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Protezione speciale: una tutela che evita una compressione grave e irreversibile della vita privata e familiare
Sei decisioni del Tribunale di Genova che riconoscono la protezione speciale a richiedenti asilo provenienti da Bangladesh, Marocco e Pakistan, confermando un orientamento giurisprudenziale ormai cristallino: la tutela va garantita quando il rimpatrio comporterebbe una compressione grave e irreversibile della vita privata e familiare, alla luce dell’art. 8 CEDU e dell’art. 19, co. 1.1 TUI. Le decisioni sottolineano come, in tutti i casi, i ricorrenti abbiano costruito in Italia percorsi di integrazione lavorativa, sociale e linguistica solidi, spesso accompagnati da impegni formativi, contratti stabili e reti amicali o familiari. Si tratta di un progetto di vita e radicamento territoriale dopo esperienze di estrema vulnerabilità: anni di povertà e indebitamento nei Paesi di origine, detenzione e torture in Libia, naufragi, problemi di salute e cura affrontati in Italia. I giudici riconoscono che interrompere bruscamente questi percorsi costituirebbe, di per sé, una condizione degradante. Le sentenze richiamano anche le condizioni oggettive dei Paesi di provenienza: l’instabilità politica e la violenta repressione delle proteste in Bangladesh, l’invivibilità socio-economica e ambientale che caratterizza intere aree del paese, aggravata da eventi climatici estremi, erosione, inondazioni e insicurezza alimentare; le gravi violazioni dei diritti umani in Pakistan, soprattutto a danno delle minoranze religiose. In altri casi incide la mancanza di qualsiasi rete familiare nel Paese di origine dopo decenni trascorsi all’estero. La valutazione complessiva porta il Tribunale a ritenere che il rimpatrio forzato vanificherebbe percorsi di integrazione ormai sostanziali, creando un vulnus grave e attuale ai diritti fondamentali dei ricorrenti. Queste sei pronunce rafforzano ulteriormente il ruolo della protezione speciale come strumento imprescindibile per garantire continuità di vita, dignità e tutela effettiva per chi, in Italia, ha già costruito una parte significativa della propria esistenza. 1) Ricorrente del Bangladesh – Tribunale di Genova, decreto dell’1 agosto 2025 2) Ricorrente del Pakistan – Tribunale di Genova, decreto del 4 agosto 2025 3) Ricorrente del Bangladesh – Tribunale di Genova, decreto del 10 ottobre 2025 4) Ricorrente del Bangladesh – Tribunale di Genova, decreto del 14 ottobre 2025 5) Ricorrente del Marocco – Tribunale di Genova, sentenza del 21 ottobre 2025 6) Ricorrente del Bangladesh – Tribunale di Genova, decreto dell’11 novembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Alessandra Ballerini per le segnalazioni.
