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«The Ashes of Moria», un docufilm a cinque anni dall’incendio
Cinque anni dopo l’incendio che tra l’8 e il 9 settembre 2020 ha distrutto il campo di Moria sull’isola di Lesbo, le sue macerie continuano a pesare sulle vite di chi vi ha vissuto e sulla memoria collettiva europea. Il documentario The Ashes of Moria, scritto da Majid Bakhshi e Davide Marchesi e prodotto da ColoreFilm, raccoglie le voci di persone migranti, operatori e attivisti che hanno conosciuto da vicino quella realtà. Attraverso le loro testimonianze, il film ricostruisce la durezza quotidiana del campo, le ferite che ha lasciato e il ruolo che ha avuto – e che continua ad avere – nelle politiche europee di deterrenza, contenimento e detenzione dei migranti. Un racconto, quindi, che evidenzia lo stretto legame nel laboratorio greco tra la violenza delle frontiere e i campi di confinamento, e che oggi arriva in Italia grazie alla distribuzione esclusiva di Altreconomia sul proprio canale YouTube. Credits: Prodotto da ColoreFilm Scritto da Majid Bakhshi e Davide Marchesi Regia e montaggio: Davide Marchesi Assistente al montaggio: Alessio Dicandia Distribuzione in esclusiva per l’Italia: Altreconomia Interviste: Mo Zaman Zahra Gardi Mo Aliko Masouma Hussaini Zahra Mohammedi Jack Ferguson Carlotta Passerini Lefteris Papagiannakis Majid Bakshi Davide Marchesi Patrick Münz Spyros Galinos
Geografie di confinamento e governance dell’eccezione: i campi per persone in movimento in Grecia. Corinto come lente di analisi
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Università di Bologna Dipartimento Scienze Statistiche “Paolo Fortunati” – STAT Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale GEOGRAFIE DI CONFINAMENTO E GOVERNANCE DELL’ECCEZIONE: I CAMPI PER PERSONE IN MOVIMENTO NELLA GRECIA CONTINENTALE. CORINTO COME LENTE DI ANALISI Tesi di laurea in Geografia dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile Elisa Lista (A.A. 2024/2025) Scarica l’elaborato INTRODUZIONE La seguente tesi si propone di analizzare in che modo la configurazione architettonica e spaziale, la localizzazione geografica e il sistema di governance dei campi per richiedenti asilo situati nell’entroterra greco – con particolare attenzione al campo di Corinto – riflettano e riproducano logiche di controllo, segregazione e marginalizzazione nei confronti delle persone in movimento che vi risiedono. Le stesse logiche di contenimento che caratterizzano le politiche migratorie e d’Asilo dell’Unione Europea. L’obiettivo è quello di interrogare le modalità attraverso cui il campo – lungi dall’essere uno spazio neutro – si configura come un dispositivo attivo nella gestione dei corpi dei migranti. Al tempo stesso, la ricerca intende esplorare come tale geografia venga quotidianamente vissuta, rinegoziata e abitata dalle persone che vi passano attraverso. La riflessione si articola attorno ad alcune domande centrali: Che cosa si intende per “forma campo” (Rahola, 2003)? In che modo le scelte architettoniche, infrastrutturali e localizzative influenzano la vita quotidiana dei migranti? Come si intreccia l’organizzazione spaziale dei campi con la logica di contenimento che sottende le politiche europee in materia di migrazione e asilo? In che modo questo si declina nel contesto dei campi della Grecia continentale? Qual è l’impatto della governance multilivello dell’accoglienza – e in particolare della gestione dei fondi europei per la migrazione – nel plasmare materialmente e simbolicamente questi spazi? Infine, quali forme di socialità e resistenza emergono all’interno di ambienti pensati per segregare? Per rispondere a questi interrogativi, è stato adottato un approccio misto, integrando strumenti di tipo qualitativo e autoetnografico con strumenti di tipo quantitativo. La ricerca si è articolata in due momenti di studio sul campo e in un’estensiva analisi documentale. Nel corso di due mesi trascorsi a Corinto, nell’estate 2024, è stata condotta un’osservazione partecipante volta a comprendere le dinamiche quotidiane della vita nel campo di Corinto e a costruire relazioni che hanno permesso di accedere a spazi, pratiche e narrazioni spesso inaccessibili a osservatori esterni. Il coinvolgimento diretto e prolungato e le interazioni informali hanno reso possibile la raccolta di dati qualitativi densi e l’accesso a informazioni sul funzionamento del campo assenti nei report ufficiali del Governo greco. Nel dicembre 2024 è stato effettuato un breve ritorno in Grecia, finalizzato alla raccolta di ulteriori testimonianze e documentazione fotografica, attraverso un lavoro congiunto con Gaia Brunialti. Una parte delle informazioni presentate – in particolare nell’ultimo capitolo – derivano dalle esperienze condivise da persone che hanno vissuto per mesi o anni all’interno del campo di Corinto e che hanno acconsentito a raccontare le loro storie, anche attraverso interviste in differita nei mesi successivi al mio ritorno, e a condividere fotografie degli spazi interni del campo. Per tutelarne l’anonimato e proteggere la loro posizione giuridica – spesso precaria e vulnerabile – ogni riferimento personale è stato reso non identificabile. La maggior parte degli interlocutori coinvolti sono giovani uomini provenienti da Afghanistan, Iraq, Palestina e Iran. L’assenza di testimonianze femminili costituisce un limite dell’indagine, riconducibile alla ridotta partecipazione delle donne alle attività del Community Center, alla barriera linguistica importante e alla diffidenza nel condividere informazioni personali. A complemento del lavoro qualitativo, si è affiancato un approfondito lavoro di ricerca documentale e quantitativa relativa alla governance dei fondi europei destinati alla gestione dei flussi migratori e all’accoglienza in Grecia. Sono state esaminate e confrontate fonti ufficiali e primarie, come documenti di programmazione finanziaria forniti dal Ministero dalla Migrazione e dell’Asilo Greco e dalla Commissione Europea, affiancate a report di monitoraggio di organizzazioni come Il Greek Council for Refugees, Refugee Support Aegean e Mobile Info Team, e schede informative dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). All’analisi della letteratura scientifica sul ruolo politico della geografia dei campi profughi, si affianca un’analisi cartografica basata su immagini satellitari e fotografie aeree che consentono di osservare la “mappa dei campi” presenti sul territorio greco e la configurazione spaziale del territorio che li circonda. Il lavoro di ricerca non è stato privo di ostacoli, in particolare nell’accesso a dati ufficiali e fonti istituzionali. La trasparenza da parte del governo greco risulta limitata, sia per quanto riguarda la pubblicazione di dati relativi ai campi, sia in merito all’impiego dei fondi europei destinati alla loro gestione. Sia sul sito del Ministero greco della Migrazione e dell’Asilo, sia su quello della Commissione Europea, reperire dati primari e non aggregati relativi all’utilizzo dei fondi europei risulta particolarmente complesso. Le informazioni pubblicate riguardano prevalentemente programmi generali di intervento, spesso espressi in termini vaghi o incoerenti tra loro. Non sono disponibili dati dettagliati sulle singole voci di spesa, né è possibile accedere a documentazione specifica per ciascun campo profughi. La trasparenza è quindi limitata a una panoramica delle misure di intervento o a progetti estesi all’insieme dei centri di accoglienza presenti sul territorio greco, senza distinzione tra strutture, località o modalità di implementazione. L’accesso ai campi da parte delle ONG è fortemente regolato, e l’interazione con il personale interno spesso subordinata a lunghe trafile burocratiche, raramente efficaci. Le principali organizzazioni internazionali coinvolte nella governance dei campi, come l’OIM, si limitano alla diffusione di dati quantitativi sulla popolazione residente, evitando di affrontare in maniera critica le condizioni materiali dell’accoglienza. Ostacoli significativi emergono anche nell’acquisizione di testimonianze dirette da parte delle persone che vivono nei campi. Tali difficoltà riflettono, in