Discutere e agire con l’intelligenza del cuore

Pressenza - Monday, December 1, 2025

Ho letto il libro “Gandhi ad Auschwitz” di Antonio Minaldi pochi giorni dopo aver letto “La banalità del male” di Hannah Arendt, riflettendo attraverso l’uno e l’altro sul genocidio nazista degli ebrei e sul genocidio del popolo palestinese ad opera del governo israeliano, sulla violenza che inonda un intero popolo, con il sonno della ragione e il rifugio nella follia di un solo uomo che prende il posto della coscienza delle persone: non solo di quelle semplici e ingenue, ma anche di intellettuali e studiosi con posti di responsabilità. Allora come ora, la violenza penetra e infiamma fino a lanciarsi nella guerra, immaginando nuove prospettive del mondo.

Minaldi parla in prima persona da quella prospettiva dove non c’è desiderio di dominio sugli altri, ma voglia di rivoluzione, del cambiamento “ora e subito”. E per la rivoluzione dovremmo anche essere disposti a pagare un prezzo di sangue, purché essa sia realizzata al più presto -e comunque nell’arco della nostra vita- liberando il mondo da ogni ingiustizia.

Questo prezzo è stato pagato per la rivoluzione francese, per i moti rivoluzionari dell’Ottocento, per la Comune di Parigi, e poi ancora per la Rivoluzione di Ottobre e quella Cinese, fine a quella Cubana e così sarà ancora.

Io, se avessi potuto decidere, avrei voluto vivere in uno di quei tempi, anziché penare ora nel tempo del declino del capitalismo con scenari di guerra e senza una via di uscita come quella che pensammo di avere nel ’68.

Minaldi, tuttavia, si chiede se è bene domandare a ognuno di essere pronto a rinunciare alla propria vita pur di fare la rivoluzione. E vengono avanti i suoi dubbi.

Anche io cominciai a domandarmi, appena quattordicenne nel 1968, perché, se ci fosse stata una rivoluzione vincente, alcuni combattenti non avrebbero potuto vedere il trionfo dei loro ideali e non avrebbero passato il resto della loro in quella società giusta e ugualitaria che avevano contribuito a creare.

Mi sono tornati alla mente alcuni esempi, e il più vivo di tutti riguarda “el Vaquerito” un adolescente pastore di mucche che aveva seguito sin dall’inizio il Che fino a Santa Clara.

E lì, quando ormai l’esercito di Fulgentio Batista si era arreso, cercò di scovare alcuni cecchini che continuavano a sparare dall’alto di un campanile. Stando dietro un muro, “el Vaquerito” individuò il luogo da cui provenivano gli spari e sollevò un attimo la testa per vedere in faccia chi sparava. Questo gli fu fatale perché in quell’attimo il cecchino lo colpì in fronte. El Vaquerito morì all’istante. E nella sua giovane vita non vide i cambiamenti di Cuba rivoluzionaria. La sua vita se ne andò per la canna di un fucile e l’universo cadde nel nulla con tutte le stelle, il sole e la luna.

Molti tra i filosofi da me studiati al liceo dicevano che la vita, l’universo, Dio stesso, esistono se qualcuno li avverte, li vede, li percepisce. Ma se nessuno sente, vede, percepisce, tutto il creato è come se non fosse mai esistito perché l’universo è in noi.

E gli esempi potrebbero continuare: con la foto del miliziano che cade per difendere la repubblica spagnola, e perfino con il computer umanizzato di “2001 odissea nello spazio”.

Perciò oggi sono d’accordo Minaldi: una rivoluzione è più giusta se fa meno vittime. E non solo fra i rivoluzionari, ma anche fra gli avversari: perché questi potenzialmente passerebbero dalla parte dei rivoluzionari se appena riconoscessero i benefici della rivoluzione.

E se negli anni ’60 e ’70, con un certo romanticismo, approvavamo l’idea che per la rivoluzione un prezzo di sangue avremmo potuto versarlo, dopo il riflusso degli anni ’80 sempre meno sono quelli che vorrebbero stare nelle file degli immolati.

E dunque abbiamo cominciato a credere in una rivoluzione che cambi il mondo per tutti, senza sacrificare alcuno.

Ci siamo ricordati allora della “Rivoluzione dei figli dei fiori”, della “Rivoluzione dei Garofani” nel Portogallo del 1974, e “dei venti rivoluzionari” in America Latina con i governi eletti dal popolo, e del movimento zapatista.

Antonio Minaldi arriva a immaginare Gandhi disteso sui binari che portavano ad Auschwitz come l’inizio di una rivoluzione pacifista.

La realtà è più fosca, però. E la lunga cronaca del processo ad Eichmann nel libro di Arendt si conclude con tristi considerazioni.

Da dove sorge l’immensa violenza della dittatura nazista, e poi: il popolo tedesco è più colpevole degli altri popoli?

Oggi dobbiamo dar ragione a quelli che con disincanto rispondevano che la follia nazista poteva ripetersi ancora: perché oggi abbiamo sotto gli occhi il genocidio del popolo palestinese voluto dal governo, dall’esercito e dai coloni israeliani.

In un paese che è considerato una democrazia occidentale, la maggioranza degli elettori ha votato Netanyahu, ora ricercato dalla Corte Penale Internazionale come criminale di guerra.

