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“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa che cade dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica. “Le nuove tecnologie possono catturare quantità di dati così vaste da risultare incomprensibili, ma quei dati sul mondo resteranno sempre incompleti. Nessun sensore o sistema di scraping può assorbire e registrare dati su tutto. Ogni sensore, invece, è progettato per raccogliere dati su aspetti iper-specifici. Ciò può sembrare banale, come un termometro che può restituire un numero sulla temperatura, ma non può dirti che cosa si provi davvero con quel clima. Oppure può essere più significativo, come un algoritmo di riconoscimento facciale che può identificare la geometria di un volto, ma non può cogliere l’umanità soggettiva e il contesto sociale della persona. I dati non potranno mai rappresentare ogni fibra dell’essere di un individuo, né rendere conto di ogni sfumatura della sua vita complessa. Ma non è questo lo scopo né il valore dei dati. Il punto è trasformare soggetti umani integrati in oggetti di dati frammentati. Infatti, ci sono sistemi che hanno l’obiettivo di conoscerci in modo inquietante e invasivo, di assemblare questi dati e usarli per alimentare algoritmi di targeting iper-personalizzati. Se questi sistemi non stanno cercando di comporre un nostro profilo completo e accurato possibile, allora qual è lo scopo? Ecco però un punto importante: chi estrae dati non si interessa a noi come individui isolati, ma come collettivi relazionali. I nostri modi di pensare la raccolta e l’analisi dei dati tendono a basarsi su idee molto dirette e individualistiche di sorveglianza e informazione. Ma oggi dobbiamo aggiornare il nostro modo di pensare la datificazione – e le possibili forme di intervento sociopolitico in questi sistemi guidati dai dati – per includere ciò che la giurista Salomé Viljoen chiama ‘relazioni “orizzontali’, che non si collocano a livello individuale, ma a scala di popolazione. Si tratta di flussi di dati che collegano molte persone, scorrono attraverso le reti in modi tali che le fonti, i raccoglitori, gli utilizzatori e le conseguenze dei dati si mescolano in forme impossibili da tracciare se continuiamo a ragionare in termini di relazioni più dirette e individualistiche. Leggi l'intervista completa , che ha molti altri spunti interessanti, sul sito di Guerre di rete
Narco-stato e fascismo criminale in Messico
Ciao a tutt*, siamo qui a dare la nostra parola come collettivo internazionalista Nodo Solidale, un piccolo gruppo di militanti con un sogno rivoluzionario, piantato su due sponde dell’oceano, una in Messico e l’altra in Italia. Partendo dalla nostra umile e specifica esperienza politica, speriamo di stimolare e nutrire il dibattito, necessario, che ci propone questa meravigliosa realtà che ringraziamo e di cui ci sentiamo parte. Perché Renoize è la memoria viva di Renato, idea e pratica mai sopita di antifascismo comunitario che ancora ci unisce in questa città sempre più delirante e difficile. Come molt* già sanno, per il nostro collettivo esserci oggi è una questione d’infinito, inesauribile, amore ribelle.  Come bianchx europex che attraversano, vivono, amano e si riconoscono complici di quel Messico “dal basso”, ribelle e resistente, proveremo a tradurre in questo intervento ciò che osserviamo da circa vent’anni, citando talvolta i nostri stessi contributi su nodosolidale.noblogs.org Il tema che ci convoca è la guerra contro l’umanità che stiamo vivendo. Ormai sappiamo che le guerre servono all’autocrazia mondiale – passatecelo come concetto critico e metaforico – per «distruggere e spopolare» per poi «riordinare e ripopolare i territori» secondo gli interessi di un unico vincitore: il capitale. È questa la formula coniata dagli e dalle zapatiste dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) per leggere la «Quarta guerra mondiale». “Quarta” perché durante quella che fu definita “Guerra fredda” si sono combattutte più di un centinaio di guerre in tutto il pianeta, insomma di freddo c’era poco… La guerra globale permanente che sta combattendo il capitale globale contro l’umanità.  Il genocidio in Palestina preparato da anni di occupazione, assedi e attacchi sistematici al popolo palestinese, ne è tragicamente la dimostrazione più feroce e palese. «L’atto finale del colonialismo bianco», così lo definisce il giornalista Bellingausen. Come scrive Rita Laura Segato, ci sono massacri che non si limitano allo sterminio fisico: colpiscono la trama stessa del vivente. Non si uccidono soltanto corpi: si spezzano genealogie, si interrompono legami, si devastano comunità. È un femminicidio mondiale, dove ciò che è relazionale, ciò che custodisce e protegge la vita, viene ferito al cuore, proprio perché la vita è l’antitesi del capitalismo. Accade oggi in molte parti del mondo quello che giustamente qui chiamate «regime di guerra». E non si tratta soltanto del cosiddetto «modello Orbán“ delle destre: anche governi che si proclamano progressisti riproducono, con maschere nuove e un lessico più seducente per le masse, le stesse logiche di dominio e sfruttamento del capitale globale. In questo senso, il Messico e la guerra non dichiarata che vi si consuma, rappresentano oggi un laboratorio “anomalo” di potere e sfruttamento, un esempio drammatico che non possiamo ignorare e che vorremmo provare a inquadrare insieme. LA QUARTA TRASFORMAZIONE Citiamo ancora l’EZLN che, in uno dei suoi comunicati più recenti ha descritto il pianeta come un unico e grande latifondo: i padroni sono le grandi imprese multinazionali, mentre i governi non sono altro che i caporali che si alternano nella gestione tirannica del pezzo di proprietà loro assegnato. L’alternanza fra i diversi caporali è quella che chiamano democrazia. E  In quest’ ottica, l’arrivo di Morena (Movimiento de REgeneración Nacional) al governo non ha cambiato il sistema, ma soltanto chi lo amministra, il caporale, appunto. In Messico, dopo due sconfitte elettorali, Andrés Manuel López Obrador decise di abbandonare il PRD e fondare appunto Morena, un nuovo movimento che si presentava come voce della sinistra popolare e alternativa al sistema dei partiti tradizionali: un partito costruito intorno alla sua figura, più che su un progetto collettivo. Nel 2018, al terzo tentativo, ha conquistato la presidenza con un consenso senza precedenti, presentandosi come paladino della “Quarta trasformazione” del Paese, dopo l’Indipendenza (1810-’21), la Riforma liberale (1867) e la Rivoluzione Messicana (1910-’17). > Al posto di una vera democratizzazione si è consolidato invece un potere > personalistico, con programmi sociali più utili al consenso che alla giustizia > strutturale. La militarizzazione della sicurezza è proseguita, smentendo gli > impegni iniziali, mentre le politiche economiche hanno favorito le pratiche > estrattiviste. Nel 2024 Claudia Sheinbaum è diventata la prima donna presidenta del Messico, ma la sua elezione è stata solo un sigillo di continuità con il governo precedente. Sul piano sociale, a livello micro-economico, si è tentata una ridistribuzione dei redditi, soprattutto nelle campagne e nelle zone più povere del Paese, attraverso numerosi programmi puramente assistenzialistici. Questi interventi, infatti, pur alleviando un po’ le difficoltà immediate di sopravvivenza, restano privi di una reale prospettiva di cambiamento strutturale delle vite e spesso sono stati utilizzati in chiave controinsorgente: per cooptare, comprare le coscienze e indebolire le lotte sociali e i movimenti popolari, soprattutto quelli autonomi.  A livello macro-economico, i governi progressisti di López Obrador e Claudia Sheinbaum hanno invece continuato e, in certi casi, approfondito il solco delle politiche neoliberali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e da organismi finanziari continentali come il Banco de Desarrollo Interamericano. In questo contesto, il Messico si presenta come nuova potenza regionale “latina”, sia culturalmente che politicamente, ma il suo rapporto di sudditanza con gli Stati Uniti resta invariato: la dipendenza economica e politica limita le possibilità di indipendenza e di trasformazione reale, consolidando invece il modello di sviluppo orientato al mercato e alle élite transnazionali più che ai bisogni della popolazione.  