023, in media due ogni ora. Specularmente i conflitti moltiplicano la violenza sessuale, con lo stupro impiegato come arma di guerra. Circa 3.700 i casi verificati dalle Nazioni Unite nel solo 2023 (+50%). Numeri allarmanti ma con ogni probabilità sottostimati dal momento che molti casi non vengono denunciati o non possono essere verificati. SUDAN Conseguenza inevitabile delle guerre, gli sfollamenti forzati aumentano in modo esponenziale il rischio di abusi e violenza di genere. È il caso del Sudan, dove la guerra civile che imperversa da oltre due anni ha innescato una delle peggiori crisi umanitarie al mondo e «i corpi delle donne sono diventati campi di battaglia». Oltre 6 milioni tra donne e ragazze sono state sfollate mentre l’Onu ha registrato un drammatico aumento delle vittime di violenza di genere (quasi +300%) e documentato l’uso sistematico dello stupro ai danni in particolare di minoranze etniche. UCRAINA Anche in Ucraina molte donne vittime di violenza sessuale hanno deciso di rompere il silenzio, come testimoniano le storie raccolte da UN Women. La missione di monitoraggio delle Nazioni Unite dall’inizio del conflitto, nel febbraio del 2022, all’agosto del 2024 ha registrato 342 casi, di cui 104 ai danni di donne e ragazze. GAZA In tempo di guerra anche le strutture sanitarie diventano facile bersaglio, privando milioni di donne del diritto alla salute, a cominciare da quella sessuale e riproduttiva. Drammatica in questo senso la condizione delle donne incinte a Gaza, circa 55 mila. Con solo una manciata di ospedali ancora in grado di fornire assistenza alle gestanti, tra carenza di farmaci e dispositivi medici, malnutrizione e stress acuto, una su tre affronta gravidanze ad alto rischio, mentre i neonati prematuri e sottopeso sono almeno uno su cinque. AFGHANISTAN A cadere vittima dei conflitti sono anche i diritti umani. Emblematico l’Afghanistan, dove dopo il ritorno al potere nel 2021, il regime talebano ha progressivamente eroso le libertà di donne e ragazze fino a rimuoverle dalla vita pubblica, privandole del diritto all’istruzione, al lavoro e alla salute in quello che è considerato uno dei casi più estremi di apartheid di genere. Secondo l’Afghan Gender Index 2024 di UN Women, il Paese mostra il più ampio divario di genere al mondo, secondo solo allo Yemen, con otto donne su dieci che non studiano né lavorano. Allarmanti i numeri sul fronte della violenza fisica e sessuale per mano del partner, tra i più elevati al mondo già prima del 2021. La presa di Kabul non ha fatto che esacerbare i fattori di rischio, dal controllo istituzionalizzato degli uomini alla perdita dell’indipendenza economica delle donne fino all’abolizione delle tutele legali per le vittime di violenza. Senza contare il persistere di pratiche tradizionali come il delitto d’onore, i matrimoni forzati e precoci e il “baad”, la cessione delle donne usate come merce di scambio per appianare controversie. UN WOMEN, DA 15 ANNI A FIANCO DELLE DONNE IN TUTTO IL MONDO Quest’anno UN Women, la più giovane agenzia delle Nazioni Unite, spegne 15 candeline. Da quando è nata, sostiene milioni di donne e ragazze in tutto il mondo per porre fine alla violenza di genere, promuovere la parità e favorire l’indipendenza economica. È quello che fa per esempio in Ucraina, dove nel 2024 attraverso 54 organizzazioni locali ha supportato nel complesso oltre 180 mila tra donne e ragazze, fornendo assistenza umanitaria, protezione e supporto alle vittime di violenza di genere, supporto legale e psico-sociale. A Gaza e in Cisgiordania i programmi dell’agenzia puntano su sostentamento economico e accesso al lavoro, parità e partecipazione, contrasto alla violenza di genere e protezione delle vittime. Dall’inizio del conflitto nella Striscia, UN Women è sul campo anche per fornire alla popolazione servizi essenziali. Allo stesso modo UN Women è in prima linea in Sudan, dove negli ultimi due anni ha lavorato insieme a oltre 60 organizzazioni