parte, l’esigenza di adottare modalità di ascolto attente e non intrusive: esporre la propria esperienza può essere difficile per le persone in movimento, soprattutto quando segnata da violenze e vissuti dolorosi. In secondo luogo, condividere informazioni può rischiare di compromettere il buon andamento della richiesta d’asilo o il rapporto con le autorità che gestiscono i campi. Per queste ragioni, è stato fondamentale adottare un approccio cauto e sensibile, che lasciasse spazio e voce alle persone in movimento nei limiti tracciati da loro stesse. La tesi si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo offre una panoramica del contesto migratorio che ha interessato la Grecia negli ultimi anni, un crocevia tra la Rotta migratoria del Mediterraneo Orientale e la Rotta Balcanica. Sebbene geograficamente concepita come territorio di transito, la Grecia si è trasformata, a partire dal 2016 e in seguito all’accordo UE-Turchia, in un punto di stallo per migliaia di persone in movimento. In questo quadro, si analizza la politica di esternalizzazione dell’Unione Europea, che scarica la responsabilità di gestione dei flussi migratori agli Stati membri posti ai confini esterni dell’area Schengen, come la Grecia. Il capitolo approfondisce inoltre il funzionamento del sistema d’asilo a livello europeo e greco, evidenziando come i lunghi processi burocratici portino alla congestione di centri di accoglienza e all’istituzionalizzazione dei cosiddetti “campi profughi”. Il secondo capitolo si concentra sull’analisi dei luoghi dell’accoglienza e sulla definizione della “forma campo”, approfondendone la storia e la funzione simbolica. Esplora la configurazione architettonica, spaziale e temporale dei campi, indagando il modo in cui le agenzie umanitarie ne fanno al contempo uno strumento politico di cura, sorveglianza e controllo. Viene inoltre affrontata la questione della depoliticizzazione del richiedente asilo, spesso ridotto alla figura passiva di mera vittima, ma anche la nuova attenzione della letteratura alle forme di socialità, agency e resistenza che emergono all’interno dei campi e che plasmano la loro materialità. Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dell’evoluzione del sistema di accoglienza in Grecia e delle modalità di gestione dell’asilo negli ultimi anni. A partire dalla fase emergenziale del 2016, si esamina la transizione dai programmi di accoglienza diffusa alla progressiva centralità dei campi come unica forma di accoglienza prevista. Viene analizzata la distribuzione territoriale dei campi nell’entroterra greco, il loro isolamento spaziale rispetto ai servizi essenziali, le loro caratteristiche materiali. Il capitolo affronta anche le difficoltà incontrate nell’accesso a dati pubblici sui campi, segnalando la limitata trasparenza del Governo greco nella gestione dei siti e le limitazioni nell’ingresso, che spesso impediscono di raccogliere testimonianze dirette dei residenti. Il quarto capitolo è dedicato all’analisi dei fondi europei destinati alla gestione dei flussi migratori in Grecia, con un confronto tra il ciclo di programmazione 2014-2020 e l’attuale ciclo di programmazione 2021-2027. L’attenzione si concentra in particolare sui fondi utilizzati per la gestione dei campi dell’entroterra greco e sulla governance multilivello dell’accoglienza, che coinvolge attori istituzionali europei, autorità greche, organizzazioni internazionali e soggetti privati. Vengono infine discusse le implicazioni materiali derivanti dallo spostamento delle competenze gestionali dei campi esclusivamente nelle mani delle autorità greche, evidenziando il peggioramento delle condizioni di vita per i richiedenti asilo che vi abitano.  Il quinto capitolo si focalizza sul caso studio del campo di Corinto, adottando una prospettiva etnografica e spaziale e dando voce alle narrazioni delle persone in movimento che l’hanno abitato. Viene percorso il tragitto che collega il centro urbano al campo, analizzando gli spazi che lo compongono, con l’aggiunta di considerazioni derivanti dall’osservazione di immagini satellitari che mostrano la configurazione del territorio che lo circonda. L’attenzione si focalizza sulla carenza strutturale di servizi essenziali e sulle condizioni materiali di vita, ma anche sulle forme di appropriazione e politicizzazione dello spazio – come i graffiti – e sulle pratiche di socialità quotidiana. In parallelo, si affronta la condizione di sospensione e immobilità che caratterizza l’esperienza dell’attesa in un campo.
Nessuno Stato può negare i bisogni essenziali dei richiedenti, neanche in caso di afflusso imprevisto
Non ci sono emergenze che tengano: gli Stati membri dell’Unione europea devono sempre garantire ai/alle richiedenti asilo condizioni di vita dignitose, anche quando le strutture di accoglienza risultano sature a causa di un arrivo imprevisto di persone in cerca di protezione. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Ue con la sentenza nella causa C-97/24, riguardante due richiedenti asilo – un cittadino afghano e uno indiano – che in Irlanda si erano trovati a vivere in strada, senza alloggio né mezzi di sostentamento. Le autorità irlandesi avevano consegnato a ciascuno solo un buono da 25 euro, rifiutandosi di assegnare loro un posto nei centri di accoglienza e negando quindi anche l’accesso al piccolo sussidio giornaliero previsto dalla normativa nazionale. I due richiedenti asilo hanno denunciato di aver vissuto per settimane all’aperto o in alloggi di fortuna, senza cibo né possibilità di mantenere l’igiene, e di essere stati esposti a violenze e pericoli. Davanti all’Alta Corte irlandese, hanno chiesto il risarcimento del danno subito. Il governo di Dublino ha riconosciuto la violazione del diritto dell’Unione, ma ha invocato la “forza maggiore”, attribuendo la saturazione delle strutture all’ondata di arrivi seguita alla guerra in Ucraina. La Corte di giustizia ha però respinto questa linea di difesa. Secondo i giudici di Lussemburgo, la direttiva 2013/33/UE (cosiddetta direttiva accoglienza 1) impone agli Stati membri di garantire “condizioni materiali di accoglienza che assicurino un tenore di vita adeguato” (art. 17), attraverso alloggio, sostegno economico o buoni. Tali condizioni devono coprire i “bisogni essenziali” dei richiedenti e tutelarne la salute fisica e mentale. La mancata erogazione di queste misure – anche solo temporaneamente – costituisce una violazione “manifestamente e gravemente” contraria al margine di discrezionalità lasciato agli Stati. Ciò che ha stabilito la Corte vale per tutti gli Stati membri, Italia compresa, dove il tema dell’accoglienza resta al centro del dibattito politico quotidiano. Nel nostro Paese, infatti, le autorità spesso non garantiscono condizioni adeguate ai/alle richiedenti asilo, che possono rimanere per mesi – talvolta per oltre un anno – esclusi/e dal sistema di accoglienza, in attesa di un posto. La Corte ha inoltre ricordato che la direttiva prevede un regime derogatorio (art. 20, par. 9), applicabile solo in circostanze eccezionali e per un periodo limitato, quando un afflusso improvviso di richiedenti esaurisce temporaneamente la capacità ricettiva degli Stati. Va però sottolineato che negli ultimi anni i numeri delle richieste d’asilo non hanno registrato aumenti tali da configurare un’emergenza. E comunque, anche in uno scenario del genere, ha precisato il collegio, resta fermo l’obbligo di rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, in particolare l’articolo 1, che tutela la dignità umana, e l’articolo 4, che vieta trattamenti inumani o degradanti. “Nessuno Stato membro – scrive la Corte – può invocare l’esaurimento delle strutture di accoglienza per sottrarsi all’obbligo di soddisfare le esigenze essenziali dei richiedenti protezione internazionale”. L’Irlanda, nel caso di specie, non ha dimostrato alcuna impossibilità oggettiva di adempiere ai propri obblighi, ad esempio attraverso il ricorso ad alloggi temporanei alternativi o a sussidi economici. La sentenza stabilisce dunque che un simile comportamento può configurare una “violazione sufficientemente qualificata” del diritto dell’Unione, aprendo la strada alla responsabilità dello Stato e al diritto dei richiedenti di ottenere un risarcimento. Una decisione chiara e netta, che nessuno Stato dell’Unione europea può fingere di non conoscere. Corte di Giustizia UE, sentenza dell’1 agosto 2025 1. Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. ↩︎
