L’accoglienza a Caserta non era un reato: «Sette anni d’attesa per veder riconosciuta la verità»Dopo sette anni si chiude con un’archiviazione totale una delle indagini più
lunghe e controverse della provincia di Caserta. La Procura di Santa Maria Capua
Vetere ha infatti disposto l’archiviazione per tutti gli indagati nell’inchiesta
che nel 2018 aveva colpito attivistə del Centro Sociale Ex Canapificio,
operatori dell’accoglienza, rappresentanti del mondo religioso e funzionari
pubblici del Comune e del Servizio Centrale dello Sprar, il Sistema nazionale di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati, attualmente conosciuto come SAI.
Un’indagine che aveva messo «sotto accusa una rete di cittadini, associazioni e
istituzioni che avevano scelto l’accoglienza diffusa come modello alternativo al
sistema emergenziale», come ha ricordato ieri mattina in conferenza stampa uno
degli ex indagati, Fabio Basile, all’epoca legale rappresentante dell’Ats
costituita per l’accoglienza e presidente del Centro sociale. «Siamo qui – ha
detto – per raccontare non solo la fine di un processo giudiziario, ma anche la
verità su una vicenda che ha segnato la storia di Caserta».
L’INIZIO DELL’INCHIESTA: LA DENUNCIA E IL CLIMA POLITICO
La vicenda prende avvio nell’ottobre 2018, in un contesto politico segnato
dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e dalla triplice campagna
contro le persone migranti, i progetti di accoglienza e i centri sociali.
«L’indagine parte formalmente il primo ottobre 2018 per due motivi», ha spiegato
Basile. «Il primo è una denuncia fatta da un ex operatore che noi stessi avevamo
segnalato per gravi irregolarità. Il secondo nasce in seguito a un episodio
razzista: due nostri beneficiari furono colpiti da pallini di gomma da un’auto
che gridava “Salvini, Salvini!”. Noi denunciammo l’accaduto e il ministro,
invece di condannare il gesto, rispose attaccandoci pubblicamente, dicendo che
era assurdo che un centro sociale occupato gestisse un progetto Sprar da due
milioni e mezzo l’anno».
Da quel momento, ha proseguito Basile, «si è scatenata una campagna mediatica e
politica che ci ha trasformato in un bersaglio. È partita una macchina
investigativa imponente: intercettazioni telefoniche e ambientali per mesi,
perquisizioni in tutte le case dove si svolgeva il progetto, con 80 carabinieri
ed elicotteri». Ma dai controlli, ha ricordato, «non emersero irregolarità o
persone accolte non presenti, ma una sola caldaia rotta. Eppure anche quella
frase intercettata – “la caldaia non funziona” – fu interpretata come un codice
segreto per nascondere chissà cosa».
L’inchiesta, ha raccontato Basile, «sarebbe dovuta durare al massimo due anni.
Invece dal settembre 2019 all’ottobre 2024 il fascicolo è rimasto nel cassetto
della Procura». Un tempo lunghissimo che ha avuto, per gli indagati, il peso di
una condanna anticipata. «Ci sono due pene – ha detto – una è quella che può
arrivare alla fine del processo, l’altra è quella dell’attesa. Sette anni di
sospetto e silenzio sono una pena che nessuno potrà restituirci».
Solo nell’autunno 2024, ha spiegato, «ci è arrivato l’avviso di conclusione
delle indagini. Abbiamo studiato 12.000 pagine di atti e capito che l’intero
impianto accusatorio era fondato su forzature, errori, illazioni e
fraintendimenti volti a dimostrare il teorema dell’accusa». Dopo mesi di memorie
e interrogatori, la Procura ha infine riconosciuto che non c’erano elementi per
sostenere l’accusa, chiedendo l’archiviazione per tutti i 17 indagati che però,
come spesso accade, avevano già subito la gogna mediatica locale e nazionale.
«Oggi – ha aggiunto Basile – la giustizia è stata fatta. Non solo per noi, ma
per un’intera città che ha creduto in un sistema di accoglienza trasparente e
solidale».
IL RICORDO DI SYLLA MAMADOU: «NON DOVEVA MORIRE COSÌ»
Prima di lasciare la parola a Mamadou, Mimma D’Amico ha voluto ricordare Sylla
Mamadou, il 35enne senegalese, «un nostro amico, accolto nel progetto Sprar,
scomparso meno di un mese fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere».
«Nel 2019 – ha ricordato – girammo un video in cui una madre italiana difendeva
Sylla, che allora era autista volontario del Piedibus, quando il decreto
Salvini impose l’espulsione dei richiedenti asilo dal sistema SPRAR. Noi
decidemmo di non cacciare nessuno, anche se il ministero non pagava più i
servizi. Quella fu una stagione durissima ma piena di solidarietà. Oggi, davanti
a questa archiviazione, vogliamo dire una cosa: Sylla non doveva morire così.
