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Ilva. L’unica strada è una vera riconversione.
Intervista a Massimo Ruggieri, Presidente di “Giustizia per Taranto”. Sorge una città nel sud dell’Italia che è stata la culla della Magna Grecia abbracciata da due mari: chi la visita ne rimane folgorato per la bellezza e la storia millenaria, visto che è stata fondata nel 706 avanti Cristo. Eppure da due decenni è banalmente la città dell’Ilva! È solo una delle offese che vengono inopinatamente fatte a Taranto: non è più la sede di uno dei musei archeologici più importanti d’Italia e d’Europa e non quella del Castello aragonese (fortezza medievale tra le più ammirate), ma il territorio che ospita il siderurgico più grande e più inquinante d’Europa. Quella fabbrica, sebbene stia lentamente collassando per conto suo, è ancora in grado di distribuire diossine e morti, benzene e malattie, polveri sottili e dolore. Una città stremata ha raccolto tutte le sue energie residue per gridare a chi doveva apporre una firma alla continuazione della produzione con modalità obsolete e altamente insalubri, ‘Chiudete quel mostro!’, ‘Bloccate il catorcio!’Abbiamo raggiunto telefonicamente Massimo Ruggieri che di Giustizia per Taranto è il presidente. Presidente Ruggieri, a Taranto state vivendo giorni particolarmente delicati per la questione legata all’ex-Ilva. Ne vuole parlare? Sì, è in dirittura di arrivo il procedimento per autorizzare l’ex-Ilva per dodici anni con il ripristino di tre altiforni a carbone. Sostanzialmente si sta riportando la fabbrica al periodo dei Riva con tutte le conseguenze che quella nefasta gestione comportò. Un’evidente forzatura del Governo per favorire la produzione ad ogni costo. Si intende, poi, edulcorare questa nuova Autorizzazione Integrata Ambientale con un accordo di programma interistituzionale che prevede un percorso di ‘decarbonizzazione’ estremamente vago, la cui valenza sarebbe tutta da verificare e i cui costi (non meno di due miliardi di euro) sono scaricati su chi acquisirà la fabbrica. A tale proposito vale la pena ricordare che la gara pubblica aperta dal Mimit solo qualche mese fa, non ha trovato alcun compratore disponibile a investire più di 500 milioni di euro su una fabbrica che è ormai ridotta ai minimi termini. Fuori dalla Puglia, passa il messaggio che volete chiudere la fabbrica sebbene siano stati fatti degli interventi per ammodernarla. Come considera questa narrazione? È una narrazione figlia della propaganda del Governo. Si vuol far credere che i problemi di Taranto siano stati superati mentre drammi, sperperi e contraddizioni sono ancora sul tavolo. La cosa è certificata a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea che presto stabilirà sanzioni per l’Italia, rea di non tutelare i cittadini di Taranto dall’inquinamento. Inoltre a ottobre si aprirà un nuovo processo ai danni di Acciaierie d’Italia (attuale gestore della fabbrica) in quanto continua a inquinare. Tuttavia, occorre sgomberare il campo dall’assunto nel quale si racchiude spesso la narrazione sull’ex-Ilva e cioè che si è vittime del dualismo fra salute e lavoro. Non è così ormai da anni, poiché alla mancata tutela della salute e dell’ambiente nel territorio, si affianca anche una gravissima crisi economica e occupazionale. L’Italia spende centinaia di milioni di euro all’anno per la cassa integrazione di migliaia di lavoratori di Acciaierie d’Italia e a questo si aggiungono le enormi perdite economiche che quella fabbrica comporta ogni giorno, dal momento che produce sotto i livelli che le procurerebbero profitti. Motivo per il quale si ha urgente bisogno di spingere la produzione a livelli insostenibili per la nostra comunità, ma in grado di tornare a generare profitto (sempre ammettendo che ci siano spazi nell’attuale mercato dell’acciaio, cosa mai considerata dalla politica). In più è noto da tempo che, qualunque gestore acquisirà gli impianti, dovrà dar luogo a importanti esuberi e, se davvero si intenderà sostituire gli attuali altiforni con forni elettrici, si arriverà a quasi due terzi di possibili licenziamenti. Vuole parlare dei sindacati che a Genova hanno avuto un ruolo decisivo nella chiusura della pericolosa ‘area a caldo’ del capoluogo ligure? Purtroppo, il ruolo dei sindacati in questa vicenda è di assoluta retroguardia. La violenza con cui il Governo ricatta i tarantini agitando lo spettro dei licenziamenti in caso di chiusura, anche solo parziale, della fabbrica, funziona per prima proprio su di loro. Ciò li porta da anni a salvaguardare la produzione e quasi a temere prospettive di riduzione o di decarbonizzazione della fabbrica, in considerazione dei posti di lavoro in meno che comporterebbero. Oltre a qualche sporadico appello alla sicurezza sul lavoro e all’ambiente, a volte pare di poter sovrapporre le loro posizioni a quelle di Confindustria. D’altra parte, a Taranto non dimentichiamo che, per qualche anno fecero scendere in strada i lavoratori della fabbrica accanto all’azienda per protestare contro la magistratura che aveva appena fermato gli impianti dell’area a caldo poiché insicuri per i lavoratori e inquinanti. A Genova una ventina di anni fa le lotte si fecero, al contrario, per pretendere la chiusura degli impianti più inquinanti e si fu capaci di ottenere questo successo con la forza rivendicativa di un’unione di intenti con il quartiere e la città. Quegli impianti furono trasferiti a Taranto raddoppiando la capacità inquinante dell’Ilva nella nostra città, ma qui, evidentemente, i loro effetti non sono stati giudicati dai sindacati ugualmente dannosi. E che ruolo ha avuto la politica nazionale rispetto alla tutela della salute e della vita dei tarantini? Nessuno, poiché non ha affatto tutelato i tarantini. La politica nazionale si è sempre apertamente e poderosamente schierata dalla parte della produzione e della finanza che ne ha garantito la prosecuzione. La prova più evidente è l’iper legiferazione che ha riguardato l’ex-Ilva, per la quale siamo arrivati a contare oltre venti provvedimenti ad hoc per innalzare limiti agli inquinanti, assicurare fondi, aggirare i provvedimenti della magistratura e rendere legali le straordinarie ingiustizie generate dalla fabbrica. Da milanesi sappiamo bene che l’attenzione dei tarantini è rivolta al tribunale della nostra città che potrebbe mettere la parola ‘fine’ ai tormenti e al dolore di un’intera comunità. Può spiegare bene su cosa deve decidere? Il Tribunale di Milano è stato interpellato attraverso un’inibitoria rivolta contro Acciaierie d’Italia da un’associazione chiamata Genitori