«Accoglienza sotto assedio»: la denuncia del collettivo L’AltraMarea a Camigliatello Silano (CS)
«Accogliere con dignità non è una scelta, è un obbligo morale». Con queste parole il collettivo L’AltraMarea di Cosenza ha annunciato la sua nascita e la finalità di denunciare le condizioni dei cittadini e delle cittadine migranti all’interno dei centri di accoglienza governativi e dei centri di detenzione.  Il collettivo si impegna a monitorare, informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle criticità e le ingiustizie che «ancora oggi angosciano i migranti in questi contesti». Inoltre, si propone di far conoscere le reali condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, fare pressione sulle autorità e promuovere un cambiamento dell’attuale ordinamento giuridico in materia di immigrazione. A fine luglio L’AltraMarea ha diffuso il suo primo report di un monitoraggio dal titolo eloquente: Accoglienza sotto assedio. Sceriffi, minacce e degrado a Camigliatello. Il documento di denuncia, ripreso e confermato dall’articolo della stampa locale 1 , raccoglie testimonianze e fotografie dall’ex hotel La Fenice, trasformato da tempo in Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) gestito dalla società locale Alprex S.a.s. «È singolare – scrive il collettivo – che l’ex Hotel La Fenice – simbolo mitologico di rinascita – si trasformi invece nell’antitesi della vita dignitosa. Qui, dove persone già segnate da violenze e traumi dovrebbero ricominciare, si trovano invece abbandono e maltrattamenti». Già nel 2016 erano state segnalate «violazioni quotidiane dei diritti essenziali dei migranti, parcheggiati come pacchi» sotto la gestione dell’associazione A.N.I.MED. «Siamo tornati a distanza di nove anni», spiega il gruppo di attivistə, «e constatiamo purtroppo un’involuzione del sistema di accoglienza». Tra le testimonianze raccolte spicca quella di T., giovane ospite del centro. Mostrando foto dei pasti, racconta di cibo servito «in piatti di plastica sigillati, gonfi per fermentazione batterica» e «maleodoranti». «Alle nostre proteste – denuncia – la risposta è stata: o mangiate questo o null’altro». Le condizioni igieniche vengono descritte come «un girone infernale»: docce incrostate, rubinetteria assente, muri segnati da calcare e ruggine. Agli ospiti viene consegnato «un solo cambio di vestiti all’arrivo e più nulla», con la lavatrice riservata «esclusivamente alla direzione». I materassi sarebbero «lerci, bucati, macchiati di aloni gialli e marroni», le stanze «umide e ammuffite». Gli ospiti parlano anche di «assenza totale di attività»: niente corsi di lingua, nessuna formazione, nessun percorso di inserimento. «I ragazzi passano le giornate nell’inerzia, vagando lungo la statale o seduti sulle panchine dei bar». Sul piano sanitario, il racconto è analogo: «Viene somministrato sempre e solo lo stesso farmaco, l’Oki. Nessun medico, nessun avvocato, nessuno psicologo». Il punto più inquietante riguarda la gestione interna. «Un membro della direzione, identificato come Alessandro, si atteggia a sceriffo – prosegue L’AltraMarea –. Diversi migranti ci raccontano che avrebbe mostrato una pistola per intimorire gli ospiti. In un caso, documentato da video, avrebbe addirittura aggredito fisicamente un minore». Chi protesta rischia ritorsioni. È lo stesso T. a raccontarlo: dopo aver contattato i carabinieri per denunciare le condizioni del centro, si sarebbe visto decurtare il pocket money di 25 euro al mese. «Un sopruso senza alcuna giustificazione», denuncia il collettivo. «Cambiano i padroni, ma rimane la stessa disumanità», constata il collettivo L’AltraMarea. «Ci chiediamo come sia possibile che le istituzioni non intervengano davanti a episodi tanto gravi, che riguardano anche minori. Queste persone sopravvissute a tragedie immense vengono ridotte a sgualcite banconote ambulanti, utili solo ad alimentare il business di gestori». E conclude: «Non si può continuare a ignorare che dietro ogni numero ci sono vite, ferite e speranze di rinascita». 1.  Il buio ai piedi della candela: viaggio in Sila nell’ex hotel La Fenice, tra degrado e paura, di Alessia Principe – CosenzaChannel ↩︎
Trieste, richiedenti asilo senza accoglienza e sotto sgombero
Trieste si trova ancora una volta al centro di una crisi umanitaria legata alla non gestione dei richiedenti asilo e alla violazione dei loro diritti fondamentali. Dopo la conferenza stampa del 5 agosto, le organizzazioni solidali – Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), Diaconia Valdese, International Rescue Committee (IRC), Linea d’Ombra Odv, No Name Kitchen, Fondazione Luchetta e ResQ – hanno diffuso nuovi dati che fotografano un ulteriore peggioramento della situazione. Nelle ultime settimane sono iniziati allontanamenti forzati nell’androne accanto all’ingresso del Porto Vecchio, dove circa un centinaio di persone senza un posto in accoglienza trovano riparo per la notte. Gli interventi, affidati alla ditta Italspurghi, hanno incluso il sequestro di beni essenziali come coperte, sacchi a pelo e persino scarpe. «Si tratta di una pratica vessatoria e inaccettabile in uno Stato di diritto – denunciano le organizzazioni – e per questo la condanniamo con forza». Per contrastare quella che definiscono una «deriva repressiva», le realtà solidali hanno avviato presidi quotidiani a partire dalle 7 del mattino nell’androne del Porto Vecchio, con l’obiettivo di impedire che simili scenari si ripetano. E proprio nel giorno dei sequestri, sono arrivate in città decine di coperte donate da altre comunità solidali: «Un segno che, dinanzi alla violenza istituzionale, la solidarietà non si spegne». Secondo i dati diffusi, sono almeno 113 le persone richiedenti asilo abbandonate in strada in attesa di accoglienza. Circa la metà attende da tre settimane, nonostante le continue segnalazioni alla Prefettura. Solo ieri sono stati trasferiti quattro nuclei familiari – due dei quali con minori – che fino a quel momento avevano evitato di dormire in strada solo grazie all’intervento delle associazioni, che avevano reperito posti nei dormitori di emergenza. Tra chi resta ancora senza riparo si registrano numerosi casi di vulnerabilità: persone con problemi di salute non curati e aggravati dall’impossibilità di accedere a un ricovero notturno. A ciò si aggiunge un ulteriore problema: i tempi di registrazione della domanda d’asilo in Questura, che dopo una breve riduzione a luglio, sono tornati a dilatarsi. «Molti vengono respinti con motivazioni poco trasparenti e questo significa che non possono accedere né all’accoglienza né a un’assistenza sanitaria adeguata», spiegano le associazioni. Sul fronte dei trasferimenti, nel mese di agosto ne è stato organizzato uno a settimana, ciascuno da 60 persone: un numero ritenuto insufficiente, soprattutto in un periodo tradizionalmente segnato da un aumento degli arrivi. Le organizzazioni ricordano che il diritto dell’Unione Europea non ammette eccezioni: «La recente sentenza della Corte di Giustizia (C-97/24 del 1° agosto 2025) lo conferma: i richiedenti asilo hanno sempre diritto a un’accoglienza. In caso di carenza di posti, lo Stato deve attivare immediatamente strutture provvisorie, anche in collaborazione con i Comuni, nel rispetto del principio di leale collaborazione tra istituzioni». Ph: Lorena Fornasir – Linea d’Ombra Alla luce di questo quadro, la richiesta alle istituzioni è perentoria: «Chiediamo la sospensione immediata degli allontanamenti e dei sequestri, l’accesso all’accoglienza per tutti, l’aumento dei trasferimenti e l’attivazione di una struttura ad alta rotazione per le persone oggi abbandonate in strada». Infine, l’appello alla comunità: «Sostenete i presidi di solidarietà ogni mattina alle 7 nell’androne del Porto Vecchio, contribuite alla raccolta fondi e di beni organizzata dalla Fondazione Luchetta e continuate a supportare Linea d’ombra, che ogni giorno si prende cura delle persone migranti».
