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Ennesima operazione di sgombero in alcuni magazzini del Porto Vecchio di Trieste
Nella prima mattinata del 3 dicembre a Trieste è stato eseguito un nuovo sgombero nei magazzini del Porto Vecchio. Circa 150 persone migranti e richiedenti asilo, che da settimane dormivano in ripari di fortuna dopo essere state abbandonate in strada, sono state messe in fila, identificate e trasferite. La nuova operazione di sgombero e chiusura dei magazzini 2 e 2A del Porto Vecchio è stata disposta dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico dopo gli incendi delle scorse settimane. Notizie INCENDI AL PORTO VECCHIO DI TRIESTE, SOSPETTI SU AZIONI DOLOSE Associazioni, volontarә e attivistә solidali chiedono indagini approfondite Redazione 18 Novembre 2025 La misura, denunciata da ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà, conferma l’assenza di una strategia seria e strutturale da parte delle istituzioni: «domani, le persone che arriveranno in città, si troveranno nella medesima condizione di chi è stato allontanato oggi. Semplicemente, il problema viene spostato, non affrontato». Lo sgombero è avvenuto senza alcun coinvolgimento delle organizzazioni che in città si occupano quotidianamente di accoglienza e supporto, né dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Per ICS questa esclusione rivela la cifra politica della gestione locale della mobilità migratoria: una gestione dettata da logiche securitarie ed emergenziali, spesso funzionali più a esigenze mediatiche che alla tutela dei diritti delle persone vulnerabili. Si produce così, ancora una volta, un’emergenza artificiale che si ripresenterà nei prossimi mesi, aggravando la responsabilità politica di chi governa. Ma ciò che l’organizzazione sottolinea come più grave è l’esclusione arbitraria di almeno quaranta persone che non si trovavano nei magazzini al momento dell’intervento e che non sono state trasferite né informate. Il fatto che nessuna istituzione abbia tentato di raggiungerle, proprio perché le realtà del territorio non sono state coinvolte, avrà conseguenze dirette e drammatiche sulla vita di persone già estremamente vulnerabili. Notizie TRIESTE, TRASFERITE LE PERSONE MIGRANTI DAL PORTO VECCHIO Critiche dalle associazioni: «Un’operazione tardiva e inefficace» Redazione 7 Ottobre 2025 A denunciare la situazione interviene anche Linea d’Ombra. “All’improvviso, come da copione, brusco trasferimento di migranti dagli unici ripari che hanno: i miserabili anfratti di Porto Vecchio, dove pur riescono a sopravvivere con la nostra solidarietà. Ma non solo trasferimenti – scrive l’associazione – a quanto pare anche espulsioni, talora con motivazioni grottesche. A molti altri è stato semplicemente intimato di andarsene dal Porto Vecchio”. Linea d’Ombra sottolinea come dopo mesi di accoglienza “scarsa e irregolare”, lo sgombero arrivi accompagnato dagli “echi soddisfatti dei politicanti che lucrano sulla paura e sulla sofferenza”. Nel pomeriggio nella stessa area interessata dal dispiegamento improvviso e massiccio degli apparati istituzionali è stato ritrovato il corpo senza vita di un uomo algerino di 32 anni 1. Un epilogo che mostra, una volta di più, l’assenza totale di cura e tutela per quelle vite che le istituzioni continuano a trattare come un problema da rimuovere agli occhi della città. Quello che accade a Porto Vecchio non è un evento straordinario: è il prodotto di una scelta politica. E come tale, può – e deve – essere cambiato. 1. Un migrante algerino trovato senza vita all’ex Locanda 116, RaiNews (3 dicembre 2025) ↩︎
Incendi al Porto Vecchio di Trieste, sospetti su azioni dolose
Trieste – Almeno cinque incendi in una settimana nei magazzini dismessi del Porto Vecchio di Trieste, dove decine di persone migranti trovano riparo. La zona è infatti nota per essere uno dei luoghi dove le persone sono costrette a vivere molti mesi prima di riuscire a fare richiesta di asilo e accedere al sistema di accoglienza. Notizie TRIESTE, TRASFERITE LE PERSONE MIGRANTI DAL PORTO VECCHIO Critiche dalle associazioni: «Un’operazione tardiva e inefficace» Redazione 7 Ottobre 2025 Le prime ricostruzioni della stampa locale hanno parlato di fuochi accesi per scaldarsi, lasciando intendere che la colpa fosse degli “abitanti”, ma le testimonianze raccolte da volontarә e attivistә solidali nell’area portuale raccontano una storia diversa, che punta verso possibili azioni dolose. Gli episodi più recenti risalgono al 10 e al 13 novembre, ma chi vive stabilmente negli edifici segnala altri tre casi: roghi appiccati sotto la pensilina del varco automobilistico, davanti agli ingressi del piano terra e al quarto piano del magazzino, dove sono bruciati indumenti, sacchi a pelo e scarpe di alcune persone che vi dormivano. Un ultimo tentativo sarebbe stato sventato sul retro del magazzino 2A da due cittadini afghani, che riferiscono di aver messo in fuga due individui mentre tentavano di incendiare materiale da costruzione. Nella notte tra il 15 e il 16 novembre si sono verificati altri tre tentativi, alle 20:00, all’1:00 e alle 3:00. Secondo quanto riportato da chi dorme nell’edificio, in queste occasioni sono state allontanate persone estranee che si aggiravano nei magazzini fino all’ultimo piano, cercando di appiccare fuochi in stanze vuote. Tutto ciò è stato ricostruito da volontarә e attivistә solidali insieme alle associazioni ICS – Ufficio Rifugiati Onlus, Linea d’Ombra Odv e No Name Kitchen che denunciano come gli elementi raccolti, perciò, mettono in discussione l’ipotesi dell’incidente. «In almeno due occasioni il fuoco è stato acceso al piano terra dei magazzini, in luoghi dove le persone migranti non dormono», spiegano in un comunicato congiunto. Inoltre, «le temperature attuali sono ancora miti e non richiedono l’accensione di fuochi per scaldarsi». Un dato significativo riguarda la frequenza degli episodi: «Lo scorso inverno si è verificato un solo incendio nei magazzini, mentre ora gli episodi registrati sono cinque in una sola settimana». A questo si aggiungono le testimonianze raccolte, «che raccontano di alcune presenze sospette nelle ore in cui sono divampati gli incendi». I vigili del fuoco sono intervenuti due volte, accompagnati dai carabinieri, ma non sono state raccolte dichiarazioni da chi vive nelle strutture. Nel frattempo, le persone che dormono nei magazzini hanno organizzato turni di sorveglianza notturna, affiancate da cittadini solidali che presidiano l’area per prevenire nuovi roghi. Nella nota stampa, si chiede di «accertare con urgenza se si tratti di incendi dolosi e, in tal caso, se possano essere prefigurati i reati di danneggiamento, incendio doloso nonché tentate lesioni o tentato omicidio». Il documento sottolinea che «la gravità dell’incendio ha – in almeno un caso – messo in pericolo l’incolumità e la vita delle persone che trovavano rifugio all’interno dei magazzini». Secondo associazioni, volontarә e attivistә, «appare infatti plausibile l’azione di individui che mirano a fomentare allarme sociale, alimentando narrazioni che criminalizzano le persone migranti». La richiesta è quella di un’indagine accurata che faccia chiarezza sulle dinamiche e sulle responsabilità degli episodi, in un contesto in cui le persone migranti sono «costrette a dormire nei magazzini del Porto Vecchio» a causa di quelle che vengono definite «inadempienze istituzionali».
