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Università Estiva Parco Toledo: smilitarizzare per proteggere la vita
Lo scorso 13 settembre, nell’ambito della terza edizione dell’Università Estiva dell’Umanesimo Universalista (Parco Toledo), si è tenuta la tavola rotonda “Smilitarizzare per proteggere la vita”. Hanno partecipato come relatori Ovidio Bustillo, di Alternativas Noviolentas, Juana Pérez Montero in rappresentanza della nostra agenzia stampa Pressenza, Valentina Carvajal di Greenpeace e Inma Prieto di Mondo senza Guerre e senza Violenza, tutti membri dell’Alleanza per il Disarmo Nucleare, con i quali abbiamo potuto parlare al termine dell’evento. Ecco le loro dichiarazioni sul tema che ci ha riuniti quel giorno. Ovidio Bustillo, che coordinava la tavola rotonda, ha fornito il quadro generale. Juana Pérez Montero ha parlato del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Valentina Carvajal ha incentrato il suo intervento sulla campagna di denuncia del commercio di armi con Israele, nel pieno del genocidio a Gaza, mentre Inma Prieto ha chiuso la tavola rotonda parlando delle diverse forme di violenza e di come affrontarle da diversi punti di vista, in particolare quello dell’istruzione. Ha concluso il suo intervento invitando i presenti a leggere e fare proprio l’Impegno Etico elaborato dalla sua organizzazione, che potete trovare QUI. Video (in spagnolo): Álvaro Orús. Intervista: Juana Pérez Montero --------------------------------------------------------------------------------   > Come attivare i sottotitoli in italiano: > > * Far partire il video > * Cliccare sul simbolo della rotella in basso a destra (Impostazioni) > * Cliccare su Sottotitoli > * Cliccare su Inglese > * Cliccare ancora su Sottotitoli (inglese) > * Scegliere Traduzione automatica > * Tornare nel video, in cui appare la lista delle lingue disponibili > * Scegliere la lingua italiana dalla lista > > La traduzione non è perfetta, ma facilita comunque la comprensione. TRADUZIONE DALLO SPAGNOLO DI STELLA MARIS DANTE Redacción Madrid
Proiezione del film “Il prezzo che paghiamo” il 24 ottobre a Ravenna
IL PREZZO CHE PAGHIAMO per la dipendenza dalle fonti fossili è troppo alto per tutte e tutti noi, per l’intero Pianeta, e per chi dovrà abitarlo nei prossimi decenni e nei prossimi secoli. IL PREZZO CHE PAGHIAMO consiste anche nelle spaventose mattanze di esseri umani e di tutte le altre forme di vita che le decine di guerre ogni giorno comportano. E le guerre, ormai è più che assodato, esplodono soprattutto per la contesa delle fonti energetiche fossili e le risorse della Terra. Anche il genocidio palestinese riconosce fra le sue cause le mire per il possesso e la gestione di un importantissimo giacimento di gas al largo delle coste di Gaza. Dietro ogni guerra c’è sempre un giacimento fossile. IL PREZZO CHE PAGHIAMO è una qualità dell’aria pessima, un rischio inaccettabile per la salute, una concreta possibilità che il riscaldamento globale superi nel giro di pochi anni un limite compatibile con la sopravvivenza della maggior parte delle persone, e la certezza che la vita sarà sempre meno vivibile per le più svantaggiate, più povere, più deboli, più indifese. IL PREZZO CHE PAGHIAMO è che il potere si accentri sempre di più in poche mani, e che fra le vittime della catastrofe climatico- ambientale ci siano la democrazia e i diritti sociali e individuali. IL PREZZO CHE PAGHIAMO è il FILM PRODOTTO DALLE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE GREENPEACE e RE-COMMON che proietteremo la sera di VENERDI 24 OTTOBRE alle ore 20,30 a Ravenna, in Sala Ragazzini (dietro la Chiesa di San Francesco)   Coordinamento ravennate Per il Clima – Fuori dal Fossile Ravenna, 20 ottobre 2025 Redazione Romagna
I PFAS sono anche nell’acqua in bottiglia: Greenpeace li ha trovati in 6 marche su 8