Foto Nodo Solidale I MEGA-PROGETTI E IL MODELLO ESTRATTIVISTA Il progetto trentennale di riordino strutturale e geostrategico, noto come Plan Puebla-Panamá, ostacolato storicamente dalle resistenze locali, trova oggi nuova linfa con i governi progressisti messicani. In Messico l’estrattivismo resta il vero motore dell’economia, con i settori minerario, petrolifero e forestale che servono principalmente a garantire profitti alle grandi imprese, calpestando i diritti delle comunità locali. I governi recenti hanno puntato a rafforzare la Comisión Federal de Electricidad (CFE) come strumento di sovranità nazionale, ma al contempo hanno aperto sempre più spazi alle grandi imprese e investitori esteri, che continuano a esercitare un’influenza decisiva. Nel 2025 il governo di Sheinbaum vanta il record di investimenti stranieri: 36 miliardi di dollari. I progetti di energia rinnovabile, spesso promossi come sostenibili, convivono con centrali fossili e idroelettriche ad alto impatto sociale e ambientale, che espropriano terre e risorse delle comunità locali. Progetti energetici come la raffineria di Dos Bocas a Tabasco non mirano tanto allo sviluppo interno, quanto a fornire energia agli Stati Uniti, rafforzando un modello di subordinazione economica e geopolitica.  Così sviluppo, estrattivismo e controllo politico si intrecciano, trasformando risorse naturali e territori in spazi di messa a valore, mentre le popolazioni locali pagano il prezzo ambientale e sociale.  Progetti come il Tren Maya rappresentano uno specchietto per le allodole: presentati come iniziative di sviluppo turistico e valorizzazione culturale, dietro il marketing verde e sostenibile si nasconde un impatto ambientale e sociale devastanti. La costruzione della ferrovia attraversa ecosistemi fragili, distruggendo porzioni significative di selva maya e habitat naturali, mettendo a rischio specie animali e piante endemiche. Allo stesso tempo, le comunità indigene e rurali lungo il percorso subiscono espropri, pressione economica e marginalizzazione, senza ricevere veri benefici dal progetto. Su quei binari viaggiano soprattutto merci, mentre il turismo promesso risponde agli interessi delle grandi imprese e degli investitori, riducendo territori ricchi di biodiversità a semplici scenografie per flussi rapidi e superficiali. Così, il Tren Maya diventa un altro esempio di come il discorso di sviluppo sostenibile possa mascherare pratiche estrattiviste, neoliberali e di sfruttamento dei territori e delle popolazioni locali.  Il Corredor Transístmico rappresenta uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi di questi governi progressisti. Attraversando l’istmo di Tehuantepec, collega l’Oceano Pacifico con l’Atlantico, posizionando il paese come alternativa commerciale strategica al canale di Panama. Il progetto integra porti, ferrovie, strade e zone industriali in un corridoio che trasforma radicalmente il territorio: vaste aree rurali e indigene sono espropriate, gli ecosistemi fragili vengono travolti dalla linea ferroviaria di altà velocità e il paesaggio naturale riscritto per accogliere infrastrutture logistiche e attività produttive intensive. Dal punto di vista logistico, il corridoio accelera in maniera vertiginosa i flussi di merci, materie prime e persino turisti, integrando il Messico in catene globali di commercio e consolidando la sua funzione di hub regionale a beneficio delle élite e del capitale internazionale.  Non si tratta solo di Grandi Opere o Mega-progetti, ma di dispositivi geopolitici di controllo su territorio e popolazione. La trasformazione non è mai neutra: diventa accumulazione capitalistica e controllo sociale, mentre i benefici restano simbolici o concentrati in poche mani. I mega-progetti messicani mostrano così il volto reale di uno sviluppo estrattivista e politicizzato, dove tutto è subordinato a profitto e potere. UN’IMMENSA FRONTIERA Nella logica violenta del riordino territoriale rientra naturalmente anche la gestione delle frontiere. Il Messico, sotto la pressione costante degli Stati Uniti, continua, per esempio, ad applicare il Plan Frontera Sur, rilanciato e inasprito nel 2024 con nuovi fondi statunitensi, droni di sorveglianza e pattugliamenti congiunti. L’obiettivo dichiarato: contenere le migrazioni prima che arrivino al confine nordamericano. L’obiettivo reale: esternalizzare il confine USA fino al Guatemala, trasformando tutto il Messico in una immensa zona di frontiera. Mentre il governo federale stringe accordi con Washington per contenere il flusso migratorio, intere regioni diventano zone cuscinetto, dove la migrazione è gestita come una minaccia militare invece che come una crisi umanitaria. Il dramma migrante in Messico, infatti, non è solo il risultato di rotte pericolose o confini militarizzati, ma è il frutto di un sistema che trasforma la mobilità umana in problema di sicurezza. La migrazione viene gestita come minaccia, mentre chi fugge da fame, violenza o disastri climatici si trova intrappolato tra politiche repressive, gruppi criminali e frontiere invisibili che segnano territori e corpi. Centri di detenzione, pattugliamenti, accordi internazionali con gli Stati Uniti e controllo tecnologico del territorio rendono ogni passo del cammino un percorso di costante rischio, mentre i diritti fondamentali vengono negati e la dignità calpestata. I dati ufficiali parlano di un flusso verso il nord di circa un milione e mezzo di migranti all’anno, ma solo nel 2024 questo governo di “sinistra” ha dichiarato di averne arrestati 925.000. > Circa 9.000 le denuncie di migranti desaparecid@s, scomparsi, numero > nettamente inferiore alla realtà, perché ovviamente è estremamente complicato > per i familiari di un altro Paese realizzare la pratica della denuncia in > Messico.  La presenza dei cartelli del narcotraffico, poi, lungo le rotte migratorie di Chiapas, Oaxaca, Veracruz, Tabasco, con percorsi secondari in Guerrero e Campeche, si intensifica sempre di più: sequestri per estorsione, stupri a fini di tratta e reclutamento forzato. Desaparecid@s in tutto il Paese. I migranti sono costretti a lavorare come sicari o come braccianti nei campi di oppiacei o nei laboratori di metanfetamina, mentre le donne sono trascinate nel girone infernale della prostituzione forzata e della tratta. La frontiera non è una linea: è una trappola, un labirinto di checkpoint, milizie, sequestri, fosse comuni e omertà che pervade il Paese. La migrazione diventa così un altro laboratorio di sfruttamento, esclusione e violenza, dove lo Stato, le mafie e gli interessi geopolitici definiscono chi usare, chi può sopravvivere, chi deve arretrare e chi scompare nell’oblio di rotte invisibili.  Per anni la frontiera nord del Messico è stata il simbolo del dramma, con il muro che separava famiglie, sogni, vita e morte. Ma anche al sud la violenza era già presente e oggi si è moltiplicata, trasformando intere regioni in teatri di guerra silenziosa. Nord e Sud sono ormai scenari di un conflitto che colpisce migranti e comunità locali, lasciando dietro di sé terre devastate e vite spezzate: una narco-dittatura, feroce forma di fascismo criminale in America Latina. Foto Nodo Solidale NARCO-STATO: FRAMMENTARE, IMPAURIRE, SORVEGLIARE E PUNIRE  Insomma, questa politica del riordino territoriale che “distrugge e spopola” per “ricostruire e ripopolare” che è tipica del capitalismo estrattivista globale, si innesta anche in Messico e lo fa su di un elemento nazionalista: l’uso della forza dello Stato non solo come strumento di controllo ma anche di gestione economica. Gli appalti per le grandi opere vengono assegnati alle imprese costruttrici tramite la SEDENA (Secretaría de Defensa Nacional, il ministero della Difesa) e custoditi dalle forze militari grazie a un decreto che definisce questi mega-progetti «territori di rilevanza strategica nazionale». Con gli ultimi due governi progressisti, l’Esercito messicano ha rafforzato il proprio peso politico, assumendo funzioni civili e di polizia, fino all’incorporazione nel 2024 della Guardia Nacional nella SEDENA. Ispirata al modello dei Carabinieri italiani, la Guardia è nata nel 2019 come corpo militarizzato alternativo alla corrotta Policia Federal. Oggi conta 130.000 agenti, assorbiti dalle Forze Armate e dispiegati in tutto il paese. In particolare, sono concentrati lungo la frontiera sud e in quei luoghi considerati strategici per l’economia nazionale, fungendo sia da barriera per respingere i migranti in arrivo dal Centroamerica, sia da protezione del capitale investito nelle grandi opere e nelle attività estrattiviste.  