Ancora in fiamme la Mezza Luna Fertile, pur con aliti di pace
Sudan Nonostante avessero annunciato il loro assenso ad una tregua umanitaria temporanea, le milizie “Forze di supporto rapido” hanno bombardato il Kordofan, poche ore dopo gli attacchi dei droni su Atbara e Omdurman. Una commissione di esperti delle Nazioni Unite ha accusato le milizie di aver commesso atrocità contro i civili a El Fasher, nel Darfur settentrionale. Le Forze di Supporto Rapido e il Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese del Nord (SPLM-N) hanno bombardato la città di Dilling, importante centro del Kordofan Meridionale. Un drone delle Forze di Supporto Rapido ha bombardato diverse località a El Obeid, nel Kordofan Settentrionale. L’Emergency Lawyers Group, un gruppo per i diritti umani che monitora le violazioni in Sudan, ha riferito che 6 persone sono state uccise e 12 ferite quando un proiettile ha colpito all’interno dell’ospedale di Dilling. Tunisia La famiglia del prigioniero politico tunisino Jawhar Ben Mbarek e i suoi avvocati hanno lanciato un grido d’allarme, avvertendo di un pericolo imminente che potrebbe costargli la vita dopo che 10 giorni fa aveva intrapreso uno sciopero della fame totale e a tempo indeterminato, all’interno del carcere “Belli” nel governatorato di Nabeul (nord). Un gesto di protesta contro l’”ingiustizia politica” e un “processo iniquo”, subiti nel procedimento noto come “cospirazione contro la sicurezza dello Stato 1”. Ben Mbarek, professore di diritto costituzionale, è una delle figure di maggior spicco dell’opposizione al presidente Kais Saied da quando quest’ultimo ha dichiarato lo stato di emergenza il 25 luglio 2021. È una figura di spicco del Fronte di Salvezza Nazionale, una coalizione di personalità politiche e partiti di opposizione, in particolare il partito islamista Ennahda. Inizialmente è stato condannato in un processo farsa a 18 anni di carcere. Turchia /Israele La giustizia turca ha emesso mandati di arresto per genocidio contro il primo ministro israeliano Netanyahu e diversi politici e militari israeliani, tra cui il ministro della guerra Katz e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. I mandati di arresto riguardano un totale di 37 sospetti. Tra questi, figura anche il capo di Stato Maggiore israeliano, Eyal Zamir, secondo quanto riferito dalla procura di Istanbul, che denuncia il “genocidio e i crimini contro l’umanità perpetrati in modo sistematico da Israele a Gaza”. La giustizia turca cita anche il caso dell’Ospedale dell’amicizia turco-palestinese nella Striscia di Gaza – costruito dalla Turchia – colpito e completamente distrutto a marzo dall’esercito israeliano. Turchia/Kurdistan Ankara sta vagliando un progetto per far rientrare i combattenti e i civili curdi rifugiati in Iraq. Una legge è allo studio ed è oggetto di discussioni in una commissione parlamentare che coinvolge anche deputati curdi. Secondo una fonte di Ankara, la proposta prevede prima il ritorno dei civili e poi l’amnistia per i combattenti che consegnano all’esercito iracheno le loro armi. Alcuni capi del movimento della guerriglia non saranno ammessi al rientro ma otterranno asilo politico in altri paesi. La proposta di legge dovrebbe essere discussa in parlamento entro novembre. Di seguito un’intervista all’avvocato di Ocalan, sul processo di pacificazione: LA PACE INCERTA TRA CURDI E TURCHI: UN PERCORSO DIFFICILE, CORAGGIOSO E DI SPERANZA PER I CURDI. – Anbamed Pakistan/Afghanistan Il secondo round di trattative a Istanbul è fallito. Lo ha ammesso il ministro della guerra di Islamabad, Assif, che ha però assicurato che gli scontri di frontiera non riprenderanno se non ci saranno attacchi da parte dei Talebani pakistani rifugiati in territorio afghano. La crisi tra i due paesi è arrivata al culmine in seguito ad una serie di attacchi di guerriglieri a postazioni di confine in Pakistan, con decine di vittime: l’aeronautica di Islamabad ha bombardato la stessa capitale afghana Kabul. Le mediazioni di Doha prima e adesso di Ankara non sono riuscite ad avvicinare le posizioni dei due paesi. ANBAMED