Tarantini ed altri cittadini che, difesi dagli avvocati Rizzo Striano e Amenduini, hanno chiesto se fosse normale che la fabbrica produca in assenza autorizzativa e procurando danni sanitari ai tarantini. La richiesta esplicita è stata di sospendere gli impianti dell’area a caldo, ovvero quella più inquinante. Questo è il motivo per cui il Ministro Urso ha avuto particolare fretta per far approvare la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale per l’ex-Ilva. Tuttavia, resta ancora da verificare se la fabbrica non produca danni a salute e ambiente. In caso di pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana – hanno puntualizzato i giudici della Corte di Giustizia Europea che hanno fornito parere al Tribunale di Milano -, l’esercizio dell’installazione deve essere sospeso. Lottate da anni contro poteri fortissimi ché demoliscono tutte le conquiste fatte per le strade e nelle aule di giustizia (anche europee). Se le cose andassero per il verso della giustizia sociale e ambientale, Taranto diventerebbe un esempio virtuoso a cui guardare da ogni parte d’Italia e non solo! È esattamente così e ne siamo convinti e consapevoli. L’esempio a cui spesso guardiamo per ragioni di sovrapponibilità, è quello della Ruhr, in Germania. Lì, a fronte di una crisi economica, ambientale e sanitaria, si dette luogo negli anni ’90 al più straordinario esempio di riqualificazione di un territorio.     Laura Tussi
Cerro de Pasco, tra estrattivismo e negligenza: la voce dei giovani contro l’ingiustizia ambientale
Un’enorme voragine lunga circa due chilometri e profonda quasi mille metri viene quotidianamente scavata per estrarre rame, piombo e zinco. Si tratta di El Tajo, una gigantesca miniera a cielo aperto situata a Cerro de Pasco, oltre i 4.500 metri di altitudine. Nonostante secoli di sfruttamento delle sue risorse da parte di multinazionali e gli ingenti profitti generati, questa città resta tra le più povere del Perù. Attualmente, più di 70.000 persone vivono a Cerro de Pasco in condizioni di profondo disagio sociale ed economico, intrappolate in una realtà segnata da gravi conseguenze ambientali. La miniera ha contaminato l’area in modo critico, mettendo a rischio la salute della popolazione. I servizi sanitari sono quasi assenti, il sistema educativo è al limite del collasso e gli aiuti statali scarseggiano. Secondo i dati, l’intera comunità presenta tracce di metalli pesanti nel sangue e necessita urgentemente di cure mediche per evitare danni irreversibili. Nonostante le indagini condotte da organizzazioni come Source International e gli studi realizzati dai ricercatori della Columbia University, poi pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento ambientale a Cerro de Pasco continua a rappresentare una minaccia concreta. La responsabilità principale ricade sulla compagnia mineraria, mentre lo Stato peruviano resta assente, incapace di garantire ai cittadini i diritti fondamentali. Diritti come quello di vivere in un ambiente salubre, avere accesso ad acqua potabile in quantità adeguata, un’alimentazione sicura e priva di sostanze tossiche e godere di buona salute. I metalli pesanti contenuti nelle enormi discariche minerarie attorno alla città si diffondono attraverso l’aria e l’acqua, penetrando nel corpo umano. I dati più allarmanti riguardano i bambini e i ragazzi, che risultano i più colpiti da questa esposizione costante. I bambini tra i 5 e i 14 anni, la fascia d’età più vulnerabile a questo tipo di esposizione, hanno sviluppato deficit cognitivi e fisici, oltre a disturbi mentali. Gli adulti, in particolare i genitori, a causa dell’elevata presenza di metalli pesanti nel loro organismo, hanno manifestato comportamenti violenti all’interno del nucleo familiare, soprattutto nei confronti dei figli. In questa città fantasma, vittima delle devastanti conseguenze di anni di estrattivismo e negligenza da parte delle istituzioni peruviane, sono le piccole realtà di resistenza locali che cercano, seppur a fatica, di accendere uno spiraglio di speranza per il cambiamento. Una di queste è l’associazione Red Interquorum Cusco, gestita da ragazzi di licei e università di Cerro de Pasco, uniti dalla lotta per i diritti umani e dalla denuncia delle condizioni ambientali in cui si ritrovano a vivere. Sono loro i vincitori del premio per i diritti umani dell’organizzazione Operation Daywork, basata a Bolzano. Questa realtà permette proprio ai giovani di battersi in prima persona per fare rete con altri gruppi di ragazzi in giro per il mondo, scegliendo ogni anno un progetto da sostenere a livello finanziario. Quest’anno il lavoro è stato svolto con i giovani di Red Interquorum, con l’obiettivo ultimo di ampliare le loro voci e sostenerli nel loro importante lavoro di sensibilizzazione per i diritti umani. Da qui nasce il progetto A.G.I.R.E., promosso dalla ong Future Rights, organizzazione basata in Italia e che fa della partecipazione giovanile il suo focus principale. Tramite la collaborazione tra queste organizzazioni e grazie alla preziosa partecipazione dei ragazzi di Red Interquorum, si sta costruendo un piano di azione condiviso, volto a portare il grave caso di Cerro de Pasco all’attenzione di tutti. A.G.I.R.E. ha come obiettivo quello di promuovere la partecipazione giovanile, la giustizia ambientale e la solidarietà globale, costruendo legami concreti tra giovani italiani e attivisti di Cerro de Pasco (Perù). L’idea è quella di dare ai ragazzi di Red Interquorum sempre più piattaforme internazionali da cui diffondere le proprie storie, ma anche di sostenerli nel denunciare il loro caso a livello legale, con l’obiettivo di produrre effetti concreti nel prossimo futuro. In un contesto in cui lo sfruttamento delle risorse continua a prevalere sui diritti delle persone, l’esperienza dei giovani di Cerro de Pasco dimostra che la resistenza è ancora possibile, anche nei luoghi più marginalizzati del mondo. Attraverso il lavoro di realtà come Operation Daywork e Future Rights, le nuove generazioni non solo alzano la voce contro l’ingiustizia ambientale e sociale, ma costruiscono ponti di solidarietà internazionale capaci di generare consapevolezza e, soprattutto, azione concreta.   Alice Lucchini
Esplosioni nella periferia di una città che soffoca di caldo e petrolio
