Bari e la ricostruzione di Gaza
Nessuno parla più del Day After. A Gaza, l’unica cosa chiara è che il cessate il
fuoco sarà temporaneo. Che duri 60 o 90 giorni, Netanyahu ha già detto che
quello che è stato ottenuto finora, con Hamas ma anche con Hezbollah, con
l’Iran, con tutti, è stato ottenuto con la forza: e che continuerà così. Fino al
nuovo Medio Oriente. Ma per i palestinesi, in realtà, il Day After è già
iniziato.
Insieme all’Italia.
Il 16 luglio, a Bari c’è stato il primo meeting della Gaza Phoenix, la Gaza
Fenice: un team di esperti coordinato da Yara Salem, economista della World Bank
originaria di Nablus, che su richiesta di Yahya al-Sarraj, il sindaco di Gaza,
ha redatto un piano per la ricostruzione che a dicembre 2024 è stato discusso e
approvato all’unanimità da tutti e 25 i comuni della Striscia. Più che di un
piano, si tratta di una framework, l’equivalente di un nostro piano strategico:
da sviluppare, cioè, più in dettaglio. Settore a settore. E quindi, il team è
diventato ora una Expert Community con oltre cento specialisti di tutto il mondo
– europei, americani, arabi. E quelli del Politecnico di Bari, guidati dai suoi
due maggiori urbanisti, Dino Borri e Angela Barbanente, sono tra i più attivi:
ma in contatto costante con Gaza. Perché la Gaza Phoenix è un piano per Gaza: ma
soprattutto, di Gaza.
Dei vari piani proposti, 11 in tutto, è l’unico con i palestinesi protagonisti.
Negli altri, i palestinesi sono solo: “the population”.
O peggio: “the recipients”.
Sono solo lo sfondo di una ricostruzione pensata altrove.
Soprattutto, la Gaza Phoenix è l’unico piano in cui Gaza non è semplicemente uno
spazio. La Gaza Phoenix mira a ricostruire Gaza, sì, ma intesa come comunità:
ripristinando non solo la vita, ma il suo stile di vita, la sua identità, con
una ricostruzione sociale e culturale, oltre che materiale. Perché alla fine,
una città non è i suoi edifici: è quello che ci sta dentro. A essere
protagonisti, dunque, non sono solo i tecnici di Gaza, gli ingegneri, gli
architetti, gli agronomi: ma i cittadini. Consultati passo passo il più
possibile. E non a caso, l’obiezione, spesso, è che sia tutto troppo perfetto,
per un contesto così. Per una sfida titanica come quella di Gaza: che già prima
del 7 Ottobre, non aveva più acqua potabile. Solo acqua salata, acqua di mare. E
che adesso, 60mila morti dopo, ha una tonnellata di macerie a metro quadro.
Secondo l’ONU, il 70% delle strutture è irrecuperabile. Con le attuali
restrizioni, e cioè con le ispezioni alla frontiera sul cemento, e su tutto
quello che ha un potenziale uso militare, per la ricostruzione saranno necessari
80 anni. Senza, tra 15 sarebbero pronte le case – senza contare le scuole, gli
ospedali, le strade. Quanti, intanto, andranno via?
Perché il rischio è questo. E a prescindere da Netanyahu.
Esisterà ancora una Gaza da ricostruire?
In realtà, la Gaza Phoenix è forse il più pragmatico dei piani. Perché si basa
su interventi graduali, per certi versi anche minimi, ma immediati. Si basa
sull’idea che in guerra c’è un Day After, sì, un prima e un dopo, ma anche un
durante, in cui la vita non è normale, ma non è sospesa: e si va avanti, con
quello che si ha – materiali di recupero, materiali di scarto, rottami. Un
durante in cui i palestinesi non sono semplicemente vittime, non sono solo
morti, feriti, orfani: sono quelli che da soli, in questo momento, si stanno
occupando di tutto. E soprattutto, si basa sul riciclo. Il riciclo delle
macerie. Dei vari piani proposti, la Gaza Phoenix è l’unico che consente ai
palestinesi di restare dove sono.
Gli altri, non sono opera di urbanisti: ma di immobiliaristi.
Per cui la ricostruzione di Gaza è un business da 50 miliardi di dollari.
La Gaza Phoenix ridisegna Gaza, che si era estesa di casa in casa, alla rinfusa,
come una 15-minute city – una città in cui si ha tutto a non più di 15 minuti di
distanza. Riorganizzando la Striscia in tre fasce. Una sul mare, una centrale ad
alta densità edilizia, e una interna per l’agricoltura. Più una fascia
trasversale a fare da cerniera non solo fisica, ma sociale: un’area verde. Ma
tutto questo, cominciando subito. Cominciando da dei “survival nodes”, da degli
snodi di sopravvivenza che forniscano i servizi essenziali. Ed è qui che si è
inserito il Politecnico di Bari. Mentre il libanese Atif Kubursi, professore
Emerito di Economia alla McMaster University di Toronto, noto per un rapporto
ONU che negli anni ’80, anticipava la Primavera Araba, sta delineando i
possibili scenari di lungo periodo, Michele Mossa e Massimo La Scala, professore
di Idraulica il primo, e di Elettricità il secondo, si sono concentrati
sull’emergenza: su acqua e energia. Progettando dei sistemi mobili a
alimentazione solare per trattare le acque reflue, e per ricavare acqua potabile
dall’acqua di mare. In sinergia con l’Acquedotto Pugliese, che ha già operato a
Gaza. E ora, vorrebbe tornarci.
E soprattutto, in sinergia con la Regione Puglia.
In cui la Gaza Phoenix ha trovato la più inattesa degli alleati.
Per la Gaza Phoenix, Bari si è rivelata l’ambiente ideale per varie ragioni. Per
la mobilitazione del Politecnico, e dell’Istituto Agronomico Mediterraneo, che
con Gaza, e la West Bank, coopera da sempre, e per la Chiesa, che è la chiesa di
don Tonino Bello: ma anche per il clima sociale e culturale che si è creato
negli ultimi anni – con l’elezione di Michele Emiliano a sindaco, nel 2004, e
poi, nel 2005, di Nichi Vendola a presidente della Regione. Molti dei ventenni
di allora sono ora nelle istituzioni. E in più, Michele Emiliano, che è a fine
mandato, non ha problemi di consenso: e considera Gaza un imperativo morale.
La sera del 16 luglio, il suo staff era già in riunione per il prossimo meeting
di ottobre.
Per arrivare a ottobre presentando non solo progetti, ma risultati.
E Ramallah, intanto, non sta a guardare. Il 2 luglio l’economista Raja Khalidi
ha organizzato un convegno per un’analisi comparata dei piani proposti: da cui
la Gaza Phoenix emerge come l’opzione preferita dalla società civile. Perché in
realtà, come ogni iniziativa tecnica, la Gaza Phoenix è anche molto politica.
Non ha nessuno dietro. Né Hamas, né Fatah. Né la Turchia, o il Qatar o gli
Emirati o gli Stati Uniti. Ma ha esperti che contano, e tanto, in ognuno di
questi paesi. E un know-how senza rivali.
Quell’indipendenza che apparentemente, è la sua vulnerabilità, è il suo asso.
In collegamento da Gaza, il sindaco Yahya al-Sarraj ha chiuso dicendo: A
ottobre, sarò qui.
Di questi tempi, è già un traguardo.
Francesca Borri