Trieste, Porto Vecchio: sveglie all’alba e sgombero delle persone che non hanno altro rifugio
Da oltre venti giorni, nei dintorni della stazione di Trieste, si ripete ogni mattina lo stesso copione. Alle cinque, forze di polizia statale e locale sgomberano le persone che trovano riparo nell’androne coperto alla sinistra dell’ingresso di Porto Vecchio. Non sono persone in transito, ma richiedenti asilo o titolari di documenti validi. Nei giorni scorsi altre organizzazioni avevano denunciato la situazione drammatica dell’accoglienza dei richiedenti asilo in città. Al 4 agosto 2025 sono stati segnalati almeno 173 uomini singoli, 2 donne sole e 4 nuclei familiari con bambini senza alcun supporto da parte delle autorità. Secondo l’associazione Linea d’Ombra ODV, la situazione è degenerata a partire dal 22 luglio, quando “un’assurda operazione di polizia di 60 carabinieri, fatti arrivare in parte dall’Emilia, con cani antidroga” si è conclusa con “una ventina di denunce per occupazione di suolo pubblico nei confronti di migranti che avevano già fatto o stavano facendo domanda d’accoglienza”. L’associazione sottolinea che l’azione repressiva si regge su un pretesto – la lotta allo spaccio – che riguarda “un minimo gruppo per minime quantità”, mentre il vero obiettivo sarebbe “continuare nell’uso politico del fantasma del migrante, su cui tutte le forze di governo contano per strappare voti”. Per LDO, “è evidente il carattere di propaganda politica della recente operazione” e le modalità messe in campo segnano “una fase di rapido passaggio da una Repubblica costituzionale a uno Stato di polizia, attuato con decreti legge emanati in spregio alla legge”. La critica non si limita al piano politico. L’associazione descrive le condizioni quotidiane: persone che si presentano in Questura per formalizzare la domanda d’asilo vengono rimandate indietro di giorno in giorno, costrette a dormire in strada. “Sono quindi persone aventi diritto – scrive LDO – ma, come Israele dimostra ogni giorno, arrestando in pieno Mediterraneo chi cerca di portare aiuti nei campi martoriati di Gaza, diritto è ormai una parola priva di senso”. Linea d’Ombra, che da anni offre aiuto concreto in piazza “per aiutare le persone, semplicemente, a vivere, creando relazioni basate sul rispetto e la solidarietà”, invita a manifestare pubblicamente: “Venite nella piazza serale con coperte e quant’altro sia utile, per difendere il diritto alla vita delle persone migranti e di tutti”.
Trieste, continua l’emergenza accoglienza richiedenti asilo
A Trieste si aggrava ancora una volta la situazione dell’accoglienza per i richiedenti asilo, con un preoccupante peggioramento denunciato da alcune tra le organizzazioni impegnate nel settore. Il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), Diaconia Valdese, International Rescue Committee (IRC) e il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), esprimono la loro “forte preoccupazione” per la “netta recrudescenza” dei problemi nell’accesso alle misure di accoglienza previste dalla legge. Le organizzazioni richiamano l’attenzione sulle precise disposizioni della normativa europea, ricordando che “il diritto UE dispone con inequivocabile chiarezza (Direttiva 2013/33/UE, art. 17 par. 1 1) che gli Stati membri provvedano a che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali di accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere protezione internazionale”. Questo diritto non consente deroghe, neanche temporanee, e prevede l’obbligo di assicurare “con immediatezza” le misure di sostentamento ai richiedenti asilo privi di mezzi. Negli ultimi anni Trieste ha vissuto una situazione altalenante: dopo anni di estese mancate accoglienze tra il 2022 e il 2024, una parziale ripresa si era vista da giugno 2024 con trasferimenti sistematici verso altre città, circa 60 persone a settimana. Tuttavia, da giugno 2025, “tale prassi ha subito un brusco rallentamento”, con trasferimenti dimezzati, proprio nel periodo estivo caratterizzato da un aumento degli arrivi. A pagare il prezzo più alto sono le persone più vulnerabili: “famiglie con bambini, donne sole, minori” che “vengono semplicemente abbandonate in strada in attesa di un posto in accoglienza, prive di alcuna assistenza che non sia quella fornita dalle associazioni di solidarietà”. I numeri parlano chiaro: al 4 agosto 2025 sono almeno 173 uomini singoli, 2 donne sole e 4 nuclei familiari con bambini senza alcun supporto da parte delle autorità. Le associazioni denunciano un’“assenza di una programmazione strutturata per gestire un fenomeno contenuto e prevedibile”, sottolineando che la situazione di Trieste si configura ormai come “una crisi umanitaria per il quarto anno di fila” che “richiede un intervento immediato da parte delle Autorità finora inadempienti”. Nel comunicato diffuso alla stampa si ricorda inoltre il pronunciamento recente della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha sancito come “uno stato membro non può sottrarsi ai propri obblighi invocando l’esaurimento temporaneo delle capacità di alloggio normalmente disponibili”, ribadendo il dovere di garantire l’accoglienza anche in presenza di arrivi ingenti. Le organizzazioni coinvolte chiedono pertanto “che venga realizzata, anche attraverso un rinnovato dialogo con le associazioni, una programmazione adeguata che consenta di prevenire il verificarsi di tali gravi crisi”, avvertendo che “in assenza di interventi si riservano ogni azione legale necessaria a ripristinare il rispetto delle vigenti normative e tutelare i diritti fondamentali dei richiedenti asilo”. La situazione di Trieste torna quindi al centro del dibattito nazionale sull’accoglienza, mostrando ancora una volta le criticità di un sistema che non garantisce il rispetto dei diritti fondamentali e la dignità delle persone che cercano protezione in Italia. 1. Consulta la direttiva ↩︎
Migrare: essere altrove, esserci altrimenti
