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Gridare “Palestina libera” non è reato
La sentenza respinge il licenziamento della maschera alla Scala e obbliga al risarcimento delle mensilità non retribuite dal 4 maggio e dimostra quanto fosse fondata la nostra tesi di un provvedimento sproporzionato e di natura politica, non disciplinare. I giudici ci hanno dato ragione e lo hanno respinto. Ora Sala (presidente del CDA scaligero), Ortombina (sovrintendente che ha firmato il provvedimento)  e Amoruso (direttore del personale) dovrebbero offrire alla maschera licenziata un nuovo contratto, dato che il suo è scaduto a settembre. La vicenda ha fatto scalpore prodotto danni d’immagine enormi per il disastroso  tentativo di mettere a tacere il dissenso contro  la complicità del governo Meloni verso Israele nel genocidio dei palestinesi. Il tentativo –  della serie colpirne  uno per educarne cento – da parte della direzione è fallito nel peggiore dei modi davanti alla corte del Tribunale del Lavoro, che ha obbligato la fondazione a risarcire le mensilità non lavorate. Ora permettere di concludere  il suo ciclo di studi e continuare fino a quel giorno ad avere un contratto da maschera per noi sarebbe  il minimo sindacale da offrirle per chiudere il sipario su questa vicenda che ha fatto vergognare lavoratori,  pubblico e cittadini milanesi . Roberto  Ambrosio, Cub info e spettacolo Redazione Milano
No al genocidio, no all’ecocidio
Il 14 e il 15 novembre in tutto il Paese e in tanti luoghi del mondo (in concomitanza con l’assemblea COP30 che si svolge in Brasile, dove per l’ennesima volta verranno spese parole in favore del clima, che poi si tradurranno in scelte contrarie a ciò che bisognerebbe fare) le persone, i movimenti sociali, le associazioni, scenderanno nelle piazze e nelle strade per dire basta alle politiche di guerra e di devastazione ambientale, di riarmo e di arricchimento dei padroni dell’energia, di distruzione di vite e territori e rapina irreversibile delle risorse della Terra. La contesa feroce per le fonti energetiche fossili favorisce e prepara le guerre, le schiavitù e le ingiustizie; le spese per gli armamenti e i conflitti armati inquinano e desertificano irrimediabilmente vaste aeree, peggiorano drammaticamente la crisi climatica, la qualità dell’aria e delle acque, sottraggono cibo, salute, biodiversità ed equilibri naturali. La democrazia, la libertà di pensiero e di dissenso sono le vittime inevitabili della militarizzazione e delle politiche securitarie. Proponiamo a tutte le persone e i gruppi che lavorano per la giustizia e per la Pace, che stanno portando avanti le mobilitazioni per la Palestina, che contrastano il razzismo e le discriminazioni, di trovarsi insieme a noi e al mondo della giustizia climatica e ambientale VENERDI 14 NOVEMBRE alle 17,30 a Ravenna, in Piazza Andrea Costa per dire basta a chi nega il futuro e agire insieme per costruire un diverso modello di società. Coordinamento ravennate Per il Clima – Fuori dal Fossile Hanno fino ad ora aderito: FemminileMaschilePlurale, Casa delle Donne, Associazione Amiche e Amici Biblioteca Libertaria Armando Borghi, Donne in Nero, Campagna BDS, La Via Maestra-insieme per la Pace-insieme per la Costituzione, Legambiente Circolo Matelda – Ravenna, Sanitari per Gaza – Ravenna, Comitato per il Ritiro di ogni Autonomia Differenziata – Ravenna, Centro Sociale il Portoncino, LaborUP- Ravenna, Multipopolare Ravenna, Associazione Ambiente e Territorio, Partito della Rifondazione Comunista Federazione di Ravenna, Alleanza Verdi Sinistra, Movimento % Stelle, Ravenna in Comune, Potere al Popolo – Ravenna; inoltre le adesioni personali di Marisa Iannucci (docente), Marco Martinelli (drammaturgo), Andrea Maestri (avvocato e attivista per i diritti umani), Maria Paola Patuelli (docente), Matteo Valtancoli (Docente) Per informazioni e adesioni scrivere a: fuoridalfossile.coordravenna@gmail.com Redazione Romagna
Intervista a Ètienne Balibar: la soluzione politica dei due stati porrà fine alla guerra?
Proponiamo ai lettori di Presenza un’estratto dell’intervista del filosofo francese (integralmente leggibile in originale su blogs.mediapart.fr), pubblicata in versione ridotta sul blogmagazine NoteBlock. In particolare vogliamo rilanciare la risposta sul punto di domanda, di cui abbiamo già anticipato nel nostro titolo. Nello specifico a Balibar viene chiesto se ritiene ancora praticabile l’ipotesi dei “due stati” come soluzione del conflitto in Palestina. La questione è di straordinaria attualità alla luce dei recenti accordi posti in essere in quel di Sharm el Sheikh _ _____________________ No, non ho mai menzionato questa “soluzione”. O più precisamente, seguendo le orme di Edward Said, ho sempre sostenuto che l’alternativa della “soluzione dei due Stati” e della “soluzione dello Stato unico”, indipendentemente dalle fluttuazioni di significato che ciascuna di queste due espressioni comporta, è un’alternativa astratta, burocratica e mistificante. Il punto di vista da cui si deve adottare una “soluzione” di qualsiasi tipo si trova al di sotto di questa alternativa; è il principio di uguaglianza delle voci in materia, nonché dei diritti storici, o meglio, del diritto di esistere. Uguaglianza o niente.  Due popoli su una sola terra, uno dei quali schiaccia e distrugge l’altro, e l’altro dei quali può solo desiderare di sbarazzarsi del suo oppressore, tali sono i fatti dell’equazione storica che una “politica” (o cosmopolitica) da inventare, formulare, accettare dai suoi stessi attori e imporre al mondo deve risolvere. Questa è anche la conclusione di Rachid Khalidi (il cui libro, a dire il vero, è stato scritto prima del 7 ottobre 2023): ” forse tali cambiamenti [nella geopolitica globale e nella natura dei regimi politici locali] consentiranno ai palestinesi, insieme agli israeliani e ad altri in tutto il mondo che desiderano pace, stabilità e giustizia in Palestina, di tracciare una traiettoria diversa da quella dell’oppressione di un popolo da parte di un altro. Solo un percorso basato sull’uguaglianza e sulla giustizia è in grado di concludere la guerra centenaria in Palestina con una pace duratura, che porti con sé la liberazione che il popolo palestinese merita “. Il progetto attuale, nel quadro più generale del piano di annessione della Palestina, suggerisce un’altra riflessione: si tratta dell’incorporazione di una tendenza costitutiva dell’insediamento israeliano (favorito dal sionismo come ideologia dei “pionieri”) nel programma di artificializzazione del mondo che caratterizza ormai il modo di produzione capitalistico. Chiunque abbia viaggiato in Israele non può non essere colpito dal fatto che il “ritorno” a una terra dichiarata ancestrale (da cui gli ebrei sarebbero stati “esiliati”, non in un esilio metaforico o spirituale, ma in uno storico e materiale) non può