Sulle esplosione alla pompa di benzina a Roma Est di venerdì 3 luglio si è scritto molto. Per fortuna hanno preso parola in modo chiaro e netto anche comitati, gruppi e collettivi che operano in un territorio con un tessuto sociale e culturale tra i più attivi della capitale. Il collettivo di Casale Garibaldi, poche ore dopo l’esplosione, scriveva: «Nei mesi scorsi con il comitato “Albero magico” insieme ai comitati genitori delle scuole, dei residenti e le realtà di zona, abbiamo sollevato pubblicamente la questione della pericolosità della presenza di una azienda di smaltimento metalli e di una pompa di benzina/GPL accanto a una scuola dell’infanzia e primaria. Se fosse successo un mese fa, in piena attività scolastica, poteva essere una strage, così come è una fortuna che il circolo sportivo con il suo centro estivo e la piscina “villa De Sanctis” fossero ancora chiuse al momento dell’esplosione». di Milos Skakal Una delle lamiere della pompa GPL, volata via a decine di metri dalla zona dell’esplosione Il collettivo di Borgata Gordiani invece scriveva: «Al caldo asfissiante si aggiungono il fuoco, il fumo e le esplosioni. È lo scenario apocalittico generato dall’incidente alla pompa GPL di via dei Gordiani di questa mattina, che segue di pochi giorni l’esplosione di un bus ATAC su via Prenestina. Non è compito nostro ricercare le responsabilità sui singoli casi, ma abbiamo sempre più chiara una cosa: viviamo in un quadrante insicuro. E non per la microcriminalità e lo spaccio, che sicuramente sono problemi che vanno affrontati (ma davvero, sul piano sociale e non solo con la polizia), ma per la loro conformazione. Densità abitativa altissima e tanti luoghi potenzialmente letali, come una pompa GPL a pochi metri da un centro estivo, dai palazzi e dai campi sportivi. Ricordate, poi, pochi anni fa gli incendi agli sfasci di via Palmiro Togliatti, che generarono giorni interi di nubi tossiche? O quello di pochi giorni fa a Centocelle, con l’obbligo per gli abitanti di tenere le finestre chiuse. Ecco. Non sono “casi isolati”, ma qualcosa di ciclico e strutturale. Chi vive nei quartieri popolari non è tutelato. Non lo siamo di fronte al cambiamento climatico, che soffoca le nostre vite e alimenta gli incendi, non lo siamo nella conformazione dei territori che diventano bombe a orologeria che ogni tanto, ma sempre più spesso, esplodono lanciando segnali e, soprattutto, causando feriti, case distrutte e paura, non lo siamo quando saliamo su mezzi pubblici antiquati, vecchi e insicuri». Da entrambi i post emergono le questioni chiave, cioè il carattere sistemico e strutturale del problema e le evidenti responsabilità, che rispetto alla strage mancata per un soffio verranno decretate dalla magistratura, ma rispetto all’abbandono delle periferie della metropoli risalgono a decine di anni fa e si sono accumulate colpevolmente giunta dopo giunta fino a quella attuale. Sulla base di queste consapevolezze, il Comitato Genitori della Scuola Simonetta Salacone ha convocato una assemblea per mercoledì 9 luglio, nel piazzale antistante la scuola di via Romolo Balzani. Nella convocazione scrivono che quanto accaduto è «la conseguenza diretta di una scelta precisa: quella di privilegiare la logica industriale a discapito del diritto alla salute e alla sicurezza, specialmente dei più piccoli. Non si tratta di un incidente, ma del risultato di decisioni che non hanno mai messo al primo posto il benessere delle persone e la qualità della vita del territorio. Di fronte alla scuola ferita, a un Quartiere duramente colpito, la nostra pazienza è finita. Come Comitato dei Genitori, non ci accontentiamo più di rassicurazioni. Pretendiamo un cambio di rotta immediato e garanzie reali, non più promesse: la messa in sicurezza e la bonifica della zona, lo spostamento definitivo delle attività industriali, il ripristino nel più breve tempo possibile della funzionalità della scuola». C’è un tema che è ulteriormente sotteso alle questioni che emergono dai post e che si discuteranno nella assemblea di mercoledì. L’esplosione è avvenuta durante due settimane di caldo insopportabile, in cui Roma si è trasformata in un forno permanente nel quale non si riusciva a trovare riparo, giorno e notte. L’emergenza climatica causata dai combustibili fossili e la pompa di benzina ovviamente hanno un nesso, perché viviamo in una società ancora oggi drogata di petrolio e suoi derivati, viviamo in città pensate per farci consumare petrolio, viviamo in una capitale a misura di auto e pensata esclusivamente per le auto. > La transizione ecologica, tuttavia, non sarà di certo avere colonnine per > ricaricare le auto elettriche anziché le pompe di benzina a Villa De Santis, > come qualche pensatore liberal ha detto in questi giorni. Trasformazione ecologica sarà stravolgere completamente l’idea di città che si è stratificata negli anni, per avere meno cemento, molte meno auto private, zero consumo di suolo, mezzi pubblici funzionanti e frequenti, piste ciclabili degne di questo nome, parchi tutelati e protetti in quanto rifugi climatici anziché asfaltati per costruire stadi e centri commerciali, come vuole fare la giunta Gualtieri a Pietralata. Siamo ben lontano da quel risultato. Da Centocelle oggi si raggiunge il centro con la metro C ogni 13-17 minuti quando ti va bene, le piste ciclabili sono ancora molto poche e strette come quella sulla Prenestina, i parchi pochissimi, nonostante sia tra i quadranti più densamente abitati. La condizione ecosistemica di Roma Est poi è analoga a quella di altre zone periferiche, colpite dagli “incendi stagionali” come in questi giorni Magliana. Come più volte abbiamo scritto, anche gli incendi sono il combinato composto di emergenza climatica e assenza di cura del territorio cittadino periferico da parte delle amministrazioni. Se non si mette radicalmente in discussione il paradigma secondo cui le città vengono anzitutto messe a valore – a vantaggio del capitale che investe – la rotta non cambierà e avremo zone periferiche abbandonate, con mezzi pubblici fatiscenti, cemento, sfasciacarrozze a fuoco ogni estate e auto che soffocano ogni arteria stradale. Nel frattempo giunte di ogni colore continueranno a bearsi per aver costruito stadi, centri commerciali e porti crocieristici, come quello che si vuole fare a Fiumicino, mentre il centro storico è consegnato nelle mani dell’imprenditoria turistica arraffona e di Airbnb. Per fortuna da assemblee come quelle di mercoledì si può ripartire, per denunciare queste politiche ecocide e per invertire la rotta, perché il famoso “diritto alla città” non sia un miraggio lontano ma possa essere un orizzonte, necessariamente di lotta e per tutt3. La foto di copertina è di Valentina Manco SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Esplosioni nella periferia di una città che soffoca di caldo e petrolio proviene da DINAMOpress.