In definitiva, è una mercificazione capitalista dei territori, sostenuta e difesa dal braccio armato dello Stato: l’Esercito federale. Un’alleanza potente e spaventosa, soprattutto quando è risaputo – e dimostrato – che in Messico le forze armate sono complici e socie dei consorzi criminali, specialmente dello storico cartello di Sinaloa. Al di là della rappresentazione simbolica che spoliticizza i “narcos” – o addirittura li rende accattivanti attraverso serie tv e film –, infatti, crediamo che il fenomeno vada letto come una forma di organizzazione specifica dell’economia capitalistica neoliberale e globalizzata. Ci azzardiamo a dire che in molte parti del mondo l’economia criminale sta penetrando nelle relazioni economiche come un vero e proprio modo di produzione capitalistico, un modo assolutamente violento, quindi “fascista” in senso ampio. Non è una peculiarità esclusiva del Messico o dell’America Latina, basti pensare alle mafie europee, come quella russa, alle organizzazioni camorristiche e ‘ndranghetiste in Italia capaci di muovere capitali globali, alle “scam cities” asiatiche, alle triadi cinesi, alla Yakuza giapponese o ai cartelli africani legati ai traffici di materie prime e migranti.  > Se il profitto economico è il principio cardine della politica contemporanea, > il crimine organizzato è l’attore perfetto della distopia capitalista: si > presenta come un imprenditore dotato di capitali inesauribili, capaci di > scorrere dai mercati sommersi a quelli formali, contaminandoli. Le sue fonti di ricchezza sono le più estreme forme di mercificazione: i corpi (con il traffico di organi, la prostituzione, lo sfruttamento dei migranti), le armi, le droghe e tutto ciò che può generare valore di scambio. La mano d’opera quasi schiavizzata, tra precarietà assoluta e negazione di ogni diritto lavorativo, permette inoltre l’immpennata della curva del plusvalore, accelerando l’accumulazione di ricchezza. Oltre a questa presenza attiva nel mercato, il crimine organizzato, che nei fatti si fa socio della classe politica che corrompe e protegge, rappresenta anche il “nemico perfetto” nel discorso pubblico dei governi perché si consolida come il pretesto inoppugnabile per incentivare le spese militari, estendere la militarizzazione, aumentare gli effettivi di polizia, affinare le forme di tecno-controllo sulla popolazione, che, di fronte alla reale e spietata violenza di questi consorzi mafiosi, spesso applaude addirittura le politiche securitarie e repressive.  Così che l’applauso del popolo e la narrativa delle istituzioni distolgono l’attenzione da un fatto socialmente comprovato: il crimine organizzato è parte viva e integrante tanto dell’apparato economico, amministrativo e repressivo come del suo tessuto sociale. È un elemento fondamentale e attivo dell’economia attuale di un Paese come il Messico, solo per rimanere nell’esempio di cui stiamo parlando. È una struttura fluida e diffusa che pervade imprese e istituzioni.  Infine il crimine organizzato offre allo Stato la possibilità di una repressione in “outsorcing”: fuori dai corpi armati ufficiali del potere, le bande di criminali diventano, infatti, i mercenari e i paramilitari contemporanei che, mentre generano terrore nella popolazione per sottometterla alle proprie necessità economiche, eliminano selettivamente chiunque si opponga o denunci queste convivenze criminali. Giornalist*, compagn*, attivist* sociali, ambientalisti, madres buscadoras, leader indigeni o comunitari, vengono tutt* falciati dalle smitragliate dei “narcos” o fatti sparire, mentre i governi, anche quelli progressisti, se ne lavano le mani, giocando ad accusare la criminalità “narco” di questi tristi, interminabili e sempre impuniti delitti. > In Messico, questa guerra invisibile e “democratica” va avanti dal 2006, dalla > cosiddetta “guerra al narcos” di Felipe Calderón fino al 2025, ha già prodotto > 532.609 morti, di cui almeno 250.000 sotto i governi progressisti di López > Obrador e Sheinbaum. Parallelamente, 123.808 persone > risultano desaparecidas (dato ufficiale al 13 marzo 2025), quasi 50.000 negli > ultimi sei anni. La tragedia avviata dalle destre non si è fermata con il progressismo: si è moltiplicata. Tutti i governi, senza distinzione ideologica, hanno le mani sporche di sangue. È da più di quindici anni che, come collettivo, ci uniamo a quella parte della società civile organizzata che denuncia questa guerra negata, manipolata o romanticizzata, per esempio, lo ripetiamo, nelle serie televisive dedicate al narcos. Si tratta invece di una guerra e di un modello eminentemente capitalista, che accumula enormi ricchezze attraverso il traffico di merci, armi e corpi. Quelli dei migranti, delle donne e dei bambini rapiti, dei giovani attratti da offerte di lavoro ingannevoli e arruolati a forza. Corpi torturati, smembrati, sciolti nell’acido, ridotti a niente. È la fabbrica del terrore, la necro-produttività capitalista. La repressione e il terrore, in questo contesto, non sono più diretti solo contro guerriglieri o attivisti, ma diventano una forma di governance flessibile e spietata: un dispositivo che disciplina territori e popolazioni, che difende il capitale e normalizza l’orrore. Questo meccanismo, oltre a reificare e mercificare tutto, persone, corpi, spazi e tempi di vita, ha anche un ruolo ideologico decisivo: spoliticizzare la lotta di classe, trasformare la resistenza in “criminalità”, oscurare il saccheggio dietro la retorica della sicurezza. Si potrebbe pensare, ironicamente, che «almeno non piovono le bombe dal cielo», che il Messico non sia come la Palestina, la Siria, il Kurdistan, il Sudan o l’Ucraina. Eppure il numero delle vittime è paragonabile, a volte persino superiore. Non è una guerra simmetrica tra eserciti, né la classica guerra asimmetrica tra Stato e nemico interno.  Il Messico è quindi il laboratorio di una nuova forma di conflitto: una guerra di frammentazione territoriale. Le aree più colpite sono le periferie rurali e semi-rurali, ma anche città e metropoli subiscono gli effetti di questa guerra fatta di micro-conflitti ad altissima intensità di fuoco, disseminati e invisibili, che devastano la vita civile, condotta da una moltitudine di attori armati come cartelli, paramilitari, bande giovanili, forze speciali di polizia come i Pakales, esercito federale, Guardia Nacional e gruppi di autodifesa più o meno legittimi che si contendono territori e mercati. Ripetiamo: Stato e crimine non sono blocchi contrapposti e monolitici, ma componenti fluidi di un vasto mercato condiviso, dove politici, giudici, militari, narcos e imprenditori si intrecciano in una feroce lotta per risorse, corpi, territori e flussi economici. In Chiapas, dove vari compagn* del nostro collettivo vivono, il sud profondo del Paese, la situazione è esplosiva. Si contano 15,000 “desplazados“, sfollati di intere comunità indigene e contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’intensificarsi dei conflitti armati, con il cartello di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación che si intrecciano a forze di sicurezza e paramilitari. Solo in questi primi sei mesi del 2025 sono state scoperte 27 fosse comuni clandestine nella zona a ridosso la frontiera. In varie aree, lo Stato si ritira. In altre, convive o subappalta al crimine organizzato la gestione della res publica come l’elezione pilotata dei sindaci (o la loro soppressione), la riscossione delle “tasse” o il pizzo, la gestione delle licenze, l’imposizione di orari di coprifuoco. Altrove, lo Stato reprime. Sparizioni forzate, imboscate e sparatorie in pieno giorno, femminicidi come pratica sistematica, villaggi rasi al suolo e fosse comuni clandestine sono l’orrore quotidiano di questa guerra di frammentazione territoriale, dove ogni metro quadrato del Chiapas sembra ardere per un conflitto diverso, per il moltiplicarsi degli attori armati in gioco. E non si sa mai bene chi è stato, perché il nemico è ovunque, volutamente spoliticizzato, cangiante, feroce. Resta dunque una domanda cruciale: Come ci si scontra con le mafie quando queste governano? Come ci si ribella a un nemico politicamente impalpabile? Non a un esercito in uniforme, ma a una moltitudine camaleontica di imprenditori della violenza, senza regole, senza etica, senza patto sociale. Contro chi dirigere la rabbia sociale? A chi chiedere giustizia? Questa è la potenza terribile del dispositivo: rendere la rivolta quasi impossibile.  Eppure, nonostante tutto, comunità e movimenti continuano a resistere, a costruire autonomia, isole di speranza nel mare infuocato di questa guerra anomala. Nella selva del Chiapas, sulle coste del Pacifico, nelle periferie delle megalopoli, negli assolati deserti del nord decine di collettivi, organizzazioni popolari, comunità indigene costruiscono spazi di speranza, mantenendo una fiammella accesa in questa terribile oscurità… con il sogno di veder bruciare un giorno i palazzi del potere e costruire sulle loro macerie un mondo più umano.  Immagine di copertina di Nodo Solidale, manifestazione a Città del Messico Articolo pubblicato originariamente sul blog Nodo Solidale SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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Le materie prime del pianeta: I Paesi che comandano e i popoli che aspettano