realizzarsi che nella forma di una purificazione del territorio da tutto ciò che riflette la sua storia millenaria, inscrivendo nel paesaggio e nell’architettura delle città i segni della civiltà arabo-musulmana (e incidentalmente romana, cristiana, ottomana): occorre sostituirla con un ambiente “moderno” (non tanto “ebraico” del resto, perché una tale cultura in quanto tale non esiste, o potrebbe solo rimandare alla tradizione dei “ghetti” che è oggetto di sprezzante repressione) concepito e realizzato ex nihilo . Il sionismo “reale” (quello che si attua praticamente nella creazione della nazione israeliana e del suo territorio) è così poco sicuro, in realtà, del legame essenziale che mantiene con la terra di Palestina, che deve distruggere sistematicamente tutto ciò che porta e che ha in qualche modo generato, per impiantarvi i segni ostentati di una proprietà fittizia. Questa tendenza assume forme particolarmente brutali nella costruzione di colonie fortificate e strade riservate che attraversano la Cisgiordania. A Gaza, dove si combinano etnocidio, storicidio e domicide o urbicidio, si raggiunge lo stadio ultimo in cui anche la traccia delle tracce deve scomparire. Dopo gli edifici, le università e le moschee, i cimiteri vengono rasi al suolo sotto l’azione di bombe da 1.000 chili e giganteschi bulldozer. Ma a questo punto, la tendenza storica del sionismo si inserisce direttamente nel programma del capitalismo postindustriale (che altrove ho chiamato capitalismo assoluto): un capitalismo finanziario estrattivista che sfrutta le risorse della tecnologia rivoluzionata dall’Intelligenza Artificiale e dall’uso di materiali sintetici per deterritorializzare completamente l’habitat umano, “inventando” città del futuro slegate da alcun passato, in cui il comportamento degli individui è interamente governato dalla circolazione del denaro, dal telelavoro e dal consumo precondizionato. Naturalmente, ogni guerra, ogni massacro, ogni sterminio ha le sue cause specifiche, che affondano le radici in una storia singolare (e in particolare in una specifica figura di costruzione nazionale o coloniale, e nella resistenza che essa suscita, come vediamo in Ucraina così come in Palestina). Non deriva semplicemente dal fatto che gli armamenti accumulati su entrambi i lati di un confine (o di un super-confine) abbiano raggiunto la “massa critica”. Richiede materiale ideologico infiammabile e una situazione di impasse o squilibrio politico che spinga il “sovrano” (cioè lo Stato) a ricorrere ad “altri mezzi” (come la Russia per preservare il suo impero dopo il crollo del sistema sovietico). Ma questa sovradeterminazione non cancella l’effetto generale della tendenza alla militarizzazione delle economie e delle società che costituisce l’imperialismo. Anzi, la intensifica in momenti e momenti specifici. Accelera la formazione di quelli che vorrei chiamare “stati banditi” (come un tempo si parlava di stati canaglia ), sia produttori di armi che istigatori del loro uso massiccio. La loro caratteristica, tuttavia, è che, lungi dal trovarsi “outsider” rispetto alla società (internazionale) di altri stati, sono piuttosto assiduamente ricercati come partner e fornitori. Israele è chiaramente uno di questi (simmetrico alla Corea del Nord dall’altra parte del mondo?). D’altro canto, le nuove coalizioni di interessi caratteristiche dell’equilibrio di potere e della distribuzione dei “campi” nell’attuale spazio imperialista non coincidono più con le tradizionali geografie di demarcazione tra Occidente e Oriente. La più significativa è la strategia delineata a partire dagli “Accordi di Abramo” (2020), a cui l’Arabia Saudita stava chiaramente considerando di aderire alla vigilia del 7 ottobre 2023. Si tratta (o si trattava) di costituire una triplice alleanza in cui l’Europa non svolge più alcun ruolo fondamentale, ma i cui pilastri sarebbero la potenza militare americana, la finanza degli stati petroliferi del Golfo e la tecnologia israeliana, strettamente intrecciate tra loro. Questo è ciò che mi porta a proporre – in modo ipotetico e interrogativo – sia che l’Occidente cessi di coincidere con lo spazio dell’«uomo bianco occidentale», sia che Israele sia passato dallo status di protetto a quello di perno. In definitiva, si potrebbe dire: non è più l’Occidente che sostiene Israele, è Israele che detiene l’Occidente. Non credo nell’emergere di una “internazionale fascista”, almeno nel senso forte del termine, che presupporrebbe un piano per governare il mondo, un coordinamento di movimenti e leadership politiche nazionali. I rudimenti di tale coordinamento esistono, è vero (ad esempio, quando Putin sovvenziona l’estrema destra in Europa, o quando l’amministrazione Trump sostiene l’AfD in Germania, o cerca di impedire al Brasile di processare Bolsonaro per il suo tentativo di ribaltare le elezioni, simile al suo), ma sono incompatibili tra loro e ostacolati dall’effetto dei conflitti inter-imperialisti. Ciò che ha reso possibile la formazione di un’internazionale fascista negli anni ’20 e ’40 è stato il fatto che esisteva… un’internazionale comunista, di cui voleva essere l’antagonista, una rivoluzione di cui organizzava la controrivoluzione. Oggi non esiste un equivalente di questa configurazione “amico-nemico”. La rivendicazione del “nome ebraico” (come dice Milner, condensando in questa espressione di aver inventato il riferimento al patronimico con il segno dell’esistenza di una tradizione trasmessa dalle generazioni del “popolo ebraico”) mi sembra avere oggi una funzione strategica, non nel senso di una piccola operazione di divisione tra “campi” all’interno dell’ebraismo (qualunque estensione si dia a questa appartenenza), ma nel senso di una presa di posizione storicarispetto all’uso che una specifica politica (e istituzione) statale fa del nome ebraico . Si tratta dunque di un’operazione performativa, che non ha alcun significato in assoluto, ma solo nelle sue modalità e nel suo contesto. Il gesto ai miei occhi ammirevole a cui farò qui riferimento (tutto sommato) è quello dell’ex Presidente della Knesset, Avram Burg, che ha appena chiesto ufficialmente all’ amministrazione israeliana di togliergli la qualifica di “ebreo”, poiché questa è diventata in Israele (in virtù della decisione costituzionale votata nel 2018) un segno di appartenenza al “popolo dei padroni”, che lo distingue dai suoi sudditi e lo protegge da un destino simile al loro. Avram Burg, vivendo e parlando in Israele, non vuole essere considerato ebreo in tempi di genocidio, genocidio legittimato dalla “difesa del popolo ebraico”. Vivendo e parlando fuori da Israele , ma nel contesto del dibattito sul valore e la funzione del sionismo da cui dipende essenzialmente il nostro futuro politico, mi dichiaro “ebreo” in solidarietà con tutti gli ebrei del mondo che si oppongono al colonialismo israeliano