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Vicenza: «Difendiamo i boschi contro una idea falsa di sviluppo»
L’8 luglio una grande mobilitazione ecologista ha impedito l’accesso a un’area boschiva che si vuole abbattere per fare spazio alla TAV tra Padova e Verona. Abbiamo intervistato attivist3 della rete “Boschi che resistono” per comprendere le origini e le prospettive della loro lotta. Potete raccontare cosa è il bosco di Ca’ Alte e come è nata l’azione della rete “Boschi che resistono” a Vicenza? È una area boschiva di 14mila metri quadrati nel cuore della città di Vicenza. Vogliono abbatterla per fare spazio a un’area di cantiere del progetto TAV. Inoltre è prevista la costruzione di una strada, un viadotto che scavalcherà la ferrovia. Siamo entrat3 in questo bosco e in un’altra area boschiva a 200 metri di distanza un anno fa, nel maggio 2024 per scongiurare l’abbattimento, che abbiamo fatto ritardare fino a oggi. In un anno si sono avvicinati molti gruppi a questa realtà, anche gruppi che hanno compreso la lezione di Luzerath in Germania e praticano forme di resistenza e disobbedienza civile che consistono nel presidiare l’area attrezzata con casette sugli alberi che ci aiuteranno a difendere questa meraviglia che una città inquinata come Vicenza non si può permettere di perdere. Il bosco di Ca’ Alte grazie allo studio svolto da agronomi forestali di fama nazionale è stato dichiarato un valore ecosistemico da preservare. I boschi sono riserve di carbonio che catturano la CO2 in atmosfera, ci aiutano a respirare perché producono ossigeno, abbattono le polveri sottili perché le assorbono, oltre a trattenere la pioggia nel caso di eventi piovosi, e in una città a rischio idrogeologico elevato ha notevole importanza. Inoltre hanno un ruolo nella diminuzione delle temperature vista la tendenza mondiale all’innalzamento. I boschi maturi come quello di Ca’ Alte, sviluppati nel corso di decenni, vanno assolutamente tutelati. Ci dicono che una volta finite le opere – si stima una decina di anni – ripristineranno l’area e pianteranno “piantine” di 1 o 2 anni di vita cresciute in serre in nord Europa, ma che sono molto fragili e muoiono facilmente. Inoltre la loro capacità di influire negli effetti di mitigazione sopra descritti non è comparabile a boschi che hanno decine di anni. Questo bosco è un avamposto di resistenza a questa assurda opera che è il TAV dentro la città. Cerchiamo di difendere questi meravigliosi esseri viventi, cioè questi boschi che resistono a una idea di sviluppo tanto falsa quanto folle. Mobilitazione a difesa del bosco dell’8 luglio 2025 L’8 luglio avete subito un forte tentativo di sgombero da parte delle forze dell’ordine, cosa è successo e quale è ora la situazione nel Bosco di Ca’ Alte? È stata una giornata molto intensa per l’assemblea dei Boschi e per la città di Vicenza, abbiamo coinvolto circa 250 persone per impedire lo sgombero. Dalle 5 del mattino eravamo pront3, le forze dell’ordine sono arrivate molto presto per convincerci ad abbandonare l’area e permettere ai lavori di Iricav – il general contractor per la TAV – di proseguire. Molte di noi erano sedute fuori dal cancello, persone di età differenti. Erano incatenati tra di loro e sono stati portati via a forza. Poi hanno iniziato a tirare giù il cancello e le barricate costruite. Alcune signore dell’assemblea dei boschi erano sopra alla barricata e sono state portate giù con il macchinario dei pompieri. In seguito alla seconda barricata si è resistito agli idranti con gli scudi. Nessun albero è stato abbattuto e questo era il nostro obiettivo. In questi giorni hanno iniziato a mettere colate di cemento all’ingresso. Stiamo dormendo nei boschi da un po’ per controllare cosa fanno ogni giorno operai e forze dell’ordine. Continueremo a vivere i boschi e a lottare contro il progetto TAV. Pensiamo che sia un progetto obsoleto che distrugge l’ambiente, la città e la salute. Siamo persone lavoratrici, pensionate, che studiano, alcune hanno preso le ferie per difendere il bosco. Tutto questo è un simbolo della nostra determinazione e crea molta gioia nello stare assieme, perché si sta creando una