Non è solo colpa del funzionamento delle democrazie occidentali dove i cittadini hanno parola una volta ogni 5 anni e non possono mandare a casa anzitempo chi tradisce la loro fiducia. Alzando lo sguardo, scopriamo che la violenza della guerra genocida alligna nel desiderio forte di eliminare quelli che non sono della nostra razza, della nostra religione, delle nostre tradizioni.

Lo sterminio degli ebrei maturò nel progetto imperialista e colonialista dei nazisti, che arrivò a contagiare le stesse vittime del popolo ebraico che fornivano ad Eichmann gli elenchi delle persone da trasferire nei campi di concentramento, anche quando fu chiaro che non di trasferimento si trattava, ma di massacro.

Eichmann era davvero un uomo banale come ce ne sono tanti anche oggi. Eseguiva gli ordini impartiti mandando a morire anche gli ebrei di cui era stato fino a poco prima amico e conoscente. Al suo processo disse di non essere mai stato attraversato da dubbi nella sua coscienza, perché poneva ogni fede in Hitler, al quale aveva giurato, come tutti gli ufficiali tedeschi, fedeltà: non alla nazione, dunque, non allo stato con le sue leggi, non al popolo, ma fedeltà ad un uomo soltanto: Adolf Hitler.

Il processo ad Adolf Eichmann giunse 15 anni dopo quello di Norimberga. Entrambi i processi sembravano voler dare al mondo la speranza che mai più una guerra avrebbe portato al genocidio di un popolo. Questa speranza fu messa nelle mani dell’O.N.U. e produsse trattati internazionali che impegnavano la maggior parte dei paesi del mondo.

Questa speranza io l’ho pure sentita mia, almeno fino a quando, scomparsa dalla scena mondiale l’U.R.S.S., il dominio della politica internazionale è passato nelle mani degli USA che oggi parlano al mondo con la voce di Trump.

 

Ed infatti forzatamente l’ONU è stata messa all’angolo per far posto a Trump e ai suoi sodali, primo fra tutti Netanyahu. Ho visto in TV i servizi sulla fame a Gaza trasmessi da “PresaDiretta”. Ho sentito lo stesso sgomento viscerale, che sale fino alla mente e che sentivo già leggendo il processo ad Eichmannn. Le interviste trasmesse mostrano come gli uomini della Gaza Humanitarian Foundation, siano stati deliberatamente mandati ad uccidere i palestinesi in cerca di cibo.

L’organizzazione G.H.F. è composta da contractors e criminali, e viene finanziata dal governo americano, e da gruppi economici che restano nell’ombra. Essa è al servizio di ogni e qualsiasi governo pronto a pagare. Di facciata è una organizzazione no- profit ma i suoi “lavoratori” guadagnano 30.000 euro al mese. Con il consenso degli USA, la G.H.F. è stata assunta a contratto dal governo israeliano con lo scopo principale di lasciare l’ONU fuori dalla distribuzione del cibo. La Gaza Humanitarian Foundation considera il governo israeliano suo datore di lavoro e cliente e, come si sa, il cliente ha sempre ragione: intendendo, qui, dire che quando l’esercito israeliano lo chiede, gli operatori della GHF devono aprire il fuoco sui palestinesi che cercano il cibo.

Con Trump, Netanyahu (e anche con Putin) siamo giunti a un punto di non-ritorno per il diritto internazionale e per l’O.N.U. perché l’uno e l’altro non sono più garanzia per nessuno.

E i governi occidentali stanno sempre più preparandosi alla guerra prossima ventura, E.U. in testa.

E noi che cerchiamo di far sentire la voce della ragione, che ostinatamente discutiamo sempre più di pace, che continuiamo a sperare -malgrado ogni altra speranza- in un mondo diverso possibile -come si diceva a Porto Alegre- che possiamo fare?

Col cuore e con l’intelligenza, dobbiamo credere e puntare alla costruzione di un ordinamento internazionale condiviso e partecipato dai popoli e dai cittadini.

L’assemblea O.N.U. può essere ancora una buona occasione. Ma deve avere il potere di fermare i conflitti, gli assalti, le occupazioni militari, riaffermando il diritto fra i popoli, fondato sulla cooperazione, sulla fratellanza dei popoli, sull’internazionalismo.

E certamente GLOBAL SUMUD FLOTTILLA è un raggio di sole che fa sperare nel possibile incontro di intenti pacifisti ed internazionalistici.

Al contempo, dobbiamo impedire l’affermarsi di un ordine internazionale fondato sul protagonismo dei capi di stato e di governo, personaggi corrotti e votati all’ arricchimento proprio e delle proprie cricche.

Dobbiamo riprendere la DISCUSSIONE là dove l’avevamo interrotta quando andavamo ai forum mondiali (il libro di Minaldi è una buona opportunità). Dobbiamo in tanti scrivere e non solo: fare anche teatro, musica, pittura per diffondere le idee contro la guerra.

Penso che, per la pace, è anzitutto fondamentale l’educazione e la crescita nelle scuole e in ogni altro luogo in cui i giovani si muovono. E per ciò non è un compito affidato solo agli insegnanti, anche se la scuola resta il luogo privilegiato per l’educazione alla pace.

Nel frattempo dobbiamo prevenire con la forza della ragione che giungano a scuola voci inneggianti alla guerra, al nazionalismo, al patriottismo, al razzismo, anche quando si camuffano con la difesa necessaria.

 

 

Redazione Palermo