protestando contro la sua appropriazione della rappresentanza degli ebrei in generale, e per contribuire con i mezzi a mia disposizione a mostrare l’importanza e la dignità della loro lotta. Allo stesso tempo, tengo molto a specificare che questa proclamazione si riferisce a un’ebraismo simbolico e non a un ebraismo religioso o comunitario (con il quale non ho alcun legame). E sottolineo che questa “appartenenza” simbolica è non esclusiva (in relazione a ogni sorta di altre, eventualmente “contrarie”), il che è, del resto, un buon criterio per distinguere tra “ebraicità” ed “ebraismo”. Preferisco quindi definirmi “ebreo” piuttosto che dire di essere “ebreo”. E preferisco dire che è una questione di appellativo piuttosto che di essere (proprio come Avram Burg, per le stesse ragioni storiche ma da un’altra prospettiva politico-culturale, rivendica l’appellativo di “non ebreo” senza cessare di essere chi era). Infine, salendo di un altro gradino nell’ordine delle rivendicazioni simboliche, mi definisco “ebreo” perché mi turba l’idea che i significati morali e perfino religiosi, e di conseguenza filosofici, portati nel corso della storia dall’ebraismo – dalle parole dei profeti d’Israele al discorso di quei rinnegati o eretici che hanno nutrito la mia formazione intellettuale (Montaigne, Spinoza, Marx, Rosa Luxemburg, Freud, Kafka, Benjamin, Arendt, Simone Weil, Derrida che è stato il mio maestro) – possano ormai essere associati, per lungo tempo e persino per sempre, non più alla resistenza alla persecuzione e alla ricerca dell’autonomia intellettuale, all’imperativo della morale e della giustizia e alla discussione dei suoi mezzi (compresa la rivoluzione), ma all’oppressione e allo sterminio di un altro popolo sotto l’invocazione di questo “nome”. Penso che l’onore del nome ebraico debba essere difeso da questa infamia, e che si debba esprimere una rivolta. Essa ha una portata universale, come l’ebraismo stesso, ma deve essere espressa in tutta la sua forza parlando in prima persona , perché è una convinzione interiore e una sfida rivolta agli altri. TRADUZIONE DI MICHELE AMBROGIO   Redazione Italia
Esondare, intervento di Sandro Mezzadra sui negoziati in corso a Sharm el-Sheikh
Pubblichiamo l’interessante contributo di Sandro Mezzadra – professore ordinario di Filosofia politica – con il quale, partendo dalle ‘quattro giornate internazionali ’ pro-Flotilla contro il genocidio, il docente dell’Università di Bologna prefigura per le sorti del  popolo palestinese il probabile scenario politico che, in quel di Sharm el-Sheikh, si starebbe determinando: in base alle attuali condizioni israelo-americane imposte, delineate nel piano di pacificazione trumpiana, quell’autodeterminazione – da oltre sessanta anni agognata nei territori palestinesi (definiti tali secondo le risoluzioni ONU deliberate) e per cui intere generazioni si sono legittimamente battute in opposizione all’occupazione sionista – rischierebbe seriamente oggi di essere del tutto cancellata dal novero delle possibilità[accì]   Esondazione, rottura degli argini: queste espressioni, che nel loro significato letterale annunciano distruzione, ben si prestano a catturare quello che abbiamo vissuto nelle quattro memorabili giornate di mobilitazione permanente dal momento in cui la Global Sumud Flotilla è stata bloccata in acque internazionali dalla marina militare di uno Stato genocida. Gioia e rabbia si sono combinate in proporzioni variabili in tutto il Paese, mentre una nuova composizione sociale prendeva le strade, bloccava porti, stazioni, autostrade. Una soglia è stata varcata, mentre l’Italia è tornata a dettare il ritmo della mobilitazione in Europa – da Berlino ad Amsterdam, da Madrid a Lisbona. “Volevamo liberare la Palestina”, si è letto su un cartello a Roma, “la Palestina ha liberato noi”. È certo che in questi giorni una moltitudine di ragazzi e ragazze, di donne e uomini ha visto nel genocidio di Gaza l’immagine riflessa dell’ingiustizia che in modi diversi domina il mondo in cui viviamo – e nella liberazione della Palestina il nuovo orizzonte di una lotta più generale, da articolare in ogni luogo in cui si vive, si lavora e si soffre. È una prima indicazione su come proseguire nei prossimi giorni la mobilitazione: occorre dare una prospettiva di distensione temporale al movimento di questi giorni, e questo è possibile soltanto coniugando la solidarietà con Gaza con un più generale radicamento nel quotidiano dell’iniziativa politica. E però non dimentichiamo che Gaza e la Palestina, pur nel loro potente farsi “globali”, continuano a essere luoghi ben precisi, in cui il genocidio non si ferma e la devastazione supera in intensità quella determinata da qualsiasi fiume sia mai esondato nella storia. Si calcola che, se ogni giorno uscissero da Gaza cento camion, le macerie non verrebbero sgombrate prima del 2050: tale è la violenza dell’urbicidio, della distruzione sistematica non solo delle vite ma anche delle condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita. Chi parla di “pace”, riferendosi al “piano Trump”, ha forse in mente le parole di Tacito: hanno fatto il deserto e lo chiamano pace. Nel momento in cui Hamas accetta lo scambio di ostaggi e prigionieri e pare che si riaprano i negoziati, è bene comunque chiarire che cosa è il “piano Trump”. L’indeterminatezza lo caratterizza a pieno vantaggio di Israele, su punti cruciali come il ritiro dell’esercito e il “disarmo di Hamas”. Le operazioni militari delle IDF possono riprendere in ogni momento (e infatti, subito dopo l’invito di Trump a sospenderle, sono continuati i bombardamenti aerei e di artiglieria e almeno undici palestinesi sono stati uccisi al momento in cui scrivo). Nulla si dice poi, nel piano, sulla Cisgiordania, dove la penetrazione dei coloni ha da tempo spezzato l’unità del territorio spingendo la popolazione palestinese in aree accerchiate che prefigurano veri e propri bantustan secondo la logica dell’apartheid. L’autodeterminazione palestinese viene così efficacemente cancellata dal novero delle possibilità. L’impronta coloniale del “piano Trump” è del resto cristallina, con la riproposizione della logica del “mandato” che istituì nel 1920 il controllo britannico sulla Palestina. Riproposizione, sì, ma anche aggiornamento: il “comitato tecnocratico e apolitico palestinese” a cui si intende assegnare “la gestione quotidiana dei servizi pubblici e delle municipalità per il popolo di Gaza” dovrebbe operare sotto “la vigilanza e la supervisione” di un Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump e con il coordinamento esecutivo di Tony Blair. Di quest’ultimo ricordiamo le certificate menzogne per giustificare la guerra in Iraq, ma anche l’attivismo degli ultimi anni come consulente di diversi governi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Ed è proprio il modello del Golfo che il “piano