forte collettività. Immagine di “Boschi che resistono” Nell’opposizione alla distruzione di questo bosco contestate l’inutilità dell’opera TAV ma proponete anche alternative. Ci puoi spiegare perché ritenete quel tracciato ferroviario inutile e quali potrebbero essere altre opzioni? Chiediamo l’opzione zero, che significa l’ammodernamento della linea con le tecnologie più recenti ed efficienti, che permettono di aumentare la capacità della linea senza dover devastare la città. La valutazione della opzione zero è prevista dalla norma, e Rfi non l’ha fatto. L’Europa, quando parla di TAV, precisa di costruire linee nuove dove questo è possibile, ma dove ci sono dei vincoli territoriali/tipografici anche dovuti ai nuclei urbani prescrive l’ammodernamento e non linee nuove. Infatti nella vicina regione Friuli Venezia Giulia, per tutta la tratta di 140 km, da Venezia a Trieste, è stata adottata l’opzione zero. Questo dimostra che dove c’è la volontà politica, l’opzione zero è possibile. Noi lo chiediamo per i 10 km del tratto di Vicenza. La soluzione eviterebbe anche la costruzione dell’impattante salto de montone, un cavalcaferrovia alto 7 metri, in una zona rurale la cui vocazione è rimanere verde. L’opzione zero eviterebbe le opere complementari e compensative che di fatto sono tutte opere di cemento e asfalto, si eviterebbero 30 km di nuove strade a fronte di 10 km di ferrovie. Possiamo parlare di un progetto ferroviario con questi numeri? Le Conseguenze dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo ci dovrebbero indurre a ragionare su altri tipi di infrastrutture, opere verdi che mettano in sicurezza il territorio, che riducano le emissioni di CO2, che rendano le città più vivibili aumentando il verde non il cemento. Come continuerà durante l’estate la vostra lotta a Vicenza? Per il momento l’idea è continuare a proporre eventi culturali, sociali per far vivere i boschi a quante più persone possibili, di Vicenza ma non solo. È importante che la città sia consapevole di quello che vogliono dire questi boschi per chi vive in questi luoghi. Il presidio permanente continuerà al bosco di Ca’ Alte, quello più a rischio dove stanno facendo i lavori all’entrata. Continueremo a presidiare e continueremo a vivere i boschi e a resistere assieme a loro. Vedremo se le istituzioni nel frattempo si renderanno conto di quanto grave sia quello che sta accadendo. Immagini di copertina e nell’articolo di “Boschi che resistono” SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Vicenza: «Difendiamo i boschi contro una idea falsa di sviluppo» proviene da DINAMOpress.
Il clima cancellato dal regime di guerra
In un recente articolo sul magazine online “L’altra Montagna”, è scritto: «è ancora possibile in questa fase mondiale parlare di cambiamenti climatici?», ovvero è possibile continuare a preoccuparsi del tema in un momento in cui la guerra e il riarmo, il genocidio in Palestina e le politiche fasciste di Trump stanno sconvolgendo quotidianamente il mondo, risucchiando lo spazio mediatico e le nostre preoccupazioni? Il problema è complesso e più articolato, a mio parere, di quanto emerge in quell’articolo che comunque pone una questione reale. Indubbiamente esistono forti preoccupazioni sociali e politiche che riempiono la nostra attenzione e le nostre conversazioni, almeno dalla pandemia di COVID-19 in poi. Queste, spesso, non lasciano spazio all’ecologia e nell’ultimo anno e mezzo sono indubbiamente aumentate. Tuttavia, secondo un sondaggio condotto dall’Università di Oxford su un campione di 150mila persone del globo, in realtà la situazione reale è diversa. Sembra che all’80% della popolazione mondiale importi che i governi agiscano urgentemente per il clima, ma questa popolazione crede di non essere maggioranza e per questo rimane tendenzialmente in silenzio. > C’è una disparità significativa tra il Global Sud in cui l’89% delle persone > intervistate vorrebbe azioni da parte dei governi e il Global Nord in cui la > percentuale si abbassa al 66%, ma il tratto generale è comune a ogni > latitudine. Al di là del sondaggi, non si può negare che vi sia una riduzione oggettiva dell’impegno collettivo