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Dipartimento di scienze dell’educazione “Giovanni Maria Bertin” Master di I° livello in Educatore nell’accoglienza di migranti, richiedenti asilo e rifugiati MIGRARE: ESSERE ALTROVE, ESSERCI ALTRIMENTI ETNOGRAFIA SUL RUOLO DELL’OPERATORE TRA FRAGILITÀ PSICHICA E NUOVE PROSPETTIVE DI ACCOGLIENZA NELLO SPRAR DI “PIAZZA GRANDE” Scarica l’elaborato ABSTRACT Di richiedenti asilo e rifugiati si parla molto ultimamente, spesso evocando in maniera più o meno sottile gli scenari delle guerre lontane e della miseria, ma anche dell’invasione, della minaccia terroristica e della contaminazione. Ma chi sono costoro? Da cosa fuggono, cosa hanno subìto e cosa sperano per il loro futuro? E quale contesto migliore per esplorare la loro esperienza se non quello delle strutture di accoglienza in cui passo per passo si ricostruisce, nella quotidianità della convivenza, il proprio progetto di vita, tra ricordi, scoperte, conflitti, nostalgia, rabbia, aspirazioni, resilienze e ferite dell’anima? Questo lavoro, pertanto, nasce dalla volontà di raccogliere alcune principali riflessioni, in relazione all’approccio metodologico impiegato, alle ragioni che mi hanno indotto a scegliere un orientamento di tipo etnografico, per indagare la tragicità del presente in cui viviamo, e alle difficoltà inerenti la gestione del servizio di accoglienza che, ultimato il processo di indagine e di scrittura, ritengo sia doveroso esplicitare nelle note conclusive. Aggiungo che lo studio sul sistema di accoglienza dovrà essere utile anche per gli operatori del settore, intrappolati in un intricato apparato di poteri e relazioni che merita e richiede un costante livello di riflessione teorica sulle prassi attuali. Come coniugare le differenti esigenze degli attori che si muovono nello scenario e tradurre nella pratica quotidiana quel corpus teorico maturato nella riflessione sul proprio agire, è la sfida principale che cerco di pormi. L’obiettivo maggiore è quella di congiungere, in una sorta di dialogo, il ruolo dell’operatore e quello del tirocinante a quello del beneficiario e riuscire a trovare, così, una funzione pubblica per il sapere e la conoscenza che si produce all’interno dei servizi di accoglienza. Per spiegare come ho condotto l’indagine mi soffermerò brevemente, su come nasce e da dove arriva l’osservazione partecipante. Questo metodo serve per stabilire un’empatia che permetta di rendere nella descrizione il punto di vista della comunità e dei soggetti che si stanno studiando. Fondamentale per questa attività di studio è la capacità “mimetica” dell’antropologo, la sua abilità a conquistare la fiducia, a creare legami e relazioni profonde con l’intervistato. Va sottolineato però che pur impegnandosi, lo studioso non si trasformerà mai in un membro della comunità che studia, il ricercatore deve sempre comprendere l’impossibilità di astrarsi dalla sua posizione, diametralmente differente da chi vive quello che viene raccontato. Ritengo dunque che sia necessario dare rilevanza alle premesse che chiariscano il lavoro di studio qui presentato, per poter considerare almeno una parte di quei presupposti dai quali muovono le osservazioni. Fare una indagine significa, tra le altre cose, sviluppare relazioni più o meno profonde e prolungate con gli attori sociali, con coloro cioè che attraverso i dialoghi, le interazioni, i condizionamenti e le osservazioni offrono il materiale su cui costruire le etnografie. In questo elaborato mi pongo l’obiettivo di raccontare di persone che hanno il desiderio di dare un significato diverso alle loro vite, non solo come vittime di un sistema esclusorio, ma semplicemente per rendere un’immagine meno falsa di quella che si è creata in questi ultimi anni. Perché collocarsi vicino all’esperienza della persona che vive le contraddizioni dell’emigrazione così come è gestita a livello governativo, significa andare oltre un’astratta empatia e giocare, al contrario, una dialettica fra prossimità e distanza, capace di riconoscere, valorizzandoli, quegli attimi in cui la corporeità non solo “resiste” ma si ribella, sfugge, riattivando la capacità di agire anche nell’istante di un gesto ironico, nella durata di un silenzio denso di agentività, o nell’incrocio di sguardi che fondano la presenza e attivano una cornice di relazione dialogica fra osservatore e osservato. Mi soffermerò, seppur brevemente, sugli aspetti che riguardano la gestione delle attività di occupazione dei beneficiari coordinati dagli operatori. Un paragrafo sarà dedicato alla “cena di via Romita” nella quale sono emersi degli aspetti che rimandano alla condivisione, intesa come etica promotrice di sensibilità e di una maggiore uguaglianza. Tra gli altri compiti mi annovero quello di “cucire” le fila del discorso, di comporre insieme le varie parti, senza però seguire un certo ordine cronologico, in modo da ricostruire tassello su tassello un quadro il più possibile chiaro e comprensivo di quelli che potrebbero sembrare «brevi cenni sull’universo» secondo l’espressione di Gramsci. Si intende che l’impossibilità di trattare l’argomento in modo compiuto ed esaustivo, abbia permesso un approccio limitato e provvisorio, dovuto anche alla necessità di risolvere tutto in un arco di tempo di pochi mesi, dal quale emergono tuttavia molteplici riflessioni e nuovi orientamenti di indagine. Un ulteriore margine di riflessione sarà dedicato al mio rapporto con gli utenti cercando di descrivere le attività che essi svolgono, concentrandomi anche sull’imperare delle relazioni di potere nonché sulla gestione del tempo che rappresentano una costante interazione, anche se a volte conflittuale, tra gli operatori e i beneficiari. Prenderò anche in esame il ruolo di “mediatore nell’accoglienza”, ovvero l’operatore, al fine di mettere in luce le dinamiche di interazione sviluppate nella struttura, sia con i beneficiari e sia con lo spazio gestionale e corporeo. Nel fare ciò mi tratterrò sulla particolarità e sulla concretezza delle situazioni di crisi esistenziale, cercando di cogliere l’intreccio e le modalità di interazione tra queste figure, secondo l’iter che porta l’individuo a essere accolto, alla sua permanenza nella struttura e al suo rapporto con gli stessi operatori. Nella seconda parte dell’elaborato cercherò di allacciarmi alla prospettiva assunta dall’etnopsichiatria, secondo la quale la malattia è un fenomeno talmente complesso che, per essere compreso si rende necessario considerare la totalità degli aspetti in esso coinvolti. Rifletterò, inoltre, sulla “condizione di migrante” e sull’insorgere di stati di malessere e sofferenza psichica difficili da superare, ancor più, nell’incertezza che accompagna il loro futuro. Cercherò di interrogarmi sulla genesi delle crisi da “ri-adattamento” e di nostalgia (angoscia territoriale) e sui tempi lunghi di attesa che sono tutti fattori che possono provocare una ri-traumatizzazione secondaria, come è stata definita dal Ministero della Salute. Il fine ultimo è di analizzare, nell’attuale complicata e turbolenta situazione economica, sociale e politica, il modo di gestire il migrante (richiedenti asilo, richiedenti protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria), evidenziando le inevitabili e importanti trasformazioni avvenute.
