Hunger Games a MedicinaNella nazione di Panem gli Hunger Games si svolgono ogni anno, in Italia ne è
ora prevista un’edizione speciale, Hunger Games Med Edition, anch’essa con
cadenza annuale: si immagina parteciperanno tra gli ottanta e i centomila
studenti. La “meglio gioventù” italiana: solo uno su quattro, forse uno su
cinque, potrà farcela. Non è però un numero chiuso, è un Hunger Game: “Ve lo do
subito un consiglio. Restate vivi” (Haymitch Abernathy). Il provvedimento,
voluto dalla ministra Bernini con le nuove regole per l’accesso a Medicina, è
rappresentato per quello che non è, con l’effetto di fuorviare ed ingannare
studenti. Il primo inganno, il principale, è la fine del numero chiuso. Il
secondo inganno è la fine dei test. E’ il trionfo del paradigma performativo,
una sorta di inno al liberismo competitivo calato nelle dinamiche della
formazione universitaria, di cui questo percorso pare una caricatura più che una
manifestazione: un semestre breve, frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo
di regole chiare ed esposto alla volubilità degli uomini ed ai rischi della
sorte.
> (1) ”CHE GLI HUNGER GAMES ABBIANO INIZIO!” (CLAUDIUS TEMPLESMITH)
Con l’approvazione da parte della Camera del disegno di legge già votato in
autunno dal Senato, e quindi con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della
legge n. 26 del 2025, prende forma la revisione dell’accesso ai percorsi di
laurea a ciclo unico in Medicina ed Odontoiatria: si definisce un percorso di
accesso al numero chiuso che coinvolge direttamente anche Medicina Veterinaria e
che indirettamente, ma in modo importante, interessa altri percorsi di laurea di
area biomedica e farmaceutica. La pubblicazione nella Gazzetta n. 64, del 18
marzo, della legge recante “Delega al Governo per la revisione delle modalità di
accesso ai corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e
protesi dentaria e in medicina veterinaria” conclude la prima fase di un
percorso di riforma che avrà un impatto formidabile su tanti giovani, e sul
nostro sistema sanitario, mai veramente oggetto di discussione.
Sul disegno di legge delega, approvato in via definitiva l’11 marzo dalla
Camera, c’è stato, certo, un dibattito parlamentare, ma colpisce il fatto che il
lavoro istruttorio portato avanti nelle commissioni alla Camera, con tanto di
audizioni di una parte importante del mondo della sanità e dell’istruzione, non
abbia prodotto neanche un ritocco al testo già approvato dal Senato: un
provvedimento dunque o non modificato perché in sé già perfetto, ma non vanno in
questa direzione le osservazioni emerse in occasione delle audizioni né nel
dibattito in commissione ed in aula, o perché, più semplicemente, politicamente
“blindato”.
Un provvedimento, va detto chiaramente, rappresentato per quello che non è, con
l’effetto di fuorviare ed ingannare studenti che, ancora poco avvezzi alle
dinamiche della politica domestica, ripongono ancora fiducia nelle istituzioni e
quindi nelle dichiarazioni prese nelle sedi più autorevoli. Il tradimento di
questa fiducia è di per sé un problema, di cui dovremmo preoccuparci.
Il primo inganno è il principale, ed è relativo alla “fine del numero chiuso”:
nel corso di questo scritto sarò più dettagliato, ma va subito chiarito che il
numero chiuso resta, ed anzi è un pilastro del nuovo modello così come lo era di
quello precedente. Solo che il numero chiuso non scatta subito, ma dopo un
semestre, con effetti che paiono solo peggiorativi rispetto all’impianto in via
di superamento. Si prevede, va detto, “il potenziamento delle capacità ricettive
delle università” (art. 2, c. 2, lett. f) (che è in effetti ciò su cui si
sarebbe dovuto lavorare sin dall’inizio), ad intendere sia corsi di laurea che
borse di specializzazione (lett. g)), ma si tratta di un discorso di prospettiva
e che non elimina, ma forse nel tempo amplierà, il numero chiuso.
