Le ragioni dello sperare

Comune-info - Thursday, October 23, 2025

Ci sono almeno tre insegnamenti di Ernst Bloch che illuminano il tempo che viviamo. Il primo: la speranza nasce dal buio, dal tragico che investe individui e popoli: il suo straordinario Il principio speranza lo scrive nell’esilio statunitense dal 1938 al 1949, gli anni del nazismo, del fascismo, della guerra e di Hiroshima. Il secondo: la speranza si impara, gli indizi possiamo cercarli nel presente, nelle relazioni e nella vita di ogni giorno, non solo nelle grandi cose. La speranza, ad esempio, si trova in quella galassia di micro-movimenti di base che in tutto il mondo offrono risposte a bisogni primari come la casa, la salute, la salvaguardia della bellezza. Il terzo: imparare a sperare è un compito arduo, richiede di contrastare la diffusa convinzione che la realtà sia immutabile anche se insopportabile. Su cosa far leva? Scrive Giuliana Chiaretti in Liberare la speranza (Enciclopediadelladonne.it): «Penso a quel sentimento di libertà che proviamo quando ci è data la possibilità di “una contromossa che contraddice il cattivo presente” e che per essere tale non avviene nell’isolamento, nel puro attivismo individuale, ma deve essere compiuta insieme ad altre e altri. Non si spera mai da soli…»

Mensa comunitaria nella striscia di Gaza (progetto SOS Gaza, promosso da Gaza Freestyle, Mutuo Soccorso Milano, Centro Vik-Vittorio Arrigoni, Acs- Associazione di Cooperazione e Solidarietà, Dis- Donne in Strada)

Le ragioni dello sperare

Accudisco il presente
come un ponte di corda
tra due abissi.
Ne rattoppo i fianchi.
Olio le funi,
testo la tenuta del fondo.
Non lo attraverso.
Osservo i passanti
mattino pomeriggio,,
prime ore della sera
tornano e vanno.
Di notte dormo,
sul ponte che vacilla,
spavaldo nelle intemperie.
(Chandra Candiani, Pane del bosco, 2020-2023)

La speranza ha a che fare con il presente, ne accompagna con il suo pathos la vita e la conoscenza, sollevandole e portandole al di là del qui ed ora, senza pretendere di liberarle interamente da quelle opacità che caratterizzano entrambe.

Parole che traggo da Il principio speranza di Ernst Bloch, punto di riferimento per queste pagine dedicate alle ragioni dello sperare. La traduzione italiana di quel libro sembra segnata da uno strano destino. Dopo essere stata a lungo attesa giungeva a noi nel 1994, proprio “nel momento sbagliato”, come ebbe a scrivere Remo Bodei, in apertura alla sua Introduzione al testo:

“Questo libro sembra giungere al lettore italiano nel momento sbagliato, quando le quotazioni del ‘principio speranza’ e dei connessi ideali di utopia si approssimano alla zero. Al sospetto diffuso che essi abbiano provocato immani disastri nel recente passato – proprio mentre promettevano il paradiso in terra – si accompagna la percezione disincantata di un futuro imprevedibile e disperatamente improgrammabile in direzione del meglio”.

Quegli anni, invece, erano il momento giusto, il momento in cui occorreva riaffermare le ragioni della speranza proprio nel senso di Bloch: come “affetto” e arricchita da una conoscenza sul presente storico. Lo stesso Bodei, concludendo l’introduzione, invitava il lettore a riscoprire quelle ragioni nell’opera di Bloch, e penso avesse in mente fossero da riscoprire anche nei cambiamenti che allungavano su di essa non poche ombre.