Trento dice no al CPR: un’intera città contro l’accordo Fugatti-Piantedosi
Quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha definito l’accordo appena firmato con la Provincia autonoma di Trento «un modello da esportare in altre realtà», forse non immaginava che, nel giro di qualche giorno, ci sarebbe stata una risposta altrettanto compatta, ma nel segno opposto. Dal vescovo Lauro Tisi al sindaco di Trento Franco Ianeselli, dagli enti del terzo settore ai movimenti sociali, fino alle associazioni e alle parrocchie: la prima reazione riportata dai media locali è stata quella di un no corale al progetto di un Centro di permanenza per i rimpatri (CPR), previsto nella zona di Maso Visintainer, a pochi passi dal quartiere di Piedicastello. Il 24 ottobre 2025, nel palazzo della Provincia in piazza Dante, Piantedosi e Fugatti hanno sottoscritto l’“Accordo di collaborazione per la realizzazione di un CPR a Trento”. Il documento1 stabilisce che la Provincia “realizzi e finanzi con proprie risorse il CPR senza alcun onere a carico del bilancio dello Stato“, occupandosi di tutte le procedure amministrative ed edilizie. L’area individuata è di circa 3.000 metri quadrati, lungo la Statale 12, in una fetta di terreno stretta tra la tangenziale e l’A22 dove sorge un edificio abitato. I costi preventivati per la costruzione della struttura detentiva ammontano a oltre 1,5 milioni di euro. Il Ministero, invece, si legge sempre nell’accordo, si impegna ad “assumere, all’attivazione del Centro, gli oneri per la manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché per la gestione» e a “riservare due terzi dei posti disponibili per i migranti destinatari di un provvedimento di espulsione rintracciati sul territorio trentino“. Fugatti, fino alla firma del contratto, ha sempre indicato una capienza di 25 posti, ma nell’accordo non vi è traccia di numeri. In cambio, Roma promette di “ridurre gradualmente il numero dei migranti ospitati nella provincia di Trento fino alla metà di quelli presenti attualmente” 2, mantenendo solo i nuclei con minori o con “concrete prospettive di inserimento nel mercato del lavoro“. Come spesso accade, si mercanteggia sulla pelle delle persone migranti il consenso e la propaganda politica. In altre parole, la realizzazione del CPR coincide con l’ulteriore diminuzione del sistema di accoglienza, che dal 2018 in poi è stato progressivamente smantellato, sia per effetto del decreto sicurezza di Salvini e del cosiddetto decreto Cutro, sia per la politica provinciale di Fugatti. Un sistema che nel 2024 ha lasciato in strada almeno un migliaio di persone che avevano fatto richiesta di asilo presso la Questura. Piantedosi, nel comunicato ministeriale, ha poi presentato il progetto come “un passo avanti nella sicurezza territoriale“, ricordando che nel 2025 in Trentino “si sono registrate 61 espulsioni, e ogni trasferimento in un CPR fuori regione richiede tre agenti per almeno tre giorni“. Ovviamente il ministro si è ben guardato dal ricordare le ignobili condizioni in cui versano i CPR, denunciate a più riprese anche dal Garante nazionale, prima che questa figura fosse declassata e allineata all’ideologia del governo. La sicurezza territoriale, ha replicato il Coordinamento regionale No CPR, non passa di sicuro per la detenzione: «I CPR non hanno nulla a che vedere con la sicurezza dei cittadini e delle cittadine: sono buchi neri dove il diritto muore, e con esso la libertà e la dignità di tutte e tutti». Per il Coordinamento, questi centri «rappresentano da oltre ventisette anni lo stesso dispositivo di criminalizzazione e disumanizzazione delle persone prive di permesso di soggiorno». E, riprendendo le parole del Forum di Salute Mentale, sono «i manicomi del presente». «Luoghi di sofferenza, isolamento e violenza. Luoghi che nessun governo è mai riuscito a rendere trasparenti, dove la libertà può essere sospesa fino a 18 mesi senza processo e senza una tutela legale, per il semplice fatto di essere stranieri, in attesa di un rimpatrio che il più delle volte non avviene». Anche la Chiesa trentina ha scelto di esporsi. Il Vescovo Lauro Tisi ha dichiarato di guardare «con preoccupazione a un progetto che rischia di compromettere il senso stesso dell’accoglienza». Per la Diocesi, i CPR «non sono soluzioni, ma luoghi di sofferenza, che riducono l’essere umano a un problema amministrativo». A questa posizione di contrarietà si sono aggiunte poi le critiche di altre associazioni del territorio, tra cui Caritas e Centro Astalli, impegnate nell’accoglienza dei richiedenti asilo. «Si investono soldi pubblici per costruire gabbie, mentre mancano risorse per l’inclusione e per i servizi sociali», ha scritto quest’ultima. «Questo accordo è stato calato dall’alto, senza alcun coinvolgimento del Comune», ha commentato il sindaco di Trento Franco Ianeselli, che non nasconde la sua irritazione. La decisione di dimezzare i posti di accoglienza straordinaria «porterà solo a un aumento della marginalità». «In questo modo raddoppieranno i senzatetto in città», ha detto. «Le persone non spariscono perché si riducono i posti: resteranno qui, ma senza un letto, senza un servizio, senza una prospettiva. È un modo miope di affrontare una questione che richiede politiche di integrazione, non di esclusione». NÉ QUI, NÉ ALTROVE! La prima iniziativa informativa, organizzata da AVS, si è svolta ieri sera a Palazzo Geremia, in una sala Falconetto gremita. Un momento di riflessione collettiva sul filo che unisce la memoria della chiusura dei manicomi alla denuncia dei CPR, mettendo in luce il parallelo tra le logiche di contenzione e medicalizzazione del passato e quelle tuttora presenti nei centri detentivi, luoghi in cui la privazione della libertà viene accompagnata da un uso abnorme di psicofarmaci e da condizioni lesive della salute mentale. Per mercoledì 12 novembre alle ore 20 è prevista un’assemblea pubblica al Centro Sociale Bruno, promossa dal Coordinamento regionale, per «costruire una mobilitazione concreta contro la detenzione amministrativa». Il Coordinamento, nato nel 2023 e sostenuto da oltre 35 realtà, punta a contrastare la realizzazione del CPR e rilanciare un modello di accoglienza diffusa, in totale discontinuità a quello esistente. «Non vogliamo solo dire no al CPR di Trento», si legge nell’appello, «ma chiedere la chiusura di tutti i CPR italiani e l’abolizione delle leggi che li rendono possibili, a partire dalla Bossi-Fini e dai decreti sicurezza». 1. Scarica l’accordo di collaborazione ↩︎ 2. Attualmente i posti disponibili nel sistema di accoglienza sono 730; l’accordo prevede di ridurli a 350 ↩︎