[2025-07-09] Non è stato un caso - Assemblea Pubblica davanti alla Scuola Balzani @ Scuola Balzani
NON È STATO UN CASO - ASSEMBLEA PUBBLICA DAVANTI ALLA SCUOLA BALZANI Scuola Balzani - Via Romolo Balzani, 55, 00177 Roma RM, Italia (mercoledì, 9 luglio 18:00) Per troppo tempo, come Comitato dei Genitori della Balzani, abbiamo denunciato i rischi di un sito produttivo come quello della MCR Metalli e dell’impianto GPL a ridosso della scuola. Non siamo stati ascoltati. Le nostre preoccupazioni sono state ignorate, le nostre richieste si sono perse nei meandri di una burocrazia indifferente. L’incendio di venerdì 4 luglio è la prova drammatica che avevamo ragione. Un bilancio pesantissimo che per puro caso non si è trasformato in una strage. È la conseguenza diretta di una scelta precisa: quella di privilegiare la logica industriale a discapito del diritto alla salute e alla sicurezza, specialmente dei più piccoli. Non si tratta di un incidente, ma del risultato di decisioni che non hanno mai messo al primo posto il benessere delle persone e la qualità della vita del territorio. Di fronte alla scuola ferita, a un Quartiere duramente colpito, la nostra pazienza è finita. Come Comitato dei Genitori, non ci accontentiamo più di rassicurazioni. Pretendiamo un cambio di rotta immediato e garanzie reali, non più promesse: la messa in sicurezza e la bonifica della zona, lo spostamento definitivo delle attività industriali, il ripristino nel più breve tempo possibile della funzionalità della scuola. Annunciamo un’assemblea il 9 luglio davanti alla scuola, in via Romolo Balzani 55 alle ore 18 per rilanciare, insieme agli abitanti del quartiere e alle reti sociali, il tema di una visione diversa del territorio e degli spazi pubblici.
Nigeria, dopo trent’anni concessa la grazia postuma a Ken Saro-Wiwa, scrittore e attivista
Il presidente nigeriano Tinubu ha concesso la grazia postuma a Ken Saro-Wiwa e ad altri otto attivisti Ogoni giustiziati nel 1995, suscitando reazioni contrastanti. Attivisti e familiari chiedono ora la piena assoluzione e la fine dell’impunità per i crimini ambientali nel Delta del Niger. Il presidente nigeriano Bola Tinubu ha annunciato la grazia per Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti politici del popolo Ogoni, tutti giustiziati 30 anni fa durante la dittatura militare. La scorsa settimana, il presidente nigeriano, parlando davanti all’Assemblea nazionale, ha annunciato l’intenzione di concedere la grazia presidenziale postuma a nove attivisti Ogoni, tra cui il notissimo scrittore e attivista ambientalista Ken Saro-Wiwa, impiccati nel 1995 dopo un processo sommario in un tribunale militare per via delle loro proteste e del loro attivismo contro l’inquinamento provocato da Shell nel Delta del Niger, regione ricca di petrolio in cui vive il gruppo etnico Ogoni. Quelle esecuzioni scatenarono la condanna internazionale contro l’allora giunta militare nigeriana di Sani Abacha e continuano ancora oggi a essere una questione altamente controversa nella storia del Paese. “Non si può perdonare qualcuno che non ha commesso alcun reato; chiediamo la totale assoluzione”, ha detto alla stampa nigeriana Celestine Akpobari, coordinatrice dell’Ogoni Solidarity Forum, in aperta polemica con la decisione presidenziale di graziare gli attivisti giustiziati decenni fa. “Dire ‘perdono’, penso sia un insulto. Se c’è un gruppo che ha bisogno di perdono, è proprio il governo nigeriano, che ha commesso così tanti crimini contro il popolo Ogoni”. Il portavoce di Tinubu ha respinto tali critiche. “Il presidente ha fatto ciò che è normale. Possono presentare una richiesta di esonero e il presidente se ne occuperà”, ha dichiarato Bayo Onanuga all’agenzia Reuters, in risposta all’organizzazione. Diversa invece la posizione della famiglia di Ken Saro-Wiwa: secondo una dichiarazione firmata da Noo Saro-Wiwa, scrittrice britannico-nigeriana e figlia del defunto attivista, diffusa ai media nigeriani, “vogliamo credere che il conferimento di queste onorificenze nazionali simboleggi l’innocenza di questi eroi e rafforzi ulteriormente la visione globale secondo cui la sentenza emessa quasi 30 anni fa era errata e la loro esecuzione considerata un omicidio giudiziario”. Nella sua dichiarazione, in cui ringrazia anche il presidente Tinubu “per aver fatto la cosa giusta”, Noo Saro-Wiwa ha reiterato le accuse contro Shell, che ha causato “devastazioni ambientali” con le sue attività nel Delta del Niger, chiedendo anche al presidente “una revisione del procedimento giudiziario che ha portato a questa sentenza errata, che ha causato una perdita così colossale alla nostra famiglia, al popolo Ogoni e ai nigeriani”. Nnimmo Bassey, noto ambientalista nigeriano e direttore della fondazione Health of Mother Earth, è invece di parere diverso: “Ken Saro-Wiwa e gli altri meritano di essere onorati, ma in un momento in cui il governo è disperato e vuole aumentare la produzione di petrolio, mentre l’inquinamento continua incessantemente, la decisione è inopportuna”, ha dichiarato al quotidiano Premium Times. La grazia presidenziale, ha detto Bassey, non basta perché Ken Saro-Wiwa e gli altri otto attivisti sono innocenti e andrebbero quindi scagionati: “Una semplice grazia in questo momento sembra mirare alla riapertura dei pozzi petroliferi nell’Ogoniland, un passo che significherebbe ballare sulle tombe dei leader assassinati. L’assoluzione è l’azione politica che chiediamo al governo per porre fine al genocidio ambientale e agli altri crimini commessi contro il popolo Ogoni”. La Shell, che ha interrotto le trivellazioni petrolifere nella zona nei primi anni Novanta e in seguito ha venduto i suoi beni nella regione, ha negato qualsiasi responsabilità o illecito. Nel marzo 2022, un tribunale olandese ha respinto una causa contro la multinazionale petrolifera, intentata da quattro vedove degli attivisti giustiziati dal governo nigeriano nel 1995, tra cui proprio la vedova Saro-Wiwa: la corte olandese ha stabilito che non c’erano prove sufficienti per supportare l’affermazione delle vedove secondo cui Shell fosse coinvolta nella corruzione di testimoni legati al caso. Tuttavia, nel 2019, un tribunale danese aveva riconosciuto alle vedove una prima vittoria nella loro lunga battaglia, consentendo al processo di continuare ma avvisando i ricorrenti che dovevano provare la responsabilità di Shell. Da 30 anni, i parenti dei nove Ogoni assassinati cercano di mettere Shell di fronte alle proprie responsabilità nei tribunali stranieri, dopo aver esaurito ogni