Libertà per l’attivista climatico Sonam Wangchuk
Il leader culturale del Ladakh noto per essere uno tra gli attivisti climatici più influenti del pianeta è detenuto nella prigione di Jodhpur. Il Ladakh, o piccolo Tibet indiano, è una terra isolata posta sul tetto del mondo con passi che superano i 5 mila metri di altitudine. Con una popolazione di 300 mila abitanti che ha sempre vissuto di agricoltura in un contesto buddhista di condivisione sociale, è un luogo di elevata spiritualità e organizzazione dal basso che per secoli ha mostrato come la resilienza in condizioni difficili potesse permettere lo sviluppo di una cultura articolata, comunitaria e quasi totalmente priva di violenza.  Dominato dal deserto di alta quota, dai rilievi in cui nasce il fiume Indo, da imponenti ghiacciai e da una copertura nevosa che in inverno impedisce ogni accesso via terra, il Ladakh è anche un luogo di confine, quello tra India, Cina e Pakistan che risulta il più militarizzato al mondo. E’ qui che in un area remota del Paese nasce nel 1966 Sonam Wangchuk, un bambino particolarmente dotato che fugge a Delhi per studiare e che diventerà un brillante ingegnere, inventore, riformatore del sistema dell’istruzione pubblica e attivista ambientale. Progettista di una tecnica ingegneristica (Ice Stupa) in grado di realizzare piccoli ghiacciai artificiali in grado di rilasciare l’acqua nella stagione secca in un’area del pianeta particolarmente colpita dal cambiamento climatico, fondatore del rivoluzionario campus studentesco SECMOL che funziona con energia solare per cucinare, illuminare e riscaldare, progettista e supervisore della costruzione di edifici passivi in terra cruda in Ladakh, Sikkim e Nepal, in modo che i principi del risparmio energetico vengano implementati su larga scala, fondatore dell’Istituto himalayano delle alternative Ladakh, per le sue soluzioni innovative ai problemi locali Sonam Wangchuk ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali di altissimo livello. Su ripetuti inviti della comunità studentesca nel 2013 ha inoltre contribuito a lanciare il New Ladakh Movement (NLM), un’organizzazione sociale ispirata ai valori dell’istruzione e dell’ecologismo chiedendo che la popolazione tribale del Ladakh fosse finalmente tutelata dal governo centrale come previsto dalla Costituzione federale indiana. A questo scopo, nel marzo del 2023 ha praticato uno sciopero della fame di 21 giorni contro le lobby indutriali e minerarie che mettono a rischio il fragile ecosistema di questa regione, a cui è seguita nel settembre del 2024 una marcia in puro stile gandhiano verso Dheli che aveva lo scopo di richiamare l’attenzione del governo e del parlamento su questo tema. Dopo pochi giorni la marcia è stata però interrotta dalla polizia che ha arrestato Wangchuck e i suoi sostenitori. In un Ladakh progressivamente deprivato del proprio stile di vita e di un sistema agricolo che garantiva l’autosufficienza alimentare, diventato sempre più dipendente dall’esterno e soggetto a speculazioni immobiliari che lo hanno trasformato in luogo di vacanza per turisti poco attenti, le rivendicazioni dei nativi sono esplose il 24 settembre scorso con una protesta che ha portato all’incendio della sede del partito del primo ministro. Alla manifestazione, dettata dalla frustrazione della gente nei confronti del governo centrale e dalle promesse non mantenute che dopo la separazione del Ladakh dallo stato di Jammu e Kashmir avrebbero dovuto condurre all’autonomia, alla protezione dall’acquisizione di terreni da parte di stranieri e al diritto alla riserva di posti di lavoro per la popolazione locale, si è risposto con una durissima repressione poliziesca che ha causato l’uccisione di 4 manifestanti e il ferimento di altri 80 mentre nel capoluogo Leh è stato imposto il coprifuoco e sono stati oscurati tutti i servizi internet. E’ in questo contesto che Wangchuck viene nuovamente arrestato e questa volta con l’accusa di avere