Abbiamo fiducia che la magistratura voglia fare piena luce sulla sua morte».
KUASSI MAMADOU: «ABBIAMO DIMOSTRATO CHE A CASERTA LA BUONA ACCOGLIENZA È
POSSIBILE»
Poi ha preso la parola Mamadou Kuassi, uno dei protagonisti storici del progetto
Sprar, mediatore e riferimento per la formazione professionale che all’epoca non
fu indagato. Ha ricordato quegli anni difficili ma anche ricchi di speranza:
«Queste indagini ci hanno scosso profondamente, come Movimento Migranti e
Rifugiati ma anche come Centro Sociale. Insieme a Mimmo Lucano, sindaco di
Riace, siamo andati a Bruxelles a rappresentare Caserta e la Campania, portando
l’esempio di come qui si poteva fare una buona accoglienza. Era la prima volta
che ci invitavano a parlare davanti al Parlamento europeo: raccontammo che in
Italia, e proprio a Caserta, l’accoglienza si poteva fare bene, con trasparenza
e umanità». L’attivista ha ricordato la notte delle perquisizioni, nel febbraio
2019: «Alle quattro del mattino iniziarono le chiamate: “Ci sono i carabinieri a
casa nostra, che dobbiamo fare?”. Io dicevo: aprite le porte, lasciateli
entrare. In 23 appartamenti arrivarono a perquisire tutto. Non mi aspettavo una
cosa del genere, perché quei ragazzi studiavano l’italiano, facevano tirocini,
cercavano lavoro. Alcuni venivano persino dal Nord per partecipare a un progetto
che era riconosciuto come un’eccellenza».
«Erano anni difficili – ha aggiunto -. I fondi dal Ministero ci furono bloccati
a seguito dell’apertura dell’indagine per truffa, gli operatori aspettavano
mesi, noi andavamo nei supermercati a chiedere aiuti per portare avanti le
attività. Abbiamo chiesto prestiti alle persone comuni pur di mantenere le
attività e pagare i fitti. Abbiamo dimostrato che a Caserta la buona accoglienza
era possibile nonostante gli attacchi e nonostante l’indifferenza del Comune. E
grazie a quel lavoro oggi tanti di quei ragazzi vivono qui, lavorano, hanno una
famiglia, una casa. Alcuni sono diventati parte della comunità».
Poi ha rivolto un pensiero al suo amico: «Mi dispiace che abbiamo perso Sylla,
che era uno di noi, un fratello. Spero che venga fatta luce su quanto è
accaduto, perché non è giusto morire così. Da lui dobbiamo ripartire, con la
speranza di riaprire un progetto SAI a Caserta. Questo territorio se lo merita».
GLI AVVOCATI: «UN PROCESSO POLITICO COSTRUITO SUL NULLA»
Alla conferenza stampa hanno partecipato anche i legali del collegio difensivo,
Carmine Malinconico, Antonello Fabrocile e Francesco Bugliatti, che hanno
ricostruito il percorso giudiziario.
«Questa vicenda si chiude con un decreto di archiviazione – ha spiegato
Malinconico – che significa che non esistevano neppure gli elementi minimi per
celebrare un processo. Non si poteva provare nulla di illecito, perché nulla di
illecito era stato commesso».
L’avvocato ha parlato di un «processo nato e cresciuto sul nulla, ma con un
dispiego di mezzi degno di un’indagine di mafia: intercettazioni, consulenze,
elicotteri». E ha sottolineato come «l’intera impostazione sembrasse finalizzata
a dimostrare a tutti i costi una teoria preconcetta: che dietro l’accoglienza ci
fosse del malaffare».
Per Il centro sociale ex Canapificio, l’archiviazione rappresenta la fine di un
incubo ma anche un punto di ripartenza. «Nessuno ci restituirà il sonno perso –
ha concluso Basile – ma da oggi possiamo dire che la nostra storia è limpida.
Abbiamo sempre lavorato alla luce del sole, in collaborazione con le istituzioni
e la città».
L’ex Canapificio, chiuso e sotto sequestro dal 2019, è stato per anni uno dei
principali luoghi di solidarietà in Campania. Ora il progetto continuerà sotto
una nuova forma: «Nascerà un osservatorio sociale a favore delle fasce deboli e
contro la criminalizzazione dei diritti».
«Questa archiviazione – ha concluso l’avvocato Malinconico – è una buona notizia
per la democrazia. Dimostra che la solidarietà non è un reato, e che la
giustizia, anche se lenta, può restituire la verità».