rispetto alle questioni climatiche così come va riscontrato un calo, negli ultimi due anni, della capacità dei movimenti ecologisti di costruire conflitto e protesta moltitudinaria. Questo elemento è la conseguenza, a sua volta, di diversi fattori tra i quali una ondata repressiva sistemica che li ha colpiti e la difficoltà di mantenere un piano mobilitativo prolungato nel tempo, per di più con ben pochi risultati ottenuti negli ultimi anni. Questi problemi si situano però in un contesto globale preoccupante che va forse inteso come il motivo centrale della difficoltà a parlare di ecologia al di fuori di cerchie di persone militanti e attive sul tema. La questione climatica è quasi completamente uscita dalla attenzione mediatica ed è stata totalmente derubricata nell’agenda politica dei governi. LA LOTTA DEL BLOCCO REAZIONARIO CONTRO L’ECOLOGIA L’arrivo dell’amministrazione Trump ha dato un colpo di grazia finale a un processo avviato già a seguito della COP di Glasgow del novembre 2021, quando si tenne la più grande manifestazione mondiale per il clima. Da quel momento in poi governi di ogni colore hanno tentato di disinnescare la crescente preoccupazione sociale per le sorti del pianeta. Nei primi anni dopo l’esplosione della protesta climatica (2019-2022) i partiti neoliberali hanno fatto credere che la transizione ecologica fosse una questione meramente tecnologica e hanno tentato di rispondere alle richieste delle piazze sbandierando, appunto, progressi tecnologici verdi. All’interno del Parlamento Europeo, in molti hanno sostenuto il Green New Deal solo in quell’ottica, con azioni rivolte al nucleare, alla cattura di CO2, alla produzione di batterie al litio, alla diffusione di autoelettriche e simili. In Italia ricordiamo, sostenitore aperto di questa tendenza è stato il duo Draghi-Cingolani. Con l’avanzata delle destre estreme si è arrivati alla situazione odierna in cui il collasso climatico è stato fatto semplicemente uscire dallo spazio politico e mediatico con combinazioni di negazionismo e di «ci dispiace ma non c’è alternativa all’esistente». Quest’ultima è ormai lo strumento principale nei contesti in cui il negazionismo sarebbe imbarazzante. Il primo è utilizzato da Trump, la seconda da von der Leyen. In questa parabola una cartina di tornasole è stata il modo in cui i media e i politici hanno trattato Greta Thunberg, dal tratteggiarla come eroina infantilizzandola nei primi anni, fino a ignorarla nel modo più totale quando ha espresso una posizione intersezionale di critica al capitalismo che ovviamente né liberali né fascisti sono disposti ad accettare. ADDIO AL GREEN NEW DEAL Il fatto che la politica stia liquidando l’emergenza climatica ha un peso e una gravità forse non pienamente compresi. La modalità con cui l’Europa sta rinunciando al piano di impegni ambientali del Green New Deal è alquanto impressionante considerando quanto quel piano è stato una delle bandiere della scorsa legislatura a Strasburgo. Colpo dopo colpo, quella cornice di norme, provvedimenti e tutele, ovviamente criticabile da sinistra ma tuttavia esistente, sta venendo meno per essere sostituito dalla competitività delle imprese. Due sono stati i fattori che oggi sanciscono la fine di quel piano. Il primo è la politica di riarmo in corso a livello continentale a seguito della guerra in Ucraina, che vede con una forte accelerazione da gennaio in poi, in questa fase ulteriore di regime di guerra in cui ci troviamo. Il secondo è la guerra commerciale scatenata da Trump attraverso la minaccia dei dazi. Arriviamo all’estremo paradosso attuale per cui, anziché ridurre la dipendenza dai fossili, ci stiamo impegnando ad aumentare l’acquisto di gas liquefatto statunitense pur di evitare i dazi. Aumentare l’importazione di gas, che è già a livelli record, significa condannare il nostro continente all’economia fossile per i prossimi anni, con gravi conseguenze ambientali e industriali di lungo periodo. > Il governo italiano a Bruxelles è tra quelli che più stanno lavorando alla > distruzione del Green New Deal, con Meloni che a ogni occasione accusa di > ambientalismo ideologico chi sostiene ancora quel