Nel cuore di Trieste, un contro-evento artistico e politico riaccende la memoria del Silos
Arianna Locatelli 1 L’articolo è disponibile in francese sul blog Échanges et Partenariats (E&P). Il Silos sgomberato, oggi circondato da inferriate e comunicazioni del Comune Il 21 giugno 2024, a Trieste è stato sgomberato il Silos, una struttura adiacente alla stazione centrale che per anni ha rappresentato un rifugio spontaneo per le persone in movimento arrivate dalla Rotta Balcanica. Negli spazi del Silos, quest’anno, è giunto il Cirque du Soleil con lo spettacolo Alegría – In a New Light, invitato dal Comune, dal teatro Rossetti e da Coop Alleanza 3.0. La narrazione pubblica che ha accompagnato l’evento ha descritto il Silos come un luogo di degrado da “restituire” alla città. In risposta, nei mesi precedenti all’arrivo del Circo, attivistə, cittadinə e solidali hanno scritto una lettera aperta per raccontare un’altra storia: quella di un luogo precario ma attraversato da relazioni, scambi e forme di resistenza quotidiana. In reazione a questa narrazione parziale, nei mesi precedenti all’arrivo del Cirque du Soleil, un gruppo nutrito di cittadinǝ, attivistǝ e solidali ha deciso di scrivere una lettera aperta al Circo per raccontare un’altra storia sul luogo che avrebbe abitato per un mese, consapevoli del fatto che artiste e artisti non potevano esserne al corrente. Notizie ALEGRÌA AL SILOS DI TRIESTE: LETTERA APERTA AL CIRQUE DU SOLEIL Una memoria collettiva contro la retorica della riqualificazione 27 Maggio 2025 Perché il Silos di Trieste, luogo nato dal basso come conseguenza delle inefficienze del sistema di accoglienza e di asilo italiano, nonostante le difficoltà e la precarietà, non è stato solamente un luogo di degrado e miseria. È stato uno spazio di incontro e scambio, una casa rotta (Khandwala dal pashto) in cui cucinare, dormire, giocare a cricket, fare festa, imparare l’italiano, un rifugio in risposta alle violenze dei confini europei, un atto di riappropriazione dello spazio da parte di persone che, seppur ostacolate da un sistema escludente, hanno saputo creare un’alternativa. In una lettera, inviata sempre dal gruppo di solidali questa volta direttamente agli artisti, si legge: PH: Andrea Vivoda (Sabato 2 marzo 2024 centinaia di persone hanno attraversato il Silos) Now, let’s bring you in. Close your eyes and picture a large, empty space. Imagine countless tents on the ground, furniture scattered around, strings hanging between the arches to dry clothes. Objects that represented an attempt to give meaning to that space. From the end of 2023, that intention was soon supported: solidarians began entering the Silos with speakers and board games. Where now lies the Grand Chapiteau, supporters mobilised to cut the grass and organise cricket matches. With a bit of idealism, someone planned a party. A banner outside read “Khandwala welcomes Trieste. From abandoned to welcoming places”: Silos – or Khandwala as inhabitants used to call it – invited the city to a 12-hour feast. Some cooked rice for 400 people, others ran back and forth with plates; some met for the first time, others lit fires, beat drums, or played trumpets. From that party, Silos constantly took new forms. Schools came to visit, people gathered for lunch, art and photography classes. At sunset, musicians used to sing traditional resistance songs. Some walls were painted, flags of various nations timidly appeared next to the Italian one. Paper banners were filled with poems, new words scribbling down so as not to forget. One night, even a fire breather came to perform his magic tricks. A theater workshop was suggested (though it was never held)». In seguito allo sgombero si è parlato poco dello spazio del Silos. Nessuna alternativa è stata fornita e le richieste di attivistǝ e solidali sono rimaste inascoltate. Lo sgombero non ha rappresentato una soluzione, ma solamente un’ulteriore violenza della frontiera, un atto di rimozione ed esclusione, volto a spezzare le reti di solidarietà e a rendere ancora più invisibili le persone migranti. Gli edifici di Porto Vecchio, occupati dopo lo sgombero del SIlos, rappresentano oggi la nuova versione di Khandwala Oggi, a Trieste, esistono altri Silos. Il bisogno di richiedenti asilo e persone in movimento di un luogo da abitare ha spinto le persone a occupare i magazzini di Porto Vecchio, strutture adiacenti a quelle del Silos. Queste nuove versioni di Khandwala, però, sono più problematiche e meno comunitarie perché non sono riuscite a ricreare quel clima di condivisione e festa che, a tratti, si generava nel Silos, quel senso di appartenenza nato in diversi attori e attrici che per diverse ragioni lo hanno frequentato negli anni. Locandina per la giornata del 21 Per tutti questi motivi, per raccontare una storia diversa, si è deciso di organizzare una giornata di festa e memoria – il 21 giugno 2025, a un anno dallo sgombero – in Piazza della Libertà, luogo cardine della vita migratoria triestina, a poche centinaia di metri dal Silos, dal Grand Chapiteau del Cirque du Soleil e dai magazzini del Porto Vecchio. L’intento è stato quello di ricordare ciò che il Silos è stato e farlo rivivere per un giorno in uno spazio pubblico della città. Nella lettera aperta, che ha raccolto quasi 1.500 firme in pochi giorni, si esprimeva il desiderio di una presa di coscienza collettiva sulla storia del Silos e si lanciava un invito diretto al Cirque du Soleil: portare fuori dal tendone, a disposizione di tutt3, quell’alegría promessa dal loro spettacolo. L’invito è rimasto inascoltato dalle istituzioni e dal circo, ma l’organizzazione della giornata è proseguita con delle open call ad artistǝ locali triestinǝ per creare un Cirque du Silos durante la giornata del 21. L’organizzazione ha coinvolto la cittadinanza solidale, da attivisti a titolo personale, a volontari, persone in movimento, partiti e associazioni locali. CIRQUE DU SILOS: LA GIORNATA DEL 21 GIUGNO Da piazza della Libertà, il 21 giugno, è passata molta gente. L’obiettivo di raggiungere un pubblico più ampio, non direttamente coinvolto nella vita migratoria e solidale, è riuscito solo in parte, ma per un giorno piazza della Libertà è tornata a vestirsi di quell’allegria che si poteva trovare nel Silos. Senza retorica, in maniera consapevole, cittadinǝ, attivistǝ e richiedenti asilo hanno condiviso una giornata di musica, teatro, chiacchiere e memoria. La mattina si sono svolti vari interventi di persone che per motivi diversi sono entrati a contatto con la realtà del Silos, cercando di ragionare attorno a una serie di tematiche che ad oggi più che mai risultano urgenti e attuali, non solo per Trieste ma per il sistema di asilo e accoglienza nazionale. Dopo un pranzo condiviso, si è dato avvio a una serie di laboratori artistici, performance ed esercizi teatrali che hanno coinvolto i partecipanti per tutto il pomeriggio. La giornata si è poi conclusa con l’usuale distribuzione serale della cena in piazza della libertà. Ma per un giorno, il clima che si respirava anche durante la distribuzione, è stato caratterizzato dall’energia che si è vissuta durante tutto l’arco dell’evento, con danze condivise al centro della piazza. Foto della giornata del 21 Tutta la giornata si è costruita attorno a una domanda semplice e urgente, che stride con la narrativa delle istituzioni e dei media sull’arrivo del Cirque du Soleil: perché dall’Alegría