ispirato e fomentato le proteste. Su di lui si sono scatenate varie inchieste governative che lo accusano di avere legami con il Pakistan (per aver partecipato ad una conferenza ONU in quel Paese), che hanno portato al ritiro della licenza per il SECMOL e che riguardano un’inchiesta sull’Istituto himalayano delle alternative. In pratica, una vita di impegno e di dedizione agli altri e alla protezione della terra (che è pure diventata un film di successo in mezzo mondo) è stata distrutta in pochi giorni. Nonostante l’insostenibilità delle accuse e senza che sia stato emesso alcun ordine di detenzione formale alla sua famiglia, Wangchuk è stato allontanato dal Ladakh e trasferito nella prigione di Jodhpur dove non si hanno informazioni sulle sue condizioni di salute. Per quest’uomo geniale e coraggioso che ha messo al centro del suo impegno la salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei diritti delle minoranze, è stata presentata dalla moglie J. Angmo una petizione di Habeas corpus alla Corte Suprema: un’atto che segue l’ampia mobilitazione che coinvolge cittadini comuni, accademici, leader dell’opposizione e organizzazioni politiche, voci che si sono levate contro l’arbitrarietà dell’arresto e che sono seriamente preoccupate della tenuta delle garanzie costituzionali nel grande Paese asiatico. Max Strata
Accertato il diritto al ricongiungimento familiare in favore di un cittadino straniero titolare di PdS per protezione speciale
Con ricorso ex art. 281-decies c.p.c. un cittadino pakistano titolare di permesso di soggiorno per protezione speciale ha impugnato il decreto del Prefetto di Torino che ha rigettato la sua istanza di ricongiungimento familiare sulla base del fatto che l’art. 28 comma 1 del T.U. 286/1998 non consente la possibilità di presentare istanza di ricongiungimento familiare ai titolari del suddetto permesso. Come noto, l’art. 28 del Testo Unico Immigrazione, che già non annoverava la protezione speciale tra i permessi che danno titolo al ricongiungimento familiare, è stato emendato nel 2024 in senso ulteriormente restrittivo (in luogo di “asilo” ora si parla specificamente di “protezione internazionale“). La decisione del Tribunale di Torino va oltre il dato letterale dell’art. 28 e valorizza invece una lettura organica e conforme a Costituzione e Direttiva 86/2003, che fa leva sulla natura della protezione speciale, volta a tutelare tra le altre cose proprio quell’unità familiare che il ricongiungimento è preordinato a ricostituire. La decisione evidenzia anche precedenti pronunce della Corte di Cassazione che già in passato hanno ritenuto non esaustivo il catalogo dell’art. 28, estendendo il diritto all’unità familiare in favore anche di titolari di permesso di soggiorno quali residenza elettiva e attesa cittadinanza. Secondo il Tribunale “la giurisprudenza di legittimità ha da sempre adottato un’interpretazione estensiva dell’art. 28 TUI, tale da includere anche tipologie di permesso di soggiorno non espressamente ricomprese dalla norma, purché soddisfacessero i requisiti di stabilità di cui all’art. 3 della Direttiva (vale a dire, titolarità di un permesso con “periodo di validità pari o superiore a un anno” e con “fondata prospettiva di soggiorno stabile”) […] va dunque affermata la natura non esaustiva del catalogo contenuto nell’art. 28 TUI, che deve essere interpretato alla luce dei criteri costituzionali (in particolare il diritto di asilo ex art. 10 comma 3 Cost., che – come detto – ha “ricevuto integrale attuazione grazie al concorso dei tre istituti concernenti la protezione dei migranti: la tutela dei rifugiati, la protezione sussidiaria di origine europea e la protezione umanitaria”; così Corte Cost. n. 194/2019) e unionali (applicazione della Direttiva 86/2003/CE in materia di ricongiungimento a tutti i casi in cui “il soggiornante è titolare di un permesso rilasciato … per un periodo di validità pari o superiore a un anno e ha una fondata prospettiva di soggiorno stabile”)“. Tribunale di Torino, sentenza del 27 ottobre 2025 Si ringrazia l’Avv. Elena Garelli e l’Avv. Alberto Pasquero per la segnalazione e il commento. * Consulta altre decisioni relative al ricongiungimento familiare