Trump” sembra prospettare per Gaza, una “zona economica speciale” con copiosi investimenti di capitali provenienti da quell’area e non solo. Non mancano gli ostacoli a questo piano (che prevederebbe tra l’altro la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita). Qui mi limito a mettere in evidenza la pretesa di “risolvere” il conflitto israelo-palestinese con una logica puramente di business, attraverso la semplice negazione dell’esistenza di una “questione palestinese” e la proposta per i gazawi – fatta eccezione per i pochi “tecnocrati” – dell’alternativa tra condizione servile ed esilio. Intervistato da Al Jazeera, Norman Finkelstein ha ricordato che fin dai tempi di Jimmy Carter quasi ogni Presidente statunitense ha presentato un piano per “la pace in Medio Oriente”: quello di Trump è il primo che non cita nessuna risoluzione delle Nazioni Unite, nessun accordo internazionale, muovendosi appunto in modo esclusivo sul piano del business – del movimento e della valorizzazione del capitale. Si può vedere in questo un momento della più generale congiuntura di guerra in cui stiamo vivendo, dove la riorganizzazione degli spazi economici è una posta in gioco cruciale. Ma per quel che riguarda il movimento che ha dato vita alle quattro memorabili giornate appena trascorse, i compiti dovrebbero essere piuttosto chiari, anche se tutt’altro che facili da tradurre in pratica: la lotta contro il genocidio, per la Palestina libera, deve approfondirsi e andare al di là delle grandi manifestazioni che restano comunque necessarie. Mentre il cessate il fuoco è un obiettivo che deve essere perseguito con ogni mezzo necessario, sabotare il “piano Trump” e aprire una prospettiva di vera pace significa denunciare e boicottare le mille forme di complicità con la macchina di morte di Israele che esistono in Italia e in Europa. È un appello all’intelligenza collettiva, al lavoro di inchiesta e alla capacità di intervenire in modi efficaci. Pur travolti dall’esondazione del movimento la scorsa settimana, siamo consapevoli della disparità delle forze in campo, tanto a livello interno quanto a livello internazionale; conosciamo le difficoltà che sempre si incontrano quando l’esplosione di un movimento di massa deve essere tradotta in una forza politica capace di durare nel tempo; e sappiamo bene soprattutto che la partita non si gioca certo soltanto sul piano italiano. Ma quel che è successo qui – tra l’altro, due scioperi generali politici in dieci giorni – può certo funzionare come indicazione generale, in Europa come altrove. Se il movimento continuerà a esondare, uscendo dai confini nazionali, anche la disparità delle forze comincerà a essere messa in discussione.   Redazione Palermo
Si è si ripetuta a Cagliari la manifestazione Can’t stay silent, la corsa dell’indignazione per dire Stop al genocidio
Ieri, 19 settembre 2025, si è si ripetuta a Cagliari la manifestazione Can’t stay silent, “La corsa dell’indignazione”. «Con poco preavviso – diceva il comunicato stampa del 17 settembre – perché non c’è più tempo: Israele accelera la devastazione per “finire il lavoro”». La convocazione a scendere in piazza questa volta è stata diramata dal Comitato “Can’t stay silent”, dal Comitato sardo di solidarietà con la Palestina e dall’Associazione Amicizia Sardegna Palestina. Una manifestazione davvero imponente che ha visto circa 10 mila persone, tra cui molti/e giovani, famiglie con bambini/e, partecipare al corteo per dire ancora una volta “Stop al genocidio!” del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Perché di questo si tratta: quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza sotto gli occhi di tutte le nazioni e che la Commissione indipendente dell’Onu ha dichiarato essere  un genocidio in atto. Parola questa che gran parte degli intellettuali italiani non vuole usare, ma che descrive la realtà che sotto gli occhi di tutti: uccisioni di decine di migliaia di civili sotto i bombardamenti, procurata carestia sull’intera Striscia, morti per fame, a causa di mancanza di medicinali, sfollamento forzato di 450 mila persone da Gaza city. E non solo genocidio, ma ecocidio e archeocidio con la distruzione totale non solo delle abitazioni, di scuole, ospedali, moschee, ma anche delle vestigie del passato, della storia millenaria di Gaza. Le persone si sono radunate in Via Roma davanti al Palazzo del Consiglio Regionale, da cui è partito il corteo intorno alle 19:00 che ha percorso tutta la strada fino al congiungimento di Viale Trieste, da cui ha raggiunto il Corso Vittorio Emanuele fino a Piazza Yenne,  e salendo per Via Manno ha confluito in Piazza Costituzione.  Una manifestazione composta, ma partecipata con slogan ripetuti e anche cantati per la presenza nel corteo del gruppo musicale “La banda sbandati”: Free free Palestine!, Palestina libera!, Gaza libera!, Siamo tutti/e palestinesi! A ripetere gli slogan con tutta la voce in gola anche bambini e bambine. Non siamo ancora diventati ciechi per non vedere, né sordi per non ascoltare il dolore di famiglie martoriate, di bambini e bambine strappati alla vita, resi invalidi e orfani per sempre, né muti per non gridare “Stop al massacro!”. Piazza Costituzione, scalinate del Bastione di Saint Rémy – Foto di Pierpaolo Loi Arrivati in piazza Costituzione, sulle scalinate del Bastione di Saint Rémy, si sono succeduti gli interventi conclusivi. Ecco il testo del breve ma accorato intervento di Vania Erby, portavoce del Comitato Can’t stay silent: «Ringrazio anche oggi tutti voi per essere qui al fianco dei fratelli palestinesi. Abbiamo scelto le parole “non c’è più tempo” perché sotto i nostri occhi si sta consumando una tragedia che sta buttando l’intera umanità in un baratro senza fine. Non credo che il mondo potrà più essere lo stesso dopo queste atroci barbarie. Abbiamo capito che chi ci governa non ci vuole ascoltare, ma vuole continuare a perseguire logiche di guerra e di profitto.  