L’accoglienza a Caserta non era un reato: «Sette anni d’attesa per veder riconosciuta la verità»
Dopo sette anni si chiude con un’archiviazione totale una delle indagini più lunghe e controverse della provincia di Caserta. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha infatti disposto l’archiviazione per tutti gli indagati nell’inchiesta che nel 2018 aveva colpito attivistə del Centro Sociale Ex Canapificio, operatori dell’accoglienza, rappresentanti del mondo religioso e funzionari pubblici del Comune e del Servizio Centrale dello Sprar, il Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, attualmente conosciuto come SAI. Un’indagine che aveva messo «sotto accusa una rete di cittadini, associazioni e istituzioni che avevano scelto l’accoglienza diffusa come modello alternativo al sistema emergenziale», come ha ricordato ieri mattina in conferenza stampa uno degli ex indagati, Fabio Basile, all’epoca legale rappresentante dell’Ats costituita per l’accoglienza e presidente del Centro sociale. «Siamo qui – ha detto – per raccontare non solo la fine di un processo giudiziario, ma anche la verità su una vicenda che ha segnato la storia di Caserta». L’INIZIO DELL’INCHIESTA: LA DENUNCIA E IL CLIMA POLITICO La vicenda prende avvio nell’ottobre 2018, in un contesto politico segnato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e dalla triplice campagna contro le persone migranti, i progetti di accoglienza e i centri sociali. «L’indagine parte formalmente il primo ottobre 2018 per due motivi», ha spiegato Basile. «Il primo è una denuncia fatta da un ex operatore che noi stessi avevamo segnalato per gravi irregolarità. Il secondo nasce in seguito a un episodio razzista: due nostri beneficiari furono colpiti da pallini di gomma da un’auto che gridava “Salvini, Salvini!”. Noi denunciammo l’accaduto e il ministro, invece di condannare il gesto, rispose attaccandoci pubblicamente, dicendo che era assurdo che un centro sociale occupato gestisse un progetto Sprar da due milioni e mezzo l’anno». Da quel momento, ha proseguito Basile, «si è scatenata una campagna mediatica e politica che ci ha trasformato in un bersaglio. È partita una macchina investigativa imponente: intercettazioni telefoniche e ambientali per mesi, perquisizioni in tutte le case dove si svolgeva il progetto, con 80 carabinieri ed elicotteri». Ma dai controlli, ha ricordato, «non emersero irregolarità o persone accolte non presenti, ma una sola caldaia rotta. Eppure anche quella frase intercettata – “la caldaia non funziona” – fu interpretata come un codice segreto per nascondere chissà cosa». L’inchiesta, ha raccontato Basile, «sarebbe dovuta durare al massimo due anni. Invece dal settembre 2019 all’ottobre 2024 il fascicolo è rimasto nel cassetto della Procura». Un tempo lunghissimo che ha avuto, per gli indagati, il peso di una condanna anticipata. «Ci sono due pene – ha detto – una è quella che può arrivare alla fine del processo, l’altra è quella dell’attesa. Sette anni di sospetto e silenzio sono una pena che nessuno potrà restituirci». Solo nell’autunno 2024, ha spiegato, «ci è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini. Abbiamo studiato 12.000 pagine di atti e capito che l’intero impianto accusatorio era fondato su forzature, errori, illazioni e fraintendimenti volti a dimostrare il teorema dell’accusa». Dopo mesi di memorie e interrogatori, la Procura ha infine riconosciuto che non c’erano elementi per sostenere l’accusa, chiedendo l’archiviazione per tutti i 17 indagati che però, come spesso accade, avevano già subito la gogna mediatica locale e nazionale. «Oggi – ha aggiunto Basile – la giustizia è stata fatta. Non solo per noi, ma per un’intera città che ha creduto in un sistema di accoglienza trasparente e solidale». IL RICORDO DI SYLLA MAMADOU: «NON DOVEVA MORIRE COSÌ» Prima di lasciare la parola a Mamadou, Mimma D’Amico ha voluto ricordare Sylla Mamadou, il 35enne senegalese, «un nostro amico, accolto nel progetto Sprar, scomparso meno di un mese fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere». «Nel 2019 – ha ricordato – girammo un video in cui una madre italiana difendeva Sylla, che allora era  autista volontario del Piedibus, quando il decreto Salvini impose l’espulsione dei richiedenti asilo dal sistema SPRAR. Noi decidemmo di non cacciare nessuno, anche se il ministero non pagava più i servizi. Quella fu una stagione durissima ma piena di solidarietà. Oggi, davanti a questa archiviazione, vogliamo dire una cosa: Sylla non doveva morire così. Abbiamo fiducia che la magistratura voglia fare piena luce sulla sua morte». KUASSI MAMADOU: «ABBIAMO DIMOSTRATO CHE A CASERTA LA BUONA ACCOGLIENZA È POSSIBILE» Poi ha preso la parola Mamadou Kuassi, uno dei protagonisti storici del progetto Sprar, mediatore e riferimento per la formazione professionale che all’epoca non fu indagato. Ha ricordato quegli anni difficili ma anche ricchi di speranza: «Queste indagini ci hanno scosso profondamente, come Movimento Migranti e Rifugiati ma anche come Centro Sociale. Insieme a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, siamo andati a Bruxelles a rappresentare Caserta e la Campania, portando l’esempio di come qui si poteva fare una buona accoglienza. Era la prima volta che ci invitavano a parlare davanti al Parlamento europeo: raccontammo che in Italia, e proprio a Caserta, l’accoglienza si poteva fare bene, con trasparenza e umanità». L’attivista ha ricordato la notte delle perquisizioni, nel febbraio 2019: «Alle quattro del mattino iniziarono le chiamate: “Ci sono i carabinieri a casa nostra, che dobbiamo fare?”