È innegabile che la fine del sogno in un mondo conciliato con sé stesso, l’esaurirsi della fiducia nelle “grandi promesse”, portassero a decretare l’inattualità del pensiero utopico di Bloch. Ma è in ogni pensiero inattuale, proprio lì “con tutta probabilità, che si annida il futuro, l’inespresso che attende il suo riscatto”:

“Interrogarsi sullo stato attuale degli studi blochiani in Italia significa, implicitamente, porsi l’interrogativo circa l’attualità stessa del filosofo della speranza. Domanda cui si potrebbe rispondere con una provocazione: se Bloch fosse attuale non avrebbe futuro. L’inattualità, infatti, è un elemento qualificante della filosofia della speranza, perché misura l’ostinatezza con cui certe idee riaffioreranno alla luce della storia tradendo, temporaneamente, il loro fluire carsico”.

Uno degli insegnamenti di Bloch è che la speranza nasce dal buio, dal tragico che investe individui e popoli.

Si dedica alla scrittura del testo negli anni dell’esilio americano, dal 1938 al 1949: gli anni dell’immenso disastro che sono stati il nazismo, il fascismo, la guerra e l’atomica Little boy su Hiroshima, anni che hanno sconvolto il mondo umano e naturale. È allora che Bloch disegna “la grande mappa di tutti i territori della speranza”, realizzando quella che ancora oggi è l’unica e vera “enciclopedia della speranza”.

Era il momento giusto

Il 1994 è il momento giusto per la pubblicazione di questo libro. Perché si è compiuta l’affermazione del neo-liberismo come “la nuova ragione del mondo”, la nuova promessa, “una ricetta di arricchimento generalizzato”. E un ben diverso principio punta a divenire egemone: il principio della concorrenza, “come forma generale delle attività di produzione e come principio base dell’azione dello Stato e di quella dell’individuo”.

L’affermazione del neoliberismo non riguarda solo l’economia. Le ricadute culturali e ideologiche vanno a toccare in profondità la vita relazionale e sociale delle persone, il loro “mondo dentro”. Profonda, infatti, è l’influenza e l’ampio consenso che la dottrina neoliberale conquista: un pensiero “unico”, un insieme di “verità” accettate come se fossero naturali. La migliore sintesi di tale pensiero si trova negli slogan pronunciati da Margaret Thachter: “la società non esiste, esistono solo gli individui”; “l’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”, “There Is No Alternative”. Slogan che sanno di assoluto, che evadono la domanda di senso, inneggiano al primato del mercato, alla soddisfazione dei bisogni singoli, alla competizione che rischia di assumere la forma estrema dell’arrivismo, alle aspirazioni particolaristiche che indeboliscono il senso dell’interesse generale e dei valori di solidarietà e giustizia, fino a quel momento considerati universali. Il successo dei principi e dei valori della dottrina neoliberista, il fatto che sia riuscita a incarnarsi in un’effettiva “forma di vita”, ci avverte che non è stato solo un inganno. È stata una risposta al disagio, alle ansie e paure di quei decenni; ha potuto far leva su emozioni e sentimenti, e sull’assenza-debolezza di alternative politiche. Al suo grande e iniziale successo contribuirono anche il desiderio di libertà, lo spirito anti-istituzionale e antiburocratico sostenuto dai movimenti degli anni Sessanta, che la dottrina neoliberale riprese, esaltò e interpretò a suo modo.

“Cambiare il cuore e l’anima”: Bloch aveva ben presente la forza della propaganda che muove sentimenti, fantasie ed emozioni, che mette in campo anche simboli e archetipi per ottenere consenso: un giacobinismo del mito, così definiva il nazionalsocialismo. Nell’articolo “Socrate e la propaganda”, scritto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, Bloch, cui non mancava il gusto dell’ironia, racconta un aneddoto circa la natura del desiderio in campo politico.

“Ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino. Il rappresentante del Kpd tiene un discorso estremamente complesso, tecnico e irto di cifre sulla caduta tendenziale del saggio di profitto in Marx, di cui nessuno capisce niente. Arriva il nazista e, usando sfacciatamente dei miti falsi, ma che toccano corde profonde dell’animo umano e di quello dei tedeschi in quel particolare momento storico (l’identità, l’appartenenza, la patria), parla di pugnalata alla schiena, di tradimento, ed esce alla fine trionfante dal confronto”.