Il mondo, quello che pulsa, quello che ancora ha un’anima, noi che siamo qui oggi non ci arrendiamo, non chiudiamo gli occhi e continueremo ad urlare che non possiamo accettare che un popolo venga sterminato. Noi non vogliamo rimanere impotenti. Cerchiamo di costruire pace intorno a noi, perché la pace come la guerra è contagiosa, ogni nostra azione conta anche nella quotidianità delle nostre vite. Giorno dopo giorno le piazze del mondo stanno prendendo coraggio e il messaggio che oggi dobbiamo mandare chiaro ai nostri governanti è che noi non ci faremo dividere e che continueremo a stare dalla parte di chi ingiustamente viene perseguitato. Rimaniamo uniti, rimaniamo umani ….continuiamo a credere che una Palestina libera potrà esistere. Palestina libera!». Il presidente dell’Associazione Amicizia Sardegna Palestina, dott. Fawzi Ismail, sempre in prima linea, ha ribadito ancora volta che il popolo palestinese non abbandonerà la sua terra. La grande folla che camminato per le strade di Cagliari testimonia – come succede in tante città italiane, europee e del Mondo intero – che i popoli non seguono i loro governi complici e chiedono di porre fine a questo immane crimine contro l’umanità, a questo ennesimo genocidio. E non a parole, come quando si propone il riconoscimento di uno Stato palestinese come un diritto concesso, mentre è il diritto primario di un popolo che vive nella propria terra. Infine, la richiesta alle alle istituzioni regionali di prendere posizione attraverso azioni concrete per porre fine al massacro, per es. chiudere il Porto di Cagliari al traffico di armi della fabbrica RWM di Domusnovas-Iglesias. Al microfono Fawzi Ismail – Foto di Pierpaolo Loi Non solo a Cagliari, ma anche in altre città della Sardegna, in queste ancora calde giornate di fine estate, tante persone si stanno mobilitando per testimoniare la loro solidarietà al popolo palestinese e la vicinanza alla Global Sumud Flotilla, finalmente in viaggio verso la Striscia di Gaza per rompere l’assedio e portare viveri e medicinale alla popolazione martoriata. Pierpaolo Loi
“Voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti”
Grandissimo intervento del Cardinale e Arcivescovo di Napoli: Domenico Battaglia su Gaza e contro tutte le guerre: “E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate – se ci riuscite – la locuzione «obiettivi strategici»”. L’Onu nel frattempo prende le distanze dai piani di Israele di deportare la popolazione di Gaza. Il portavoce dell’UNR-A ha affermato: “Non parteciperemo ad alcun progetto volto a costringere i residenti di Gaza a sfollare. I progetti israeliani mirano a deportare i palestinesi, non semplicemente a trasferirli nella Striscia meridionale di Gaza. L’Agenzia non parteciperà ad alcun progetto volto a deportare coercitivamente i palestinesi al di fuori della Striscia.” Poi è entrato nel merito dei piani israeliani smascherando l’operazione criminale in corso: “Se l’esercito di occupazione insiste nel mantenere le tende a Rafah, sta spianando la strada al progetto della cosiddetta ‘città umanitaria’. Israele cerca di limitare gli sforzi umanitari e di costringere le agenzie delle Nazioni Unite a operare attraverso tale visione israeliana restrittiva. Non supervisioneremo alcuna area istituita dall’esercito di occupazione come preludio alla deportazione degli abitanti palestinesi di Gaza”. In Israele intanto è in corso, oggi domenica, una grande mobilitazione in oltre 350 località per contestare la politica attendista di Netanyahu nella trattativa per lo scambio di prigionieri. Uno sciopero generale per chiedere la firma di un cessate il fuoco a Gaza e riportare a casa gli ostaggi. In Italia, i sanitari prendono una chiara posizione contro il genocidio. “Il nostro obiettivo, come Sanitari per Gaza, è far prendere posizione a tutte le Istituzioni contro il genocidio in corso e boicottarne ogni forma di complicità. Perché fermi il genocidio, Israele dovrà percepire l’isolamento e la pressione politica ed economica da parte della comunità internazionale”. Migliaia di iniziative locali vengono organizzate per chiedere il blocco dell’esportazione di armi in Israele e di rompere il blocco degli aiuti a Gaza… ANBAMED
Genocidio palestinese: l’urlo della società civile per svegliare i governi occidentali
Mentre a Gaza si continua incessantemente a morire sotto le bombe, o sotto i tiri d’artiglieria durante la fila per un po’ di acqua e cibo, i governi europei tacciono, o si limitano ad azioni formali di condanna. Ciò mentre quello israeliano, per voce del primo ministro Netanyahu, già accusato di crimini di guerra, annuncia l’invasione totale della striscia. Avevamo l’impressione di aver già visto il peggio, ma il regime guerrafondaio di Israele ci ricorda che al peggio non c’è mai fine. Ma se i governi occidentali tentennano, o fingono di non vedere e sentire, sono i popoli ad iniziare ad alzare la voce e chiedere la fine di questa guerra genocida. E’ la società civile internazionale a lanciare, sempre più forte, il suo grido di dolore e di rabbia. Dappertutto nel mondo si susseguono manifestazioni, marce, sit-in, iniziative culturali e forti azioni simboliche, per scuotere l’inerzia delle istituzioni su quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania: l’annientamento di un popolo. Sabato 9 agosto, in una Cagliari gremita di turisti, un affollato e rumoroso corteo ha sfilato per le vie del centro per chiedere la fine del massacro e il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza e dall’intera Palestina. La città, avvolta nel clima vacanziero d’agosto, è stata scossa da un’onda umana fragorosa. Diverse centinaia di persone di tutte le età, fra cui numerosi giovani e giovanissimi, hanno attraversato le strade dei negozi e dei ristoranti, sbattendo pentole, agitando campanacci, soffiando fischietti ed urlando forte: Palestina libera! Italia complice del genocidio! All’appello, lanciato dai gruppi di solidarietà con la Palestina e dall’associazione Amicizia Sardegna Palestina, la città ha quindi risposto con una presenza numerosa e decisa, che ha finito col contagiare anche diversi cagliaritani di passaggio e molti turisti che, seduti a tavolino, o in giro per locali, hanno applaudito al passaggio assordante dei manifestanti, mostrando quanto la solidarietà con questo sventurato popolo oppresso stia crescendo rapidamente in tutto il mondo. Cagliari, Piazza Yenne (Foto di Carlo Bellisai) Al termine del percorso, nella piazza Yenne, si sono susseguiti alcuni interventi che hanno visto protagonisti soprattutto giovani e studenti. Diversi i temi toccati: dall’inerzia del governo italiano, che continua a fornire armi e appoggio allo Stato sionista, alla necessità di isolare Israele dal contesto internazionale, boicottandolo economicamente e sospendendo gli scambi scientifici e culturali. E’ stato ancora una volta ricordato il coinvolgimento della Sardegna nella preparazione delle guerre, attraverso le sempre più continue esercitazioni militari che partono dai poligoni disseminati nell’isola, ma anche tramite la mortifera produzione di armamenti nella fabbrica RWM di Domusnovas-Iglesias, armamenti che vanno a incrementare la potenza di fuoco nei vari teatri di guerra, contribuendo allo sterminio di civili innocenti. Tra gli ultimi a prendere la parola, uno studente ha fatto appello all’importanza dell’unità d’intenti che, al di là delle diversità politiche dei vari gruppi e associazioni, sola può far continuare a crescere il movimento che si oppone alla guerra ed al rilancio globale della corsa agli armamenti. Con la consapevolezza che il riarmo, europeo e mondiale, oltre che essere foriero di nuove guerre e distruzioni, non può non pesare sull’economia e portare ad un’ulteriore riduzione dei servizi sociali, della sanità e dell’istruzione. Si è così conclusa una manifestazione importante, che ha visto una partecipazione numerosa, tenuto conto del periodo vacanziero, ma che soprattutto ha saputo creare un forte impatto emotivo ed una notevole capacità di coinvolgimento: il popolo sardo non ci sta a chiudere gli occhi davanti alla consumazione di un genocidio.         Carlo Bellisai