> “Una mappa senza bandiere, ma con proprietari” IL MONDO SI SCRIVE CON LE MATERIE PRIME Il potere non sta nei discorsi, ma nel sottosuolo. Non nelle bandiere, ma nei giacimenti. Ogni modello economico, ogni potenza militare, ogni sogno di sviluppo dipende oggi da minerali, cereali, metalli ed energia. Senza litio non ci sono batterie. Senza grano non c’è pane. Senza uranio non ci sono centrali nucleari. Dietro ogni città illuminata e ogni cellulare acceso, c’è un sistema di estrazione che impoverisce molti per arricchire pochi. Il XXI secolo non sarà digitale se non sarà materiale. E tutto comincia in una miniera, un fiume o un campo. 20 MATERIE PRIME, UNA DISPUTA GLOBALE Il pianeta funziona grazie a più di 100 materie prime essenziali. Ma ce ne sono 20 che lo sostengono: litio, rame, ferro, oro, argento, alluminio, petrolio, gas naturale, carbone, terre rare, coltan, nichel, manganese, uranio, acqua dolce, fosfato, grafite e cereali chiave come grano, mais e soia. A queste si aggiungono silicio e idrogeno verde. Tutte fondamentali per energia, trasporto, difesa, alimenti, fertilizzanti o infrastrutture. E tutte concentrate in pochi territori. Le dispute geopolitiche di oggi non si spiegano più solo con le ideologie. Si spiegano con questa lista. E questa lista non è neutra. È una mappa di potere. Chi controlla queste risorse, controlla il XXI secolo. Non si tratta di diplomazia, ma di dominio. Non di cooperazione, ma di appropriazione. Le guerre non si combattono più con le bandiere, ma con contratti, sanzioni e trattati che mascherano il saccheggio come investimento. L’Africa non è povera: è ricca di litio, coltan e oro. L’America Latina non è instabile: è ambita per il suo rame, acqua e alimenti. E il Medio Oriente non è mai stato solo petrolio: ora è anche gas e rotte strategiche. Il mondo non gira per valori. Gira per materie prime. 10 PAESI CHE DETENGONO OLTRE IL 90 PER CENTO DELLE MATERIE PRIME Cina, Russia, Stati Uniti, Brasile, Australia, Canada, India, Sudafrica, Venezuela e Arabia Saudita concentrano oltre il 90% della produzione o del controllo di queste materie chiave. * Cina: Terre rare (90%), litio raffinato (70%), batterie elettriche (80%), grafite (75%), rame raffinato (60%), magneti di terre rare (80%) * Russia: Gas naturale (17%), petrolio (12%), grano (20%), uranio (8%), nichel (9%), alluminio (6%), fertilizzanti (15%). * Stati Uniti: Contratti futures agricoli ed energetici (90% controllo globale), produzione interna marginale ma controllo dei prezzi di petrolio, gas, oro, mais, grano e rame. * Brasile: Niobio (63%), ferro (8%), bauxite (13%), soia esportata in America Latina (50%) * Australia: Litio (46%), ferro (38%), carbone metallurgico (30%), oro (20%) * Canada: Uranio (7%), oro (4%), litio (3%), potassa (10%), investimenti minerari globali (20% tramite borsa di Toronto) * India: Ferro (8%), bauxite (5%), carbone termico (9%), grano (3° produttore mondiale) * Sudafrica: Manganese (39%), platino (70%), cromo (45%), oro (10%) * Arabia Saudita: Petrolio (17%) riserve provate globali (2° dopo Venezuela), gas liquefatto (10%) * Venezuela: Petrolio (18,2% delle riserve provate), ferro (3%), oro (5%), bauxite (15% potenziale regionale) Chi domina queste risorse, detta le regole del commercio mondiale. AFRICA, IL CONTINENTE CHE DÀ TUTTO E RICEVE NIENTE L’Africa possiede più del 30% dei minerali strategici del pianeta. Ma continua a esportare senza valore aggiunto e sotto controllo straniero. * Niger: 5% dell’uranio mondiale, sfruttato per lo più dalla società francese Orano. Nel 2023, oltre l’80% delle esportazioni verso l’Europa, mentre la popolazione subiva blackout. * Repubblica Democratica del Congo: leader mondiale in cobalto e coltan, sfruttato da Glencore (Svizzera) e China Molybdenum. Il 72% del cobalto esportato nel 2022 è stato raffinato in Cina. * Botswana: oltre il 20% dei diamanti mondiali, controllati da De Beers (Regno Unito). * Angola: esporta petrolio per oltre 25 miliardi di USD l’anno, operato quasi interamente da TotalEnergies (Francia), Chevron (USA) e Sinopec (Cina). * Sudafrica e Gabon: 40% del manganese mondiale, ma meno del 5% trasformato localmente. Nel 2023, l’Africa ha esportato oltre 150 miliardi di USD in materie prime. Ma il 75% di quella ricchezza è stato fatturato fuori dal continente. La mappa delle risorse non coincide con la mappa dello sviluppo. AMERICA LATINA, LA BANCA SENZA CASSAFORTE L’America Latina concentra litio, rame, ferro, bauxite, petrolio, oro e cereali. Ma non controlla né i prezzi né le catene produttive. * Cile: principale esportatore mondiale di rame (5,6 Mt) e secondo di litio (40.000 t LCE), ma senza partecipazione nella produzione globale di batterie. * Argentina: seconde maggiori riserve di litio, esportazioni 2023 oltre 900 milioni USD. Il 95% estratto da Livent (USA), Allkem (Australia) e Ganfeng (Cina). * Brasile: leader in ferro (400 Mt/anno), niobio (90% del mercato), bauxite e soia (152 Mt), ma Vale e Bunge dominano il business. * Venezuela: ferro (Cerro Bolívar), petrolio, bauxite e oro, ma sanzioni e corruzione frenano la sovranità produttiva. * Perù: secondo in argento, terzo in rame e oro, con miniere controllate da Freeport, Newmont e Glencore. L’America Latina produce per il mondo. Ma il mondo decide quanto paga. CANADA E AUSTRALIA, IL RETROBOTTEGA DELL’ESTRATTIVISMO * Canada: meno del 3% del litio mondiale, ma controllo di giacimenti in USA, Argentina, Namibia e Cile. Maggior finanziatore mondiale di junior mining. Aziende come Allkem, Lithium Americas e Nemaska operano da Toronto. Produzione interna: 500 t di litio/anno, ma oltre 10.000 t controllate in operazioni estere. Esportazioni 2023: 21 miliardi USD in minerali, solo il 35% trasformato localmente. * Australia: maggior produttore globale di litio (86.000 t LCE nel 2023) e secondo esportatore di ferro (900 Mt). Pilbara Minerals e Mineral Resources tra i giganti. Ma il 75% del litio venduto in Cina senza valore aggiunto. Entrambi fanno estrazione con bandiera altrui. Sono le banche di materie prime dell’Occidente. CINA, IL POTERE CHE TRASFORMA CIÒ CHE NON HA La Cina importa materie prime ed esporta egemonia tecnologica. Raffina il 70% del litio globale, il 60% del rame e quasi tutta la grafite. Controlla il 90% delle terre rare e produce l’80% dei magneti per auto elettriche e turbine eoliche. È presente in oltre 120 progetti minerari in Africa, Asia e Sudamerica. Investimenti 2023: 10,2 miliardi USD in acquisizione di asset minerari all’estero. Il suo potere non è avere miniere, ma avere fonderie. STATI UNITI, IL POTERE CHE FISSA I PREZZI COMEX e NYMEX fissano i prezzi globali di oro, rame, argento, gas e petrolio. CBOT domina il commercio di grano, mais e soia. Le maggiori aziende di trading agricolo (Cargill, ADM, Bunge) e di metalli (Goldman Sachs, Glencore, Trafigura) operano da Wall Street o Chicago. Controllano i futures, impongono il dollaro e hanno l’ultima parola in ogni disputa finanziaria. Gli USA non scavano: fissano i prezzi e muovono i conflitti. RUSSIA, ENERGIA, ALIMENTI E SOPRAVVIVENZA 17% del gas mondiale, 12% del petrolio, 20% del grano, 8% dell’uranio, 9% del nichel. Produzione: 70 Mt di cereali strategici. Nornickel: tra le prime compagnie mondiali di nichel. Rosatom è leader nell’export di tecnologia nucleare. La Russia usa l’energia come leva geopolitica. QUANTO RESTA DI QUESTE MATERIE? * Litio: 30 anni di riserve globali * Rame ad alta legge: 40 anni * Coltan: 20 anni * Uranio accessibile: 50 anni * Ferro: 60 anni * Nichel: 70 anni * Manganese: 30 anni * Terre rare: 25 anni * Oro puro: 20 anni * Acqua dolce: 70% già impegnata I POPOLI ASPETTANO ANCORA * Jujuy (Argentina): le comunità indigene resistono all’espansione del litio senza consultazione. * Calama (Cile): i lavoratori del rame chiedono reinvestimento. * Niger: i bambini studiano al buio mentre il loro uranio illumina Parigi. * Bolivia: il litio come promessa, ma senza industrializzazione. * RDC: miniere di cobalto in crescita e sfruttamento minorile. EPILOGO Il modello deve cambiare. Servono sovranità industriale, aziende nazionali forti, alleanze regionali e giustizia ambientale. Bisogna smettere di chiedere permesso per usare ciò che è nostro. Bisogna ridisegnare la mappa, e questa volta con giustizia. Perché non si tratta solo di minerali. Si tratta di popoli. E questa volta, nessuno deve restare fuori dal contratto. Mauricio Herrera Kahn