possibilità legale in Nigeria. La compagnia anglo-olandese è stata accusata di aver prodotto documenti falsi e corrotto testimoni per risultare estranea ai fatti, e ha anche pagato 15,5 milioni di dollari a un gruppo di famiglie di attivisti, inclusa la famiglia di Saro-Wiwa, con un accordo siglato nel 2009 in cui tuttavia ha negato ogni responsabilità o illecito. Oggi, l’amministrazione Tinubu sta facendo sforzi importanti per riprendere le trivellazioni petrolifere nell’Ogoniland, sforzi che tuttavia hanno suscitato nuove critiche da parte degli attivisti ambientalisti. Alagao Morris, vicedirettore esecutivo dell’Environmental Defenders Network, un gruppo ambientalista del Delta del Niger, ha dichiarato ai media nigeriani che la grazia ai nove Ogoni sembra essere un tentativo di placare il popolo Ogoni di fronte alla continua devastazione ambientale della regione. “L’inquinamento che dovrebbe essere affrontato non è stato affrontato”, ha detto Morris, sottolineando che la questione delle trivellazioni petrolifere dovrebbe essere decisa dal popolo Ogoni e che la completa assoluzione di Saro-Wiwa e degli altri attivisti giustiziati sarebbe dovuta avvenire molto tempo fa. La Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, dipende dal petrolio per oltre il 90% dei proventi delle esportazioni e per circa due terzi delle entrate governative.   Africa Rivista
PIANURA PADANA PIEGATA DA OZONO, TEMPERATURE ESTREME E NUBIFRAGI. MA REGIONE LOMBARDIA “SORVOLA” SULLE CAUSE
Cambiamento climatico e Pianura Padana. Dopo giorni di temperature fino a 10 gradi sopra la media, a partire dal weekend il Nord Italia – a macchia di leopardo – si è trovato sott’acqua. Disagi, allagamenti e forti grandinate; treni fermi tra Verona e Vicenza per il vento che ha compromesso la stabilità del parapetto di un cavalcavia. Frana invece sul monte Antelao, nel Cadore, sulla Statale di Alemagna, la cosiddetta “strada delle Olimpiadi” (quelle invernali 2026) che porta a Cortina D’Ampezzo. Nel Bresciano invece, a Chiari, danni al reparto Radiologia dell’ospedale, con esami riprogrammati per il ripristino. Proprio la Lombardia – e il Pirellone in particolare – sono nel mirino di Legambiente, che sottolinea come la proposta di legge sul clima, in discussione al Consiglio regionale, escluda elementi chiave causa dell’inquinamento del territorio. Metano e numeri eccessivi degli allevamenti intensivi sono i grandi assenti. “Ormai si parla di inquinamento climatico, se non vogliamo vanificare gli investimenti dobbiamo accelerare la transizione ecologica.” Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia. Ascolta o scarica.
Comunità Montana dei Laghi Bergamaschi si esprime contro l’inceneritore della Montello Spa
Durante l’ultima seduta dell’Assemblea di Comunità Montana dei laghi Bergamaschi, avvenuta in data lunedì 9 giugno 2025, la presente si è espressa in contrarietà al progetto di termovalorizzazione della Montello Spa. L’Assemblea ha votato, all’unanimità, la mozione presentata dal consigliere Lorenzo Poli dal titolo “Mozione di contrarietà all’impianto di termovalorizzatore proposto da Montello Spa”. Prima della votazione, il consigliere Poli ha esposto i contenuti e il messaggio della mozione, sottolineandone l’importante peso politico come esempio di solidarietà sociale a tutti i comuni che potrebbero essere travolti da un progetto del genere. L’endorsement alla mozione è arrivato dal Presidente di Comunità Montana, Danny Benedetti, sindaco di Trescore Balneario; dal Presidente dell’Assemblea Roberto Martinelli, sindaco di Tavernola Bergamasca; dal sindaco di Sarnico Vigilio Arcangeli; e dalla sindaca di Credaro Adriana Bellini con una dichiarazione di voto. “La proposta avanzata dall’azienda Montello Spa, mirante a realizzare un impianto di termovalorizzatore di rifiuti aziendali che produca energia elettrica e termica per esclusivo autoconsumo (senza alcun eventuale beneficio per la comunità), è da mesi oggetto di dibattito nell’opinione pubblica bergamasca. L’eventuale realizzazione di questo impianto di termovalorizzatore chiama ad una presa di posizione chiara della nostra Comunità Montana dei Laghi Bergamaschi in quanto vede coinvolti 16 comuni membri appartenente all’ambito della Val Cavallina (Berzo San Fermo, Bianzano, Borgo di Terzo, Casazza, Cenate Sopra, Endine Gaiano, Entratico, Gaverina Terme, Luzzana, Monasterolo del Castello, Ranzanico, Grone, Spinone al Lago, Trescore Balneario, Vigano San Martino e Zandobbio), oltre che ad altri 25 comuni bergamaschi (Alzano Lombardo, Azzano San Paolo, Bagnatica, Bolgare, Brusaporto, Calcinate, Carobbio, Cavernago, Cenate Sotto, Chiuduno, Costa di Mezzate, Gorlago, Gorle, Grassobbio, Grumello del Monte, Nembro, Orio al Serio, Pradalunga, Ranica, Scanzorosciate, Seriate, Telgate, Torre Boldone, Torre de Roveri e Villa di Serio).” – ha affermato Poli, aggiungendo – “A fine febbraio 2024, ben 41 sindaci del territorio – in rappresentanza di oltre 200.000 bergamaschi (quasi il 20% della popolazione) – hanno manifestato la loro contrarietà e preoccupazione per il progetto stesso, fondandosi su ragioni sanitarie, ambientali, paesaggistiche, economiche, sociali e strategiche. Nel frattempo la cittadinanza ha raccolto migliaia di firme per manifestare la propria opposizione al progetto, dimostrando chiaramente che la popolazione non accetta la realizzazione di un impianto che comporterebbe danni ambientali e sanitari senza alcun beneficio concreto per il territorio. Incalza Poli: “Stiamo parlando di un progetto fortemente impattante che avrebbe una potenza di 154 MW, diventando il più grande inceneritore esistente in Italia (quasi il doppio di quello di Dalmine e di Brescia). Secondo le stime, tutti i comuni nel raggio di circa 15/20 km dall’eventuale impianto verrebbero raggiunti dalle sue emissioni, quindi i paesi membri di Comunità Montana dei Laghi Bergamaschi che verrebbero raggiunti dalle emissioni si ampliano a dismisura arrivando fino a Lovere.  Ormai la letteratura medico-scientifica ci dice chiaramente che un termovalorizzatore può avere effetti collaterali nel medio periodo, tra cui l’accumulo di sostanze tossiche nel suolo e nelle falde acquifere, la riduzione della biodiversità locale e l’aumento della resistenza agli inquinanti nei microorganismi, compromettendo la qualità dell’agricoltura, dell’acqua potabile e dell’ecosistema circostante, con ripercussioni negative per la salute umana e animale. Senza parlare delle emissioni di anidride carbonica (CO₂) e l’esposizione multipla di polveri sottili che potrebbero conseguire.”  