Manifesto per una Palestina libera dal genocidio e dall’apartheid
Pubblichiamo di seguito il “Manifesto per una Palestina libera dal genocidio e dall’apartheid” scritto dall’Associazione AEDO ed ideato durante il Festival Transitus. Un Manifesto importante, urgente e che merita la massima diffusione. Prendiamo le distanze e denunciamo la politica genocida del governo sionista israeliano che sta tentando di annientare con ogni mezzo il potere di autodeterminazione non solo del popolo palestinese ma anche del popolo israeliano; quest’ultimo, quando diverrà consapevole delle nefandezze di cui si sta rendendo complice avallando, da decenni, le politiche di apartheid, avrà una eredità morale e materiale molto pesante da integrare. Rischierà di essere sopraffatto dalla sofferenza, dal senso di contraddizione e dal peso della verità. Sarà necessario che l’umanità trovi la via e le forme per accogliere e aiutare a trasformare questi contenuti, che attualmente sono ancora rimossi. Attraverso questa via difficile ma liberante sorgerà l’alba di un nuovo giorno per tutti i popoli della Terra! È necessario che ci impegniamo a dare speranza e sostegno concreto al popolo palestinese, straziato nel corpo, nel cuore e nell’animo, sradicato dalla terra che abita da secoli, vessato con sadismo e cinismo in ogni modo possibile, usato come cavia per la sperimentazione di nuove armi e nuovi sistemi di sorveglianza e controllo. È necessario che ci impegniamo a chiedere quotidianamente e ovunque la cessazione di ogni forma di violazione delle vite palestinesi, la restituzione di ciò che è stato indebitamente sottratto, un processo di giustizia riparativa e politiche che accompagnino il popolo palestinese nel rivendicare il proprio diritto naturale ad esistere e abitare, a essere riconosciuto, a prosperare e a coltivare la speranza nel futuro, esattamente come ogni altro popolo della Terra. Sentiamo essenziale non abbandonarci alla disillusione e alla disperazione, attraverso l’esercizio quotidiano della parola del Cuore e del senso di umanità e solidarietà. Che i nostri atti siano intrisi di bontà e non di buonismo, di fiducia piena nella possibilità di “potere” e di “riuscire” ad attraversare l’immensa catastrofe che stiamo vivendo, e di rinascere sentendo finalmente che la vita degli altri ci riguarda direttamente, e che non fa differenza che questa vita si dispiega lontana o vicina a noi fisicamente. Sentire che l’umanità che batte nel profondo dell’altr@ è interconnessa con noi, e con ogni forma di vita, ha a che fare con il Risveglio, di cui abbiamo assoluta necessità per attraversare la tempesta e non lasciarci scorare dall’idea che non vi è via d’uscita. Silo, un mistico e filosofo argentino, ci ha lasciato un messaggio di speranza: “Ama la realtà che costruisci, e neanche la morte fermerà il tuo volo!” Sentiamo essenziale approfondire nelle nostre vite la riflessione sulla connessione tra i nostri “privilegi da occidentali,” l’economia del genocidio e la struttura del colonialismo d’insediamento in Palestina. Ci impegniamo ad aderire e promuovere pratiche di boicottaggio e disinvestimento al fine di indebolire l’economia del genocidio e di esserne sempre meno complici. Isoliamo chi guadagna dal genocidio e si arricchisce con l’annientamento di vite umane! Ciascun@ di noi ha un immenso potere e una sconfinata libertà; non cediamoli ma esercitiamoli! Che le nostre azioni parlino per noi! Una società più umana è una società più equa! Prendiamo distanza dalle decisioni del governo italiano di continuare a fare affari con lo stato coloniale sionista che sta portando Israele all’autodistruzione. Denunciamo il collaborazionismo del governo italiano e dei governi europei ed extra europei allineati con lo stato coloniale sionista. Troviamo che la condotta disumana e irresponsabile di questi governi sia lontana anni luce dalla volontà di Pace dei popoli. Diciamo a questi governi: riconosciamo che ormai da troppo tempo le vostre politiche non ci rappresentano, bensì ci stanno conducendo alla distruzione. La nostra voce risuona di Pace, ci opponiamo alla vostra cieca corsa agli armamenti! Dal nostro Cuore sorge il grido: “Non in nostro nome, in passato, oggi e nel futuro! La nonviolenza, il dialogo, il rispetto e la diplomazia per la risoluzione delle controversie sono la via! I popoli del mondo rivendicano la Pace!” Sosteniamo il rapporto “Da economia dell’occupazione a economia del genocidio” di Francesca Albanese, relatrice speciale per i territori palestinesi occupati dal 1967, e di coloro che hanno collaborato alla sua ricerca e stesura. Ci impegniamo a diffondere i contenuti del rapporto affinché la comunità prenda consapevolezza della complicità del mondo del business con lo stato coloniale d’Israele, e degli interessi economico-finanziari che alimentano il genocidio e l’apartheid in Palestina, a danno delle bambine e dei bambini e di tutto il popolo palestinese. Dal rapporto leggiamo: “Citando la segregazione razziale e l’apartheid, le violazioni del diritto all’autodeterminazione e il divieto dell’uso della forza, la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha affermato in modo inequivocabile l’illegalità della presenza di Israele, compresi l’esercito, le colonie, le infrastrutture e il controllo delle risorse. Inoltre, le atrocità commesse dall’ottobre 2023 hanno dato il via a procedimenti per genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia e per crimini di guerra e contro l’umanità davanti alla Corte penale internazionale. La Corte internazionale di giustizia ha ordinato a Israele di smettere di creare condizioni che distruggono la vita e, nella causa Nicaragua contro Germania, ha ricordato agli Stati l’obbligo internazionale di evitare il trasferimento di armi che potrebbero essere utilizzate per violare le convenzioni internazionali. Queste decisioni impongono alle entità aziendali la responsabilità prima facie di non impegnarsi e/o di ritirarsi totalmente e incondizionatamente da qualsiasi rapporto associato, e di garantire che qualsiasi impegno con i palestinesi consenta la loro autodeterminazione”. Chiediamo che vengano immediatamente attuate le richieste della Corte Internazionale di Giustizia nei confronti del governo sionista israeliano. Chiediamo che abbiano seguito i procedimenti nei confronti del governo sionista israeliano incriminato per genocidio dalla Corte internazionale di giustizia, e per crimini di guerra e contro l’umanità dalla Corte penale internazionale. Esprimiamo