locali per garantire assistenza umanitaria e supporto economico a donne sfollate dalla guerra e vittime di violenza di genere. In Afghanistan UN Women non ha indietreggiato dopo l’avvento del regime talebano. In prima linea contro il rischio cancellazione di donne e ragazze dalla vita pubblica, tra 2024 e 2025 ha sostenuto 240 organizzazioni femminili in tutte le 34 province del Paese asiatico per fornire sostegno alle vittime di violenza, assistenza umanitaria, supporto economico e formazione professionale anche nelle aree più remote. In Italia, dove UN Women è approdata appena un anno fa, il Comitato nazionale ha promosso numerose iniziative. Ultima in ordine di tempo, il capitolo italiano di HeforShe, il movimento globale creato dalle Nazioni Unite nel 2014 per promuovere la parità di genere con il coinvolgimento diretto di uomini e ragazzi. «Per eliminare la violenza contro le donne e favorire la parità di genere dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla prevenzione e sull’educazione per imprimere un cambiamento culturale radicale. E per riuscirci è necessario che uomini e ragazzi giochino un ruolo da protagonisti», afferma Darya Majidi, presidente di UN Women Italy. UN Women Italy è il Comitato nazionale che sostiene in Italia la missione di UN Women, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile. Fondato nel giugno 2024, è parte di una rete globale di 13 Comitati nazionali, organizzazioni non governative senza scopo di lucro, indipendenti, laiche e apartitiche. UN Women Italia promuove i diritti delle donne, raccoglie fondi dal settore privato e dà visibilità globale alle istanze di donne e ragazze. Al centro della sua azione c’è la promozione di un cambiamento culturale profondo, condizione imprescindibile per superare le disuguaglianze e costruire una società più equa e sostenibile. Opera attraverso partnership strategiche con istituzioni, governi, imprese e associazioni. Le sue aree di intervento includono: parità di genere, diritti umani, empowerment economico e giovanile, lotta alla violenza contro le donne, leadership femminile e partecipazione al dibattito sociale e culturale considerando la tecnologia come fattore abilitante che offre nuove possibilità, libertà e opportunità di indipendenza. Per saperne di più: unwomenitaly.org Redazione Italia
CONTRO I FEMMINICIDI SERVE UN CAMBIO RADICALE IN SENSO CULTURALE
A distanza di poche ore sono state uccise Martina Carbonaro ad Afragola e Fernanda Di Nuzzo a Grugliasco. Una studentessa Martina, mentre Fernanda era un’educatrice. A fronte di un panorama politico che cerca di nascondersi dietro l’accusa al mostro, a noi risulta necessario tornare ad affrontare il tema dell’educazione sessuoaffettiva e dell’antipunitivismo. Con una rinnovata […]
AFRAGOLA: GLI STUDENTI IN PRESIDIO DAVANTI ALLA SCUOLA DI MARTINA CARBONARO
Riprendiamo il comunicato dei collettivi di studenti, tra cui Uds Afragola, Collettivo Cardito, Collettivo Dalla Chiesa, Collettivo Brunelleschi, che questa sera, Venerdì 30 Maggio hanno indetto un flesh mob davanti alla scuola dove studiava Martina Carbonaro: “Ieri, nel campo Moccia ad Afragola, è successo di nuovo. Martina Carbonaro, una ragazza di soli 14 anni, è […]
NAPOLI: CENTINAIA IN CORTEO “PER MARTINA E PER TUTTE”
Dopo il femminicidio della 14enne Martina Carbonaro, uccisa dal fidanzato 18enne perché – ha dichiarato lui stesso – “non voleva più stare con lui”, giovedì 29 maggio 2025 in centinaia si sono radunate in piazza San Domenico alle ore 20 per poi partire in corteo per le vie del centro di Napoli precedute dallo striscione “Ci vogliamo libere, felici e vive“. Domani, sabato 31 maggio 2025, alle ore 21, nuovo appuntamento di lotta in piazza Gianturco ad Afragola, la città del Napoletano in cui viveva Martina. Il racconto della manifestazione su Radio Onda d’Urto con Azzurra, degli Studenti Autorganizzati Campani, una delle realtà che avevano chiamato la piazza. Ascolta o scarica.
