Tag - Pakistan

Cittadino pakistano assolto per tenuità del fatto dal reato di uccisione di animali: ignaro della normativa e mosso da motivi religiosi
Nel 2019 a Montefalco, comune in provincia di Perugia, tre cittadini pakistani chiesero ad un cittadino italiano (proprietario di un gregge di pecore che deteneva per uso familiare) se avesse un agnello, appresentando che avevano bisogno di carne per una cena da tenere la sera stessa. L’allevatore rispose affermativamente. Quindi, i tre chiesero di poter effettuare sul posto la macellazione, precisando che avrebbero ucciso direttamente loro l’animale, stante motivi religiosi (si tratta della cd. macellazione rituale islamica o macellazione halâl). Quindi, si sono inginocchiati in preghiera ed hanno proceduto all’uccisione. Mentre erano intenti a scuoiare l’ovino, si sono avvicinati due Carabinieri forestali (in servizio di pattuglia), attirati dal fatto che era in corso una macellazione clandestina. Questi rinvenivano la carcassa e procedevano con foto e relazione di servizio. Sul posto interviene anche il veterinario dirigente dell’USL di Foligno, il quale relaziona che l’animale era stato abbattuto senza preventivo stordimento e dissanguato in stato di coscienza, così contravvenendo al Regolamento Ue 1099/2009 relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento (il relativo art. 4 co 1 prevede: “Gli animali sono abbattuti esclusivamente previo stordimento, conformemente ai metodi e alle relative prescrizioni di applicazione di cui all’allegato I. La perdita di coscienza e di sensibilità è mantenuta fino alla morte dell’animale”). Quindi, la macellazione veniva interrotta. I Carabinieri identificavano i soggetti coinvolti nella macellazione, tra cui il cittadino pakistano cui si riferisce la sentenza in commento. A questi fu successivamente contestato il reato di cui all’art. 544 bis c.p. (“Uccisione di animali”) che recita: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”. All’udienza del 14.3.2025, la difesa dell’imputato chiedeva procedersi nelle forme del rito abbreviato condizionato alla produzione documentale consistente nei documenti attestanti la domanda di protezione internazionale. In particolare, l’imputato, all’epoca dei fatti, era un richiedente asilo in accoglienza presso un CAS di Foligno. Era giunto in Italia pochi giorni prima rispetto al fatto di reato, dopo aver lasciato il Pakistan ed aver percorso la rotta balcanica. Proveniva da un contesto povero e rurale, dove è ordinario sgozzare un animale per poi cibarsene. Secondo la difesa, egli versava in una condizione di ignoranza inevitabile della legge penale (art. 5 c.p. come interpretato da Corte cost., sent. 364/1988). Il Giudice accoglieva l’istanza di rito abbreviato e assolveva l’imputato ritenendo sussistente la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. (“Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”). Tale norma prevede: “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”. Secondo il Giudice, la fattispecie in esame è di particolare tenuità, in quanto “si tratta di caso isolato posto in essere da soggetto originario del Pakistan, incensurato e presente in Italia da pochi giorni prima dell’evento – quindi verosimilmente ignaro della normativa in materia di macellazione degli animali”, nonché “mosso da motivi religiosi”. Il Giudice ha dato rilevanza anche alle motivazioni religiose che sottostavano alla condotta materiale. La vicenda processuale, quindi, è parte della più ampia tematica della macellazione rituale islamica. Al riguardo, è innanzitutto da precisare che la Sura VI (“Il bestiame”), al verso 118 recita: “Mangiate di quello sul quale è stato menzionato il Nome di Allah, se credete nei Suoi segni”. Analogamente, il successivo verso 121 recita: “Non mangiate ciò su cui non sia stato pronunciato il Nome di Allah: sarebbe certamente perversità. I diavoli ispirano ai loro amici la polemica con voi. Se li seguiste sareste associatori”. I due versi si riferiscono alla questione della carne “halâl” (ossia “lecita”), secondo cui l’animale deve rimanere cosciente durante la recisione della trachea e delle arterie fino alla morte per completo