solidarietà alla relatrice speciale Francesca Albanese e alle sue collaboratrici e collaboratori, e immensa gratitudine per lo sforzo congiunto compiuto per mettere a conoscenza il mondo del tentativo di rimozione del popolo palestinese e dell’agghiacciante strategia denominata “colonialismo d’insediamento”, attraverso la quale i governi sionisti israeliani che si sono susseguiti continuano a tentare di cancellare l’esistenza del popolo palestinese, distruggere la spiritualità culturale della Palestina e usurparne le ricchezze a proprio ed esclusivo vantaggio, attraverso l’appoggio di governi e imprese locali ed estere. L’atteggiamento mafioso e arrogante esercitato dal governo degli Stati Uniti d’America nei confronti di Francesca Albanese non fa nient’altro che avvalorare quanto documentato nel rapporto e dimostrare, per l’ennesima volta, l’immenso stato di debolezza e decadimento in cui versa ogni governo che sceglie la via della minaccia e dell’intimidazione a quella della diplomazia, delle argomentazioni e del confronto. Ci indigna che le politiche arroganti e bulle di tali governi vengano ancora definite democratiche dalla comunità internazionale, e che tali governi continuino ad auto attribuirsi il compito di “esportare la democrazia” attraverso guerre, invasioni e strategie sovraniste, che contribuiscono a ledere la sovranità dei popoli e a minarne la capacità di autodeterminazione. Dunque, il consumarsi di questo dramma palestinese a cosa ci chiama? Certamente non a giudicare ma ad aiutare, sì proprio aiutare; e si aiuta non aizzando gli un@ contro gli altr@ ma calmando gli animi, appellandoci alla saggezza che alberga nel profondo di ciascun@, ed esercitando lo sguardo compassionevole sull’umana mostruosità per coglierne il messaggio, oltre la paura e il giudizio. Smettiamo di fuggire da noi stess@ per uscire dalla trappola della ripetizione, e dare inizio ad una nuova narrazione umanizzatrice e liberante; attraverso l’integrazione dei fallimenti individuali e collettivi partoriremo una nuova tappa di armonia, speranza e prosperità per la Vita sulla Terra! Un proverbio arabo dice che la migliore risposta verrà da chi non parla con animo arrabbiato. Questo non vuol dire negare bensì scegliere con determinazione di non andare in simmetria con l’odio, di nutrire la via della riconciliazione; la violenza nutre la violenza. Non possiamo dare vita ad una società riconciliata e giusta senza che sia fatta verità attraverso la comprensione profonda di ciò che sta avvenendo (e non la giustificazione o l’oblio), e senza che ciascun@ si assuma la responsabilità del ruolo, piccolo e grande, che ha avuto e sta avendo nel processo che ha portato al genocidio, e al sostegno della fiorente economia del genocidio. È tempo di fare spazio a nuovi significati, di elevare l’energia dalle viscere al Cuore per nutrire il vero cambiamento, per contribuire ad un salto di coscienza, per mettere le nostre forze al servizio della costruzione del bene comune. Che le politiche di sopraffazione, espropriazione, vessazione diventino solo un lontano ricordo, e un insegnamento per le future generazioni. È tempo di Risveglio! È necessario che comprendiamo che la storia sta continuando a ripetersi; ne abbiamo innumerevoli esempi, ahinoi, con i nativi delle Americhe, con gli aborigeni australiani, etc. I popoli originari, in tante parti del mondo, sono stati sradicati dalle proprie terre e culture attraverso una brutale politica coloniale di appropriazione delle risorse, e una chiara intenzione di annientamento della vita di intere comunità, del loro presente e futuro ma, principalmente, delle loro storie e culture, al fine di farne svanire la memoria nell’oblio. Comprendiamo il terrore che ancora alberga nell’animo di milioni di ebre@ dopo l’olocausto e secoli di persecuzioni; proprio per questo non potremo mai e poi mai giustificare che il male da loro ricevuto ricada su altri, che tra l’altro non c’entrano proprio nulla come i palestinesi. La terra di Palestina ha sempre accolto gli ebrei, come altri popoli; il sogno di tant@ palestinesi è ricevere riparazione dei danni ricevuti da generazioni e vivere in pace tutte e tutti insieme. Nonostante il male ricevuto, il popolo palestinese manifesta il sogno di una convivenza prospera, desiderio condiviso con tant@ ebre@ nel mondo. La narrazione che vede palestinesi ed ebre@ sempre e solo in contrasto violento e inconciliabile è falsa e strumentale. In Palestina vi sono tante realtà animate da palestinesi ed ebre@ che da decenni collaborano e praticano la nonviolenza attiva come forma di resistenza e trasformazione personale, sociale, politica e spirituale per il bene comune. Un esempio è Combattenti per la Pace. Lasciamoci attraversare e trasformare da questo messaggio, raccogliamo tutto il coraggio e il senso di umanità e solidarietà che ci animano per contribuire insieme alla nascita del mondo che vorremmo; non domani, ma oggi, qui, adesso! Agiamo con coscienza, il cambiamento inizia da noi! Dunque voliamo alto, e oltre, le politiche di aggressione, odio, disprezzo, negazione, giudizio infamante, oltre le falsificazioni e la macchina del fango, sulle ali delle nostre coscienze, orientati da una morale interiore il cui orizzonte è animato dal proposito di fioritura e armonia tra i popoli, nel rispetto e la salvaguardia delle differenze e delle unicità; avanziamo con risolutezza e libertà, emancipati dalla necessità di approvazione da parte di chi esercita il potere per sopraffare, e vestit@ solo della nostra umanità, Forza del Cuore e Fede nella Vita! Il Festival Transitus è una tappa del Progetto “Voci dai Confini: Il Cantiere delle Differenze” ed è una grande occasione per dare voce a chi è relegato ai margini; è un abbraccio collettivo, una festa che include, mescola e ci invita in modo gentile a sentirci comunità. Che le vibrazioni che celebrano la bellezza dell’incontro e della diversità giungano in Palestina e diano Forza per attraversare il presente e speranza per pensare ad un futuro aperto. Sentiamo che il Festival Transitus sia una occasione per lanciare e diffondere un messaggio di Pace e Rinascita! Inondiamo di Luce i propositi più elevati e colmi di bontà, speranza e solidarietà che animano l’Umanità tutta, ad ogni latitudine! Chiediamo che le nostre azioni ne siano sempre più manifestazione tangibile! Come ci ha suggerito Gandhi, diventiamo il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo! Vi abbracciamo in Pace, Forza e calda Allegria!   Gli amici dell’Associazione AEDO (Arte, Espressività, Discipline Olistiche) Redazione Italia
Palestina libera e Ultima Generazione: Milano, consolato egiziano macchiato di vernice rosso sangue
