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Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
TOTAL-ENERGIES ALLA SBARRA PER LA COMPLICITA’ NEI CRIMINI DI GUERRA IN MOZAMBICO
Martedì 18 è stata ufficialmente esposta da parte di ECCHR ( European Centre for Costitutional and Human Rights) denuncia ai danni di TotalEnergies presso l’antiterrorismo francese, per accuse di complicità in crimini di guerra, torture e sparizioni forzate legate alle azioni di soldati governativi in Mozambico nel 2021 nell’ambito del cosidetto “Massacro dei container”. (metti link) Il colosso petrolifero è accusato di aver finanziato direttamente e supportato materialmente l’unità speciale di forze armate, nell’ambito di un accordo di sicurezza con lo stato, perchè quest’ultime protegessero le installazioni di estrazione di GNL installate da Total a Capo Delgado. La situazione a Capo Delgado è epicentro di un conflitto fra esercito e milizie di ispirazione jihadista affiliate allo Stato Islamico. Le mani di Total sono sporche del trasferimento forzato di migliaia di famiglie, oltre che della degradazione ambientale legata ai progetti estrattivi, che ha acuito le tensioni sociali, mentre la povertà è aumentata di più dell’80%. La denuncia riprende la dettagliata inchiesta della testata Politico ” All must be beheaded, revelations of atrocities at French energy giant’s African stronghold” pubblicata nel 2024. L’accusa arriva a poche settimane di distanza dalla dichiarazione di Total di voler far ripartire il progetto, considerato il più grande investimento privato mai realizzato in Africa, con un costo totale di 50 miliardi di dollari. La ripresa del progetto non avverrà prima del concordato con il governo di Maputo e sarà sostenuta dal prestito di 4,7 miliardi di dollari dall’Export-Impost Bank statunitense ed è prevista entro il 2029. La banca statunitense non è l’unico finanziatore pubblico al progetto, infatti altri due importanti partner commerciali sono le italiane SACE e Cassa Depositi e Prestiti. Nelle parole di Simone Ogno “la SACE italiana è stata la prima agenzia di credito all’esportazione a confermare il proprio sostegno finanziario a Mozambique LNG, e lo ha fatto senza una nuova valutazione degli impatti sociali e ambientali associati al progetto. Oggi l’US EXIM sta facendo lo stesso. In queste scelte possiamo vedere il rapporto stretto tra il governo della premier Giorgia Meloni e quello del presidente Donald Trump, in totale disprezzo per le violazioni dei diritti umani direttamente e indirettamente associate a Mozambique LNG”. Ne parliamo con Simone Ogno, campaigner di Recommon: Qui trovate il link al report di Recommon “Dieci anni perduti“.
Congo, crollo di una miniera di rame e cobalto illegale a Kawama: il dramma dell’estrattivismo
Più di 80 minatori sono morti per il crollo di un ponte presso una miniera di rame cobalto situata nel sud della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il ponte è crollato a Kawama, situata nella provincia di Lualaba, in una zona inondata nei pressi della miniera – ha spiegato a giornalisti il responsabile provinciale degli Interni, Roy Kaumba Mayonde. Al momento sono stati recuperati 80 corpi, ma le ricerche di ulteriori vittime proseguono, ha aggiunto. Le squadre di soccorso stanno continuando le operazioni di ricerca di eventuali altre vittime, così come in parallelo stanno proseguendo gli accertamenti del caso per ricostruire la dinamica del tragico incidente. Stando alle prime ricostruzioni, a crollare sarebbe stato un ponte costruito abusivamente da alcuni minatori illegali, che avrebbero cercato di fuggire velocemente in massa sfruttando la struttura per scappare dal personale militare intervenuto per scacciarli dal sito. A rendere la portata della tragedia bastano però le immagini del crollo diffuso sui social, con la nube di fumo alzatasi per via del collasso a inghiottire gli inermi lavoratori presenti sul posto. Secondo quanto riporta la BBC, non si tratta di un incidente fuori dal comune in Congo, paese in cui circa 2 milioni di persone sono impiegate in miniere non regolamentate che sostengono la domanda crescente del metallo utilizzato, tra gli altri usi, per la produzione di batterie agli ioni di litio per le auto elettriche e di tutto il settore fortemente insostenibile della cosiddetta “green economy”, fondato sull’estrattivismo. Circa l’80% dei bambini e delle bambine congolesi sono coinvolti in gravi forme di sfruttamento e svolgono lavori usuranti, estraggono il cobalto in condizioni estremamente pericolose. I bambini per meno di un dollaro al giorno, si infilano dentro cunicoli stretti e  senza sicurezza alcuna, altri bambini per lo stesso importo, sono costretti a portare pesanti sacchi 12 ore al giorno, altri ancora lavano le rocce immersi in pozze altamente inquinate. Lavoratori