Il secondo inganno è relativo alla “fine dei test”: l’impatto organizzativo,
l’esigenza di standardizzazione e di riduzione dell’influenza di preferenze e
valutazioni “soggettive”, la necessità di evitare facili manomissioni e
favoritismi, condurrà inevitabilmente (di più, auspicabilmente) alla
predisposizione di prove omogenee, verosimilmente con test. E in ogni caso,
l’esigenza di gestire in tempi brevi l’impatto di un numero consistentissimo di
studenti porterà alla necessità di prevedere prove scritte (di nuovo,
ragionevolmente, nella forma di test a risposta multipla). Questo però è un
aspetto tutto sommato secondario, come proverò a spiegare meglio: solo un
dettaglio rispetto all’impianto portante degli Hunger Games che porteranno a
selezionare, attraverso un semestre di fuoco, i nuovi medici italiani e ad
orientare gli altri, i “perdenti” della competizione, verso piani “B” che spesso
sono piuttosto piani “C”.
Stando al percorso, con l’approvazione della legge siamo di fronte ad un
passaggio forse decisivo, ma sicuramente ancora lontani dal completamento di
questo impianto riformatore: come forse non sempre ben evidenziato nel dibattito
pubblico, infatti, la disciplina dettagliata del nuovo modello emergerà solo con
l’esercizio, da parte del Governo, della delega legislativa. La legge delega
contiene, però, una serie di elementi che già definiscono chiaramente alcuni
aspetti del nuovo sistema, mentre per altri (non minori) sarà necessario
aspettare il decreto delegato (che la Ministra annuncia in ogni caso destinato
ad essere approvato in tempi ravvicinati).
Si delinea, dunque, uno sconvolgimento delle modalità di accesso ai percorsi di
medicina, odontoiatria e veterinaria; cambiamenti importanti per i “corsi di
studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria”. Effetti sul
complessivo sistema universitario, tanto più se consideriamo che la riforma non
solo è, come spesso accade, a costo zero (i decreti attuativi dovranno attestare
la “neutralità finanziaria” della riforma), ma addirittura gli studenti del
“primo semestre comune” non contribuiscono al finanziamento delle università
attraverso il fondo di finanziamento ordinario (FFO) (tra i principi/criteri
della delega, infatti, c’è quello che il “numero di studenti iscritti al primo
semestre […] non sia considerato ai fini del riparto annuale del Fondo per il
finanziamento ordinario delle università”)(art. 2, c. 2, lett. i)).
> (2) “È IL TUO PRIMO ANNO PRIM, IL TUO NOME È LÌ DENTRO PER LA PRIMA VOLTA, NON
> SCEGLIERANNO TE!” (KATNISS EVERDEEN)
Nonostante si siano levate numerose obiezioni, informate e fondate, sulla
possibilità che la riforma divenga efficace già dall’anno accademico 2025-2026
(quindi, in concreto, già da settembre), l’intenzione politica sul punto è
chiarissima.
Questa volontà di “fare in fretta” rischia di incidere sulla possibilità di
“fare bene”: di norma marzo è il mese in cui le università completano i dettagli
dell’offerta didattica, definendo le coperture degli insegnamenti e gli aspetti
di contorno di un impianto già definito mesi prima, in un sistema di massima già
rodato per il cui buon funzionamento sono necessari vari tasselli (anzitutto: i
docenti, le aule, gli uni e le altre calibrate sulla numerosità attesa dei
frequentanti e quindi con eventuali esigenze di “sdoppiamento” di cattedre, i
programmi ed i libri di testo, con un lavorio che coinvolge anche le case
editrici pronte ad arrivare preparate all’appuntamento dell’avvio dei corsi).