Già prima della pubblicazione de Il principio speranza, Remo Bodei nel saggio La speranza dopo il tramonto delle speranze individuava alcuni tra i nodi fondamentali che stavano ridisegnando una “nuova forma di vita”: l’indebolimento delle esperienze acquisite, lo svanire del senso della tradizione e di un futuro laico che accolga una speranza progettuale. Muta il senso e il modo di vivere il presente; svincolato dalle tradizioni e dall’impegno di costruire un futuro, si colora di un particolare senso di libertà limitato a sperimentare le buone occasioni del momento, a godere dell’immediata soddisfazione dei propri desideri.

“Il soggiornare nel presente sembra talvolta avere un carattere predatorio, come se – nell’incertezza di tutte le cose – ci si affidasse a vantaggi casuali, per paura che situazioni analoghe non ritornino. Ciò porta in alcuni casi a concepire l’esistenza individuale come un bricolage di esperienze disparate, provvisorie e rivedibili. Si è sempre aperti all’irruzione del nuovo e dell’imprevisto (una volta che vengano preventivamente “normalizzanti”) ma meno coinvolti in progetti di costruzione dell’avvenire che non siano meramente tecnici”.

È stato scritto e detto tanto sull’epoca delle crescenti incertezze e delle passioni tristi, e su quel tempo – il futuro – che è venuto a mancare. “Il futuro è morto”, “capitalismo senza futuro”, “il demone della paura del futuro”. Un’ondata di parole, di libri, di saggi, di discorsi, sul venir meno della capacità di sperare e sulla fatica a trovare un senso al presente. Un’ondata simile scorre su youtube e ogni altro tipo di social network. Non è chiaro l’effetto di tutti questi discorsi, ma c’è il rischio che rafforzino la convinzione che non ci sia via d’uscita, e non rimanga altro che adattarsi alle cose così come stanno. Nei giovani risuonano spente le parole che alludono alla speranza: il senso del futuro è loro sfuggito di mano e barcolla sotto il peso dei tanti “chissà” che riguardano progetti e aspirazioni: chissà come, chissà dove, chissà quale, chissà quando.

There is (No) Alternative

Eppure, non è mancata nei decenni trascorsi fino ad oggi la ricerca di possibili alternative, in varie forme e ambiti, dove possiamo rintracciare segni di una speranza indebolita ma irrinunciabile per porre rimedi a questo cattivo presente.

Ci è stato consegnato un ricco bagaglio di riflessioni, di teorie e analisi in ambito umanistico e un “pensiero critico” adeguato a cogliere la realtà nella sua sostanza instabile e contraddittoria, quindi non necessaria né immutabile, un bagaglio di cui però non molti possono disporre, confinato com’è nel cosiddetto mondo della cultura.

Allo stesso modo poco sappiamo (anche perché non è facile averne un quadro completo) di quella galassia di micro-movimenti di base simili a sperimentazioni, a “pratiche del possibile”, la cui caratteristica è di affondare le radici nella concreta vita quotidiana per dare risposte a bisogni primari come la casa, la salute, l’inquinamento, la salvaguardia della bellezza o di parchi, orti e giardini. Sono come sprazzi di resistenza che vanno e vengono e che la politica finge di non vedere e forse non vede affatto.

Ci sono, anche, esempi d’alleanza tra iniziative dal basso, organizzazioni di cittadinanza attiva e centri di ricerca, con l’obiettivo di “fare rete”, di acquisire voce sui problemi, di progettare soluzioni e ottenere un riconoscimento pubblico, per arrivare, fra molte difficoltà, a incidere sulle scelte politiche. Sono cresciute le tensioni nell’ambito del lavoro e della sua precarizzazione; è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e delle famiglie povere; si sono acuiti i rischi ambientali, sanitari e alimentari, sono nati, si sono spenti e sono rinati movimenti internazionali e globali nella consapevolezza che un destino e un problema comune investano a livello planetario il tema dei beni comuni.