L’ultimo assalto alla Patagonia con l’accordo ENI-YPF
L’accordo ENI-YPF, la compagnia petrolifera statale argentina, per il progetto “Argentina LNG” segna l’ultimo assalto al cuore della Patagonia, dove Vaca Muerta, una delle più grandi riserve di gas e petrolio non convenzionali al mondo, è da anni al centro di un’inarrestabile corsa estrattiva. L’accordo, che prevede due unità galleggianti per il GNL, ciascuna da 6 milioni di tonnellate l’anno, punta a generare un mercato da 30 miliardi di dollari entro il 2030.  Il governo Milei, invece, vede nel progetto una via per la stabilità finanziaria. Tuttavia, la narrazione di Vaca Muerta come “El Dorado” energetico si scontra con una realtà di promesse tradite. Per un decennio, i governi argentini hanno promesso che l’estrazione di gas e petrolio avrebbe portato prosperità. Eppure, nel 2022, Neuquén, la capitale della provincia di Neuquén, registrava un tasso di povertà urbana del 38,4%, come denunciato dal Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura. Añelo, epicentro operativo del giacimento, è il simbolo di questa contraddizione: un villaggio trasformato dal boom petrolifero, ma con carenze strutturali e sociali evidenti. UN DECENNIO DI FRACKING E DEVASTAZIONE AMBIENTALE Vaca Muerta è una formazione geologica di scisto che si estende per 30mila chilometri quadrati tra le province di Neuquén, Río Negro, Mendoza e La Pampa e detiene la seconda più grande riserva di gas di scisto e la quarta più grande riserva di olio di scisto al mondo. Dal 2013, con l’avvio dell’estrazione non convenzionale sotto Cristina Fernández, il fracking è diventato il fulcro dell’industria estrattiva nella regione, una tecnica estremamente dannosa per l’ambiente e per le popolazioni indigene che vi abitano, oltre che possibile causa di eventi sismici. Detta anche fratturazione idraulica, questa tecnica inietta ad alta pressione una miscela di acqua, sabbia e sostanze chimiche per estrarre petrolio o gas di scisto da rocce argillose nel sottosuolo. Ogni pozzo richiede tra 100mila e 27 milioni di litri d’acqua, con gravi rischi di contaminazione di suolo e falde acquifere, in particolare per il fenomeno del “flowback” – acqua di ritorno con residui tossici e idrocarburi – che minaccia fiumi e falde, nonostante YPF assicuri una gestione “sostenibile”. Le denunce di organizzazioni come Opsur evidenziano rischi concreti, ma le autorità provinciali minimizzano, lasciando le comunità a fare i conti con un ambiente sempre più compromesso. Il fracking, inoltre, aggrava la crisi idrica in una regione già colpita da una siccità decennale. > L’accordo ENI-YPF, che punta a intensificare l’estrazione, accelera queste > pratiche, consumando enormi quantità di acqua e sottraendola alle comunità > locali. In un contesto in cui l’acqua è scarsa, l’industria estrattiva consuma > risorse vitali, mentre le comunità non hanno accesso all’acuqa potabile. L’impatto ambientale non si limita all’acqua. Dal 2015, la regione ha registrato 442 terremoti legati al fracking, mentre nubi di metano e composti organici volatili (come benzene e toluene) inquinano l’aria, come documentato nel 2023 da una delegazione di giornaliste e giornalisti nazionali e internazionali che ha visitato Vaca Muerta. Le e i giornalisti che hanno visitato la zona hanno riscontrato che i principali disturbi per cui le persone residenti si rivolgono al medico sono quelli respiratori, non solo per le sostanze nocive correlate all’estrazione. Il paradosso che vivono le comunità che vivono nella regione è emblematico: la mancanza di gas naturale per tutti. Su una delle più grandi riserve di gas al mondo, il gas non ha mai raggiunto le loro case (disponibile solo per il 35% delle case) e per scaldarsi le famiglie usano bombole di gas sociale o bruciano legna, quando va bene, mentre i più poveri ricorrono a spazzatura o vecchie pantofole per cucinare e scaldarsi. LA CRISI DI AÑELO Añelo, a 104 chilometri da Neuquén, è il volto umano della crisi di Vaca Muerta. Trasformata in capitale operativa del giacimento, la cittadina è dominata da colossi come Chevron, YPF, Shell, Total e Pluspetrol. Ma il boom economico ha portato prosperità solo a pochi. Luís Castillo, residente del quartiere La Meseta, denuncia a elDiarioAR fogne straripanti che invadono le strade, mancanza di gas naturale e acqua potabile e infrastrutture al collasso. L’impatto sociale è altrettanto grave. L’arrivo delle multinazionali ha fatto esplodere i costi della vita: un monolocale costa 150.000 pesos mensili, una stanza con bagno condiviso 80.000, cifre insostenibili per chi non lavora nell’industria estrattiva. Nel 2022, il tasso di povertà urbana di Neuquén era al 38,4%, un dato che smentisce le promesse di benessere universale. Le comunità locali, che vivono a pochi passi dalle riserve di idrocarburi, non vedono i benefici del gas che dovrebbe “salvare” l’Argentina. Al contrario, affrontano carenze croniche e un ambiente sempre più degradato. Il contrasto tra le aspettative e la realtà è evidente. Per un decennio, i governi argentini hanno venduto Vaca Muerta come la chiave per la rinascita economica. Ma chi vive accanto ai pozzi non ha accesso ai servizi più elementari. La narrazione ufficiale, che dipinge l’estrattivismo come motore di sviluppo, si scontra con la vita quotidiana di Añelo, dove la ricchezza del sottosuolo non si traduce in benessere, ma in abbandono e disuguaglianza. LA LOTTA DEI MAPUCHE All’industria estrattiva, così come allo sfruttamento ambientale in generale, si sono sempre opposte le comunità Mapuche che abitano da secoli le terre ancestrali di Vaca Muerta, le più colpite dall’industria estrattiva. Il fracking non solo devasta l’ambiente da cui dipendono per la loro sussistenza, ma compromette la loro identità culturale e spirituale, profondamente legata alla terra. Pratiche tradizionali come la transumanza, un sistema di migrazione stagionale del bestiame, sono minacciate dalla crescente domanda di acqua e terra per l’estrazione. La Malalweche Territorial Identity Organization, che rappresenta oltre 20 comunità a Mendoza, denuncia che queste attività, in un contesto di crisi idrica e climatica, mettono a rischio la loro stessa sopravvivenza. Non solo. A Mendoza, dove Vaca Muerta copre 8.700 chilometri quadrati, i Mapuche devono affrontare anche politiche che negano i loro diritti territoriali, che mirano a espropriare le comunità e a facilitare il fracking e altre attività estrattive. Nel 2023, la Camera dei Deputati di Mendoza ha messo in discussione il loro status di popolo indigeno, aprendo la strada a espropri per il fracking. > A livello nazionale, il governo Milei ha aggravato la situazione: l’abolizione > dell’Istituto Nazionale per gli Affari Indigeni, la chiusura dell’Istituto > contro la Discriminazione e la revoca della Legge 26160, che proteggeva le > comunità indigene dagli sgomberi, hanno portato a violente espulsioni. Queste > politiche riflettono una strategia chiara: sacrificare i diritti delle > comunità per favorire gli interessi estrattivi. Nonostante le avversità, i Mapuche non si arrendono. La Confederazione Mapuche di Neuquén organizza marce, blocchi stradali e azioni legali, come la causa contro la Comarsa per lo smaltimento tossico. A Mendoza, la Malalweche ha portato la lotta sul piano internazionale, rivolgendosi ai Relatori Speciali delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni e sull’Ambiente e ha presentato un amicus curiae alla Corte Interamericana dei Diritti Umani, evidenziando come il fracking aggravi la crisi climatica e la scarsità d’acqua, violando i loro diritti. Le comunità chiedono il rispetto della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che garantisce la consultazione libera, previa e informata. La loro lotta, però, si scontra con un’Argentina che sembra aver scelto il profitto a scapito della terra e delle sue genti. Vaca Muerta, venduta come la salvezza dell’Argentina, rischia di diventare un l’ennesimo modello di sviluppo che arricchisce pochi, devasta l’ambiente e calpesta i diritti umani. Immagine di copertina di Bruce Gordon per EcoFlight (Flickr) – Vista aerea di impianti di estrazione di petrolio tramite “fracking” SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo L’ultimo assalto alla Patagonia con l’accordo ENI-YPF proviene da DINAMOpress.