PAKISTAN – AFGHANISTAN: PROLUNGATO IL CESSATE IL FUOCO, NONOSTANTE L’ATTACCO A UNA BASE PACHISTANA DI CONFINE
Oggi, venerdì 17 ottobre, un attentatore suicida si è fatto esplodere contro una struttura militare pachistana a Mir Ali, nel Nord Waziristan: fonti locali parlano di 7 vittime, tra cui 6 assalitori e un soldato di Islamabad. Nonostante questo, la tregua di 48 ore tra Pakistan e Afghanistan è stata prolungata: i due Paesi asiatici hanno fatto sapere che durerà fino all’esito dei negoziati che ci saranno a Doha. Da una settimana, la frontiera tra Spin Boldak (lato afghano) e Chaman (lato pakistano, nella provincia del Balucistan) è tornata a essere una zona di guerra aperta. A causa degli scontri, Islamabad ha ordinato la chiusura di valichi strategici, incluso il valico di Torkham— il più importante e trafficato—interrompendo il flusso di farina, carburante e medicinali. Dopo giorni di combattimenti continui, il 15 ottobre è stato concordato tra Pakistan e Afghanistan un cessate il fuoco di 48 ore. “A differenza dei decenni precedenti, dove gli scontri erano spesso limitati a milizie irregolari, questa volta si affrontano direttamente le forze armate statali”, spiega ai nostri microfoni Enrica Garzilli, specialista studi asiatici e profonda conoscitrice della storia di quei luoghi. “Islamabad considera l’attentato una violazione deliberata del cessate il fuoco, compiuta dai militanti del TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan), un gruppo islamista che opera contro lo Stato pachistano. Secondo le fonti di intelligence pachistane, i TTP sarebbero entrati dal lato afghano durante la tregua. L’attacco invia un forte messaggio politico: la tregua è vostra, non è nostra. Noi attraversiamo il confine quando vogliamo.” Le accuse tra Kabul e Islamabad sono reciproche: Islamabad accusa i talebani afghani di offrire rifugio al TTP, mentre Kabul accusa il Pakistan di ospitare l’ISIS-K e di violare la sovranità afghana con bombardamenti oltre frontiera e chiusure unilaterali dei valichi. Nell’intervista a Enrica Garzilli affrontiamo anche le radici profonde del conflitto, che risale al 1893, quando venne tracciata dai britannici la linea coloniale Durand, da sir Mortimer Durand, per separare l’allora India dalle tribù Pashtun dell’Afghanistan. “Tutt’oggi questa linea non è riconosciuta dall’Afghanistan e per le popolazioni locali si tratta di una costruzione coloniale, non di una barriera reale: famiglie, traffici e reti armate tribali la attraversano liberamente nei due lati“. Le vicende oggi sono drammatiche anche perché la chiusura di valichi come Torkham blocca gli aiuti umanitari in un Paese dove 20 milioni di persone dipendono da supporti esterni. Il 15 ottobre si è tenuta la conferenza dei paesi donatori, in Uzbekistan, a cui ha partecipato anche l’Italia, promettendo 35 milioni di euro con la chiara indicazione che i fondi siano erogati solo attraverso i canali ONU e destinati a priorità specifiche: sanità mobile nelle aree rurali, microborse per scuole femminili informali (i talebani proibiscono l’istruzione alle ragazze) e sostegno economico a vedove e donne vulnerabili. Esistono quindi di fatto due Afghanistan: uno militarmente controllato dall’Emirato talebano e un “Afghanistan umanitario” gestito e finanziato dall’ONU e da donatori internazionali. Ascolta su Radio Onda d’Urto l’intervista a Enrica Garzilli, specialista di studi asiatici. Ascolta o scarica
Cittadino pakistano assolto per tenuità del fatto dal reato di uccisione di animali: ignaro della normativa e mosso da motivi religiosi