L’impatto della riforma rischia, da questo punto di vista, di essere devastante
se portata avanti in fretta e furia: si prospetta l’irrompere sul sistema
universitario di almeno 80.000 aspiranti medici, col rischio (alimentato
dall’immagine, erronea e falsante, su cui torneremo, del corso “ad accesso
aperto”) che siano anche di più; questi studenti e studentesse dovranno seguire
un percorso comune (a numerosi percorsi di area medica, biomedica, farmaceutica)
che si immagina, in attesa dei decreti attuativi, potrà basarsi su esami di
biologia, chimica, fisica.
Prendo ad esempio un paio di corsi della mia università, diversi da medicina,
coinvolti “indirettamente” dalla riforma, in quanto destinatari del “semestre
comune”: a Farmacia, a Perugia, le “Chimiche” al primo semestre sono due
(organica ed inorganica, rispettivamente da 6 e 10 crediti), Fisica è al secondo
semestre, Biologia è un corso annuale da 11 crediti); a Biotecnologie, Chimica
generale è al primo semestre (al secondo Chimica organica), Biologia contiene
elementi di citologia ed istologia ed è un esame da 12 crediti, Fisica è un
esame da 6 crediti del secondo semestre. Tra quelli coinvolti direttamente: a
Veterinaria non c’è propriamente un esame di Chimica (ma di Biochimica, da 11
crediti) né uno di Fisica (ma di Fisica, statistica ed informatica applicate),
Biologia è “Biologia animale”.
La riforma di Medicina comporta l’esigenza di ritornare su tutti questi
percorsi, ridefinirli, concentrare nel secondo semestre tutti gli insegnamenti
diversi delle “generiche” materie di base (pensate, a questo punto, non più per
un aspirante medico, cui, ad esempio, fornire tutte le nozioni di chimica utili
per la professione, o al contrario per un farmacista che poi svilupperà
ampiamente tutti i rami della chimica organica ed inorganica, e così via). Con
un impoverimento nella preparazione, che sarà certo intensa, ma concentrata su
tematiche generali e non orientate al percorso che poi si vorrà/potrà davvero
seguire (come la fisica medica, che non coincide evidentemente con la fisica che
interessa un chimico).
E con un secondo semestre non meno complesso del primo, perché tenuto a
concentrare tutta la preparazione specifica del primo anno: solo per fare un
esempio, elenco di seguito esami, e crediti, previsti attualmente al primo anno
di veterinaria (Anatomia degli animali domestici, 17 cfu, annuale; Biochimica
generale, 11 cfu; Biologia animale, 5 cfu; Fisica, statistica e informatica
applicate alla medicina veterinaria, 8 cfu; Istologia, embriologia generale e
speciale veterinaria, 5 cfu; Agronomia ed economia, 6 cfu; Biochimica
veterinaria e biologia molecolare, 5 cfu).
La riforma sconvolge dunque l’offerta didattica, l’organizzazione dei corsi, la
programmazione didattica (quali corsi e docenti in quale semestre), e costringe
ragionevolmente a moltiplicare i corsi “generali comuni”, in modo da consentire
la presenza in aula di un numero molto consistente di studenti. Forse
addirittura, e di questa ipotesi si sente sempre più spesso parlare come
verosimile e persino “ragionevole”, ad aprire all’ipotesi di corsi in
teledidattica (che sin qui erano stati un tabù per medicina, ma le cose
cambiano).
L’effetto non si limita a questi percorsi, perché comporterà ragionevolmente
l’esigenza per gli atenei di concentrare in questo semestre la didattica della
gran parte dei suoi docenti di chimica generale, biologia generale, fisica
generale, prendendoli anche da altri percorsi di studi. L’impatto sugli altri
percorsi di studio di area medica (infermieristica, osteopatia, ecc.) è d’altra
parte sottovalutato, dato il potenziale svuotamento del loro bacino vista la
“facilità” (presunta, ma dichiarata) di accesso al percorso di medicina e
chirurgia: qui il problema è anche diverso, considerato che (ad esempio) le
domande per l’accesso a infermieristica sono in linea con i posti disponibili, e
comunque i laureati infermieri non riescono a rispondere alle esigenze del
settore. Domani avremo verosimilmente lo stesso numero di medici di prima, ma
meno infermieri di adesso, per dirla sinteticamente.