promessa da municipio, Rossetti, Coop e Circo sono state escluse le persone che hanno abitato per anni il Silos? Il progetto del Cirque si inserisce in un’ottica ormai dominante in tantissime città italiane (e non solo): quella di una riqualificazione urbana volta però alla turistificazione, che rimuove tracce considerate indesiderabili. Con un prezzo medio di 80 euro a biglietto, lo spettacolo è rimasto inaccessibile a chi – secondo la retorica istituzionale – avrebbe vissuto in quel “degrado” tanto denunciato. Il progetto di tale riqualificazione non parte dal basso, non va incontro alle esigenze delle persone che quello spazio lo hanno abitato. La volontà è quella di creare una vetrina escludente, mentre a Trieste – e non solo – centinaia di Silos continuano ad esistere, come centinaia di sgomberi che non portano ad alcuna soluzione se non a ulteriore precarietà. Reportage e inchieste TRIESTE, CITTÀ DI FRONTIERA Piazza Libertà, dove il confine prende corpo 1 Luglio 2025 Nella lettera agli artisti, due dei ragazzi coinvolti nell’organizzazione hanno provato a descrivere lo spettacolo del Silos. Consapevoli dell’estrema precarietà, partecipi della bellezza. Bellezza che il 21 in piazza si è rivista in una giornata che ha lasciato tuttǝ soddisfattǝ e paghǝ di un’energia che si è creata spontaneamente attorno allo scambio, all’arte, ai racconti. Concludo il racconto di questa giornata di “gioia e rivoluzione” (dal nome del gruppo organizzativo) con le parole che si leggono nella lettera agli artisti citata precedentemente: «We’re not here to offer answers or dictate your actions. We believe artists are not inherently problem-solvers, nor should they be. We are here to share and reflect. Because before any show arrived, an art already existed here – performed daily in acts of resistance, gestures of survival, and stories shared despite the violence endured. This art wasn’t official or remembered, but it was real». Uno spettacolo già esisteva. Uno spettacolo di resistenza, sopravvivenza, di storie intrecciate, di atti di cura e condivisione. Uno spettacolo che si tenta in continuazione di sradicare, di soffocare, di invisibilizzare. Consapevoli della necessità di lavorare su un sistema di accoglienza che sia più efficace e che non sia oggettificante, è necessario conservare la memoria di luoghi e realtà come quella del Silos, lottando per il diritto delle persone di rivendicare uno spazio, un luogo da abitare e da vivere in quanto proprio. Uno dei laboratori artistici-teatrali organizzati lungo la giornata.«We are here to share possibilities, meanings, myths, joy. We need to return Silos its lost Alegrìa. We hope to welcome you as guests in this construction of new worlds» 1. Mi sono laureata in antropologia culturale ed etnologia a Bologna. Sono un’attivista e una studentessa e negli ultimi anni ho girato varie città seguendo progetti di ricerca e volontariato su diverse frontiere in supporto alle persone in movimento. Attualmente lavoro per Migreurop e recentemente sono entrata nel CD di OnBorders ↩︎
Accoglienza al collasso: tra isolamento, revoche e opacità istituzionale
Il report di Action Aid pubblicato a marzo 2025 1 ci racconta i differenti aspetti che il sistema d’accoglienza ha vissuto nell’ultimo anno, disegnando una cornice sistemica e chiara della cognizione corrente che tutto l’apparato presenta. Formato da circa 50 pagine, il rapporto tocca diversi argomenti cruciali, dalle gare d’appalto alle condizioni che si vivono dentro i centri d’accoglienza alle politiche migratorie che i nostri governi implementano sulle differenti questioni. L’INVOLUZIONE DEL SISTEMA D’ACCOGLIENZA Il decreto-legge 20/2023, notoriamente conosciuto come decreto Cutro, ha profondamente cambiato il modello di accoglienza, riducendo i servizi di supporto come assistenza legale, psicologica e corsi di lingua. Questo ha comportato un aumento delle spese per affitti e logistica, ma ha anche deteriorato le condizioni di vita nei centri. Oggi, le risorse sono concentrate sulla gestione degli spazi piuttosto che sull’integrazione delle persone ospitate. I centri sono diventati più grandi, sovraffollati e isolati, limitando le opportunità di inclusione e lavoro. Strettamente interconnesso al decreto Cutro troviamo il capitolato 2024 voluto dal governo Meloni, firmato dal ministro dall’interno Piantedosi. Il capitolato ha il compito di indicare i servizi previsti per ciascuna tipologia di centro e i costi associati. Tra le varie criticità che il rapporto sottolinea, quelle principali sono: * Non c’è monitoraggio né valutazione: l’ultima relazione annuale del Viminale sull’accoglienza riguarda il funzionamento del sistema nel 2021 * Oltre la retorica sui “35 euro”, il nuovo capitolato aumenta i costi complessivi. A crescere però sono soprattutto i costi per il funzionamento delle strutture (affitto, trasporti, cibo). Ridotte drasticamente le spese per i professionisti e i relativi servizi alla persona * Vengono azzerati i servizi di informazione e orientamento legale, orientamento al territorio, assistenza psicologica e corsi di lingua italiana * Nel 2023 nascono i “centri temporanei”, che forniscono solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria minima. Non sono previsti servizi sociali. Inoltre l’ accesso alle informazioni circa questi tipi di centri risulta molto scarno LA GEOGRAFIA DELL’ACCOGLIENZA Secondo i dati forniti dal ministero dell’interno, a dicembre 2023 il sistema di accoglienza poteva ospitare poco più di 143mila persone, di cui 97.718 nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), 5.010 nei centri di prima accoglienza (3,5% – Cpa e Hotspot) e 40.311 nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Dati alla mano, l’obiettivo di garantire un’accoglienza diffusa in piccole strutture, con un impatto limitato sulle comunità ospitanti e una maggiore capacità di integrazione degli ospiti, è stato gradualmente abbandonato. Si è dato invece spazio a grandi strutture di accoglienza collettiva, con interventi normativi che inoltre favoriscono la commistione della prima accoglienza con il trattenimento di chi fa ingresso sul territorio italiano. Inoltre, questo avviene in un contesto in cui nel corso dell’anno è stato fatto un uso consistente dell’istituto che permette la revoca dell’accoglienza 2, nonostante le molte pronunce dei tribunali 3 a tutela di persone estromesse dal sistema e la gradualità̀ della sanzione introdotta dal decreto 20/2023. Infatti, se nel 2022 le revoche sono state 30.500 circa e nei primi 9 mesi del 2024 poco più di 27.600, nel 2023 il dato registrato è quasi doppio, circa 50.900 revoche. Si tratta di una disposizione la cui attuazione è stata spesso considerata discriminatoria e in conflitto con principi costituzionali e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, come stabilito ad esempio dal Tar della Liguria. Al 31 dicembre 2023 gli ospiti dei centri di accoglienza rappresentavano lo 0,23% della popolazione residente in Italia. La regione in cui si registra la presenza più elevata, rispetto alla popolazione residente, è il Molise (0,58%), mentre la Valle d’Aosta presenta l’incidenza più bassa (0,11%). Analizzando la capacità del sistema però è proprio nelle regioni del sud e delle isole che si hanno più posti disponibili (49.587 ovvero il 34,7%) e, in particolare, nel Sai. Infatti, se nelle altre aree del paese la quota di posti nel