In Memoriam: la fotografia contro il femminicidio
Ai Magazzini Fotografici di Napoli sabato 10 e domenica 11 maggio 2025 si è svolta una performance intensa, dura, necessaria. In Memoriam – Manifesto Visivo, ideato dal fotografo partenopeo Matteo Anatrella con il supporto del team di ANeMA Project, ha trasformato uno spazio espositivo in un luogo di commemorazione e denuncia. Decine di donne si sono alternate sul set per offrire il proprio volto e il proprio corpo a un’opera collettiva contro il femminicidio. Chi ha partecipato sa che non si è trattato semplicemente di “posare”. L’esperienza ha toccato corde profonde, intime. Si entra in un luogo silenzioso. Si attende. Poi si viene guidate a terra, in un sacco scuro, occhi chiusi, mani che stringono un foglio con una frase e due date: la propria data di nascita e quella della morte di una vittima reale. Il corpo vivo diventa simbolo, diventa grido, diventa assenza. E quel momento breve ma denso diventa parte di un’opera più grande: un collage di fotografie stampate in tempo reale, che insieme formano una parete di volti e nomi, di carne e memoria. È difficile restare indifferenti davanti a quella parete, perché ciascuna immagine racconta una storia che non è più lì per essere ascoltata. Perché ogni donna che ha prestato se stessa lo ha fatto per chi non può più farlo. Perché quella sequenza di corpi immobili parla più di tanti discorsi. In Italia, nel solo 2024, sono state uccise 120 donne. Secondo i dati EURES, 100 di questi femminicidi sono avvenuti in contesto familiare o affettivo. Una donna ogni tre giorni, spesso per mano del partner o dell’ex. Un numero che si ripete da anni, senza che la coscienza collettiva riesca davvero a spezzare il ciclo della violenza. La cultura patriarcale, l’assenza di educazione affettiva e la scarsa protezione istituzionale contribuiscono a rendere strutturale un fenomeno che non dovrebbe più trovare posto in una società che si voglia definire civile. Di fronte a questa realtà, l’arte può fare molto. Non basta, certo, ma può incidere, può svegliare, può smuovere. In Memoriam è un esempio concreto di come un linguaggio visivo possa diventare strumento di resistenza e memoria. L’opera non ha fini di lucro, non ha sponsor, né passerelle. È un’iniziativa indipendente, sostenuta solo dalla volontà di restituire visibilità a chi è stata cancellata. Ogni partecipante sceglie di rendersi vulnerabile per un istante, di offrire la propria immagine come veicolo di un messaggio più grande. Dopo lo scatto, è la stessa donna a prendere la propria fotografia e ad appenderla al muro, tra le altre. Una sorta di rito laico che trasforma il dolore in presenza, la testimonianza in impegno. Un modo per dire: io non resto in silenzio. Un modo per ricordare che ogni femminicidio è un fallimento collettivo, ma che insieme, forse, possiamo ancora invertire la rotta. Perché anche una fotografia può diventare un gesto politico. Perché ogni corpo steso su quel pavimento non rappresenta solo una morte, ma la volontà di trasformare la memoria in giustizia. E perché finché ci sarà qualcuno disposto a guardare e qualcuna disposta a esporsi quella voce, la voce delle donne, continuerà a farsi sentire. Matteo Anatrella e il suo team si propongono di continuare questo viaggio appena iniziato. Un primo importante segnale è già arrivato dall’Accademia IUAD di Napoli, dove Anatrella insegna, che ha manifestato interesse ad accogliere un nuovo flash mob fotografico. L’idea è quella di portare In Memoriam in altri contesti significativi, scuole, università, centri culturali, ovunque ci sia uno spazio disponibile per accogliere un messaggio di rispetto, consapevolezza e responsabilità. Quello di Anatrella non è solo un allestimento, ma un dispositivo di memoria e presenza, capace di trasformare l’arte in strumento di denuncia e partecipazione. In Memoriam non è un progetto da archiviare, ma un seme da far germogliare. E noi, con convinzione, auguriamo che possa trovare spazio, forza e alleanze per continuare a far parlare le immagini, perché il silenzio non sia mai più la norma.   Lucia Montanaro
Contro i femminicidi serve davvero l’educazione sentimentale nelle scuole?