Una nuova indagine di Greenpeace ha rivelato la presenza di PFAS nell’acqua in bottiglia di 6 marche su 8, tra le più diffuse nel nostro Paese. Nello specifico la sostanza rilevata nelle bottiglie analizzate è il TFA, l’acido trifluoroacetico, ovvero il PFAS più diffuso sul pianeta. Negli scorsi mesi Greenpeace ha acquistato presso un supermercato di Roma sedici bottiglie appartenenti agli otto marchi più diffusi nel nostro Paese: Ferrarelle, Levissima, Panna, Rocchetta, San Benedetto, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto. Sono state inviate a due diversi laboratori – otto bottiglie in Germania e altrettante in Italia – per testare l’eventuale presenza di PFAS, i cosiddetti “inquinanti eterni”: si tratta di sostanze poli- e per-fluoroalchiliche usate in prodotti di largo consumo per le loro proprietà idro e oleorepellenti. Comode, sì, ma estremamente pericolose: non solo si accumulano nell’ambiente senza degradarsi, ma ormai da tempo sono associate a gravi rischi per la salute (danni al fegato, problemi al sistema endocrino e alla tiroide, alterazioni del sistema immunitario, tumori ai reni e ai testicoli, infertilità e diabete). Cosa è emerso dalle analisi? Luce verde per Ferrarelle e San Benedetto Naturale: nei campioni analizzati non è stata rilevata alcuna presenza di PFAS. Vuol dire che le concentrazioni in questi campioni sono risultate inferiori al limite di rilevabilità di 50 ng/L. Quanto alle altre marche, nei campioni di Levissima, Panna, Rocchetta, San Pellegrino, Sant’Anna e Uliveto è stato rilevato il TFA, l’acido trifluoroacetico, una sostanza con un triste primato: è il PFAS più diffuso al mondo. Il campione che ha fatto registrare il valore più elevato di TFA è dell’acqua Panna, (700ng/l), seguito dal campione del marchio Levissima (570 ng/l) e dal campione di acqua Sant’Anna (440 ng/l). Dopo la scoperta, Greenpeace ha contattato i brand per chiedere chiarimenti: tuttavia, nessuna delle realtà contattate ha voluto commentare. Come i PFAS più noti anche il TFA persiste nell’ambiente e non è biodegradabile. È una sostanza nota da tempo: risulta il PFAS più diffuso al mondo, tanto che ormai la sua presenza è stata rilevata persino nel sangue umano. Non sorprende, quindi, che abbia fatto capolino anche nell’acqua in bottiglia. E i rischi per la salute? Le Autorità tedesche di recente lo hanno classificato come “tossico per la riproduzione” e “molto mobile e persistente”. Nella primavera del 2024 la Germania ha presentato all’ECHA (Agenzia europea per le sostanze chimiche) una richiesta di classificazione del TFA come sostanza tossica per la riproduzione. Se l’ECHA approverà la richiesta, il TFA potrebbe essere classificato come “metabolita rilevante” delle sostanze attive nei prodotti fitosanitari. “Dopo la nostra spedizione “Acque senza veleni”, che ha rilevato la contaminazione da PFAS nelle acque potabili italiane, sottolinea Greenpeace, il governo italiano ha iniziato a muovere i primi passi verso la regolamentazione di queste sostanze pericolose. A marzo 2025, il Consiglio dei Ministri ha approvato un Decreto Legge urgente per abbassare i limiti dei PFAS nelle acque potabili e introdurre restrizioni per il TFA (acido trifluoroacetico). Tuttavia il provvedimento deve ancora essere ancora approvato dal Parlamento. Abbassare i limiti dei PFAS nell’acqua potabile è un passo avanti, ma non è risolutivo perché non elimina i PFAS dalle nostre vite e soprattutto non scongiura il rischio che queste sostanze finiscano nell’acqua in bottiglia: occorre una legge zero-PFAS che ne vieti del tutto la produzione e l’uso. Solo così possiamo sperare di tutelare la nostra salute: non c’è altro tempo da perdere”. Senza voler creare allarmismi, la presenza così diffusa di una sostanza di cui sappiamo poco (e quel poco che sappiamo tende a preoccupare sempre di più) impone una prudenza che avremmo dovuto usare anche con gli altri PFAS. E, soprattutto, dobbiamo smetterla di contaminare le nostre acque potabili, e le nostre vite, con queste sostanze pericolose o potenzialmente tali.  Qui le Analisi sulle acque minerali italiane di Greenpeace: https://www.greenpeace.org/static/planet4-italy-stateless/2025/10/c854c148-pfas-in-bottiglia.pdf.  Giovanni Caprio
Inizia domani la causa temeraria di ENI contro le organizzazioni ecologiste