dissanguamento. Inoltre, si deve anche rivolgere la testa dell’animale in direzione della Mecca. Si tratta di una pratica religiosa che richiama la libertà di manifestazione della propria fede religiosa ai sensi dell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali UE, secondo cui la libertà di religione include anche le pratiche ed i riti. Sono altresì da richiamare l’art. 18 Cost.; l’art. 9 Conv. EDU del 1950; l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Nel tentativo di trovare un equilibrio tra tale libertà ed il benessere degli animali, già il Trattato di Lisbona del 2007, all’art. 13 riporta di “esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale”. Il citato Regolamento UE 1099/2009, all’art. 4 co 4 stabilisce che le disposizioni sui metodi di stordimento (cfr co 1 riportato sopra) “non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un macello”. Già prima di tale regolamento, l’Italia aveva recepito (con legge 439/1978) la direttiva 1974/577/CEE che introduceva l’obbligo dello stordimento, ma riconosceva la possibilità di “speciali metodi di macellazione, in osservanza di riti religiosi”, autorizzati dal Ministro della Sanità. Seguiva un decreto del 1980 recante “Autorizzazione alla macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico ed islamico”. Inoltre, con d.lgs 333/1998 era stata recepita la direttiva 1993/119/CE sulla protezioni degli animali durante la macellazione: vi era una deroga allo stordimento in caso di macellazioni rituali, sempreché fossero avvenute in macelli autorizzati. Attualmente, la questione è disciplinata dal citato regolamento 1099/2009. E si tratta di una questione che vede da un lato le istanze dei movimenti animalisti (che vorrebbero far prevalere il diritto degli animali) e da altro lato le istanze delle comunità ebraiche e musulmane che richiedono il rispetto della libertà di culto. Si registra anche un intervento del Comitato Nazionale di Bioetica nel 2003. Nel difficile contemperamento tra le due dette istanze, oggi nell’Italia meta di flussi migratori, si inserisce una terza istanza: quella di coloro che, a causa della brevità del soggiorno e della marginalizzazione, non sono ancora adeguatamente informati sulle norme italiane, del tutto assenti nei Paesi da cui provengono. Tribunale di Spoleto, sentenza n. 270 del 6 maggio 2025 PER APPROFONDIRE: Maria Chiara Locchi. “Il difficile bilanciamento tra libertà religiosa alimentare e benessere degli animali nelle società multiculturali europee: il caso della macellazione rituale halal”, in Sabrina Lanni (a cura di), “La tutela del consumatore nella prospettiva halal tra sfide e opportunità del mercato europeo”, Milano 2025 Si ringrazia l’Avv. Francesco Di Pietro per la segnalazione e il commento.
Recuperare l’eredità dei nostri antenati: il percorso di pace tra India e Pakistan
> Poche nazioni condividono una storia così intrecciata – o così tragicamente > divisa – come l’India e il Pakistan. Eppure, nella nostra attuale era di > sciovinismo e iper-nazionalismo, abbiamo dimenticato la saggezza degli stessi > leader che hanno plasmato la nostra indipendenza: Mahatma Gandhi, l’icona > globale della nonviolenza, e Muhammad Ali Jinnah, un costituzionalista > pakistano che ha sostenuto la lotta legale e politica contro la forza bruta. Oggi, i media e le piattaforme sociali amplificano l’odio, il sentimento guerrafondaio e la disumanizzazione, molto lontani dall’ahimsa di Gandhi o dalla difesa disciplinata di Jinnah. Nel frattempo, il mondo offre cattivi esempi. Il conflitto tra Israele e Hamas mostra uno stato dotato di armi nucleari che combatte una milizia, senza alcun vincitore emergente, solo sofferenze infinite. La guerra Ucraina-Russia dimostra come anche una “superpotenza” si impantani in un conflitto che non può vincere in modo decisivo. Afghanistan, Iraq e Siria sono la prova che la sola forza militare genera caos piuttosto che stabilità. La guerra non è solo distruttiva: è diventata obsoleta. In un’Asia meridionale nuclearizzata, un conflitto India-Pakistan su vasta scala significherebbe milioni di morti in poche ore, generazioni avvelenate da radiazioni e traumi e nessun vincitore, solo