In azione per chiedere l’apertura immediata del valico di Rafah, mentre il governo italiano vuol punire chi critica Israele. Questo pomeriggio, intorno alle ore 18.00 dieci persone aderenti ai movimenti Palestina Libera e Ultima Generazione hanno lanciato vernice rossa contro l’ingresso dell’ambasciata egiziana; successivamente hanno mostrato uno striscione con scritto Break the siege (“rompere l’assedio”) e attaccato alla recinzione dell’ambasciata foto di persone palestinesi uccise nel corso delle operazioni di guerra dell’esercito israeliano. Si tratta di un’azione di protesta per chiedere al governo egiziano, nella persona del console Hisham Mohamed Moustafa El Sherif, l’apertura immediata del valico di Rafah per poter portare aiuti alle persone della striscia di Gaza stremate da bombardamenti e carestia. La popolazione palestinese, bloccata nella striscia di Gaza sta affrontando da mesi una grave crisi umanitaria: “I pazienti muoiono per ferite curabili a causa della mancanza di antibiotici. I bambini soffrono di malnutrizione acuta. Senza un cessate il fuoco e ingressi massicci di aiuti, Gaza diventerà un cimitero” dichiara l’ONG Medici senza Frontiere. Attualmente il valico viene aperto solo temporaneamente. Human rights watch ha documentato le tangenti richieste dalle autorità di frontiera egiziane come unico mezzo per lasciare la striscia di Gaza. Rachele, una delle partecipanti all’azione, ha dichiarato: Sono una mamma che non può distogliere lo sguardo da un genocidio in corso. Le brutalità del governo sionista israeliano vengono trasmesse live ed è nostro compito come esseri umani e come genitori prendere una posizione ed obbligare i nostri governi a non chiudere gli occhi. Il genocidio palestinese è compiuto con le armi, per esempio quelle che la Leonardo continua a inviare ad Israele e contro il cui invio si batte Palestina Libera e con il blocco degli aiuti umanitari, ma anche in modo più subdolo; come, per esempio, con gli accordi che la multinazionale francese Carrefour ha fatto con società israeliane presenti nei territori occupati illegalmente, oppure attraverso i tanti prodotti “israeliani” –prodotti agricoli coltivati nelle terre occupate illegalmente a danno dei palestinesi– che ogni giorno arrivano sugli scaffali dei nostri supermercati. Anche questa è una forma di complicità e anche per questo Ultima Generazione ha lanciato, a partire dall’11 ottobre, il boicottaggio dei supermercati. L’azione è stata organizzata a un giorno dalla notizia dell’imminente invasione della striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano; sempre nella giornata di ieri inoltre la Lega ha depositato una proposta di legge per punire chiunque critichi il governo di Israele, utilizzando il solito giochetto per cui ogni critica ad Israele e al suo governo viene equiparata ad antisemitismo: un’altra prova della sudditanza del nostro governo al regime sionista. Un motivo in più per continuare a scendere in strada e ribellarci. I NOSTRI CANALI Aggiornamenti in tempo reale saranno disponibili sui nostri social e nel sito web: * Sito web:https://ultima-generazione.com * Facebook@ultimagenerazione.A22 * Instagram@ultima.generazione * Twitter@UltimaGenerazi1 * Telegram@ultimagenerazione * Sito web:https://link.palestinalibera.it/ * Instagram:https://www.instagram.com/pal_libera/ Ultima Generazione
Palermo, ‘musica contro il silenzio’ sul Popolo palestinese: corteo nel centro storico
Il governo italiano continua a fornire armi, supporto e connivenza a Netanyahu nel portare avanti il progetto sionista di pulizia etnica del popolo palestinese, ma prosegue anche nell’affermazione dei piani di riarmo imposti dagli USA. Una scelta riconfermata dal rinnovo del memorandum militare Italia-Israele, nonché dai diktat della NATO di portare gli investimenti bellici fino al 5% del PIL, che si tradurranno in ingenti tagli alla spesa pubblica e al welfare nei prossimi 10 anni per acquistare e produrre armi. L’Italia sarà così l’unico grande Paese europeo a spendere più in armi che in istruzione, secondo i dati Eurostat_   Dopo il corteo del 30 giugno, la scorsa domenica pomeriggio s’è replicata la manifestazione STOP ACCORDI con Israele. Poco meno della precedente – ma ancora una volta costituita prevalentemente da giovani, molti dei quali dei collettivi universitari  – si sono ritrovati di nuovo in piazza a Palermo, per chiedere alle istituzioni siciliane (dall’Università alla Regione) l’interruzione degli accordi con la stato d’Israele (così come hanno fatto diverse amministrazioni comunali) in segno di una solidarietà incondizionata con il popolo palestinese. « Basta silenzi, basta complicità! – dicono  gli organizzatori – Il nostro compito è dire NO all’utilizzo della Sicilia come ingranaggio della guerra imperialista che oggi più che mai si esprime in tutto il Medio Oriente con il suo dispositivo coloniale fatto di morte distruzione e dominio ».  Contro questa fabbrica di morte, « disertare la guerra che ci viene propinata come motore di rilancio economico » – scrivono nei loro volantini – è una scelta necessaria per stare « accanto a tutt3 coloro i quali, lavoratrici e lavoratori, si oppongono al traffico di armi e ai progetti di ricerca volti al genocidio e all’industria militare». In questi mesi, unitamente alla comunità palestinese Voci nel Silenzio, una serie di soggettività palermitane e dell’isola hanno intrapreso un percorso comune, culminante nella presentazione a Palazzo dei Normanni, sededell’ARS, di un documento di  rivendicazione dei diritti fondamentali della popolazione palestinese: « Il documento è stato trasformato in una mozione, che durante la discussione in aula è stata profondamente modificata e svuotata. Rendendola – scrivono le realtà di movimento propal – una mozione ipocrita e mortificante che dimostra appieno la distanza delle istituzioni dalla volontà popolare ». Questo sentimento diffuso nella società isolano si è percepito anche nella manifestazione che ha percorso il Cassaro l’asse viaria principale del centro storico panormita. Ecco perché simbolicamente il corteo dell’altro ieri è stata chiuso proprio a Piazza del Parlamento dove si è tenuto un presidio in forma di concerto dal titolo paradigmatico: La musica contro il silenzio. La finalità dell’iniziativa evidentemente era quella di « denunciare il vuoto politico delle istituzioni e riaffermare la voce della solidarietà », nel tentativo di sensibilizzare governo e assemblea legislativa della regione « a prendere le distanze da tutto questo e interrompere le collaborazioni con Israele ». Insomma ci è sembra sempre più palpabile la vocazione pacifista delle moltitudini siciliane, un sentimento comune che ha unito, sia nelle strade delle città metropolitane delle ultime iniziative isolane sia nel corteo di domenica a Palermo, manifestanti e la cittadinanza. Pertanto ferma si è sollevata la voce per chiedere che le basi NATO di Sigonella e del MUOS vanno smilitarizzate. Stop agli accordi, fermiamo il genocidio! Redazione Palermo