piano. Ricordiamo che la distruzione del Green New Deal avviene con la stessa presidenza di Commissione della legislatura che lo aveva ideato, e con la medesima maggioranza, ma con un cambio del posizionamento di popolari e liberali e l’incapacità (o assenza di volontà) di difendere il piano da parte di socialisti e verdi. STATI UNITI FOSSILI Ciò che sta accadendo invece negli Stati Uniti dalla elezione di Trump in poi è forse ancora più grave. L’attacco dell’amministrazione verso qualunque politica ambientale è peggiore anche della più pessimistica previsione. Trump si è ritirato dall’accordo di Parigi, ha dato ordine di promuovere lo sfruttamento delle foreste nazionali, ha licenziato mille guardie forestali dei principali parchi statunitensi, ha concesso l’espansione esplorativa nelle settore gas e petrolio, ha detto di volersi liberare della agenzia di intervento contro i disastri naturali (la FEMA) e, ancora più grave, ha deciso un taglio così drastico ai finanziamenti della NOAA, l’agenzia di studio sul clima, che per molti analisti implica la fine dell’operatività reale della agenzia stessa. Inoltre ha rimosso la parola cambiamenti climatici dai documenti ufficiali degli organi governativi e ha bandito le cannucce di carta per favorire il ritorno di quelle di plastica. Il tutto in soli quattro mesi di tempo. Difficile che un governo europeo arrivi a mettere assieme una quantità di provvedimenti di questo tipo. Vero è però che il potenziale simbolico degli stessi è impressionante, in uno scenario mondiale in cui quello statunitense sta diventando un modello di governance, allineandosi ai governi che già rappresentano quella visione del mondo fascista e reazionaria come quello russo, ungherese o indiano. Secondo sciopero globale Friday for Future, foto Gaia Di Gioacchino LA CRISI CONTINUA AD AVANZARE In questo scenario, la COP a novembre 2025 a Belem, in Brasile, sulla carta molto importante per le decisioni che si dovrebbero prendere, sembra quasi svuotata di significato. Se già lo strumento si era rivelato molto poco efficace negli ultimi 10 anni, ora appare del tutto inconsistente. Non vedrà la presenza del maggior inquinatore globale, gli USA, e si terrà in un momento in cui vi è una costante delegittimazione degli organi di arbitrato globale costruiti negli anni dalle democrazie liberali, quale appunto è l’ ONU e quindi la COP. Nel frattempo, la crisi climatica richiederebbe invece interventi immediati e significativi, perché tutto sta galoppando rapidamente verso il collasso ecosistemico. I report che testimoniano questa evidenza sono numerosi anche se ormai dimenticati dai media mainstream. Uno di questi molto recente, dell’agenzia europea per il clima Copernicus relativo allo stato delle cose nel 2024, è particolarmente preoccupante, perché ci dice che in Europa l’emergenza climatica sta accelerando: i disastri causati da eventi atmosferici violenti sono sempre più diffusi, il clima è stato il più caldo di sempre, superando i record del 2023. Racconta poi in dettaglio altri fattori di preoccupazione come l’aumento della siccità in alcune aree, la crescita sproporzionata della portata dei fiumi in altre aree e il fatto che ghiacciai alpini e nordici stanno restringendosi e scomparendo rapidamente. In generale quello che colpisce chi studia il tema è che il riscaldamento globale non sta solo avanzando, lo sta facendo in modo molto più rapido del previsto, come avevamo scritto anche su Dinamo a inizio anno. Tra il 2021 e il 2024, in soli tre anni, si è registrato il riscaldamento del pianeta che la scienza prevedeva si sarebbe registrato in venti anni. FASCISMO DI FINE DEL MONDO In un suo recente e brillante articolo, Naomi Klein ha sottolineato un diverso posizionamento delle élite economico-politiche mondiali davanti alla crisi climatica e bellica. Nel primo mandato di Trump pareva che il loro piano fosse isolarsi in qualche isola dell’oceano senza tasse o difendersi da calamità naturali costruendo bunker in zone isolate. Oggi invece è evidente che il loro obiettivo è imporre un «fascismo di fine del mondo», all’interno delle democrazie liberali ormai stravolte dai governi