. Io dicevo: aprite le porte, lasciateli entrare. In 23 appartamenti arrivarono a perquisire tutto. Non mi aspettavo una cosa del genere, perché quei ragazzi studiavano l’italiano, facevano tirocini, cercavano lavoro. Alcuni venivano persino dal Nord per partecipare a un progetto che era riconosciuto come un’eccellenza». «Erano anni difficili – ha aggiunto -. I fondi dal Ministero ci furono bloccati a seguito dell’apertura dell’indagine per truffa, gli operatori aspettavano mesi, noi andavamo nei supermercati a chiedere aiuti per portare avanti le attività. Abbiamo chiesto prestiti alle persone comuni pur di mantenere le attività e pagare i fitti. Abbiamo dimostrato che a Caserta la buona accoglienza era possibile nonostante gli attacchi e nonostante l’indifferenza del Comune. E grazie a quel lavoro oggi tanti di quei ragazzi vivono qui, lavorano, hanno una famiglia, una casa. Alcuni sono diventati parte della comunità». Poi ha rivolto un pensiero al suo amico: «Mi dispiace che abbiamo perso Sylla, che era uno di noi, un fratello. Spero che venga fatta luce su quanto è accaduto, perché non è giusto morire così. Da lui dobbiamo ripartire, con la speranza di riaprire un progetto SAI a Caserta. Questo territorio se lo merita». GLI AVVOCATI: «UN PROCESSO POLITICO COSTRUITO SUL NULLA» Alla conferenza stampa hanno partecipato anche i legali del collegio difensivo, Carmine Malinconico, Antonello Fabrocile e Francesco Bugliatti, che hanno ricostruito il percorso giudiziario. «Questa vicenda si chiude con un decreto di archiviazione – ha spiegato Malinconico – che significa che non esistevano neppure gli elementi minimi per celebrare un processo. Non si poteva provare nulla di illecito, perché nulla di illecito era stato commesso». L’avvocato ha parlato di un «processo nato e cresciuto sul nulla, ma con un dispiego di mezzi degno di un’indagine di mafia: intercettazioni, consulenze, elicotteri». E ha sottolineato come «l’intera impostazione sembrasse finalizzata a dimostrare a tutti i costi una teoria preconcetta: che dietro l’accoglienza ci fosse del malaffare». Per Il centro sociale ex Canapificio, l’archiviazione rappresenta la fine di un incubo ma anche un punto di ripartenza. «Nessuno ci restituirà il sonno perso – ha concluso Basile – ma da oggi possiamo dire che la nostra storia è limpida. Abbiamo sempre lavorato alla luce del sole, in collaborazione con le istituzioni e la città». L’ex Canapificio, chiuso e sotto sequestro dal 2019, è stato per anni uno dei principali luoghi di solidarietà in Campania. Ora il progetto continuerà sotto una nuova forma: «Nascerà un osservatorio sociale a favore delle fasce deboli e contro la criminalizzazione dei diritti». «Questa archiviazione – ha concluso l’avvocato Malinconico – è una buona notizia per la democrazia. Dimostra che la solidarietà non è un reato, e che la giustizia, anche se lenta, può restituire la verità».
Asilo impossibile a Milano. Una class action contro la Questura
Il 10 ottobre 2025 è stato depositato al TAR della Lombardia un ricorso collettivo che accusa la Questura di Milano di violare sistematicamente i termini di legge per l’accesso alla procedura d’asilo. A promuovere l’azione – la prima nel suo genere in Lombardia – sono Naga 1 e ASGI, due realtà storiche impegnate nella tutela dei diritti delle persone migranti. L’obiettivo del ricorso non è solo quello di porre fine a una prassi amministrativa illegittima, ma anche di costringere la Pubblica Amministrazione a rispettare le norme che garantiscono l’effettivo esercizio del diritto d’asilo. La normativa italiana ed europea è chiara: le Questure devono formalizzare la domanda d’asilo entro tre giorni lavorativi dalla manifestazione di volontà, compilando il modulo C3. Solo in casi eccezionali – per esempio in presenza di arrivi particolarmente numerosi – il termine può essere esteso di dieci giorni, come stabilito dal D. Lgs. 25/2008. Questa prima fase non implica alcuna valutazione nel merito della domanda: la Questura deve semplicemente raccogliere i dati della persona e avviare la procedura. Eppure, a Milano, questi termini vengono sistematicamente disattesi, trasformando quello che dovrebbe essere un atto amministrativo semplice in un percorso a ostacoli lungo mesi. A Milano, chi intende chiedere asilo non può presentarsi direttamente in Questura. Deve invece passare attraverso un sistema di prenotazioni gestito da enti del terzo settore e sindacati che hanno firmato un Protocollo con la Questura e la Prefettura. Solo dopo l’intermediazione di questi enti è possibile ottenere un appuntamento. Secondo un monitoraggio del Naga condotto tra febbraio e marzo 2025, i tempi medi sono impressionanti: 48 giorni dalla manifestazione di volontà all’accesso all’ente che effettua la prenotazione, 85 giorni dall’accesso all’ente al primo appuntamento in Questura, 48 giorni tra il primo accesso in Questura e la formalizzazione della domanda con il modello C3. In totale, oltre cinque mesi di attesa per poter semplicemente accedere al sistema di protezione internazionale. Nel frattempo, le persone restano senza documenti, senza accoglienza, senza diritti. Il caso di Milano non è isolato. Ritardi, inefficienze e prassi illegittime sono diffusi in tutto il Paese: a marzo 2025, due ricorsi analoghi sono stati presentati al TAR del Veneto contro le Questure di Venezia e Vicenza 2. La gestione dell’accesso alla procedura d’asilo continua a variare da città a città, in un quadro frammentato e spesso arbitrario, che mina la parità di trattamento e viola le direttive europee. Guida legislativa/Notizie CLASS ACTION SULL’ACCESSO AL DIRITTO DI ASILO: IL TAR VENETO CHIEDE CHIARIMENTI AL MINISTERO DELL’INTERNO Entro 90 giorni il Ministero dovrà depositare una relazione dettagliata 1 Ottobre 2025 Quando le Questure non registrano la domanda nei tempi previsti, le conseguenze per le persone sono immediate e gravi: rischio di espulsione dal territorio nazionale nonostante l’intenzione di chiedere protezione, esclusione dal sistema di accoglienza con molte persone costrette a dormire