LibGen e la ricerca universitaria piratata sono il nuovo giacimento di dati per allenare l'intelligenza artificiale
Meta ha usato anche LibGen, un database illegale online, per allenare la sua AI, scavalcando così il diritto d'autore e il lavoro di chi fa ricerca, che finisce sfruttato due volte. Ma il copyright non è la soluzione. Notizia di queste settimane è quella relativa all’utilizzo da parte di Meta di LibGen, un archivio online di materiali, anche accademici, piratati, per aiutare ad addestrare i suoi modelli linguistici di intelligenza artificiale generativa. La notizia è un paradosso, soprattutto, in particolare se letta dalla prospettiva della ricerca accademica. Chi scrive è l’opposto di un sostenitore del copyright: è un sistema che offre pochissima autonomia e un lievissimo sostegno ai piccoli, e dona, invece, un enorme potere ai grandi gruppi editoriali, oltre a essere un ostacolo alla libera circolazione della conoscenza e della cultura. [...] La razzia spregiudicata di questi contenuti è predatoria perché omette completamente l’esistenza di chi quei contenuti li ha creati, e non perché non ne rispetta il copyright, ma perché avanza una pretesa di possesso su quei contenuti come se non esista alcun livello ulteriore. È predatoria perché si rivolge, senza alcun ragionamento culturale, alla pirateria, che è stata creata per indebolire un sistema iniquo. Così facendo Meta crea un livello di sfruttamento ulteriore su quei contenuti, facendosi gioco di una strategia di resistenza, di fatto svuotandola. Il fatto che Meta si sia rivolta a un database illegale per questa operazione dimostra due cose: che il copyright è finito e non serve assolutamente a nulla (ma questo lo sapevamo già da molto) e, allo stesso tempo, che non esiste limite alcuno all’azione delle aziende tecnologiche e alle loro dinamiche estrattive. Non vi erano limiti all’estrazione di dati per la pubblicità targetizzata, perché dovrebbero esistere per l’AI generativa? Credere che questo contribuirà a indebolire il copyright o a finalmente mandarlo in soffitta è una favola che può funzionare solo in qualche narrazione determinista dove l’AI è un agente neutro, inevitabile e irrefrenabile, cui non è possibile, né giusto, porre limiti. È una narrazione tossica e di comodo, e molto pericolosa, ed è la stessa da decenni. La risposta non può certamente essere il copyright, ma nemmeno la resa incondizionata a questo pensiero che mischia linguaggio corporate a filosofia spiccia. Non abbiamo fatto e sostenuto le battaglie per la Rete libera, il fair use, le licenze creative commons e per la memoria di Aaron Swartz per fare finta che finire sfruttati da Meta una volta in più sia una cosa di cui essere contenti. Articolo completo qui
[2025-05-08] Altri Mondi, Altre Voci @ Zazie nel metrò
ALTRI MONDI, ALTRE VOCI Zazie nel metrò - Via Ettore Giovenale 16, Roma (giovedì, 8 maggio 19:30) ALTRI MONDI, ALTRE VOCI INCHIESTE, REPORTAGE E SGUARDI CONDIVISI SU GEOGRAFIE INVISIBILI Quattro appuntamenti dedicati alla presentazione e al confronto con gruppi di giornalismo indipendente e collettivi di freelance: Fada Collective, IrpiMedia, Centro di Giornalismo Permanente e Rivista Corvialista. Con Altri Mondi, Altre Voci vogliamo dare spazio a chi ogni giorno cerca nuovi modi di raccontare il mondo, sporcandosi le mani con la realtà, attraversandola con cura, passione e senso critico. Crediamo in un’informazione che non si limiti a osservare da lontano, ma che scelga da che parte stare, assumendo uno sguardo dichiaratamente partigiano: schierato con i corpi, le lotte e le comunità che si muovono ai margini, contro le narrazioni imposte dal potere. Un giornalismo che non rincorre la neutralità come forma di equidistanza, ma che prende posizione, costruendo ponti tra chi racconta e chi resiste. Gli incontri si svolgeranno a Zazie nel Metrò alle 19.30 in queste date: • GIOVEDÌ 8 MAGGIO, CENTRO DI GIORNALISMO PERMANENTE. Repressione in Nord Africa: il filone tunisino e marocchino della lotta senza confine ai dissidenti (Matteo Garavoglia). Istituzioni totali e diritto all'informazione: come il giornalismo indipendente può raccontare i luoghi di privazione della libertà personale (Marica Fantauzzi) • GIOVEDÌ 15 MAGGIO, FADA COLLECTIVE L’attacco dell'industria petrolifera all'Iraq: una lunga inchiesta sugli impatti degli impianti estrattivi di Eni, BP e Shell nel sud iracheno, in particolare sull'accesso all'acqua e sulla salute. • GIOVEDÌ 22 MAGGIO, RIVISTA CORVIALISTA Presentazione del numero 1 della "Rivista Corvialista”: Come raccontare e dare voce alle periferie invisibili o stigmatizzate delle grandi cittá? Quali le metamorfosi del "serpentone" di Corviale? Partecipano i redattori e le redattrici della rivista, che diventa trimestrale. • GIOVEDÌ 29 MAGGIO, IRPIMEDIA DesertDumps: In Nord Africa esiste un sistema per espellere nel deserto i migranti che provengono da Paesi schiacciati tra il Sahara e l’Equatore. Lo scopo è impedire loro di raggiungere l’Europa, principio-guida del lungo processo di esternalizzazione delle frontiere condotto dall’Unione europea negli ultimi vent’anni.
Apuane sotto assedio: la montagna come campo di battaglia ecologica
Se dovessimo associare un colore all’idea di Alpi, probabilmente, sarebbe il bianco: il colore della neve che copre le cime più alte e del ghiaccio che abita le terre più alte del paese. Se però le Alpi a cui ci stiamo riferendo sono quelle Apuane, il bianco che avremmo in mente non sarebbe quello dell’acqua ghiacciata, ma quello della roccia viva, del marmo lucente che emerge dalle ferite sui loro versanti squarciati, o quello che riempie i fiumi che in esse originano, la marmettola. Questa, che rende le acque dei fiumi Lucido, Frigido, Versilia e Lunigiana di un bianco sporco e torbido, soffocando forme di vita e portando con sé l’impronta tossica di un’economia che, in nome del profitto, erode lentamente un ecosistema unico, ignorando il prezzo pagato da chi lo abita. Ci troviamo nel cuore della Toscana per raccontare una storia di sfruttamento e colonizzazione che richiama le vicende di territori lontani, accomunati dal fatto che le risorse naturali vengono svuotate fino all’osso e che a pagarne gli impatti più negativi sono i loro abitanti. ESTRATTIVISMO: IL VOLTO LOCALE DI UN PROBLEMA GLOBALE L’estrattivismo è una logica sistemica, un modello economico basato sull’esportazione di materie prime, che implica grandi impatti ambientali e sociali, spesso in territori periferici o marginalizzati. Le sue conseguenze sono tangibili e ben evidenti in tanti luoghi: dalle miniere d’oro del Perù, al litio del deserto cileno, fino alle sabbie bituminose del Canada. E anche se siamo abituati a pensare che siano logiche che si attuano lontano dal bel paese, in realtà, in Italia, l’estrattivismo assume una forma particolare, quella delle montagne sventrate, delle cave che si moltiplicano, di miliardi di euro in blocchi di marmo che viaggiano verso la Cina, lasciando sul territorio da cui sono partite polveri sottili, paesaggi devastati e comunità frammentate. Nelle Alpi Apuane, attualmente, ci sono oltre 160 cave attive, molte delle quali (circa 80) situate all’interno dei confini del Parco Naturale Regionale omonimo: un paradosso ambientale che prende il nome, non a caso, di “parco minerario”. Nel periodo che va dal 2005 al 2022, secondo il dossier realizzato da Legambiente, nelle cave attive sono state estratte oltre 68 milioni di tonnellate di materiali, delle quali soltanto il 22,8% è composto da blocchi di marmo e ben il 77,2% di detriti, utilizzati perlopiù nell’industria del carbonato di calcio. Sono addirittura una decina le cave con una resa in blocchi inferiore al 10%. Tutto ciò che non va a comporre i blocchi pregiati, diventa polvere, calce, residuo industriale, e, appunto, marmettola. MARMETTOLA: INQUINAMENTO INVISIBILE La marmettola è il risultato meno sconosciuto e più subdolo dell’estrazione del marmo: si tratta di una sospensione di polveri sottili di carbonato di calcio, mescolate all’acqua, che finiscono nei fiumi e nei suoli. Ha un colore bianco ed è impalpabile e polverosa come la farina raffinata, ma se lasciata a terra ed esposta alle piogge si trasforma in una fanghiglia melmosa, nociva per l’ambiente, perché una volta secca cementifica gli alvei dei fiumi e dei torrenti, forma uno strato impermeabile, occupando gli interstizi dell’alveo, habitat dei macroinvertebrati bentonici, che sono alla base dell’ecologia fluviale, con un effetto devastante per la biodiversità e contribuendo ad aumentare il rischio di esondazioni e alluvioni. > Si tratta di una sostanza letale per gli ecosistemi fluviali, perché le > particelle in sospensione opacizzano le acque, riducendo la penetrazione della > luce e conseguentemente l’ossigenazione delle acque, con danni evidenti alle > forme di vita che le abitano.  