sistema ordinario si attesta tra il 17,3% e il 23,2% del totale, nel mezzogiorno questo dato arriva al 43,4%. Non stupisce dunque se tra le prime 10 province per quota di posti nel Sai solo una non si trova in regioni del mezzogiorno. Si tratta di Bologna che, oltre ad avere più posti nel Sai (56,28%) che nel Cas, è anche il territorio che offre più posti nel sistema ordinario in termini assoluti (2.137). Al secondo posto Catania con 1.842 posti nel Sai, che rappresentano il 91,3% dell’accoglienza sul territorio. Ma se dal punto di vista della distribuzione di posti tra Cas e Sai sono le regioni del mezzogiorno a rappresentare un esempio positivo, lo stesso non si può dire quando si parla di grandi centri di accoglienza straordinaria. La capienza media dei Cas, infatti, risulta di appena 10,7 posti nelle regioni del nord est, salendo a 14,6 nel nord ovest e a 16,6 al centro. Nelle regioni del mezzogiorno invece supera i 36 posti per centro. UN SISTEMA CHE NON TUTELA. L’ACCOGLIENZA DELLE PERSONE VULNERABILI Per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati (Msna) la normativa prevede strutture governative di prima accoglienza e strutture di secondo livello che coincidono in via prioritaria con il sistema Sai. In presenza di arrivi consistenti e ravvicinati di Msna, i prefetti possono attivare strutture di accoglienza temporanee esclusivamente dedicate ai minori (ovvero i Cas minori, di cui all’articolo 19 del d.Lgs. 142/2015). In precedenza, in caso di indisponibilità di posti nel sistema pubblico, il minore era temporaneamente accolto dal comune in cui si trovava (fatta salva la possibilità̀ di trasferirlo in altro comune in considerazione del suo superiore interesse). Adesso, con il decreto 133/2023 e la circolare del ministero dell’interno n. 94 del 17 gennaio 2024 si è stabilita l’inversione del criterio: in assenza di posti Sai, prima di sollecitare l’ente locale, si deve verificare la possibile collocazione in Cas minori. Un’altra strada perseguita, specialmente per i minori che arrivano in Italia come ultra sedicenni, è quella di inserirli in centri d’accoglienza per adulti. Questo, sottolinea il ministero del lavoro, segnala una grave discrepanza tra il trattamento nei centri di prima accoglienza rispetto ai Cas per adulti. Nel primo caso è previsto per i Msna un tempo massimo di permanenza di 45 giorni, trascorsi i quali devono essere collocati nel Sai. Nei Cas adulti però questo tempo si triplicherebbe. Un periodo decisamente troppo lungo anche considerando coloro che nel frattempo compiono i 18 anni, i quali vedono cessata l’accoglienza, perdendo persino la possibilità̀ di fruire della maggiore tutela che invece è garantita a chi, nella stessa identica situazione, ha trovato accoglienza nel Sai. Tutto questo avviene in un contesto in cui le presenze complessive in centri destinati ai Msna passano da circa 2.500 nel 2018 a oltre 6.800 nel 2023. Questa crescita è avvenuta anche grazie ad un aumento delle presenze nel Sai e questa è certamente una buona notizia. Al contempo però bisogna registrare nel 2023 una crescita del 177% delle presenze in Cas per Msna rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda la condizione femminile all’interno del circuito dell’accoglienza, è solo grazie al rapporto annuale del Sai 4 che conosciamo il totale delle donne accolte nel sistema nel corso del 2023 (13.874) e grazie alle informazioni fornite dal Servizio Centrale a ActionAid e Openpolis abbiamo il dato relativo alla presenza di donne nel sistema al 31 dicembre dello stesso anno (8.683). Da queste informazioni si evince un ricambio più lento in confronto agli uomini (40.638 accolti nell’anno a fronte di 22.312 presenze al 31 dicembre). Le donne, in altri termini, restano per un periodo più lungo all’interno dei progetti di accoglienza e di accompagnamento all’autonomia. Un elemento da tenere ben presente per una programmazione efficace. I dati disponibili evidenziano inoltre una crescita particolarmente sostenuta delle presenze femminili nei centri Sai. Una tale evoluzione è il risultato degli ampliamenti della rete, prima a seguito della crisi afghana e poi di quella ucraina, che ha portato nel paese soprattutto donne (e minori). Inoltre, il decreto legge 133/2023 individua tutte le donne richiedenti asilo come “vulnerabili”, di fatto convogliando la loro accoglienza nei centri del Sai, creando le premesse per una possibile “femminilizzazione” del sistema. Il potenziale protagonismo della rete Sai nell’accoglienza delle donne migranti può certamente offrire loro percorsi di accoglienza di maggiore qualità̀. Tuttavia il rischio è che a fronte di un numero insufficiente di posti nel Sai, ritorni in campo l’accoglienza straordinaria, con i connessi problemi di doppi standard che vedrebbero alcune migranti ricevere i servizi di accoglienza previsti dalla legge attraverso il circuito Sai, mentre altre, con i medesimi titoli, potrebbero restare incastrate nel circuito dei Cas, se non addirittura in quello dell’accoglienza temporanea. Inoltre, risulta opportuno avviare un’ampia riflessione sul concetto di vulnerabilità̀. Da una parte è positivo che almeno le donne trovino accoglienza nel Sai, al contempo però affermare che tutte le donne siano “vulnerabili”, oltre a evidenziare un approccio paternalistico, significa equiparare le loro diverse situazioni con il rischio che i casi effettivamente più vulnerabili non siano poi riconosciuti come tali. CONCLUSIONI Dal 2018, il progetto “Centri d’Italia” denuncia gravi difficoltà nell’accesso ai dati sul sistema di accoglienza per migranti, dovute a un sistematico ostruzionismo da parte del Ministero dell’Interno. Nonostante sentenze favorevoli (Tar e Consiglio di Stato), mancano trasparenza e collaborazione. Le leggi che impongono la redazione e pubblicazione del Piano Nazionale Accoglienza e di una relazione annuale al Parlamento non vengono rispettate. L’ultima relazione risale al 2022 (dati del 2021). Il Viminale spesso nega o fornisce informazioni incomplete, frammentarie o non utilizzabili. Nemmeno le richieste ordinarie o le vittorie legali garantiscono l’accesso ai dati. Il ministero sostiene spesso di non disporre delle informazioni, nonostante ne abbia l’obbligo per legge. La trasparenza è sistematicamente ostacolata, in violazione del Freedom of Information Act (FOIA 5) e delle linee guida ANAC. Le richieste di accesso non vengono né accolte né riformulate, contravvenendo ai doveri di legge verso la società civile, le ONG e la stampa. Il sistema di accoglienza soffre di mancanza di visione, pianificazione e valutazione. A questo si aggiungono nuove normative (DL 145/2024) che introducono automatismi per l’accesso ai servizi, discriminando chi arriva via terra e penalizzando chi non presenta tempestivamente domanda d’asilo, anche se vulnerabile. Queste misure appaiono in contrasto con le direttive europee e rischiano di escludere le persone più fragili. In generale, il quadro complessivo evidenzia un approccio repressivo, privo di analisi e programmazione, che mina il funzionamento del sistema di accoglienza e la tutela dei diritti fondamentali. 1. Scarica il rapporto ↩︎ 2. Si veda: La revoca dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Scheda ASGI – Ottobre 2024 ↩︎ 3. Contrastare le prassi illegittime di Questura e Prefettura: giurisprudenza e formazioni, Asgi ↩︎ 4. Consulta il rapporto ↩︎ 5. Cos’è il FOIA ↩︎