per strada, impossibilità di iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale o di accedere alle cure, divieto di lavorare o registrarsi all’anagrafe. In pratica, l’inerzia amministrativa trasforma un diritto garantito dalla Costituzione e dal diritto internazionale in un limbo di invisibilità e precarietà. Con il ricorso collettivo, Naga e ASGI chiedono al TAR di ordinare alla Questura di Milano di ripristinare la piena funzionalità amministrativa, rispettare i termini di legge per la formalizzazione delle domande e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo, come previsto dall’articolo 10 della Costituzione e dalle norme europee. Nelle intenzioni dei promotori, l’azione punta anche a creare un precedente giuridico utile per tutte le altre realtà italiane che vivono situazioni simili. Dietro i numeri e i ritardi ci sono vite sospese, persone costrette a rimanere ai margini per mesi senza alcuna tutela. La class action contro la Questura di Milano è dunque molto più di una controversia amministrativa: è una battaglia per l’effettività del diritto d’asilo, per il rispetto della dignità e della legalità. Come ricordano Naga e ASGI, “garantire l’accesso alla procedura d’asilo non è una concessione, ma un dovere dello Stato”. 1. Asilo impossibile a Milano ↩︎ 2. Asilo impossibile: il TAR Veneto chiede al Ministero dell’Interno e alle Questure di Venezia e Vicenza un’assunzione di responsabilità ↩︎
ASGI: «Invertire la narrazione sui minori stranieri non accompagnati»
L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) lancia un allarme rivolto alle istituzioni per quanto riguarda la gestione dei minori stranieri non accompagnati (MSNA). Tra tagli, scelte politiche miopi e logiche securitarie, il sistema di accoglienza rischia di trasformarsi in un meccanismo di esclusione e marginalità. «L’assoluta mancanza di lungimiranza che ha caratterizzato l’azione dell’attuale governo in tema di immigrazione – scrive ASGI – risulta ancor più evidente quando si parla di minori stranieri non accompagnati». Nel documento, l’associazione richiama la Costituzione: «L’art. 31 impone allo Stato di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù», ma si tratta di «una disposizione troppo spesso dimenticata». L’attuale governo, si legge, «ha mostrato grande preoccupazione per i bambini e i giovani che ancora devono nascere», ma «manca qualunque forma di reale e concreto interesse per i minori – tutti, italiani o stranieri – che già esistono». ASGI denuncia un sistema sanitario e sociale già in crisi per i giovani italiani, in cui «occorrono anni per una presa in carico» nei servizi di Neuropsichiatria Infantile. Il rapporto 2024 dell’ASL Città di Torino parla di diagnosi di psicosi triplicate tra i 21 e i 30 anni e di disturbi di personalità aumentati del 767%, «quasi con un profilo epidemico». Nessun potenziamento dei servizi, però, è seguito a questi dati. In un contesto tanto fragile, «le carenze risultano ancora maggiori» per i minori stranieri non accompagnati, che spesso presentano «forme precoci di dipendenza da stupefacenti, sindromi abbandoniche, traumi amplificati da un percorso migratorio che li ha ulteriormente infragiliti». Ma, invece di rafforzare il sistema di accoglienza, «il Governo sta procedendo al suo progressivo smantellamento». Lo stesso allarme è stato lanciato dall’ANCI l’8 agosto 2025, che ha denunciato «un’insufficienza di copertura delle spese dei Comuni connesse all’accoglienza dei Minori Stranieri Non Accompagnati».  Oggi, a fronte di 16.497 minori presenti in Italia, i posti SAI sono poco più di 6.000 e meno di 1.500 nei CAS per minori.  Ma «non pare proprio ci si stia muovendo in questa direzione»: sempre più ragazzi vengono collocati nei Centri di Accoglienza Straordinaria per adulti, come consente il decreto legge 133/2023, senza un’adeguata valutazione delle loro vulnerabilità. ASGI segnala anche criticità nella legge regionale del Friuli Venezia Giulia n. 5/2025, che «impedisce di fatto la realizzazione di nuove comunità per MSNA nei capoluoghi e principali centri urbani», relegandole a zone isolate. Una norma che l’associazione giudica «di dubbia legittimità costituzionale», poiché invade competenze statali in materia di immigrazione e programmazione. A tutto questo si sommano prassi amministrative arbitrarie: le Questure, prosegue il comunicato, «sottopongono a condizioni non previste il rilascio dei permessi di soggiorno per minore età» o rigettano le richieste di conversione alla maggiore età per cause non imputabili ai ragazzi. Particolarmente grave è la gestione del cosiddetto prosieguo amministrativo, lo strumento che dovrebbe garantire continuità di sostegno oltre i 18 anni. A causa della carenza di risorse e di competenze, «i più fragili rischiano di essere relegati alla marginalità». La repressione, osserva ASGI, ha ormai preso il posto della prevenzione. Il “Decreto Caivano” (D.L. 123/2023) ha accentuato l’approccio punitivo nel sistema della giustizia minorile, mentre mancano «comunità educative con operatori formati e contratti adeguati» e «servizi etnopsichiatrici con mediatori culturali». I trasferimenti frequenti da un istituto all’altro interrompono percorsi educativi e affettivi, e il passaggio nei penitenziari per adulti «rende impossibile ogni continuità di presa in carico». Non stupisce quindi che nel 2024 si siano registrate 28 rivolte negli Istituti Penali per Minorenni e un uso crescente di psicofarmaci: secondo la rivista Altreconomia, tra il 2022 e il 2024 la spesa per antipsicotici è aumentata fino al 435% in alcune strutture. La crisi investe anche il personale. Le indagini sul carcere minorile “Beccaria” di Milano – 42 persone indagate per maltrattamenti e torture – rivelano un contesto in cui «la disumanità dei luoghi finisce con l’avere conseguenze anche su chi ci lavora». Il caso più recente e drammatico resta il suicidio di Danilo Riahi, diciassettenne tunisino, minore non accompagnato, morto nel carcere di Treviso: «Quale sintomo più dirompente della crisi in cui versa il sistema?», denuncia ASGI. Nemmeno le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’inadeguata accoglienza dei MSNA hanno prodotto un cambio di rotta: il Consiglio d’Europa mantiene ancora aperta la procedura di supervisione sull’Italia. In conclusione, per l’associazione, le soluzioni devono partire da un cambio di prospettiva radicale. «Le risposte vanno trovate in una valutazione integrata, complessa, completa, lungimirante, del tutto incompatibile con l’istituzionalizzazione attualmente perseguita». Serve «invertire la narrazione: i ragazzi non sono problemi a cui far fronte in modo semplicistico, bensì portatori di risorse potenziali che occorre riconoscere e rafforzare, con strumenti nuovi e occhi diversi». Leggi il documento completo