L’impianto della Montello Spa impatterebbe negativamente sul contesto paesaggistico e ambientale, in un’area che ospita percorsi naturalistici, sportivi e culturali. In questi anni le amministrazioni locali e altri enti territoriali hanno investito risorse significative per valorizzare il patrimonio naturale della zona, sforzi che verrebbero vanificati dall’introduzione di un’infrastruttura così invasiva. In Lombardia esistono già 14 impianti funzionanti che garantiscono l’autosufficienza dei rifiuti trattati, compresi quelli provenienti da fuori regione, ciò evidenzia l’inutilità di un ulteriore inceneritore e contraddice il principio di una gestione sostenibile dei rifiuti, che dovrebbe puntare su riduzione, riuso e riciclo piuttosto che su nuove strutture di combustione. L’Unione Europea sta adottando misure che potrebbero influenzare l’uso futuro di questi impianti in quanto il Regolamento Europeo sulla Tassonomia ha escluso l’incenerimento dalle attività economiche considerate ecosostenibili, riconoscendo il danno ambientale causato dagli inceneritori. Inoltre si deve sottolineare che la proposta di un progetto di termovalorizzazione è oggi più che mai fuorviante, in un periodo storico dove anche l’Unione Europea sta adottando misure che potrebbero influenzare l’uso futuro di questi impianti in quanto il Regolamento Europeo sulla Tassonomia ha escluso l’incenerimento dalle attività economiche considerate ecosostenibili, riconoscendo il danno ambientale causato dagli inceneritori[1]. La Legge Europea sulla Gestione dei Rifiuti, approvata in maggio 2018, stabilisce che entro il 2035 i rifiuti urbani smaltiti in discarica dovranno essere ulteriormente ridotti, per costituire al massimo il 10% del totale dei rifiuti urbani prodotti, stabilendo inoltre un aumento del riciclaggio fino al 55% entro il 2025, al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035[2]: un obiettivo che va in totale controtendenza rispetto alla proposta di inaugurare un inceneritore.” Conclude il consigliere Poli: “La votazione all’unanimità della mozione in contrarietà all’impianto di inceneritore della Montello Spa è un esempio di solidarietà sociale e di responsabilità politica che sottolinea come certi temi importanti, come la salute umana e l’ambiente, non possono essere più negoziabili al giorno d’oggi. Il nostro compito, come amministratori, è di mantenere vivibile il territorio e non aggiungere ulteriori fattori di rischio”   [1] https://www.ecoseven.net/ambiente/europa-gli-inceneritori-nonsono-sostenibili/ [2] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_18_3846   Redazione Sebino Franciacorta
Apuane sotto assedio: la montagna come campo di battaglia ecologica
Se dovessimo associare un colore all’idea di Alpi, probabilmente, sarebbe il bianco: il colore della neve che copre le cime più alte e del ghiaccio che abita le terre più alte del paese. Se però le Alpi a cui ci stiamo riferendo sono quelle Apuane, il bianco che avremmo in mente non sarebbe quello dell’acqua ghiacciata, ma quello della roccia viva, del marmo lucente che emerge dalle ferite sui loro versanti squarciati, o quello che riempie i fiumi che in esse originano, la marmettola. Questa, che rende le acque dei fiumi Lucido, Frigido, Versilia e Lunigiana di un bianco sporco e torbido, soffocando forme di vita e portando con sé l’impronta tossica di un’economia che, in nome del profitto, erode lentamente un ecosistema unico, ignorando il prezzo pagato da chi lo abita. Ci troviamo nel cuore della Toscana per raccontare una storia di sfruttamento e colonizzazione che richiama le vicende di territori lontani, accomunati dal fatto che le risorse naturali vengono svuotate fino all’osso e che a pagarne gli impatti più negativi sono i loro abitanti. ESTRATTIVISMO: IL VOLTO LOCALE DI UN PROBLEMA GLOBALE L’estrattivismo è una logica sistemica, un modello economico basato sull’esportazione di materie prime, che implica grandi impatti ambientali e sociali, spesso in territori periferici o marginalizzati. Le sue conseguenze sono tangibili e ben evidenti in tanti luoghi: dalle miniere d’oro del Perù, al litio del deserto cileno, fino alle sabbie bituminose del Canada. E anche se siamo abituati a pensare che siano logiche che si attuano lontano dal bel paese, in realtà, in Italia, l’estrattivismo assume una forma particolare, quella delle montagne sventrate, delle cave che si moltiplicano, di miliardi di euro in blocchi di marmo che viaggiano verso la Cina, lasciando sul territorio da cui sono partite polveri sottili, paesaggi devastati e comunità frammentate. Nelle Alpi Apuane, attualmente, ci sono oltre 160 cave attive, molte delle quali (circa 80) situate all’interno dei confini del Parco Naturale Regionale omonimo: un paradosso ambientale che prende il nome, non a caso, di “parco minerario”. Nel periodo che va dal 2005 al 2022, secondo il dossier realizzato da Legambiente, nelle cave attive sono state estratte oltre 68 milioni di tonnellate di materiali, delle quali soltanto il 22,8% è composto da blocchi di marmo e ben il 77,2% di detriti, utilizzati perlopiù nell’industria del carbonato di calcio. Sono addirittura una decina le cave con una resa in blocchi inferiore al 10%. Tutto ciò che non va a comporre i blocchi pregiati, diventa polvere, calce, residuo industriale, e, appunto, marmettola. MARMETTOLA: INQUINAMENTO INVISIBILE La marmettola è il risultato meno sconosciuto e più subdolo dell’estrazione del marmo: si tratta di una sospensione di polveri sottili di carbonato di calcio, mescolate all’acqua, che finiscono nei fiumi e nei suoli. Ha un colore bianco ed è impalpabile e polverosa come la farina raffinata, ma se lasciata a terra ed esposta alle piogge si trasforma in una fanghiglia melmosa, nociva per l’ambiente, perché una volta secca cementifica gli alvei dei fiumi e dei torrenti, forma uno strato impermeabile, occupando gli interstizi dell’alveo, habitat dei macroinvertebrati bentonici, che sono alla base dell’ecologia fluviale, con un effetto devastante per la biodiversità e contribuendo ad aumentare il rischio di esondazioni e alluvioni. > Si tratta di una sostanza letale per gli ecosistemi fluviali, perché le > particelle in sospensione opacizzano le acque, riducendo la penetrazione della > luce e conseguentemente l’ossigenazione delle acque, con danni evidenti alle > forme di vita che le abitano.  