l’annientamento reciproco. Alcuni strateghi sostengono che la forza militare impedisce la guerra, ma la storia dimostra il contrario. La deterrenza fallisce quando la percezione prevale sulla ragione, come si è visto nei conflitti tra India e Pakistan nel 1962, 1999 e 2019. Le narrazioni dell’odio che ritraggono “il nemico come malvagio” giustificano solo un’ostilità infinita, avvantaggiando in ultima analisi i trafficanti d’armi e gli autocrati mentre danneggiano i cittadini comuni. L’alternativa esiste, se scegliamo di perseguirla. Dobbiamo dare priorità al dialogo rispetto ai tamburi di guerra riprendendo i colloqui diplomatici, anche su questioni controverse come il Kashmir e il terrorismo. La diplomazia dei cittadini attraverso scambi di studenti, festival culturali congiunti e un aumento del commercio, come il corridoio di pellegrinaggio senza visto di Kartarpur, può costruire ponti. Lo sport può riconnettere le persone, come si vede quando i tour di cricket e le partite di hockey creano momenti in cui gli applausi trascendono i confini. I media devono assumersi la responsabilità fermando la loro glorificazione della guerra e amplificando invece le voci di riconciliazione. Gandhi e Jinnah hanno combattuto non per le bandiere ma per i principi. Se onoriamo veramente la loro eredità, dobbiamo respingere la follia della distruzione reciproca e scegliere il percorso più difficile ma più gratificante: la pace attraverso il coraggio, la comprensione attraverso l’impegno e la prosperità attraverso la cooperazione. É nostra la scelta tra la continua ostilità e una nuova era di pace. L’autore: Irshad Ahmad Mughal è il presidente della Iraj Education & Development Foundation, con sede a New Chaburji Park, Lahore. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza IPA
KASHMIR: SPIRANO VENTI DI GUERRA TRA INDIA E PAKISTAN DOPO L’ATTACCO AI TURISTI DI PAHALGAM.
In Kashmir, territorio conteso tra India e Pakistan, sale sempre di più la tensione dopo che una nota del governo pachistano sostiene di avere “informazioni attendibili secondo cui l’India intende lanciare un attacco militare nelle prossime 24-36 ore, usando i fatti di Pahalgam come pretesto“. Il tutto mentre il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha concesso piena “libertà operativa” all’esercito indiano in Kashmir. Ogni notte, lungo la LoC — la Linea di Controllo che dal 1971 divide non ufficialmente le aree controllate da India e Pakistan — si verificano scontri armati. Le ostilità si sono intensificate dopo l’attacco del 22 aprile a Pahalgam, dove 25 turisti indiani e uno nepalese sono stati uccisi (oltre a 17 feriti) e rivendicato da un gruppo seperatista kashmiro che – secondo l’India – è foraggiato da Islamabad. A sua volta nega ogni responsabilità il Pakistan, alleato regionale della Repubblica Popolare Cinese, che da decenni occupa una piccola porzione dello stesso Kashmir, territorio conteso fin dall’indipendenza ottenuta dal subcontinente indiano dal colonialismo inglese, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.  Come spiega il quotidiano “Il Manifesto”, l’attacco di Pahalgam è stato “rivendicato da The Resistance Front”, sigla minore fondata nel 2019 “che le autorità indiane indicano vicina alla ben più nota Lashkar-e-Taiba”, gruppo facente riferimento alla galassia di “al-Qaeda. Per Trf, l’azione è stata la risposta al rilascio di più di 80mila permessi di residenza in Kashmir a cittadini indiani non kashmiri, un modo per «creare una corsia preferenziale per un cambio demografico» dell’unica regione a maggioranza musulmana” dell’India, “oltre al piccolo arcipelago delle Laccadive”. Dopo l’attacco di Pahalgam, il più significativo dell’ultimo quarto di secolo contro civili, i due Paesi hanno annunciato espulsioni di massa dei rispettivi cittadini, la chiusura dei confini, il congelamento dei rapporti commerciali e – sul lato indiano – anche la revisione del delicato accordo che regola la gestione delle acque in arrivo dal bacino del fiume Indo. Su Radio Onda d’Urto l’intervista sul Kashmir a Diego Maiorano, docente di Storia dell’Asia moderna e contemporanea all’Università Orientale di Napoli. Ascolta o scarica