> Inizierà domani 23 settembre l’iter giudiziario relativo alla  causa per > diffamazione che il colosso petrolifero ENI ha intentato, nell’autunno 2024, > contro Greenpeace Italia, Greenpeace Paesi Bassi e ReCommon. Per le > organizzazioni questo procedimento promosso da ENI è una SLAPP (Strategic > Lawsuit Against Public Participation), una causa strategica mirata a > intimidire, silenziare e ostacolare chiunque osi criticare pubblicamente le > attività dell’azienda, in particolare le sue responsabilità nella crisi > climatica. Malgrado l’azienda sostenga che non siamo di fronte a una causa > temeraria, lo scorso aprile la coalizione anti SLAPP europea CASE ha > certificato questa azione civile come una SLAPP a tutti gli effetti. > > ENI ha citato in giudizio le tre organizzazioni perché, a suo dire, avrebbero > messo in piedi “una campagna d’odio” nei confronti dell’azienda. Le > organizzazioni stigmatizzano l’attacco giudiziario di ENI come un tentativo > per spostare l’attenzione dalla Giusta Causa da loro intentata contro > l’azienda nel maggio 2023, contenzioso che riprenderà a gennaio dopo il via > libera delle Sezioni Unite della corte di Cassazione che, lo scorso luglio, ha > accettato il ricorso dei Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e > cittadini italiani, riconoscendo che in Italia spetta al giudice ordinario > decidere su queste cause, respingendo così tutte le eccezioni sollevate da ENI > sul presunto difetto di giurisdizione. > > L’azienda, recentemente insignita del “premio” SLAPP Addict of the Year 2025 , > sta cercando ancora una volta di utilizzare il suo enorme potere economico e > la sua influenza per zittire le voci critiche rispetto al suo operato. Non è > infatti la prima volta che l’azienda porta in tribunale rappresentanti della > società civile o del giornalismo, come racconta il report “ENI e le SLAPP” > diffuso oggi dalle organizzazioni ambientaliste. > > Questo genere di cause  non è però di certo ascrivibile solo a ENI, ma è > purtroppo molto diffuso tra le compagnie fossili globali. Di recente, infatti, > la statunitense Energy Transfer (ET), con un’altra azione giudiziaria > strumentale, è riuscita a far emettere un primo verdetto contro Greenpeace > negli USA e Greenpeace International, che potrebbero essere costrette a pagare > una multa di 660 milioni di dollari. > > “L’obiettivo di queste cause” – dichiarano le organizzazioni – “non è vincere > in tribunale, ma intimidire, logorare economicamente organizzazioni non > profit, giornalisti o attivisti costringendoli a spendere risorse preziose per > difendersi in lunghe battaglie legali. Ma non ci faremo intimidire, questo > tentativo disperato di ENI di distogliere l’attenzione dalle sue > responsabilità nella crisi climatica, e dalla Giusta Causa intentata da noi, > ReCommon e da 12 cittadini, non sarà efficace. Continueremo a denunciare con > determinazione l’operato di ENI, tutte le volte che lo riterremo illecito, in > particolare in materia climatica, perché la libertà di espressione e il > diritto a un ambiente salubre sono pilastri fondamentali della nostra > democrazia.” Re: Common
Il paradosso degli aerei diventati meno costosi dei treni
E’ ormai noto che l’1% della popolazione più ricca del pianeta inquina il doppio della metà più povera e che il singolo volo di un jet privato per poche ore inquina quanto tutti gli spostamenti di 4 persone in un anno. Una situazione che richiederebbe di prendere in seria considerazione quelle proposte tese ad abolire o a ridurre drasticamente l’utilizzo dei jet privati. Ma, al di là dell’uso smodato che dell’aereo viene fatto dai più abbienti, da qualche tempo il suo uso si sta sempre più diffondendo tra tutti i cittadini, soprattutto grazie a tariffe sempre più economiche, fino ad arrivare al paradosso che ormai l’aereo è meno costoso del treno. I voli aerei emettono in media 5 volte più CO₂ per passeggero per chilometro rispetto ai treni. Se confrontati con i sistemi ferroviari che utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile, il loro impatto può essere oltre 80 volte superiore. Si dovrebbe, di conseguenza, rendere il treno l’opzione più economica, non quella più svantaggiosa. Nel mezzo dell’ennesima estate segnata da eventi climatici estremi come incendi, ondate di calore e alluvioni che stanno colpendo il nostro continente, un nuovo rapporto di Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) denuncia, invece, il fallimento del sistema di trasporti europeo, in cui i voli aerei, nonostante il loro enorme impatto climatico, sono più