La risposta a questo accendersi e ribollire per un cambiamento è stata repressiva e violenta. Per il ristabilimento dell’ordine, e in nome della governabilità, lo Stato mostra il suo peggiore volto autoritario e securitario e agisce di conseguenza. Predomina una logica normativa globale, procedure coercitive che fanno paura, ma che non riescono ad attenuare le tensioni, non spengono l’azione dei movimenti né impediscono il riorganizzarsi delle proteste, le manifestazioni in difesa dei diritti umani, civili e sociali.

Per distrarre da tutto ciò e costruire un consenso attraverso la propaganda, si additano i nemici dell’ordine, gli attentatori a presunte integrità: gli immigrati, la comunità Lgbtq+, gli ambientalisti, i poveri. Come sempre nella storia, alta è l’efficacia della costruzione del nemico nell’opinione pubblica.

La sofferenza che colpisce i corpi e le vite delle popolazioni che abitano il pianeta è il terreno dove la speranza può configurarsi come lotta, senza cessare di andare incontro a incertezze delusioni sconfitte ed è la storia umana che ce ne mostra le sue alterne vicende, il suo non desistere, le tante narrazioni che l’hanno accompagnata.

Per questo non si approssimavano né si approssimano a zero le quotazioni della speranza nel senso di Bloch. Non la speranza fatalistica, passiva espressione di un’attesa inoperosa che genera illusioni, ma, come riafferma nelle pagine dedicate alla libertà di una contromossa che contraddice il cattivo presente, la speranza che ha una dimensione cognitiva e operativa, basata sul dinamismo della realtà:

“Pensare significa oltrepassare. Ma in modo che quanto è semplicemente presente non venga abbandonato, e non si scantoni. Non nelle sue ambasce e nemmeno nel movimento per uscirne. Non nelle cause dell’ambascia, e nemmeno nelle avvisaglie di svolta che vi maturano. Perciò un reale oltrepassamento non va mai a finire nel vuoto pneumatico di un davanti-a-noi, dedito solo a esaltazioni e descrizioni astratte”.

Pensare significa oltrepassare

“Pensare significa oltrepassare” è un’espressione che, all’inizio de Il principio speranza, mi ha colta di sorpresa, mentre sfogliavo per la prima volta le pagine del libro. Per questo, penso, l’ho inseguita e a sua volta mi ha inseguito nel procedere della lettura, come parola chiave per apprendere il fondamento della speranza blochiana.

Cercherò di chiarire il perché della mia emozione. Il fine è arrivare a dire perché annovero quella idea di Bloch tra le rag ioni per riscoprire il valore della speranza, anche oggi.

Partirei da come Bodei commenta questo punto soffermandosi in particolare sulla parola “oltrepassare”.

“In tutto l’arco dello scibile e in tutta l’estensione delle esperienze lo sguardo cerca acutamente di spingersi oltre l’immediatezza del percepito e del compreso, di penetrare l’‘ultravioletto’ attraverso un pensare (un co-agitare di concetti, immagini, fantasie) che è per sua natura un Überschein, ossia un ‘oltrepassare’ e, insieme, un ‘trasgredire’ che individua i contorni di una possibile ‘logica della speranza’”.

Imparare a sperare nel senso di Bloch è dunque imparare a “co-agitare”, ad agitare dentro di sé, il fantasticare, l’immaginare, in un gioco di associazioni a vari colori, fino ad arrivare al “concetto”. È un modo di pensare che lega e distingue nello stesso movimento, che mette insieme tutti questi elementi mutuamente interconnessi.