Non voglio tediare ulteriormente il lettore, per gli addetti ai lavori posso
dire che la riforma comporta l’esigenza di modificare ordinamenti e regolamenti
non solo dei percorsi di area medica, ma di tutti i percorsi interessati
“indirettamente” dalla riforma. E queste modifiche saranno possibili solo
allorché la riforma sarà approvata: ad intendere non la legge delega, ma
quantomeno il decreto legislativo attuativo.
La legge n. 26 del 2025 non prevede un’abbreviazione della vacatio legis, quindi
entrerà in vigore ad inizio aprile. Da lì, a tenore della legge (e della
disciplina legislativa e costituzionale che regola l’esercizio delle deleghe
legislative da parte del Governo), dovrà attendersi:
(a) L’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri “su proposta del
Ministro dell’università e della ricerca, sentito il Ministro della salute”, di
testi che “sono corredati di relazione tecnica” (art. 2, c. 3).
(b) Ancorché limitatamente ad alcuni aspetti dalla riforma, il decreto deve
essere adottato previo parere della Conferenza Stato-regioni. Per alcuni aspetti
della riforma va acquisito il “concerto” del Ministro delle Finanze, o “sentito”
il Ministro dell’istruzione”.
(c) Sullo schema di decreto va acquisito il parere delle Commissioni
parlamentari competenti (ragionevolmente non solo della commissione Cultura, ma
anche la commissione Affari sociali e sanità, forse anche la commissione
Bilancio dovessero emergere spese con cambiamento di poste di bilancio dello
Stato).
(d) Sui decreti legislativi, il Consiglio di Stato rilascia un parere, che deve
essere reso entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta.
Anche ammettendo che la Ministra, ed il suo staff, abbiano sostanzialmente
pronto il testo del decreto (avendo quindi sciolto i problemi di merito, non
marginali, che restano irrisolti, come proveremo a spiegare di seguito), la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto, che peraltro richiederà
ragionevolmente atti di indirizzo e ulteriori provvedimenti attuativi, non potrà
ragionevolmente aversi prima di un paio di mesi: ben che vada, quindi, le
questioni operative ed attuative dovranno dispiegarsi, nelle singole università,
a partire da maggio. Un lavoro più complesso di quello che di solito si sviluppa
nell’arco di dieci mesi dovrà articolarsi in meno di quattro, durante l’estate,
per una attivazione dei corsi a settembre, percorsi rivolti ad un numero di
studenti che gli atenei non sarebbero forse in grado di gestire neppure avendo
tempi più lunghi per organizzarsi. Molti dei problemi strettamente organizzativi
potrebbero essere ridimensionati dal ricorso, di cui si sente sempre più
parlare, ad un “semestre” erogato in teledidattica, il che però peggiorerebbe
vari aspetti della riforma (a partire dall’esperienza degli studenti, passando
per la qualità della formazione).
La prospettiva più probabile, ed auspicabile, è quantomeno quella di una entrata
in vigore della riforma dall’anno accademico successivo (2026-2027), il che
permetterebbe un’attuazione più organizzata e meditata di una riforma comunque
criticabile. Il che consentirebbe alla coorte dei nati nel 2006 di risparmiarsi
gli Hunger Games, salvo doversi attrezzare in fretta e furia per la preparazione
dei test di accesso.