economici dei viaggi in treno. E ciò accade grazie ai privilegi fiscali di cui godono le compagnie aeree: in più della metà delle tratte analizzate da Greenpeace costa meno viaggiare in aereo che in treno, addirittura fino a 26 volte meno. Il rapporto esamina 142 tratte in 31 Paesi europei, mostrando che i voli sono mediamente più economici dei treni sul 54% delle 109 tratte transfrontaliere analizzate. In Italia la situazione è anche peggiore: nelle 16 tratte internazionali che riguardano il nostro Paese, viaggiare in aereo è mediamente meno costoso che usare il treno nell’88% dei casi, ponendo l’Italia al quarto posto nella classifica dei Paesi europei in cui l’aereo è più economico del treno. A ciò si aggiunge spesso anche una grande differenza di prezzo: viaggiare da Lussemburgo a Milano costa quasi 12 volte di più in treno che in aereo, da Barcellona a Londra fino a 26 volte di più. “Anche se la crisi climatica peggiora, sottolinea Federico Spadini della campagna Clima e trasporti di Greenpeace Italia, il sistema dei trasporti europeo continua a favorire il mezzo di trasporto più inquinante, con prezzi dei voli assurdamente bassi rispetto a quelli dei treni, che sarebbero molto più sostenibili. Questa situazione non è dovuta a questioni di efficienza, ma all’inerzia politica europea che consente alle compagnie aeree di godere di privilegi fiscali ingiusti che sfavoriscono il trasporto ferroviario a spese del clima del pianeta”. Il costo ambientale di questo sistema truccato è enorme: eppure, le tariffe aeree artificialmente basse continuano a spingere i viaggiatori a scegliere l’aereo, con le compagnie aeree low cost che dominano il mercato grazie a prezzi sleali. Infatti, mentre le compagnie aeree non pagano né l’imposta sul cherosene né l’IVA sui voli internazionali, le ferrovie devono pagare le imposte sull’energia, l’IVA ed elevati pedaggi ferroviari. “Ogni tratta in cui l’aereo è più economico del treno, dichiara ancora Spadini,  è un fallimento politico: l’Europa deve rendere il treno l’opzione più economica, anziché quella più svantaggiosa perché meno finanziata. Per questo chiediamo all’Unione europea e ai governi nazionali di porre fine alle agevolazioni fiscali per il settore aereo, di investire sulla rete ferroviaria e di introdurre “biglietti climatici” a prezzi accessibili e facili da utilizzare. Le risorse economiche per cambiare il sistema dei trasporti si potrebbero ricavare da una tassazione adeguata del settore aereo, dei super-ricchi e delle aziende più inquinanti come quelle dei combustibili fossili. Servirebbe solo la volontà politica dei leader europei”. Qui il Rapporto (in inglese): https://greenpeace.at/uploads/2025/08/greenpeace-analysis-flight-vs-trains-2025.pdf.  Giovanni Caprio
La centrale nucelare di Gravelines assaltata dalle meduse
Nella ‘notte di San Lorenzo’, tra il 10 e l’11 agosto, quattro dei sei reattori si sono bloccati automaticamente e, siccome gli altri due erano erano già fermi per manutenzione, è improvvisamente rimasto inattivo tutto l’impianto sito nei pressi di Dunkerque. La causa non è stato un guasto o un incidente, bensì l’inaspettata invasione di un enorme sciame di meduse nei condotti e, quindi, l’ostruzione dei filtri in cui passa l’acqua, pompata da un canale collegato al Mare del Nord, che raffredda i reattori della centrale nucleare, una delle maggiori attive in Europa occidentale, del colosso francese EDF, la cui sigla sta per Électricité de France S.A. Nel comunicato pubblicato oggi, 13 agosto, EDF annuncia che “l’unità di produzione n° 6 della centrale elettrica di Gravelines è stata ricollegata alla rete elettrica nazionale” e rassicura: l’arresto, che è stato “causato dalla presenza massiccia e imprevedibile di meduse nei tamburi filtranti delle stazioni di pompaggio, situate nella parte non nucleare degli impianti”, non ha avuto conseguenze, nessun impatto “sulla sicurezza degli impianti, sulla sicurezza del personale o sull’ambiente”. Sul sito della compagnia, nella pagina che illustra l’impegno CSR del Gruppo per “contribuire alla conservazione delle risorse idriche al fine di migliorare la resilienza dell’ambiente naturale e di rispondere alle esigenze idriche in modo equilibrato e sostenibile”, l’attuale