di estrema destra. Secondo Klein «utilizzando e rinfrescando le loro antiche ambizioni e privilegi imperiali, sognano la creazione di governi minimali e di spartirsi il mondo in rifugi ipercapitalistici, liberi dalla democrazia, sotto il solo controllo della ricchezza sfrenata, protetti da soldati mercenari, serviti da Robot di Intelligenza artificiale e finanziati da criptomonete […] Il fascismo di fine del mondo è un oscuro fatalismo, un rifugio finale per coloro che trovano più facile celebrare la distruzione che immaginare un mondo senza suprematismo. […], l’apocalisse per loro non è il collasso; è la regolamentazione». Nello stesso articolo Klein conclude che «oggi stiamo opponendoci a una ideologia che ha abbandonato non solo le premesse e le promesse delle democrazie liberali, ma la possibilità stessa dell’esistenza condivisa nel nostro mondo». > Nell’orizzonte di questo fascismo di fine del mondo sono accettabili la morte > di masse enormi di popolazione, l’emergenza climatica che rende invivibili > vaste aree del pianeta, l’erezione di muri e fortezze pur di garantire la vita > a pochi. Per il fascismo di fine del mondo è accettabile agire per accelerare la distruzione del mondo come lo abbiamo conosciuto, perché questa non è più una spiacevole e remota conseguenza del radioso futuro che proponeva il neoliberismo, ma è diventata l’obiettivo vero e proprio. IL RANCORE DEL MASCHIO Ha suscitato attenzione una frase di JD Vance durante il suo discorso ai leader europei riuniti Monaco: «se la democrazia americana è sopravvissuta a dieci anni di critiche da parte di Greta Thunberg, voi potete gestire qualche mese di Elon Musk». In questa fase è contenuto molto dell’ideologia reazionaria che si sta imponendo nel mondo, di cui il regime statunitense è portavoce. La preoccupazione per l’ecologia mossa da una giovane donna diventa una critica da sopportare che mina alle proprie libertà, alla propria individualistica affermazione maschile e suprematista sul mondo. Greta è un fastidio da stigmatizzare in un regime governato da narcisisti, sessisti e psicopatici. Andrew Tate ha sempre attaccato Greta per la stessa ragione, così come Peter Thiel. Le elezioni americane hanno dimostrato quanto questa visione del mondo attraverso la lente del “rancore maschile” stia diventando egemonica e abbia avuto un ruolo chiave nella vittoria di Trump. > L’ apparato ideologico di questo nuovo blocco reazionario utilizza il > negazionismo climatico come strumento all’ affermazione di un nuovo machismo > per il quale ecologia e transfemminismo sono parimenti nemici.  Il grosso problema è che se si diffonde ulteriormente questo apparato ideologico – e non servono le maggioranze, bastano minoranze che abbiano potere simbolico ed egemonico – anche le scelte in materia ambientale dei governi del pianeta godranno di ampio consenso, nonostante esse siano contro la scienza e il senso comune. Finché governi reazionari come quello statunitense manterranno questo consenso sul piano culturale sarà ben difficile cambiare rotta e fermare la corsa accelerata verso il collasso ecosistemico. Un mondo dove l’ecologia è qualcosa di fastidioso da stigmatizzare o silenziare perché mina l’ego dei maschi è un mondo molto triste, ma è pure un mondo che semplicemente non ha futuro, se non quello distopico tratteggiato nel suo articolo da Klein. Forse è pure la forza egemonica di questo rancore maschile che scoraggia le persone ad agire e che impedisce di far pressione nei confronti dei governi. Una forza che contribuisce a rendere silenziosa la maggioranza della popolazione, pur essendo essa molto preoccupata per il futuro del pianeta, come emerge dal sondaggio dell’Università di Oxford citato all’inizio. Il potere che il rancore maschile agisce è una conferma, se mai necessaria, della necessità e dell’urgenza di una alleanza intersezionale tra ecologia radicale, lotta di classe e transfemminismo per opporsi a questo fascismo di fine del mondo. Prima che sia troppo tardi. Immagine di copertina di Renato Ferrantini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il clima cancellato dal regime di guerra proviene da DINAMOpress.