La polvere di marmo, inoltre, non solo è pericolosa per l’ambiente per la sua consistenza e per la sua reazione agli agenti atmosferici, ma è anche inquinante perché in essa si trovano tracce di terriccio di cava, oli e grassi usati per lubrificare gli strumenti per il taglio, tracce di idrocarburi per alimentare le macchine, metalli derivanti dagli utensili di taglio, come tagliatrici a catena e fili diamantati. La maggior parte di questa polvere, negli anni 2012-2015, risulta portata da ditte autorizzate al trattamento dei rifiuti allo stabilimento della Huntsman Tioxide di Scarlino (GR), che la utilizza nelle fasi produttive come agente neutralizzante degli effluenti acidi. Altre destinazioni sono state individuate in impianti autorizzati tramite procedura semplificata secondo quanto previsto dal DM 05/02/98, come cementifici, opere civili e stabilimenti industriali. Tuttavia, come evidenziano gli esperti dell’Agenzia Regionale per Protezione dell’Ambiente Toscana (ARPAT), il quantitativo complessivo di marmettola desunto dalle dichiarazioni MUD relative alle attività estrattive e di trasformazione dell’intero comprensorio Apuo-Versiliese lascia dimostra che un importante quantitativo di marmettola non risulti gestito. Infatti, il rifiuto marmettola – che dovrebbe essere raccolto all’origine per essere recuperato-trattato ovvero smaltito secondo quanto previsto nell’autorizzazione – spesso e anche in ingenti quantità, risulta abbandonato nell’ambito dell’area di cava dove resta esposto all’azione degli agenti atmosferici meteorici che lo disperdono nell’ambiente circostante. Infatti, le analisi condotte da Source International mostrano alterazioni nei valori di torbidità e pH in prossimità delle cave (e non solo) con effetti persistenti nel tempo. La presenza di marmettola, infatti, determina un significativo degrado qualitativo dei corpi idrici, causando danni sia alle acque superficiali che a quelle sotterranee e sorgive. L’inquinamento delle acque sotterranee e delle sorgenti, che in buona parte sono captate con scopo idropotabile, sebbene sia ancor più grave di quello delle acque superficiali, è meno percepito, perché non direttamente visibile; le sorgenti con torbidità contenuta sono potabilizzate da filtri mentre quelle con da elevata torbidità vengono temporaneamente escluse dalla rete, generando uno spreco di risorse. > In questo senso, è emblematico il caso del depuratore del Cartaro, che è stato > pagato dai cittadini per abbattere la torbidità delle acque dell’omonimo > fiume, imbiancate a causa della vicina cava privata. Quello della marmettola che viene prodotta dalle cave è il frutto di un inquinamento sistemico, normalizzato, reso invisibile da una narrazione che celebra il marmo come “oro bianco”, simbolo del lusso Made in Italy, ma si dimentica di mostrarne anche i costi ambientali. Una delle questioni cruciali è la corretta identificazione della marmettola come rifiuto o come sottoprodotto: infatti in linea di principio i materiali residui non devono essere classificati come rifiuti, potendo assumere la qualifica di sottoprodotto quando possono trovare utilizzo in altri cicli di lavorazione. Occorre tuttavia sottolineare che ad oggi, in fase di controllo, non sono mai state riscontrate le condizioni che consentirebbero di attribuire a tale rifiuto la qualifica di sottoprodotto. ‍LA SCIENZA NELLE MANI DI CHI RESISTE Di fronte a tutto questo, nel corso dei decenni sono sorte numerose risposte dal basso, che hanno preso la forma di manifestazioni, conferenze, camminate partecipate e pressioni sulla politica. Tra queste, negli ultimi mesi, c’è stato il monitoraggio partecipato promosso da Source International con il progetto “Osservatorio Cittadino delle Acque Apuane follow-up”, un’esperienza che coniuga citizen science e giustizia ambientale, sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. > L’idea è semplice ma potente: formare cittadine e cittadini per raccogliere > dati ambientali in modo indipendente, condividere strumenti scientifici come > sonde multiparametriche, tubi di torbidità e applicazioni per la mappatura per > costruire insieme una contro-narrazione basata su fatti, misurazioni, prove. Il progetto ha coinvolto già oltre 35 cittadini e 3 associazioni, con uscite sul campo, workshop online, momenti pubblici, e i dati raccolti sono stati caricati su una piattaforma aperta (KoboToolbox), dove sono accessibili a chiunque sia interessato, e soprattutto, dove sono a disposizione per diventare strumenti di denuncia e mobilitazione. CARTOGRAFIE PER LA GIUSTIZIA AMBIENTALE Non si tratta solo di una questione di dati, infatti il monitoraggio partecipato ha anche l’obiettivo di stimolare un ripensamento delle mappe, che da geografie neutre, diventano così narrazioni visive dei conflitti, strumenti per vedere l’invisibile, come la marmettola nei fiumi o le fratture nelle montagne. Durante gli incontri organizzati da Source international, attivisti e scienziati ambientali hanno mostrato come la cartografia digitale possa essere usata per denunciare crimini ambientali, monitorare violazioni dei diritti e proporre alternative sostenibili, in una nuova forma di ecologia politica, che unisce scienza, comunità e tecnologia. NON UN CASO ISOLATO, MA UN PARADIGMA DIFFUSO Tra i motivi per cui è importante non distogliere l’attenzione sul caso delle Alpi Apuane, oltre al sostegno per le popolazioni locali che da decenni sembrano combattere contro i mulini a vento, c’è anche il fatto che non si tratti di un’eccezione, un caso isolato, ma di un paradigma. Infatti, le dinamiche di estrazione, esclusione e inquinamento si ripetono ovunque nel pianeta ci sia una risorsa da “valorizzare”. Per fortuna, però, così come le minacce, anche le risposte si moltiplicano: dalle reti di resistenza agli osservatori popolari, fino alle iniziative di scienza dal basso.  Per questo motivo parlare di quello che accade oggi nei versanti delle Alpi Apuane significa anche parlare di clima, democrazia e diseguaglianze, e diventa un invito a guardare con occhi nuovi anche ciò che crediamo familiare e a scegliere da che parte stare. Per approfondire queste tematiche e scoprire da vicino queste esperienze di resistenza e monitoraggio partecipato, sarà possibile partecipare all’evento pubblico organizzato da Source International il 29 maggio all’Università di Pisa: sarà un’occasione per ascoltare, discutere, analizzare i risultati del monitoraggio partecipato e, soprattutto, ragionare insieme. Immagine di copertina di Manuel Micheli SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Apuane sotto assedio: la montagna come campo di battaglia ecologica proviene da DINAMOpress.