chairman e CEO di EDF precisa: “La nostra storia è sempre stata strettamente legata all’acqua. Il 90% della nostra produzione di energia elettrica ne dipende: l’acqua raffredda il nucleo delle nostre centrali elettriche, scorre attraverso le nostre centrali idroelettriche ed è una componente essenziale in tutti i nostri processi industriali”. Ma le meduse non sono d’accordo… e, premettendo di non aver avuto ruolo in questo loro assalto alla centrale nucleare di Gravelines, Greenpeace France ha commentato: «Ben fatto meduse!». “Anche se si tratta di qualcosa di abbastanza raro, non è certo la prima volta che le meduse paralizzano una centrale nucleare – osserva Umberto Mazzantini su Green Report – La stessa EDF aveva già subito invasioni di meduse negli anni ’90 e casi simili si sono già verificati, in particolare negli anni 2010, negli Usa, in Scozia, Svezia e Giappone. La proliferazione di meduse in tutto il mondo è dovuta a diversi fattori, tra i quali il riscaldamento degli oceani e climatico, ma anche alla pesca eccessiva, che elimina alcuni dei loro predatori diretti, come i tonni”. “Gli impianti costieri, pur producendo energia a basse emissioni, rilasciano in mare acqua più calda di quella prelevata per il raffreddamento – evidenzia Riccardo Liguori su GreenMe – Questo inquinamento termico può creare micro-habitat favorevoli alla crescita di meduse e altri organismi marini”. Maddalena Brunasti
Ondate di calore: tre quarti delle notizie non citano la crisi climatica come elemento esplicativo
Negli ultimi anni i fenomeni di caldo intenso, le cosiddette le ondate di calore, stanno diventando frequenti, intensi e prolungati in tutto il pianeta. Un’analisi sulle morti per calore in alcune città europee durante l’ondata di calore di fine giugno/inizio luglio di quest’anno indica, tra gli altri risultati, che circa 1.500 dei 2.300 decessi da calore stimati sono il risultato del cambiamento climatico. Eppure, circa tre quarti delle notizie dei principali telegiornali e quotidiani italiani sulla prima ondata di calore della stagione non citano la crisi climatica quale elemento di contesto esplicativo del fenomeno. È quanto emerge dall’ultimo rapporto commissionato da Greenpeace all’Osservatorio di Pavia che ha analizzato la copertura mediatica dell’ondata di caldo estremo registrata tra fine giugno e inizio luglio. L’analisi mostra, inoltre, un andamento rapsodico dell’attenzione mediatica, che esplode durante il picco di calore, per poi spegnersi non appena il meteo cambia: una narrazione spesso accompagnata da toni espressi anche in titoli sensazionalistici che contribuisce a veicolare l’idea che le temperature estreme siano casi episodici e a una scarsa comprensione del fenomeno nelle sue cause e conseguenze sistemiche. Nelle edizioni serali dei TG generalisti Rai, Mediaset e La7, solo il 23% dei servizi ha citato la crisi climatica quale elemento di contesto esplicativo, ma di questi poco meno di un terzo ha esplicitato le responsabilità del riscaldamento globale, mettendolo in connessione con le emissioni di gas serra o con le sue cause antropiche; ancora, appena il 7% dei servizi si è focalizzato sulla necessità di interventi di mitigazione – come la riduzione delle emissioni climalteranti o la transizione verso fonti rinnovabili – mentre il 63% ha parlato di misure d’adattamento, inclusi consigli pratici quali idratarsi o evitare l’esposizione nelle ore più calde. Il 60% delle dichiarazioni riportate è di cittadini che hanno commentato come il caldo influenzi la loro quotidianità e parlato dei rimedi adottati per fronteggiarlo. Al contrario, le voci di esperti quali climatologi, fisici, meteorologici medici, e quelle del mondo del lavoro e dell’economia, tra cui imprenditori, operai, agricoltori e sindacalisti, hanno trovato spazio rispettivamente nel 16% e nel 15% dei servizi. Una tendenza simile si osserva sulle pagine dei primi cinque quotidiani italiani (Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, Il Sole 24 Ore, La Stampa): nel 67% degli articoli sulle ondate di calore non si fa alcun cenno al riscaldamento globale, mentre la metà degli articoli che citano la crisi climatica approfondisce anche le cause e/o ne cita i responsabili. Venendo, poi, alle