La polvere di marmo, inoltre, non solo è pericolosa per l’ambiente per la sua consistenza e per la sua reazione agli agenti atmosferici, ma è anche inquinante perché in essa si trovano tracce di terriccio di cava, oli e grassi usati per lubrificare gli strumenti per il taglio, tracce di idrocarburi per alimentare le macchine, metalli derivanti dagli utensili di taglio, come tagliatrici a catena e fili diamantati. La maggior parte di questa polvere, negli anni 2012-2015, risulta portata da ditte autorizzate al trattamento dei rifiuti allo stabilimento della Huntsman Tioxide di Scarlino (GR), che la utilizza nelle fasi produttive come agente neutralizzante degli effluenti acidi. Altre destinazioni sono state individuate in impianti autorizzati tramite procedura semplificata secondo quanto previsto dal DM 05/02/98, come cementifici, opere civili e stabilimenti industriali. Tuttavia, come evidenziano gli esperti dell’Agenzia Regionale per Protezione dell’Ambiente Toscana (ARPAT), il quantitativo complessivo di marmettola desunto dalle dichiarazioni MUD relative alle attività estrattive e di trasformazione dell’intero comprensorio Apuo-Versiliese lascia dimostra che un importante quantitativo di marmettola non risulti gestito. Infatti, il rifiuto marmettola – che dovrebbe essere raccolto all’origine per essere recuperato-trattato ovvero smaltito secondo quanto previsto nell’autorizzazione – spesso e anche in ingenti quantità, risulta abbandonato nell’ambito dell’area di cava dove resta esposto all’azione degli agenti atmosferici meteorici che lo disperdono nell’ambiente circostante. Infatti, le analisi condotte da Source International mostrano alterazioni nei valori di torbidità e pH in prossimità delle cave (e non solo) con effetti persistenti nel tempo. La presenza di marmettola, infatti, determina un significativo degrado qualitativo dei corpi idrici, causando danni sia alle acque superficiali che a quelle sotterranee e sorgive. L’inquinamento delle acque sotterranee e delle sorgenti, che in buona parte sono captate con scopo idropotabile, sebbene sia ancor più grave di quello delle acque superficiali, è meno percepito, perché non direttamente visibile; le sorgenti con torbidità contenuta sono potabilizzate da filtri mentre quelle con da elevata torbidità vengono temporaneamente escluse dalla rete, generando uno spreco di risorse. > In questo senso, è emblematico il caso del depuratore del Cartaro, che è stato > pagato dai cittadini per abbattere la torbidità delle acque dell’omonimo > fiume, imbiancate a causa della vicina cava privata. Quello della marmettola che viene prodotta dalle cave è il frutto di un inquinamento sistemico, normalizzato, reso invisibile da una narrazione che celebra il marmo come “oro bianco”, simbolo del lusso Made in Italy, ma si dimentica di mostrarne anche i costi ambientali. Una delle questioni cruciali è la corretta identificazione della marmettola come rifiuto o come sottoprodotto: infatti in linea di principio i materiali residui non devono essere classificati come rifiuti, potendo assumere la qualifica di sottoprodotto quando possono trovare utilizzo in altri cicli di lavorazione. Occorre tuttavia sottolineare che ad oggi, in fase di controllo, non sono mai state riscontrate le condizioni che consentirebbero di attribuire a tale rifiuto la qualifica di sottoprodotto. ‍LA SCIENZA NELLE MANI DI CHI RESISTE Di fronte a tutto questo, nel corso dei decenni sono sorte numerose risposte dal basso, che hanno preso la forma di manifestazioni, conferenze, camminate partecipate e pressioni sulla politica. Tra queste, negli ultimi mesi, c’è stato il monitoraggio partecipato promosso da Source International con il progetto “Osservatorio Cittadino delle Acque Apuane follow-up”, un’esperienza che coniuga citizen science e giustizia ambientale, sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. > L’idea è semplice ma potente: formare cittadine e cittadini per raccogliere > dati ambientali in modo indipendente, condividere strumenti scientifici come > sonde multiparametriche, tubi di torbidità e applicazioni per la mappatura per > costruire insieme una contro-narrazione basata su fatti, misurazioni, prove. Il progetto ha coinvolto già oltre 35 cittadini e 3 associazioni, con uscite sul campo, workshop online, momenti pubblici, e i dati raccolti sono stati caricati su una piattaforma aperta (KoboToolbox), dove sono accessibili a chiunque sia interessato, e soprattutto, dove sono a disposizione per diventare strumenti di denuncia e mobilitazione. CARTOGRAFIE PER LA GIUSTIZIA AMBIENTALE Non si tratta solo di una questione di dati, infatti il monitoraggio partecipato ha anche l’obiettivo di stimolare un ripensamento delle mappe, che da geografie neutre, diventano così narrazioni visive dei conflitti, strumenti per vedere l’invisibile, come la marmettola nei fiumi o le fratture nelle montagne. Durante gli incontri organizzati da Source international, attivisti e scienziati ambientali hanno mostrato come la cartografia digitale possa essere usata per denunciare crimini ambientali, monitorare violazioni dei diritti e proporre alternative sostenibili, in una nuova forma di ecologia politica, che unisce scienza, comunità e tecnologia. NON UN CASO ISOLATO, MA UN PARADIGMA DIFFUSO Tra i motivi per cui è importante non distogliere l’attenzione sul caso delle Alpi Apuane, oltre al sostegno per le popolazioni locali che da decenni sembrano combattere contro i mulini a vento, c’è anche il fatto che non si tratti di un’eccezione, un caso isolato, ma di un paradigma. Infatti, le dinamiche di estrazione, esclusione e inquinamento si ripetono ovunque nel pianeta ci sia una risorsa da “valorizzare”. Per fortuna, però, così come le minacce, anche le risposte si moltiplicano: dalle reti di resistenza agli osservatori popolari, fino alle iniziative di scienza dal basso.  Per questo motivo parlare di quello che accade oggi nei versanti delle Alpi Apuane significa anche parlare di clima, democrazia e diseguaglianze, e diventa un invito a guardare con occhi nuovi anche ciò che crediamo familiare e a scegliere da che parte stare. Per approfondire queste tematiche e scoprire da vicino queste esperienze di resistenza e monitoraggio partecipato, sarà possibile partecipare all’evento pubblico organizzato da Source International il 29 maggio all’Università di Pisa: sarà un’occasione per ascoltare, discutere, analizzare i risultati del monitoraggio partecipato e, soprattutto, ragionare insieme. Immagine di copertina di Manuel Micheli SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Apuane sotto assedio: la montagna come campo di battaglia ecologica proviene da DINAMOpress.
Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista
L’espansione estrattivista ha caratterizzato per secoli l’economia e la storia dell’Ecuador, ed è stata da sempre sinonimo di ecocidio e di distruzione delle culture indigene. A questo fenomeno le popolazioni si sono opposte e hanno sviluppato molteplici forme di opposizione. Lo sfruttamento di risorse naturali da parte delle imprese petrolifere e minerarie continua a provocare un grave danno per il territorio amazzonico ecuadoriano.  Queste pratiche estrattive accelerano il depauperamento delle risorse naturali e minacciano la sopravvivenza fisica, culturale e spirituale dei popoli locali, contribuendo al perpetuarsi della colonizzazione dei loro territori. > Lo sviluppo illimitato e lo sfruttamento costante dei territori è in antitesi > al neologismo quechua Sumak Kawsay, creato negli anni 1990 da organizzazioni > indigene socialiste, che indica il principio radicato nella cosmovisione > indigena e nella conoscenza ancestrale del “vivere bene” in armonia con la > terra. Con l’aumentare della devastazione ambientale, cresce con gli anni anche l’incidenza di malattie tra gli abitanti. Nel decimo rapporto del Registro Biprovinciale dei Tumori delle province di Sucumbíos e Orellana, l’associazione UDAPT – La Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (Unione delle persone colpite dalle operazioni petrolifere della Texaco) e la ong Clínica Ambiental riportano un incremento delle persone malate di cancro, di cui il 74% donne, e una maggior presenza della malattia nella popolazione che vive nelle vicinanze delle aree in cui operano diverse aziende petrolifere. L’incidenza dei tumori è allarmante e non accenna a diminuire. Visitando la zona equatoriale dell’Amazzonia, l’odore acre e il suono aggressivo e ininterrotto delle fiamme segnalano l’avvicinarsi alle zone dove si pratica il gas flaring, ossia la combustione di gas di scarto derivanti dall’estrazione del petrolio, i quali, anziché essere recuperati, vengono bruciati nell’ambiente attraverso i cosiddetti “mecheros de la muerte”. Queste alte ciminiere emanano sostanze tossiche che contribuiscono alla devastazione ambientale e rappresentano una delle principali cause dell’aumento dei casi di cancro. Solo nell’Amazzonia ecuadoriana sono attivi ben 486 “mecheros”. Dal dolore per le ferite inflitte alla terra e alle persone, nascono forme di Lotta, Resistenza e Cura collettiva. Nel 2023 la storica vittoria nel referendum contro lo sfruttamento petrolifero nel Parco Yasuní e l’estrazione mineraria nel Chocó Andino – una delle 40 riserve di biodiversità del pianeta – sembrava un nuovo punto di svolta fortemente voluto dalla popolazione ecuadoriana. > Nell’agosto del 2024 però, a distanza di un anno, la situazione era rimasta > invariata, nulla era cambiato nelle attività minerarie e nelle strategie di > tutela ambientale, e anzi il governo ecuadoriano ha chiesto una proroga di > cinque anni per l’attuazione della volontà popolare. Al centro delle azioni di lotta ci sono le comunità indigene e le popolazioni locali che con determinazione si organizzano e si formano per attivare nuove forme di resistenza locale. Proteste, scioperi, querele contro lo Stato, campagne di sensibilizzazione e denuncia per proteggere i loro territori ancestrali. Ancora oggi luoghi e persone, custodi per secoli di tradizioni, culture e conoscenze, sono minacciati da un modello di sviluppo che, in nome del progresso, saccheggia risorse naturali, inquina i fiumi, l’aria, deforesta le montagne e compromette l’equilibrio ecologico. Anche la cura emerge come elemento centrale, non limitandosi a sanare le ferite e le cicatrici fisiche, ma anche quelle spirituali, causate dal disprezzo e dall’oppressione delle culture indigene e locali. La cura come difesa del territorio e cura degli elementi e simboli che identificano e rappresentano la memoria ancestrale, culturale, spirituale e cosmogonica