Di fronte al problema dei femminicidi che affliggono il nostro paese, una delle soluzioni che viene spesso suggerita è quella dell’introduzione della educazione sessuale (o sentimentale) nel nostro sistema scolastico. La questione è tuttavia più complessa di quanto non possa apparire ad un primo esame. Partiamo da una considerazione che a molti potrà apparire sorprendente. Per quanto difficile sia avere dei dati certi, possiamo dire con sicurezza che l’Italia, insieme alla Grecia, è tra i paesi europei (e con ogni probabilità anche a livello globale) quello col più basso tasso di femminicidi. Al contrario l’allarme sociale provocato da questo tipo di crimine è a casa nostra decisamente più alto che da altre parti. Ma è bene chiarire subito che questo è tutt’altro che un paradosso. L’inaccettabilità dei comportamenti criminali non si valuta dai dati statistici. La situazione ipoteticamente ideale può essere pensata come quella in cui, pur essendo il numero dei fatti delittuosi vicino allo zero, un singolo crimine sia comunque in grado di suscitare una indignazione generalizzata e un senso di insopportabilità nell’intera opinione pubblica. Tutto questo naturalmente a patto che non ci siano poi i soliti politici giustizialisti, soprattutto di destra ma spesso anche di sinistra, convinti che ogni problema di ordine pubblico e di convivenza civile si possa risolvere semplicemente aumentando le pene e il carcere per i responsabili, cosa che temo possa avvenire presto in Italia per mano del governo neofascista della Meloni, complice l’opposizione soft della (finta) sinistra di casa nostra. In questo senso l’idea in controtendenza che ipotizza l’introduzione dell’educazione sessuale nel nostro sistema scolastico può essere valutata positivamente. Tuttavia a complicare notevolmente le cose sono anche in questo caso “i numeri” di alcuni dati statistici. In paesi a noi molto vicini come la Germania e la Francia l’educazione sessuale è materia d’insegnamento già da molto tempo; rispettivamente dal 1968 e dal 2001. Si dà tuttavia il caso che nel paese teutonico i femminicidi siano, per numero di abitanti, il doppio che in Italia. Se consideriamo poi i cugini d’oltralpe dobbiamo constatare che le donne uccise in ambito familiare o sentimentale sono, a quanto ci dicono alcuni dati, addirittura quattro volte più che da noi. Come la mettiamo allora con l’educazione all’affettività? Non voglio entrare in discorsi specialistici che non mi competono, malgrado l’esperienza di diverse decine d’anni di insegnamento. Devo tuttavia constatare, (almeno stando alle cronache) un crescente disagio dei docenti in un contesto in cui l’autorità di chi sta in cattedra pare sia sempre più messa in discussione dai comportamenti diffusi dei discenti, e soprattutto da quelli delle loro famiglie. Tutto questo malgrado il fatto che mai come ora, almeno nelle intenzioni, si tende a porre la massima attenzione alle fragilità e alle condizioni di disagio dei singoli studenti. Evito per incompetenza di dare giudizi categorici. Mi permetto solo di osservare come la presa in carico di condizioni specifiche, che possono a volte apparire di minorità e dunque bisognose di pura assistenza, non deve mai far venire meno l’obiettivo primario dell’azione educativa che deve essere in ogni caso quello di produrre soggettività e non semplice indottrinamento. Far sì che dal fanciullo si produca l’adulto, in quanto soggetto sociale autodeterminato capace di scelte consapevoli e di autonomia comportamentale e relazionale, in grado di realizzare quel difficile equilibrio tra l’autovalorizzazione di sé e l’attenzione e il rispetto per l’altro e per i suoi bisogni. Educare, in sostanza, significa insegnare il massimo di libertà in grado di coniugarsi col massimo di responsabilità, perché la prima senza la seconda è puro arbitrio e la seconda senza la prima è solo schiavitù. A questo proposito voglio citare come puro esempio il sistema scolastico giapponese, nel quale agli studenti, fin dalle elementari, si insegna a pulire le aule alla fine delle lezioni, o a servire a turno il pranzo ai loro compagni nell’ora di mensa. Qualcuno dice che forse è troppo per dei bambini, ricordando come in effetti il Giappone, che ha il più basso tasso di omicidi al mondo, ha però anche un numero abbastanza elevato di suicidi, frutto forse di una società troppo irreggimentata. Senza arrivare a tanto, da noi si potrebbe comunque cominciare a responsabilizzare gli studenti, per esempio, per quanto attiene alla pulizia dei locali, almeno alle medie e alle superiori. Cosa c’entra tutto questo con l’educazione sessuale? C’entra nella misura in cui l’ipotesi di una sua introduzione nella nostra scuola, se ci sta a cuore la sua reale efficacia, mi pare di tale complessità e delicatezza da imporre una riflessione a tutto campo sui sistemi educativi, di cui queste mie considerazioni non sono che un primo modesto abbozzo, giusto per porre il problema. Antonio Minaldi