soluzioni e alle azioni di contrasto, anche in questo caso a prevalere sono le misure d’adattamento (il 67% degli articoli ne cita qualcuna), mentre solo il 10% cita azioni di mitigazione. L’interesse per le conseguenze immediate delle ondate di calore domina la narrazione, con il 93% degli articoli che cita uno o più danni o rischi tangibili del caldo estremo, in primis quelli per la salute e per i lavoratori esposti. A differenza dei TG, le dichiarazioni riportate dai giornali provengono in larga parte da ambiti specifici, in primis esperti in ambito medico-scientifico, mondo economico, del lavoro e politico (l’85% delle dichiarazioni), con scarsa presenza della voce dei cittadini. Il rapporto dell’Osservatorio di Pavia ha analizzato anche i contenuti informativi sull’ondata di calore pubblicati su Facebook da dieci testate giornalistiche e i commenti degli utenti alle notizie postate, allargando lo studio anche al Fatto Quotidiano, Libero, Domani, La Verità, Il Giornale. Su 136 post che hanno riguardato il tema, solo 18 (il 13%) attribuiscono l’innalzamento delle temperature al riscaldamento globale. E, tra questi ultimi, solo tre citano l’origine antropica della crisi climatica. Anche sui social, il tema delle ondate di calore viene affrontato puntando principalmente su un mix di cronaca, dati sulle temperature e soluzioni di adattamento. I post delle tre testate di orientamento di destra (Libero, Il Giornale e La Verità) seguono una narrativa comune nella quale la questione delle ondate di calore viene trattata pressoché esclusivamente in chiave di scontro politico-ideologico, con toni di scherno e obiettivo di ridimensionamento. “L’analisi dei commenti degli utenti, si legge nel Report, rafforza queste cornici narrative di tipo critico-negazionista, tra cui: la minimizzazione e la negazione dell’eccezionalità dell’evento, ad esempio attraverso l’evocazione di estati calde del passato per confutare l’emergere di un trend nuovo; le accuse di catastrofismo esagerato ai media, cui vengono contestati titoli e contenuti definiti allarmistici; l’attacco alle soluzioni, con una narrativa critica verso le azioni di mitigazione come le politiche di transizione e l’auto elettrica; la sovrapposizione di crisi climatica e COVID 19 in discorsi complottisti su entrambi i fronti. In un contesto fortemente polarizzato, ironia e sarcasmo emergono come strategie comunicative utilizzate da negazionisti e critici climatici quale forma di attacco discorsivo che denigra, deridendolo, il contenuto dell’informazione”. Qui il Report: https://www.greenpeace.org/static/planet4-italy-stateless/2025/07/2fb3c7c8-ondate-di-calore-sui-media_greenpeace_osservatorio-di-pavia_def.pdf.  Giovanni Caprio
Ieri, 15 marzo a Roma, sotto la Farnesina il silenzio è stato interrotto.  Un silenzio colpevole che ammanta il genocidio in corso a Gaza, quello che il governo italiano si sta sforzando di preservare ad ogni costo, ma che Amnesty International ha deciso di spezzare.  Con altre associazioni, come Greenpeace, è stato inscenato sotto la sede un presidio rumoroso e significativo, in cui un drappo rosso stato steso ai piedi di una culla, a rappresentare il sangue dei bambini palestinesi che continua ad essere versato dopo tre mesi dal cessate il fuoco. Quello di oggi è stato l’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione delle nostre più alte istituzioni su un eccidio le cui vittime cadono sotto le bombe, ma che viene perpetrato anche attraverso la privazione di cibo, acqua e cure. A Gaza un popolo si sta spegnendo giorno dopo giorno e l’indifferenza, ancor peggio la complicità degli stati come il nostro è intollerabile.  Queste le parole di Riccardo Noury di Amnesty: “Un appello a intervenire per fermare il genocidio in corso nella Striscia di Gaza, un giorno, chissà, una sentenza stabilità che l’Italia è stata complice del genocidio israeliano in corso. Politicamente il governo ne risponderà al Parlamento, però da un punto di vista morale la conclusione di Amnesty International è che questa complicità è nei fatti, anzi, nella mancanza di fatti. In primo luogo riconoscere e farlo con dichiarazioni chiare e ufficiali che a Gaza è in corso un genocidio. Contemporaneamente, non dopo, perché è una cosa altrettanto importante, giacché i genocidi si compiono anche e soprattutto mandando armi, fermando immediatamente ogni trasferimento di armi verso Israele e convincendo altri partner dell’Unione Europea a fare lo stesso”. Redazione Roma