> (3) “TU DEVI VINCERE!” (RUE)
Una volta entrata a regime la riforma, quindi da settembre 2025 (stando alle
intenzioni della Ministra) o dal settembre successivo, potremo assistere agli
Hunger Games, Med edition. A psicologi e pedagogisti riflettere sull’effetto che
potrà avere su una generazione ancora fragile, provata dall’esperienza della
pandemia nella sua prima adolescenza, la “generazione di cristallo”,
l’esperienza di entrare in un ambiente super competitivo, nel quale solo una
parte minore (un quarto, forse un quinto) dei partecipanti potranno raggiungere
gli obiettivi che si prefiggono. Peggio ancora se dovessero farlo nella
solitudine delle proprie camere, attraverso piattaforme di teledidattica in un
trimestre denso, come una corsa sui 60 metri.
E’ vero che le aspirazioni di studenti e studentesse già si confrontano con un
ambiente selettivo, nel quale però vi è un minore investimento, un tempo più
disteso per valutare scelte alternative, la possibilità per i più determinati di
“riprovare l’anno dopo” (magari iscrivendosi ad un altro corso, ad esempio
Biotecnologie).
L’esperienza universitaria ha bisogno di serenità ed a volte di tempo, un anno
può essere un tempo adeguato ma sicuramente non lo è un breve semestre, nel
quale non solo ogni incertezza rischia di essere pagata carissima, ma lo
studente non ha neppure il respiro per prendere le misure con lo studio
universitario e dimostrare le proprie capacità, dispiegare le proprie ali.
L’università è un luogo di relazioni, una comunità di docenti e studenti,
un’esperienza di crescita e scambio, ma di tutto questo non c’è traccia nella
corsa in solitaria contro tutti che sembra destinata a svilupparsi tra settembre
e dicembre.
Esaminiamo però meglio il disegno della riforma, che peraltro richiede di essere
riempita di contenuti e di dettagli decisivi attraverso il decreto delegato.
Stando alla legge, gli studenti e le studentesse potranno iscriversi liberamente
al primo semestre dei corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria, per la
frequenza di percorsi che saranno attivati “secondo criteri di sostenibilità” da
parte dei diversi atenei. Spetta al decreto delegato definire “le discipline
qualificanti comuni che devono essere oggetto di insegnamento nel primo
semestre” (per i corsi in esame, ma anche, come detto, per tutti i corsi di
studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria), “garantendo
programmi uniformi e coordinati e l’armonizzazione dei piani di studio dei
suddetti corsi” (art. 2, c. 2, lett. c)). La legge entra quindi in profondità
nella definizione dei contenuti dei corsi universitari, prevedendo la fissazione
di “programmi uniformi e coordinati” (e poi di esami standardizzati), va detto
con buona pace della libertà di insegnamento sancita dall’art. 33 Cost., con una
sostanziale “licealizzazione”, quanto a capacità degli indirizzi ministeriali di
standardizzare i contenuti della didattica, del percorso, delle metodologie di
valutazione). Trattandosi di un riferimento espresso a un “semestre”, la
previsione di un semestre-breve, di cui si parla, pare in contraddizione con il
tenore testuale della delega.
La disposizione chiave del nuovo modello è però contenuta nella lett. d dello
stesso comma 2 dell’art. 2, che prevede che l’ammissione al secondo semestre dei
corsi di laurea magistrale di medicina, odontoiatria e veterinaria, “sia
subordinata al conseguimento di tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto
del primo semestre svolti secondo standard uniformi nonché alla collocazione in
posizione utile nella graduatoria di merito nazionale”. E’ chiaro che qui sta al
decreto attuativo definire una serie di aspetti importanti, relativi anzitutto a
come intendere e declinare la “standardizzazione” degli esami, ma anche forse a
come assicurare che la graduatoria non sia falsata, ad esempio, da una sede che
adottasse un atteggiamento troppo generoso con i propri studenti, con l’effetto
di posizionarli utilmente nella graduatoria nazionale. Là dove invece non
troverebbero posto gli studenti di sedi più rigorose e meno propense a
dispensare con larghezza trenta, e lodi. La risposta può essere un algoritmo di
normalizzazione, che tenga conto dei voti alla luce dei voti medi (ad esempio,
mettendo in posizione utile in graduatoria quelli collocati nel “primo quartile”
di ogni sede, o cose simili ma più raffinate di così), o forse addirittura in
una prova nazionale successiva agli esami (ma questo porterebbe con sé un
ritorno dei quiz, non ex ante ma ex post, così evidente da risultare
difficilmente camuffabile), o un esame con prove definite a livello centrale
(che però poterebbe di nuovo a quiz standard).