Nel 2019 a Montefalco, comune in provincia di Perugia, tre cittadini pakistani chiesero ad un cittadino italiano (proprietario di un gregge di pecore che deteneva per uso familiare) se avesse un agnello, appresentando che avevano bisogno di carne per una cena da tenere la sera stessa. L’allevatore rispose affermativamente. Quindi, i tre chiesero di poter effettuare sul posto la macellazione, precisando che avrebbero ucciso direttamente loro l’animale, stante motivi religiosi (si tratta della cd. macellazione rituale islamica o macellazione halâl). Quindi, si sono inginocchiati in preghiera ed hanno proceduto all’uccisione. Mentre erano intenti a scuoiare l’ovino, si sono avvicinati due Carabinieri forestali (in servizio di pattuglia), attirati dal fatto che era in corso una macellazione clandestina. Questi rinvenivano la carcassa e procedevano con foto e relazione di servizio. Sul posto interviene anche il veterinario dirigente dell’USL di Foligno, il quale relaziona che l’animale era stato abbattuto senza preventivo stordimento e dissanguato in stato di coscienza, così contravvenendo al Regolamento Ue 1099/2009 relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento (il relativo art. 4 co 1 prevede: “Gli animali sono abbattuti esclusivamente previo stordimento, conformemente ai metodi e alle relative prescrizioni di applicazione di cui all’allegato I. La perdita di coscienza e di sensibilità è mantenuta fino alla morte dell’animale”). Quindi, la macellazione veniva interrotta. I Carabinieri identificavano i soggetti coinvolti nella macellazione, tra cui il cittadino pakistano cui si riferisce la sentenza in commento. A questi fu successivamente contestato il reato di cui all’art. 544 bis c.p. (“Uccisione di animali”) che recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”. All’udienza del 14.3.2025, la difesa dell’imputato chiedeva procedersi nelle forme del rito abbreviato condizionato alla produzione documentale consistente nei documenti attestanti la domanda di protezione internazionale. In particolare, l’imputato, all’epoca dei fatti, era un richiedente asilo in accoglienza presso un CAS di Foligno. Era giunto in Italia pochi giorni prima rispetto al fatto di reato, dopo aver lasciato il Pakistan ed aver percorso la rotta balcanica. Proveniva da un contesto povero e rurale, dove è ordinario sgozzare un animale per poi cibarsene. Secondo la difesa, egli versava in una condizione di ignoranza inevitabile della legge penale (art. 5 c.p. come interpretato da Corte cost., sent. 364/1988). Il Giudice accoglieva l’istanza di rito abbreviato e assolveva l’imputato ritenendo sussistente la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. (“Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”). Tale norma prevede: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”. Secondo il Giudice, la fattispecie in esame è di particolare tenuità, in quanto “si tratta di caso isolato posto in essere da soggetto originario del Pakistan, incensurato e presente in Italia da pochi giorni prima dell’evento – quindi verosimilmente ignaro della normativa in materia di macellazione degli animali”, nonché “mosso da motivi religiosi”. Il Giudice ha dato rilevanza anche alle motivazioni religiose che sottostavano alla condotta materiale. La vicenda processuale, quindi, è parte della più ampia tematica della macellazione rituale islamica. Al riguardo, è innanzitutto da precisare che la Sura VI (“Il bestiame”), al verso 118 recita: “Mangiate di quello sul quale è stato menzionato il Nome di Allah, se credete nei Suoi segni”. Analogamente, il successivo verso 121 recita: “Non mangiate ciò su cui non sia stato pronunciato il Nome di Allah: sarebbe certamente perversità. I diavoli ispirano ai loro amici la polemica con voi. Se li seguiste sareste associatori”. I due versi si riferiscono alla questione della carne “halâl” (ossia “lecita”), secondo cui l’animale deve rimanere cosciente durante la recisione della trachea e delle arterie fino alla morte per completo dissanguamento. Inoltre, si deve anche rivolgere la testa dell’animale in direzione della Mecca. Si tratta di una pratica religiosa che richiama la libertà di manifestazione della propria fede religiosa ai sensi dell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali UE, secondo cui la libertà