delle popolazioni native. Che futuro ha questo processo di guarigione collettiva? Riuscirà a proteggere il territorio ferito? Davide Costantino Il terreno sotto le torce degli impianti di gas flaring è un triste cimitero di insetti. Oltre a danneggiare la salute delle comunità locali, le fiamme hanno un impatto devastante sulla flora e fauna dell’Amazzonia Davide Costantino I gas di scarto bruciano nella ciminiera del pozzo petrolifero nella Parahuacu Oil Station, rilasciando inquinamento atmosferico ed un odore acre diffuso nell’aria che si estende per chilometri Davide Costantino Tubi neri di petrolio carbonizzato si snodano attraverso la vasta foresta amazzonica, lacerando il silenzio della natura e penetrando nel cuore pulsante di un ecosistema ancestrale Davide Costantino Il “pozzo Lago Agrio N° 1” è stato il primo pozzo petrolifero perforato in Ecuador nel 1967 dal consorzio americano Texaco-Gulf, aprendo l’era dell’oro nero nell’Amazzonia ecuadoriana e facendo della zona di Lago Agrio la capitale petrolifera dell’Ecuador Davide Costantino L’impronta umana del petrolio su un albero della foresta amazzonica. In 30 anni, la compagnia Texaco ha perforato 356 pozzi, creando bacini di ritenzione per raccogliere residui di petrolio, rifiuti tossici e acqua contaminata. L’impatto è ancora visibile Davide Costantino Donald Moncayo coordinatore generale di UDAPT – La Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (Unione delle persone colpite dalle operazioni petrolifere della Texaco), mostra gli sversamenti di petrolio e i luoghi contaminati ancora presenti nelle province amazzoniche di Sucumbíos e Orellana Davide Costantino Sala di attesa dell’ambulatorio dell’équipe sanitaria dell’UDAPT. L’associazione lavora per contrastare gli effetti devastanti dell’inquinamento ambientale offrendo supporto terapeutico e sociale a chi è colpito da malattie gravi, in particolare oncologiche, provocate dalle attività estrattive Davide Costantino Jenny España, conduce una sessione di biomagnetismo per trattare il dolore post-operatorio di una paziente curata dal cancro. Secondo il Registro dei Tumori Biprovinciale delle province di Sucumbíos e Orellana, sono stati registrati in totale 531 casi di cancro (fino al 2023) Davide Costantino M. è seguita dall’Equipo de Salud, durante un trattamento alternativo specifico per la riduzione del dolore. Questo approccio mira a migliorare la sua qualità di vita, affiancando le terapie tradizionali Davide Costantino L’attività mineraria e l’estrazione petrolifera continuano a costituire una minaccia costante per il territorio ancestrale amazzonico. La Guardia Indigena, composta da uomini e donne, ha organizzato gruppi di osservatori e guardie per proteggersi dalle nuove e crescenti minacce Davide Costantino Un truck proveniente dalle raffinerie di petrolio che attraversa il territorio amazzonico. Oltre all’estrazione petrolifera anche la costruzione di strade è una delle principali cause di deforestazione soprattutto nell’Amazzonia ecuadoriana Davide Costantino Membri della Guardia Indigena durante un’operazione di controllo del territorio amazzonico minacciato da attività illegali. La profonda conoscenza del territorio e l’utilizzo di nuove tecnologie hanno un ruolo fondamentale per la conservazione del territorio Davide Costantino Decimo incontro di scambio di conoscenze ed esperienze per la difesa del territorio presso la Comunità Shuar di Consuelo. Guardie Indigene durante le attività spirituali e formative per la protezione e la difesa dei loro territori, per fortificare i processi del diritto all’autonomia e all’autogoverno Davide Costantino Al centro delle azioni di lotta le Guardie Indigene si organizzano e si formano per attivare nuove forme di resistenza locale per la preservazione del territorio Davide Costantino Il fuoco sacro è il cuore spirituale nelle comunità che si impegnano a promuovere le tradizioni culturali per la difesa del territorio e per riconnettere i giovani con la foresta e i suoi spiriti Davide Costantino Attiviste davanti alla Corte Costituzionale di Quito durante la manifestazione che ha celebrato il primo anniversario della vittoria al referendum del 2023. Delia chiede che il referendum venga rispettato e venga attuato il piano per la chiusura e lo smantellamento dei siti di estrazione nel Parco Yasuní e nel Chocó Andino Davide Costantino Gruppi sociali durante una marcia per chiedere il rispetto della consultazione popolare sul Chocó andino. ‘Quito Sin Minería’ è l’urlo di protesta che si alza davanti alla Corte Costituzionale Davide Costantino La polizia nel presidio di controllo per scortare e monitorare la manifestazione per la ricorrenza dopo un anno dalla consultazione popolare del 2023 in cui la maggioranza degli elettori di Quito ha rifiutato l’estrazione mineraria nella riserva della biosfera Chocó Andino Davide Costantino Marcia nel centro di Quito contro lo sfruttamento minerario nell’Amazzonia ecuadoriana. Le misure di protezione ambientale non sono state attuate, il Governo chiede una proroga di cinque anni per dismettere le perforazioni dei giacimenti Tutte le immagini sono di Davide Costantino e fanno parte di un più ampio reportage intitolato «LA NOSTRA TERRA: Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista» SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Resistenza indigena contro l’espansione estrattivista proviene da DINAMOpress.
Il popolo MAPUCHE la terra la difende, non l’accende!
Urgente: Criminalizzazione del Popolo Mapuche in Argentina Chiamata alla solidarietà internazionale Abbiamo bisogno urgentemente dell’attenzione e dell’appoggio internazionale perché si visibilizzino le violazioni dei diritti umani che si stanno attualmente producendo contro il popolo mapuche nella patagonia, in argentina. In questi giorni enormi incendi hanno devastato migliaia di ettari di boschi e distrutto case. Le uniche persone che si sono mosse sono state quelle delle brigate comunitarie autorganizzate visto che il governo argentino non ha fatto nulla. Adesso, invece dell’appoggio queste stesse comunità si scontrano con una brutale repressione. Lo stato ha lanciato una campagna di criminalizzazione. contro il popolo mapuche e le persone volontarie del servizio di Vigilanza del Fuoco. (*) accusandol3, senza alcuna prova, di aver causato gli incendi. (*) i pompieri in Argentina sono volontari Cosa sta succedendo: video condiviso da Moira Millan, sottotitoli in italiano a cura di Patricia e Mari * Detenzioni e retate arbitrari: Molte comunità indigene, comprese persone anziane residenti, sono state oggetto di retate senza testimoni ufficiali. La polizia ha piazzato armi e materiali infiammabili nelle loro abitazioni per incolparle. ● Detenzioni in corso: Il pompiere volontario Nicolás Heredia è in carcere accusato di reati inventati con “prove” basate solo su testimoni non ufficiali. ● Persecuzione giudiziaria: Victoria Nuñez Fernandez, donna mapuche de Lof Pillán Mahuiza, è stata condannata a due mesi di custodia cautelare in carcere nonostante non esistano prove che la relazionino a reati. ● Militarizzazione e repressione: Le forze di sicurezza argentine, compresa la GEOP (Gruppo Speciale di Operazioni di Polizia antiterrorismo), si sono dispiegate per reprimere e intimidire le comunità indigene con azioni che ricordano le tattiche delle dittature militari del passato. Tutto questo fa parte di una strategia più ampia per screditare le persone delle comunità indigene che difendono la terra e per proteggere le industrie dell’estrattivismo a scapito dei diritti di chi su quelle terre vive. È ciò che abbiamo visto in Palestina, in Brasile e nel mondo intero, dove si accusano falsamente i popoli indigeni e oppressi di reati che non hanno commesso per giustificare la violenza dello Stato contro di loro. Abbiamo urgente bisogno di: ● Copertura mediatica internazionale per rendere evidente la persecuzione e le accuse fabbricate contro il popolo Mapuche. ● raccogliere adesioni internazionali di solidarietà per le irruzioni poliziesche e militari nella provincia di CHUBUT, ARGENTINA utilizzando questo modulo ● Pressione Legale e Politica da parte di organismi internazionali per esigere la liberazione delle persone detenute arbitrariamente e la fine della criminalizzazione della resistenza Indigena. Condividiamo questa informazione, diffondiamo nelle reti e spazi che attraversiamo, chiediamo giustizia. Il popolo Mapuche difende la sua terra, non la incendia. documentario sulla storia del popolo mapuche di Mari Casalucci, Valeria Patané, Ramon Gaete. Per favore, mettetevi in contatto se avete bisogno di altri particolari o se si desidera ampliare e approfondire questa urgente richiesta. Grazie per la vostra solidarietà Questo il comunicato che abbiamo tradotto e che data febbraio 2025 ma vogliamo ricordare quanto proprio la comunità del lof Paillan-Mahuiza ha fatto e proprio per rigenerare il bosco natio originario ed evitare gli incendi. Siamo assolutamente orgogliosi di aver partecipato alla campagna testimoniata da questo nostro articolo. Riferimenti e contatti: ● Moira millán ● XR Argentina ● Presentes Latam ● Sisas Medio ● Mujeres Indígenas ● Resumen Latinoamericano News about this: ● CELS – Criminalización de brigadistas y hostigamiento a comunidades indígenas ● Agencia Presentes – Violentos allanamientos a comunidades mapuche y a una radio comunitaria de Chubut ● ANRed – Actividades en todo el país contra los incendios y la criminalización de brigadistas y comunidades mapuche foto di copertina di Mari, settembre 2024 ************** RADIOSONAR.NET SI BASA SULL’AUTOFINANZIAMENTO. SE VUOI AIUTARCI A CONTINUARE A TRASMETTERE, PUOI EFFETTUARE UNA DONAZIONE ATTRAVERSO IL NOSTRO CONTOCORRENTE O PAYPAL