In assenza di un filtro definito a livello nazionale, le valutazioni saranno
rimesse alle sedi locali: è chiaro il rischio che si apre a favoritismi, un tema
non a caso molto presente nel discorso pubblico e richiamato ripetutamente in
sede di audizione (e d’altra parte l’abuso di ufficio non è neppure più reato,
quindi si può cogliere del metodo in questa follia). Sarebbero quindi i
professori del primo semestre, di fatto, a decidere chi diventerà dottore, e
sarà decisiva quindi la loro generosità. Considerato che i tre esami di avvio
saranno sicuramente impegnativi (si presume potrebbero essere Chimica generale,
Fisica generale e Biologia generale), e considerato che i programmi saranno
inevitabilmente molto estesi, è chiaro che il percorso presenta un grado di
aleatorietà molto alto anche a prescindere dai rischi di maladministration.
In questo percorso, è importante stringere alleanze (il che peraltro in
teledidattica sarebbe più difficile), ma alla fine si vince da soli: sono le
regole degli Hunger Games, d’altra parte. Chi supererà tutti gli esami potrà
entrare in graduatoria, e se avrà una media superiore al 29 probabilmente si
troverà in posizione utile. Chi non dovesse farcela potrà portare i suoi esami
nel suo percorso di studi “piano B”, individuato in sede di iscrizione, ma
questo solo se avrà superato tutti gli esami previsti. In sintesi, con un mezzo
passo falso si è fuori da medicina, con un passo falso si perdono anche gli
altri due esami superati che non possono essere conservati nel passaggio
all’altro percorso di ripiego. La cosa è priva di senso, ma espressamente
prevista dalla legge delega, che chiede di “garantire, nel caso di mancata
ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale [di medicina,
ecc.], il riconoscimento dei CFU conseguiti dagli studenti negli esami di
profitto del primo semestre relativi alle discipline qualificanti comuni […]
solo qualora siano stati conseguiti tutti i CFU stabiliti per gli esami di
profitto del primo semestre, ai fini del proseguimento, anche in sovrannumero,
in un diverso corso di studi […] da indicare come seconda scelta” (art. 2, c. 2,
lett. e)).
In Francia, dove il modello è sperimentato (ma nella forma meno frenetica di un
percorso annuale, in un contesto diverso da molti punti di vista), sono diffuse
le critiche a questo impianto e si parla della “generazione perduta” (o di
“macelleria generazionale”) riferendosi agli studenti che non ce l’hanno fatta:
perché è diverso non entrare e orientarsi diversamente prima dell’avvio del
proprio percorso di studi universitari, dall’essere ammessi in un tritacarne per
poi esserne cacciati perché non abbastanza duri, in gamba, vincenti, favoriti,
fortunati.
Il problema è dunque più profondo, legato non solo alle difficoltà nella
transizione (troppo rapida, in termini di insostenibilità/impossibilità), ma al
contenuto della riforma ed al suo possibile impatto sui suoi destinatari, i
ragazzi e le ragazze che aspirano a diventare medici (odontoiatri, e veterinari
sia pure qui con un rapporto più favorevole tra posti disponibili e numero di
aspiranti).
E’ il trionfo del paradigma performativo, una sorta di inno al liberismo
competitivo calato nelle dinamiche della formazione universitaria, di cui questo
percorso pare una caricatura più che una manifestazione: un semestre breve,
frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo di regole chiare ed esposto alla
volubilità degli uomini ed ai rischi della sorte. D’altra parte, sono queste le
leggi degli Hunger Games.
> “Felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!” (Effie
> Trinket)