Oltre gli allevamenti intensivi, per una riconversione agro-ecologica della zootecnia
Gli impatti degli allevamenti intensivi, soprattutto nelle zone in cui queste attività sono più concentrate, come la Pianura Padana, sono ormai ampiamente documentati: riguardano principalmente le emissioni di ammoniaca (NH3) e il conseguente inquinamento da polveri fini (PM 2,5), responsabili ogni anno di migliaia di morti premature in Italia. Le grandi quantità di azoto prodotto rappresentano inoltre un problema per l’inquinamento del suolo e dei corpi idrici, soprattutto nelle regioni ad alta densità zootecnica. L’enorme numero di animali allevati in modo intensivo nel nostro Paese (più di 700 milioni all’anno) richiede un grande uso di risorse, spesso sottratte al consumo diretto umano (due terzi dei cereali commercializzati nell’Unione Europea diventano mangime e circa il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale). L’Italia è seconda solo alla Polonia in Europa per morti premature da esposizione a PM 2,5, con quasi 50 mila decessi prematuri nel 2021. Non solo, ma il nostro Paese è anche in procedura d’infrazione per il mancato rispetto della Direttiva europea sui nitrati. Greenpeace, ISDE, Lipu, WWF e Terra! hanno lanciato nello scorso febbraio un Manifesto pubblico “OLTRE GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI. Per una riconversione agro-ecologica della zootecnia” alla base di una Proposta di Legge presentata da un gruppo di parlamentari della XIX Legislatura appartenenti a diversi partiti politici (AC 1760) per una riconversione del settore zootecnico che metta al centro, tanto delle politiche quanto dei meccanismi di sostegno, le aziende agricole di piccole dimensioni che adottano metodi agroecologici, e non più il sistema dei grandi allevamenti intensivi, così come avviene attualmente (a titolo di esempio, l’80% dei fondi europei per l’agricoltura italiana finisce nelle casse di un 20% di grandi aziende agricole). L’obiettivo è quello di creare le condizioni per un sistema produttivo che sia ripensato sulla piccola scala, con margini di guadagno più equi per i produttori e con politiche di sostegno ai prezzi che permettano a tutta la popolazione di accedere a cibi sani e di qualità, che rispondano ai valori positivi del “Made in Italy”. Inoltre, le associazioni Greenpeace, Lipu, Medici per l’ambiente-ISDE, Terra! e WWF Italia, hanno anche predisposto una mozione utile ad avvicinare i territori al processo di conversione agro-ecologica del settore zootecnico. La mozione è volta, da un lato, a promuovere un dibattito scientifico pubblico e dall’altro a favorire la discussione generale dell’iniziativa legislativa. Una mozione che una volta approvata dai Consigli Comunali impegna il Sindaco e la Giunta a: promuovere forme di sensibilizzazione della collettività e delle categorie economiche sui benefici derivanti da una transizione ecologica del sistema zootecnico; collaborare all’organizzazione di eventuali iniziative pubbliche promosse dalle associazioni proponenti la proposta di legge nel territorio comunale; farsi parte attiva presso il Parlamento, il Governo nazionale e regionale, affinché si giunga all’approvazione della proposta di legge; incentivare sul territorio le aziende agricole locali che adottano metodi di allevamento sostenibili e rispettosi del benessere animale; attivarsi affinché, per quanto di competenza dell’ente comunale, nella programmazione e pianificazione comunale si tenga conto dei principi che ispirano la proposta di legge depositata alla Camera dei deputati il 6 marzo 2024. Già tre Comuni, Spoltore, in provincia di Pescara, San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, e Castenedolo, in provincia di Brescia hanno approvato la mozione promossa da Greenpeace, ISDE, Lipu, Terra! e WWF per una transizione in chiave agro-ecologica del sistema degli allevamenti intensivi. “L’approvazione della mozione in tre Comuni di tre diverse regioni è un primo, significativo segnale di cambiamento che parte dai territori. È da qui che può prendere slancio una spinta concreta verso una legislazione nazionale capace di tutelare salute, biodiversità e la sostenibilità socio-economica del comparto agricolo, dichiarano le cinque associazioni promotrici. L’attuale modello zootecnico italiano – sempre più concentrato in grandi realtà intensive e industriali – sta penalizzando le piccole e medie aziende, mettendone a rischio la sopravvivenza. Con la nostra proposta di legge vogliamo offrire un’alternativa credibile: un percorso di transizione che permetta al settore di resistere nel tempo, tutelando ambiente, salute pubblica e giustizia sociale”. Pierluigi Bianchini, sindaco di Castenedolo, che ha già approvato la mozione, ha sottolineato la necessità di “un cambio di rotta nel modo di fare zootecnia, sostenendo la riconversione degli allevamenti intensivi in modelli più sostenibili e rispettosi di salute, ambiente e animali. Non possiamo rimanere indifferenti davanti a un tema che riguarda tutti”. Auspicando “che tanti altri Comuni scelgano di unirsi a questo percorso, per costruire insieme un sistema agricolo più giusto, allo stesso tempo vogliamo esprimere il nostro sostegno alle piccole realtà agricole locali, che ogni giorno lavorano con cura e rispetto per la terra, rappresentando un’alternativa concreta e preziosa”. Qui per approfondire e scaricare la mozione: https://www.associazioneterra.it/news/allevamenti-intensivi-i-primi-comuni-che-approvano-la-nostra-mozione-per-fermarli.   Giovanni Caprio