“Il prezzo che paghiamo”: documentario sulle vittime della crisi climatica
Quali sono le conseguenze su tutte e tutti noi dell’inazione climatica dei governi e dell’avidità delle compagnie fossili che, pur conoscendo da decenni la pericolosità delle loro attività per il clima del pianeta, continuano a ignorare le indicazioni della comunità scientifica? È la domanda che si pone “Il prezzo che paghiamo”, documentario prodotto da Greenpeace Italia e Recommon e realizzato da FADA Collective, che verrà presentato in diverse città italiane a partire dal 23 maggio. Guarda il trailer Attraverso interviste a Milena Gabanelli (autrice e giornalista del Corriere della Sera), Stella Levantesi (giornalista freelance e autrice del saggio “I bugiardi del clima”) e Davide Faranda (Direttore di ricerca in climatologia del Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese – CNRS), “Il prezzo che paghiamo” racconta quanto sia pervasivo il potere delle grandi aziende fossili nella nostra società – dai media all’università – attraverso le testimonianze di chi già oggi in Italia è costretto a subire gli impatti della crisi climatica e ambientale. In Emilia-Romagna, Maria Gordini, un’agricoltrice, ha perso la casa e la propria azienda a causa delle gravi alluvioni che hanno colpito la Regione nel 2023 e 2024. In Basilicata, Camilla Nigro, Isabella Abate e Giorgio Santoriello vivono le pesanti conseguenze delle attività estrattiva di gas e petrolio, portata avanti nei loro territori dalla più importante multinazionale italiana, ENI. Nei territori in cui abitano, segnati da decenni di trivellazioni, si trova il più grande giacimento a terra di petrolio dell’Europa occidentale. Il racconto delle vicende personali di Maria, Camilla, Isabella e Giorgio, alternato alle testimonianze, alle analisi di ricercatori, giornalisti e attivisti e ai documenti storici e scientifici mette in luce le connessioni tra l’estrazione del petrolio e le devastanti ricadute sociali, ambientali ed economiche, dalla contaminazione delle terre e delle acque, fino alle alluvioni e ai fenomeni climatici estremi. Realizzato da Sara Manisera, con musiche di Gianni Maroccolo (Litfiba, CCCP, Marlene Kuntz) e Ala Bianca Group Edizioni Musicali, il documentario sarà presentato in anteprima a Roma il 23 maggio nell’ambito del Festival delle Terre organizzato dal Centro Internazionale Crocevia. “Il prezzo che paghiamo” inizierà poi il suo viaggio in diverse città italiane,  con proiezioni 27 maggio a Le Serre di Bologna, il 28 maggio nella fabbrica Ex-Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) e il 29 maggio a Roma a Spin Time. Per informazioni e richieste di proiezione: info@ilprezzochepaghiamo.it Re: Common
Oltre gli allevamenti intensivi, per una riconversione agro-ecologica della zootecnia
Gli impatti degli allevamenti intensivi, soprattutto nelle zone in cui queste attività sono più concentrate, come la Pianura Padana, sono ormai ampiamente documentati: riguardano principalmente le emissioni di ammoniaca (NH3) e il conseguente inquinamento da polveri fini (PM 2,5), responsabili ogni anno di migliaia di morti premature in Italia. Le grandi quantità di azoto prodotto rappresentano inoltre un problema per l’inquinamento del suolo e dei corpi idrici, soprattutto nelle regioni ad alta densità zootecnica. L’enorme numero di animali allevati in modo intensivo nel nostro Paese (più di 700 milioni all’anno) richiede un grande uso di risorse, spesso sottratte al consumo diretto umano (due terzi dei cereali commercializzati nell’Unione Europea diventano mangime e circa il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale). L’Italia è seconda solo alla Polonia in Europa per morti premature da esposizione a PM 2,5, con quasi 50 mila decessi prematuri nel 2021. Non solo, ma il nostro Paese è anche in procedura d’infrazione per il mancato rispetto della Direttiva europea sui nitrati. Greenpeace, ISDE, Lipu, WWF e Terra! hanno lanciato nello scorso febbraio un Manifesto pubblico “OLTRE GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI. Per una riconversione agro-ecologica della zootecnia” alla base di una Proposta di Legge presentata da un gruppo di parlamentari della XIX Legislatura appartenenti a diversi partiti politici (AC 1760) per una riconversione del settore zootecnico che metta al centro, tanto delle politiche quanto dei meccanismi di sostegno, le aziende agricole di piccole dimensioni che adottano metodi agroecologici, e non più il sistema dei grandi allevamenti intensivi, così come avviene attualmente (a titolo di esempio, l’80% dei fondi europei per l’agricoltura italiana finisce nelle casse di un 20% di grandi aziende agricole). L’obiettivo è quello di creare le condizioni per un sistema produttivo che sia ripensato sulla piccola scala, con margini di guadagno più equi per i produttori e con politiche di sostegno ai prezzi che permettano a tutta la popolazione di accedere a cibi sani e di qualità, che rispondano ai valori positivi del “Made in Italy”. Inoltre, le associazioni Greenpeace, Lipu, Medici per l’ambiente-ISDE, Terra! e WWF Italia, hanno anche predisposto una mozione utile ad avvicinare i territori al processo di conversione agro-ecologica del settore zootecnico. La mozione è volta, da un lato, a promuovere un dibattito scientifico pubblico e dall’altro a favorire la discussione generale dell’iniziativa legislativa. Una mozione che una volta approvata dai Consigli Comunali impegna il Sindaco e la Giunta a: promuovere forme di sensibilizzazione della collettività e delle categorie economiche sui benefici derivanti da una transizione ecologica del sistema zootecnico; collaborare all’organizzazione di eventuali iniziative pubbliche promosse dalle associazioni proponenti la proposta di legge nel territorio comunale; farsi parte attiva presso il Parlamento, il Governo nazionale e regionale, affinché si giunga all’approvazione della proposta di legge; incentivare sul territorio le aziende agricole locali che adottano metodi di allevamento sostenibili e rispettosi del benessere animale; attivarsi affinché, per quanto di competenza dell’ente comunale, nella programmazione e pianificazione comunale si tenga conto dei principi che ispirano la proposta di legge depositata alla Camera dei deputati il 6 marzo 2024. Già tre Comuni, Spoltore, in provincia di Pescara, San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, e Castenedolo, in provincia di Brescia hanno approvato la mozione promossa da Greenpeace, ISDE, Lipu, Terra! e WWF per una transizione in chiave agro-ecologica del sistema degli allevamenti intensivi. “L’approvazione della mozione in tre Comuni di tre diverse regioni è un primo, significativo segnale di cambiamento che parte dai territori. È da qui che può prendere slancio una spinta concreta verso una legislazione nazionale capace di tutelare salute, biodiversità e la sostenibilità socio-economica del comparto agricolo, dichiarano le cinque associazioni promotrici. L’attuale modello zootecnico italiano – sempre più concentrato in grandi realtà intensive e industriali – sta penalizzando le piccole e medie aziende, mettendone a rischio la sopravvivenza. Con la nostra proposta di legge vogliamo offrire un’alternativa credibile: un percorso di transizione che permetta al settore di resistere nel tempo, tutelando ambiente, salute pubblica e giustizia sociale”. Pierluigi Bianchini, sindaco di Castenedolo, che ha già approvato la mozione, ha sottolineato la necessità di “un cambio di rotta nel modo di fare zootecnia, sostenendo la riconversione degli allevamenti intensivi in modelli più sostenibili e rispettosi di salute, ambiente e animali. Non possiamo rimanere indifferenti davanti a un tema che riguarda tutti”. Auspicando “che tanti altri Comuni scelgano di unirsi a questo percorso, per costruire insieme un sistema agricolo più giusto, allo stesso tempo vogliamo esprimere il nostro sostegno alle piccole realtà agricole locali, che ogni giorno lavorano con cura e rispetto per la terra, rappresentando un’alternativa concreta e preziosa”. Qui per approfondire e scaricare la mozione: https://www.associazioneterra.it/news/allevamenti-intensivi-i-primi-comuni-che-approvano-la-nostra-mozione-per-fermarli.   Giovanni Caprio