“La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: le ragioni per il cambiamento”
Riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato in Europa. Lo dice l’osservatorio Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra. Il cambiamento climatico continua a mietere record negativi uno dopo l’altro, mentre i nostri riflessi di reazione non sembrano abbastanza pronti. La crisi ambientale ci interroga, ci spinge a cercare nuove soluzioni e strategie su diversi fronti. Quale sia la portata della sfida climatica e le sue molteplici sfaccettature, tecnico-scientifiche, politiche, culturali, divulgative e filosofiche, è il cuore dell’analisi del fisico del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e docente universitario Antonello Pasini, autore di “La sfida climatica. Dalla scienza alla politica: le ragioni per il cambiamento”. L’intervista Professore, perché questo libro? “Rispetto ai precedenti è più ad ampio spettro, a partire dalla considerazione che il clima è un sistema complesso, con caratteristiche che ci espongono a sfide ambiti diversi. Quella filosofica, ovvero renderci conto che non siamo padroni del mondo ma una parte della rete. Quella comunicativa: è difficile far passare un messaggio scientifico senza che questo subisca distorsioni. E la sfida politica: serve un dialogo alla pari istituzionalizzato, perché la politica ha bisogno di soluzioni scientificamente fondate”. Dal fronte climatico e ambientale spesso arrivano cattive notizie, come l’anno del caldo record in Europa o la perdita di biodiversità. Qual è il cuore della sfida? “I cambiamenti climatici recenti, a differenza delle epoche precedenti, sono dovuti all’azione dell’uomo. Il riscaldamento è ubiquitario e sincrono a causa delle emissioni per l’uso dei combustibili fossili. Il cambiamento climatico impatta qualsiasi visione del futuro del mondo, non è problema ideologico ma reale. La sfida è cambiare il nostro modello di sviluppo, se lo non facessimo potremmo avere, a livello mondiale, disastrose perdite in termini di PIL e un’accentuazione delle diseguaglianze tra ricchi e poveri. Il nostro contributo come scienziati è fornire a chi governa gli strumenti per soluzioni adeguate”. Come farlo? “Se non cambiamo paradigma, pur con le soluzioni tecnologiche, o come diceva papa Francesco tecnocratiche, i problemi non finiranno. Se pensiamo di voler mantenere il modello di crescita infinita passando da una macchina a motore endotermico a due a motore elettrico, questo potrebbe non essere sostenibile. Dobbiamo cambiare gli stili di vita, dalla mobilità all’alimentazione. In città non si dovrebbe aver bisogno del veicolo privato, dovrebbero bastare i mezzi pubblici, la bici o il car sharing. Se a tavola seguissimo la dieta mediterranea, potremmo rispettare gli scenari di decarbonizzazione che ci indicano gli esperti. Dobbiamo leggere gli indicatori di felicità delle persone, non quelli sul benessere economico. La felicità la fa la relazione, non il possesso”. Nell’era della disinformazione e delle fake news, in cui le opinioni si polarizzano, come “vincere” la sfida di comunicare la scienza ai non addetti ai lavori? “In generale, si guarda il risultato scientifico con le lenti della propria visione del mondo e se non combaciano, si preferisce ignorare o manipolare quel dato. C’è anche il problema di una cultura che vede la scienza come una materia puramente tecnica e che quindi non può affrontare ii massimi sistemi. Inoltre, manca il confronto trasversale perché ognuno vive in una camera dell’eco dove le proprie idee vengono rafforzate. Nel libro ci sono una serie di proposte per ‘avvicinare’ gli scienziati alle persone”. Come cittadini, cosa possiamo fare? “Dobbiamo essere consapevoli che esiste il problema climatico: capire cosa succede, con quali effetti, e perché. E dobbiamo spingere sui politici, premiando chi ha a cuore il futuro dell’umanità, perché sono loro che devono gestire la transizione ecologica. E se nessuno lo fa, mettersi in gioco”. Redazione Italia