Mutui impossibili e affitti negati: la casa resta un miraggio per le persone straniere
Nel nuovo Dossier statistico immigrazione 2025 che uscirà a inizio novembre si racconta il paradosso di chi lavora, paga le tasse e contribuisce alla crescita del Paese, ma resta escluso dal mercato immobiliare. Tra mutui inaccessibili, affitti negati e politiche discriminatorie, il diritto alla casa viene ostacolato da troppe porte chiuse. Un milione di persone straniere residenti in Italia (1 su 5) avrebbe la possibilità economica di acquistare una casa. Ma per la maggior parte di loro quel passo resta impossibile. È una delle fotografie più nitide del Dossier statistico immigrazione 2025 del Centro studi e ricerche Idos, che sarà presentato il 4 novembre a Roma e in tutte le regioni italiane e province autonome (qui evento). «Pur avendo un reddito sufficiente per sostenere un mutuo», scrivono i ricercatori, «molti stranieri non riescono a comprare casa a causa delle garanzie proibitive richieste dalle banche, delle spese iniziali troppo alte e di un diffuso pregiudizio sociale». Il risultato è che solo il 20% delle persone con cittadinanza straniera vive oggi in un’abitazione di proprietà, contro l’80% degli italiani. Il Dossier, nella sua anticipazione, ricostruisce vent’anni di mercato immobiliare “migrante”: un milione di case acquistate dagli anni Duemila a oggi, per un volume d’affari complessivo di oltre 110 miliardi di euro. Ma dopo il boom del periodo 2006-2009 (440 mila abitazioni comprate, tra un quinto e un ottavo del totale delle compravendite), la crescita si è fermata. Negli ultimi anni, gli acquisti si aggirano sulle 30mila unità annue, meno del 5% del totale. Nel 2025, secondo le stime, potrebbero salire a 39mila, un dato appena superiore al 5,1%. «Numeri che raccontano una ripresa solo apparente», spiega Idos. «Le percentuali sono ancora ben lontane da quelle di vent’anni fa, e soprattutto non indicano un miglioramento delle condizioni di accesso». Anche la geografia degli acquisti è cambiata: le case comprate nei centri cittadini sono crollate dal 10,1% del 2006 al 3,6% del 2025. «Chi compra, oggi, lo fa sempre più nelle periferie o nei piccoli comuni», si legge nel rapporto. «Non per scelta, ma per necessità». Sette abitazioni su dieci acquistate da cittadini non italiani appartengono oggi a cittadini dell’Est Europa, soprattutto romeni. Nel 2006 erano meno del 34%. Stabili le presenze di persone provenienti da Cina, India, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan, attorno al 10% del totale. Crollano invece gli acquisti da parte di persone dei Paesi africani, scesi dal 14% del 2006 al 4,8%. «Un dato che riflette non solo il peggioramento delle condizioni economiche, ma anche la stratificazione del razzismo abitativo», commenta Idos. Dietro le percentuali ci sono storie comuni: famiglie che lavorano da anni in Italia, che hanno un reddito regolare e stabile, ma non riescono a ottenere un mutuo. «Le banche chiedono garanzie impossibili, a volte anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato», spiega il rapporto. «A questo si aggiungono spese iniziali che molti non possono permettersi: anticipo, notaio, commissioni». Così, chi vorrebbe comprare finisce per restare in affitto. Ma anche qui, la strada si fa subito in salita. “NON SI AFFITTA A STRANIERI” «È ormai comune imbattersi in annunci che lo dichiarano apertamente: “non si affitta a stranieri”», denuncia Idos. Una discriminazione che, unita ai canoni più alti, ai contratti irregolari e alla scarsa qualità degli alloggi, spinge molti immigrati a vivere in condizioni precarie. «La casa diventa uno strumento di esclusione sociale», spiegano i curatori del Dossier. «Chi non può affittare regolarmente non può ottenere la residenza, e senza residenza perde l’accesso ai servizi, al welfare, al diritto di voto locale. È un circolo vizioso che alimenta l’invisibilità». Negli ultimi anni, la situazione si è aggravata anche per effetto della speculazione immobiliare e del turismo breve, che hanno ridotto drasticamente la disponibilità di case in locazione nelle grandi città. Per i rifugiati e i titolari di protezione internazionale, l’esclusione è ancora più profonda. «Molti di loro, al termine del percorso nei centri di accoglienza, non trovano soluzioni abitative e restano nei Cas o nei Sai per mesi, talvolta anni», osserva Idos. La mancanza di politiche abitative e l’adozione, da parte di diverse Regioni, di requisiti discriminatori per accedere alle case popolari – come anni minimi di residenza o cittadinanza – impediscono qualsiasi prospettiva di autonomia. «È così che i centri di accoglienza diventano residenze permanenti, o peggio ancora, si finisce nei ghetti, nelle baraccopoli, in roulotte o case occupate», sottolineano i ricercatori. «Una forma estrema di esclusione che nega il diritto più elementare: quello a un’abitazione dignitosa». La comunità immigrata rappresenta un segmento vitale dell’economia, e anche del mercato immobiliare. Ma il sistema continua a respingerli. «Parliamo di un potenziale enorme – un milione di persone pronte a investire nel Paese in cui vivono e lavorano – che l’Italia non riesce a valorizzare», conclude Idos. «Dietro le cifre c’è una questione culturale prima ancora che economica: la difficoltà, ancora oggi, di considerare i cittadini stranieri come parte integrante della nostra comunità».
Diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo: il TAR sanziona il silenzio serbato dall’Amministrazione
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte riconosce e sanziona il silenzio serbato dall’Amministrazione in relazione alla domanda di ingresso nel sistema di accoglienza dei richiedenti asilo: il termine è di 30 giorni e non di 180 giorni, come talvolta sostenuto dalle Prefetture. Infatti, “un termine di 180 giorni per la conclusione del procedimento priverebbe di significato misure che sono necessariamente correlate alla procedura di concessione della protezione internazionale, tant’è che, in forza di quanto previsto all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 142/2015, esse «si applicano dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale»”. Il ricorso è stato presentato contro la Prefettura di Torino, che non aveva dato risposta alla domanda di accesso alle misure di accoglienza entro il termine prestabilito dalla normativa. Il TAR sottolinea che non esiste una diversa disposizione che stabilisca un periodo più lungo. È quindi illegittimo il silenzio serbato oltre tale limite. Il Collegio respinge l’interpretazione che estende ai procedimenti in materia di accoglienza la disciplina dei procedimenti “in materia di immigrazione” per i quali il Consiglio di Stato aveva ritenuto applicabile un termine massimo di centottanta giorni. Secondo il TAR piemontese, l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale non può essere assimilata a tali procedimenti, poiché trova una disciplina autonoma nel decreto legislativo 142 del 2015 e nella direttiva europea 2013/33, che impongono agli Stati di assicurare un accesso rapido e concreto alle misure di accoglienza dal momento stesso in cui viene manifestata la volontà di chiedere asilo. Da questa impostazione discende un principio di fondo: un’attesa di sei mesi svuoterebbe di significato il diritto all’accoglienza, che è strettamente connesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e risponde a esigenze immediate di tutela e dignità della persona. Non basta, quindi, che l’amministrazione risponda informalmente o che collochi il richiedente in una lista d’attesa; è necessario un provvedimento espresso, scritto e motivato, come impone la legge. La sentenza ordina alla Prefettura di pronunciarsi entro trenta giorni e prevede la possibilità di nominare un commissario ad acta in caso di ulteriore inerzia. Si tratta di un segnale netto contro la prassi diffusa dei silenzi e delle lunghe attese, che di fatto negano un diritto fondamentale. Il TAR ribadisce che la tempestività non è una questione organizzativa, ma un elemento essenziale per rendere effettivo il sistema di accoglienza. Nel solco di altre decisioni recenti – come quelle del TAR Emilia-Romagna e del TAR Lombardia – anche il giudice piemontese riafferma che l’accoglienza non può essere sospesa né differita: è parte integrante della procedura d’asilo e va garantita con immediatezza e trasparenza. T.A.R. per il Piemonte, sentenza n. 1361 del 2 ottobre 2025 Si ringraziano per la segnalazione gli Avv.ti Andrea Scozzaro e Giacomo Venesia di Torino.
Trieste, trasferite le persone migranti dal Porto Vecchio
Mercoledì 1° ottobre, all’alba, la Prefettura di Trieste ha disposto il trasferimento delle persone migranti accampate sotto la tettoia di largo Città di Santos, all’ingresso del Porto Vecchio. In tutto 157 persone di diverse nazionalità, che da settimane trovavano riparo in quell’androne, dormendo su coperte e materassini forniti dai volontari. Lo sgombero e gli allontanamenti forzati di agosto non avevano portato, come ampiamente annunciato, a nessuna vera soluzione per le persone, richiedenti asilo, in attesa di accedere al sistema di accoglienza. Notizie/A proposito di Accoglienza TRIESTE, RICHIEDENTI ASILO SENZA ACCOGLIENZA E SOTTO SGOMBERO Nuova denuncia e appello delle associazioni: «Serve un intervento immediato» Redazione 22 Agosto 2025 Questa volta, l’operazione di trasferimento forzato è stata condotta da ben 91 agenti delle forze dell’ordine tra Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza e Polizia locale. Un vero e proprio esercito al quale hanno offerto il proprio supporto la Protezione civile, l’ASUGI, UNHCR e la Caritas. Dopo le procedure di identificazione, le persone sono state caricate su quattro pullman e trasferite fuori regione, in strutture di accoglienza straordinaria situate in Veneto e Piemonte. Secondo la Prefettura, la decisione rispondeva alla necessità di garantire «luoghi di accoglienza idonei e dignitosi» in vista dell’arrivo dell’autunno, ma anche a esigenze logistiche legate all’imminente Barcolana e ai lavori di riqualificazione in corso nell’area del Porto Vecchio. «Le attività – si legge nel comunicato ufficiale – sono state volte alla verifica della presenza di richiedenti asilo privi di immediate forme di accoglienza e alla conseguente presa in carico degli stessi». Il sindaco-sceriffo Roberto Dipiazza sulla stampa locale ha espresso soddisfazione, commentando: «Bravi tutti, bel lavoro». Ma la giornata di mercoledì ha suscitato forti critiche da parte delle associazioni che da anni si occupano di accoglienza a Trieste. Ph: Lorena Fornasir ICS – Ufficio Rifugiati Onlus: «Un trasferimento tardivo e un sistema inefficiente» Durissimo il giudizio di ICS, che da mesi denuncia il collasso del sistema di prima accoglienza. «Il 1° ottobre a Trieste non c’è stato alcuno sgombero di migranti dall’area del Porto Vecchio, ma un tardivo trasferimento di circa 150 richiedenti asilo, effettuato direttamente dalla strada», ha dichiarato l’organizzazione in una nota. «L’operazione conferma quanto ICS denuncia da tempo: decine di richiedenti asilo – tra cui famiglie – sono costrette a vivere abbandonate per settimane in condizioni indegne, senza alcuna accoglienza». Per l’associazione si tratta dell’ennesimo intervento emergenziale che non affronta le cause del problema. «Il trasferimento del 1° ottobre, pur positivo per chi ha finalmente trovato una collocazione, non risolve nulla: diverse decine di persone continuano a dormire in strada. Queste operazioni tampone non risolvono nulla, perché già dal giorno successivo i problemi si ripresentano identici». La nota si conclude con la richiesta di un intervento strutturale e il potenziamento