di religione include anche le pratiche ed i riti. Sono altresì da richiamare l’art. 18 Cost.; l’art. 9 Conv. EDU del 1950; l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Nel tentativo di trovare un equilibrio tra tale libertà ed il benessere degli animali, già il Trattato di Lisbona del 2007, all’art. 13 riporta di “esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale”. Il citato Regolamento UE 1099/2009, all’art. 4 co 4 stabilisce che le disposizioni sui metodi di stordimento (cfr co 1 riportato sopra) “non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un macello”. Già prima di tale regolamento, l’Italia aveva recepito (con legge 439/1978) la direttiva 1974/577/CEE che introduceva l’obbligo dello stordimento, ma riconosceva la possibilità di “speciali metodi di macellazione, in osservanza di riti religiosi”, autorizzati dal Ministro della Sanità. Seguiva un decreto del 1980 recante “Autorizzazione alla macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico ed islamico”. Inoltre, con d.lgs 333/1998 era stata recepita la direttiva 1993/119/CE sulla protezioni degli animali durante la macellazione: vi era una deroga allo stordimento in caso di macellazioni rituali, sempreché fossero avvenute in macelli autorizzati. Attualmente, la questione è disciplinata dal citato regolamento 1099/2009. E si tratta di una questione che vede da un lato le istanze dei movimenti animalisti (che vorrebbero far prevalere il diritto degli animali) e da altro lato le istanze delle comunità ebraiche e musulmane che richiedono il rispetto della libertà di culto. Si registra anche un intervento del Comitato Nazionale di Bioetica nel 2003. Nel difficile contemperamento tra le due dette istanze, oggi nell’Italia meta di flussi migratori, si inserisce una terza istanza: quella di coloro che, a causa della brevità del soggiorno e della marginalizzazione, non sono ancora adeguatamente informati sulle norme italiane, del tutto assenti nei Paesi da cui provengono. Tribunale di Spoleto, sentenza n. 270 del 6 maggio 2025 PER APPROFONDIRE: Maria Chiara Locchi. “Il difficile bilanciamento tra libertà religiosa alimentare e benessere degli animali nelle società multiculturali europee: il caso della macellazione rituale halal”, in Sabrina Lanni (a cura di), “La tutela del consumatore nella prospettiva halal tra sfide e opportunità del mercato europeo”, Milano 2025 Si ringrazia l’Avv. Francesco Di Pietro per la segnalazione e il commento.
Recuperare l’eredità dei nostri antenati: il percorso di pace tra India e Pakistan
> Poche nazioni condividono una storia così intrecciata – o così tragicamente > divisa – come l’India e il Pakistan. Eppure, nella nostra attuale era di > sciovinismo e iper-nazionalismo, abbiamo dimenticato la saggezza degli stessi > leader che hanno plasmato la nostra indipendenza: Mahatma Gandhi, l’icona > globale della nonviolenza, e Muhammad Ali Jinnah, un costituzionalista > pakistano che ha sostenuto la lotta legale e politica contro la forza bruta. Oggi, i media e le piattaforme sociali amplificano l’odio, il sentimento guerrafondaio e la disumanizzazione, molto lontani dall’ahimsa di Gandhi o dalla difesa disciplinata di Jinnah. Nel frattempo, il mondo offre cattivi esempi. Il conflitto tra Israele e Hamas mostra uno stato dotato di armi nucleari che combatte una milizia, senza alcun vincitore emergente, solo sofferenze infinite. La guerra Ucraina-Russia dimostra come anche una “superpotenza” si impantani in un conflitto che non può vincere in modo decisivo. Afghanistan, Iraq e Siria sono la prova che la sola forza militare genera caos piuttosto che stabilità. La guerra non è solo distruttiva: è diventata obsoleta. In un’Asia meridionale nuclearizzata, un conflitto India-Pakistan su vasta scala significherebbe milioni di morti in poche ore, generazioni avvelenate da radiazioni e traumi e nessun vincitore, solo l’annientamento reciproco. Alcuni strateghi sostengono che la forza militare impedisce la guerra, ma la storia dimostra il contrario. La deterrenza