Preciserei (è importante per me) che è un movimento del corpo-mente, un punto d’incontro di fisicità sentimento intelletto: proprio per questo non è chiuso in sé stesso, tutto interiore, ma è aperto alla relazione e al mondo esterno. Non è naturale, è intriso di cultura, di memoria, trova un suo ordine, una sua forma comunicativa.

La speranza si impara, afferma Bloch, se ne cercano gli indizi nel presente, la si coglie e condivide nelle relazioni e la si ritrova nella vita quotidiana, nelle piccole cose, non solo nelle grandi.

La prima parte de Il principio speranza è dedicata a Piccoli sogni a occhi aperti e ci porta per mano attraverso le età della vita, esponendo come si configura la mancanza prima da bambini, poi da adolescenti, giovani e adulti fino a “quello che nella vecchiaia resta da desiderare”. Pagine da leggere, almeno il primo paragrafo Vuoto è l’inizio che comincia: “Mi desto. Fin dal primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brama, gridiamo. Non abbiamo quel che vogliamo”. E si conclude così: “La brama del meglio resta, per quanto a lungo il meglio venga impedito. Se il desiderio si avvera, esso in ogni caso sorprende”.

Tornando al punto in questione, a quel co-agitare, a quell’agire dentro di sé fantasie pensieri sensazioni, intenzionato anche all’oggetto desiderato, e dunque alla speranza come “atto orientativo di specie cognitiva”, possiamo dire che lì si compie il ricongiungimento tra ragione e sentimento; e non solo, perché (richiamo ancora Bodei) “un oltrepassare è insieme un trasgredire”.

La sorpresa per me sta esattamente qui: scoprire fin dalle prime pagine che il principio speranza blochiano è in un senso più generale una critica all’affermazione della razionalità tecnico-strumentale nei diversi ambiti della vita. Di questo il testo tratta: agire la speranza è un sottrarsi alla logica raziocinante che ha messo radici nella nostra mente, lasciando che il corpo vada da sé mentre le nostre idee obbediscono a un paradigma di disgiunzione. Il paradigma che logicamente procede con il connettivo “o-o” e materialmente pretende di barrare la connessione tra il pensare e il sentire, tra corpo e mente, che esiste ed è da tempo al centro di ferventi dibattiti in ogni campo del sapere e dei miei caldi interessi.

È un compito arduo; ci richiede di contrastare, come ho detto, la diffusa convinzione che la realtà sia immutabile anche se insopportabile; di vincere una certa fiacchezza – fiacchezza del corpo che è scoraggiamento dell’anima, mancato appagamento del desiderio – nel cercare le risorse scarse, ma indispensabili a fronteggiare frustrazioni e paure. Già il semplice pensare, ricondotto alla sua origine etimologica, è un “pesare”, un ponderare, un soppesare, un riflettere su quello che succede in noi e intorno a noi, compreso quello che non va bene: un “peso” difficile da portare.

L’inerzia e la passività che tolgono vigore e capacità di aspirare al meglio ci riportano all’inizio di queste pagine, all’alleanza tra forze economico-sociali protese alla conservazione dello status quo e interessate solo a quei cambiamenti atti alla propria riproduzione ed espansione.

Su che cosa far leva allora? Sul fatto che per gli esseri umani rinunciare alla speranza è insopportabile più di ogni altra cosa. Una conferma la troviamo nel fatto che – come scrive Bloch:

“Perfino l’inganno, per funzionare, deve lavorare suscitando speranza con lusinghe e corruzione. È proprio per questo che da tutti i pulpiti si continua a predicare la speranza, ma accuratamente rinchiusa nella pura interiorità o legata consolatoriamente all’aldilà”.

C’è anche qualcosa d’altro su cui far leva. Penso a quel sentimento di libertà che proviamo quando ci è data la possibilità di “una contromossa che contraddice il cattivo presente” e che per essere tale non avviene nell’isolamento, nel puro attivismo individuale, ma deve essere compiuta insieme ad altre e altri. Non si spera mai da soli.

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