del sistema di prima accoglienza: «Serve un sistema ordinario con numeri adeguati, capace di rispondere a flussi modesti ma costanti, come richiesto dalle normative e dalla giurisprudenza europea, che garantiscono il diritto all’accoglienza dal momento stesso della richiesta d’asilo». Linea d’Ombra: «Non uno sgombero, ma un trasferimento forzato» A denunciare le modalità dell’intervento è anche Gian Andrea Franchi, fondatore di Linea d’Ombra Odv, che da anni assiste i migranti in transito lungo la rotta balcanica. Intervistato da Radio Onda d’Urto, l’attivista ha sottolineato: «Sapevamo già da giorni che ci sarebbe stato questo trasferimento, perché si tratta di un trasferimento, non di uno sgombero. Queste persone vivevano da tempo in condizioni difficili, dormendo sull’asfalto del Porto Vecchio, con materiali forniti da noi ma in uno spazio precario». Secondo Franchi, la presenza dell’UNHCR e di altre organizzazioni ufficiali ha dato un’apparenza di regolarità all’operazione, ma non ne ha cambiato la natura forzata. «Ci è stato detto che verranno trasferiti nel Nord Italia, non in Sardegna come in altri casi. La Sardegna è particolarmente temuta dai migranti perché si trovano poi in un’isola da cui uscire è molto difficile». Franchi riconosce che «dal punto di vista ambientale» le condizioni di vita nei centri potrebbero essere migliori: «Dovrebbero avere un tetto sulla testa, una branda, un pasto caldo». Tuttavia, avverte, «il dato ambientale non può essere separato da quello psicologico: una stanza isolata in un paese lontano da possibilità di comunicazione può essere peggiore di un androne esposto a tutti i venti». E ricorda un episodio emblematico: «Alcuni mesi fa un amico migrante ci telefonò da una località remota della Lombardia dicendo che avrebbe voluto ritornare sotto l’androne, perché si trovava in un edificio isolato vicino alla boscaglia. Preferiva stare tra gli amici, fra la gente». L’attivista descrive l’intervento come «una grande operazione di polizia», con «una presenza massiccia di forze dell’ordine, carabinieri e operatori della Regione». Sul posto, spiega, «sono state montate tre tende per i controlli igienici e sanitari, e poi c’erano i grandi pullman che avrebbero portato via questi ragazzi e anche alcune famiglie con donne». Nonostante il trasferimento, Franchi prevede che la situazione si ripeterà rapidamente: «Sicuramente l’androne tornerà ad essere abitato da altri migranti, perché arrivano ogni giorno tra le 30 e le 50 persone».
Class action sull’accesso al diritto di asilo: il TAR Veneto chiede chiarimenti al Ministero dell’Interno
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha chiesto al Ministero dell’Interno e alle Questure di Venezia e Vicenza di documentare in modo circostanziato le iniziative adottate per affrontare i ritardi nella formalizzazione delle domande di asilo. Con due ordinanze (nn. 1608 e 1609 del 24 settembre 2025), la sezione III del TAR Veneto ha accolto le richieste delle associazioni che avevano promosso i ricorsi collettivi, chiedendo all’amministrazione di dare prova non solo dei presunti miglioramenti, ma anche delle misure strutturali adottate per superare le inefficienze. Il TAR ha confermato la propria competenza territoriale, respingendo l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato che avrebbe voluto trasferire la causa al TAR Lazio. Una decisione che obbliga l’amministrazione dell’Interno ad assumersi una responsabilità diretta, dimostrando come le risorse economiche, umane e strumentali siano state allocate e utilizzate. Il Tribunale non si è limitato a chiedere conto della scarsità di risorse, ma ha preteso chiarimenti sul rapporto tra le disfunzioni – ammesse dalla stessa Avvocatura – e le scelte organizzative delle Questure. Inoltre, il Ministero dell’Interno dovrà presentare una relazione che, attraverso dati riepilogativi su scala nazionale, permetta di verificare se la dimensione del fenomeno dei richiedenti protezione internazionale a Venezia sia superiore, inferiore o paragonabile a quella di altre Questure italiane. In questo modo sarà possibile valutare la coerenza tra entità del fenomeno e risorse assegnate. I ricorsi collettivi contro le Questure di Venezia e Vicenza erano stati presentati lo scorso 7 maggio da diverse organizzazioni della società civile: ASGI, Emergency, Lungo la Rotta Balcanica e CADUS per Venezia, con il sostegno di Casa di Amadou; ASGI e CADUS per Vicenza. Guida legislativa/Notizie ASILO IMPOSSIBILE: DUE CLASS ACTION CONTRO LE QUESTURE DI VENEZIA E VICENZA PER RITARDI SISTEMATICI Le azioni collettive per contrastare prassi illegittime: è possibile aderire fino al 27 luglio 2025 Redazione 28 Maggio 2025 Durante il giudizio sono intervenute anche OXFAM Italia, Casa di Amadou e Spazi Circolari. La prima udienza di discussione si è svolta il 17 settembre 2025. Ora il Ministero avrà 90 giorni per depositare una relazione dettagliata, che potrebbe mettere in luce una malagestione diffusa e radicata, denunciata da anni in tutto il territorio nazionale. Le associazioni sottolineano come tutto sia partito da un adempimento minimo e ignorato dalle Questure: la pubblicazione sul sito istituzionale della notizia delle class action. “Si tratta di piccoli passi – dichiarano – ma comunque necessari ed importanti per cercare di tutelare i diritti fondamentali delle persone richiedenti asilo. In questo modo si obbligano le amministrazioni competenti, quantomeno, a dare conto delle proprie scelte organizzative e di allocazione delle risorse disponibili e ad impegnarsi realmente per migliorare l’esercizio delle proprie funzioni”. Le organizzazioni ricordano infine che la lentezza burocratica e le difficoltà di accesso alle procedure compromettono diritti fondamentali come quello di chiedere asilo, e di conseguenza l’accesso al lavoro, all’assistenza sanitaria e all’accoglienza. Per le associazioni promotrici, il pronunciamento del TAR Veneto è un richiamo chiaro a quel principio sancito dall’articolo 97 della Costituzione: il buon andamento della pubblica amministrazione è un obbligo che lo Stato deve adempiere nei confronti di tutte le persone presenti in Italia, non soltanto dei cittadini e delle cittadine italiane. * Ordinanza n. 1608 del 24.09.25 (Questura di Vicenza) * Ordinanza n. 1609 del 24.09.25 (Questura di Venezia)