fallisce quando la percezione prevale sulla ragione, come si è visto nei conflitti tra India e Pakistan nel 1962, 1999 e 2019. Le narrazioni dell’odio che ritraggono “il nemico come malvagio” giustificano solo un’ostilità infinita, avvantaggiando in ultima analisi i trafficanti d’armi e gli autocrati mentre danneggiano i cittadini comuni. L’alternativa esiste, se scegliamo di perseguirla. Dobbiamo dare priorità al dialogo rispetto ai tamburi di guerra riprendendo i colloqui diplomatici, anche su questioni controverse come il Kashmir e il terrorismo. La diplomazia dei cittadini attraverso scambi di studenti, festival culturali congiunti e un aumento del commercio, come il corridoio di pellegrinaggio senza visto di Kartarpur, può costruire ponti. Lo sport può riconnettere le persone, come si vede quando i tour di cricket e le partite di hockey creano momenti in cui gli applausi trascendono i confini. I media devono assumersi la responsabilità fermando la loro glorificazione della guerra e amplificando invece le voci di riconciliazione. Gandhi e Jinnah hanno combattuto non per le bandiere ma per i principi. Se onoriamo veramente la loro eredità, dobbiamo respingere la follia della distruzione reciproca e scegliere il percorso più difficile ma più gratificante: la pace attraverso il coraggio, la comprensione attraverso l’impegno e la prosperità attraverso la cooperazione. É nostra la scelta tra la continua ostilità e una nuova era di pace. L’autore: Irshad Ahmad Mughal è il presidente della Iraj Education & Development Foundation, con sede a New Chaburji Park, Lahore. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza IPA
KASHMIR: SPIRANO VENTI DI GUERRA TRA INDIA E PAKISTAN DOPO L’ATTACCO AI TURISTI DI PAHALGAM.
In Kashmir, territorio conteso tra India e Pakistan, sale sempre di più la tensione dopo che una nota del governo pachistano sostiene di avere “informazioni attendibili secondo cui l’India intende lanciare un attacco militare nelle prossime 24-36 ore, usando i fatti di Pahalgam come pretesto“. Il tutto mentre il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha concesso piena “libertà operativa” all’esercito indiano in Kashmir. Ogni notte, lungo la LoC — la Linea di Controllo che dal 1971 divide non ufficialmente le aree controllate da India e Pakistan — si verificano scontri armati. Le ostilità si sono intensificate dopo l’attacco del 22 aprile a Pahalgam, dove 25 turisti indiani e uno nepalese sono stati uccisi (oltre a 17 feriti) e rivendicato da un gruppo seperatista kashmiro che – secondo l’India – è foraggiato da Islamabad. A sua volta nega ogni responsabilità il Pakistan, alleato regionale della Repubblica Popolare Cinese, che da decenni occupa una piccola porzione dello stesso Kashmir, territorio conteso fin dall’indipendenza ottenuta dal subcontinente indiano dal colonialismo inglese, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.  Come spiega il quotidiano “Il Manifesto”, l’attacco di Pahalgam è stato “rivendicato da The Resistance Front”, sigla minore fondata nel 2019 “che le autorità indiane indicano vicina alla ben più nota Lashkar-e-Taiba”, gruppo facente riferimento alla galassia di “al-Qaeda. Per Trf, l’azione è stata la risposta al rilascio di più di 80mila permessi di residenza in Kashmir a cittadini indiani non kashmiri, un modo per «creare una corsia preferenziale per un cambio demografico» dell’unica regione a maggioranza musulmana” dell’India, “oltre al piccolo arcipelago delle Laccadive”. Dopo l’attacco di Pahalgam, il più significativo dell’ultimo quarto di secolo contro civili, i due Paesi hanno annunciato espulsioni di massa dei rispettivi cittadini, la chiusura dei confini, il congelamento dei rapporti commerciali e – sul lato indiano – anche la revisione del delicato accordo che regola la gestione delle acque in arrivo dal bacino del fiume Indo. Su Radio Onda d’Urto l’intervista sul Kashmir a Diego Maiorano, docente di Storia dell’Asia moderna e contemporanea all’Università Orientale di Napoli. Ascolta o scarica