in una miniera d’oro nella Repubblica Democratica del Congo (foto d’archivio) Il 20% del minerale estratto proviene dalla parte meridionale del Paese, nel distretto di Kolwezi, capitale mondiale delle terre rare. Nelle comunità del Domaine Marial, il 65% dei bambini tra gli 8 e i 12 anni lavora nelle miniere; nell’area di Kanina sono in maggioranza in età scolare, si tratta anche di bambini in una fascia di età compresa tra i 6 e gli 8 anni, che risultano particolarmente adatti ad insinuarsi negli stretti cunicoli per l’estrazione del minerale. Lavorano in condizioni estreme, per più di dodici ore, senza alcuna protezione e con salari che vanno da 1$ a 2$ al giorno. Il rischio di ammalarsi prima e più dei loro coetanei è molto alto, così come il rischio di incidenti, anche mortali, sul lavoro, soprattutto a causa dei frequenti crolli dei tunnel nelle miniere. Sono, inoltre, numerose le segnalazioni di incidenti mortali nella ex provincia del Katanga. Tuttavia, non ci sono dati ufficiali governativi disponibili sul numero di vittime che si verificano ma gli incidenti sono comuni. I bambini sono oggetto di maggiori soprusi e abusi da parte dei caporali e dalle guardie di sicurezza. La Repubblica del Congo, detiene circa il 70% delle riserve mondiali di coltan e una quota significativa di litio. Tuttavia, invece di costituire una fortuna, queste risorse sono diventate una maledizione, alimentando cicli di violenza e sfruttamento. Foto di miniere in Congo (foto d’archivio) I gruppi armati, spesso finanziati da reti internazionali, controllano le miniere e utilizzano il lavoro forzato, soprattutto quello dei bambini, per estrarre i minerali, che poi vengono esportati illegalmente attraverso i paesi vicini. Nel 2019 in gruppo di avvocati, di una associazione per i diritti umani ha mosso una causa giudiziaria, depositata il 15 dicembre 2019. La causa afferma che le grandi aziende leader nella tecnologia stanno “Consapevolmente traendo beneficio da questo sistema di estrazione ‘artigianale’ in Congo e lo stanno supportando in maniera sostanziale. Gli imputati sanno che il settore di estrazione mineraria in Congo dipende dal lavoro minorile e ne sono stati a conoscenza per un significativo periodo di tempo, sanno che i bambini svolgono i lavori più pericolosi tra cui lo scavo dei tunnel in miniere di cobalto arretrate”. Inoltre sostiene che i bambini sono “forzati dall’estrema povertà a lasciare la scuola per perseguire l’unica opzione economica nella loro regione: lavorare nelle miniere ‘artigianali’ di cobalto”, dove vengono pagati meno di due dollari al giorno per estrarre rocce di cobalto da tunnel sotterranei con degli strumenti insufficienti, un lavoro stremante ed estremamente pericoloso. Famiglie e bambini feriti ora chiedono i danni non solo per lo sfruttamento del lavoro minorile, ma anche per “arricchimento ingiusto, supervisione negligente e inflizione intenzionale di sofferenza emotiva”. Gli esperti sottolineano che questa è la prima volta che diverse aziende tecnologiche affrontano una causa legale unica che metta in discussione la legalità della loro fornitura di cobalto. Questa la lista delle sedici multinazionali denunciate: Ahong, Apple, Byd, Daimler, Dell, Hp, Huawei, Inventec, Lenovo, Lg, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen, Zte. Il 70% del cobalto usato nei nostri apparecchi elettronici, dai telefonini, fino ai PC e i televisori, proviene dal Congo, oltre la metà di questo viene estratto dai bambini. Secondo il rapporto, il cobalto estratto viene comprato da broker che poi lo rivendono alla Congo Dongfang Mining, controllata dal colosso cinese del settore minerario Zhejiang Huayou Cobalt Ltd. Nessun controllo sulla liceità della provenienza del cobalto viene effettuato dai fornitori. Il crollo della miniera che ha visto la morte di più di 80 persone tra cui diversi bambini (numero destinato a crescere nelle prossime ore), non è un evento straordinario, bensì solo uno degli innumerevoli episodi di morte e disperazione che avvengono nella Repubblica del Congo, tutto in nome di un interesse e di un falso progresso fondato su morte, disperazione e sfruttamento selvaggio e senza limiti, che nessuno pare sia interessato a fermare.   Ulteriori informazioni: https://www.tagesschau.de/ausland/afrika/kongo-goldminen-goldpreis-100.html https://www.wired.it/article/congo-risorse-minerarie-cobalto-coltan-cina/ https://www.tagesschau.de/ausland/afrika/demokratische-republik-kongo-100.html > Congo: cobalto e coltan, il “nuovo oro” che alimenta i conflitti > Cobalto e povertà: la maledizione del Congo Luca Cellini
CONFLUENZA: 22 e 23 Novembre insieme nel Mugello per la difesa dell’Appennino
Mentre a livello globale e nazionale l’aggressione estrattivista dei territori si fa sempre maggiore, in Italia continua il percorso di Confluenza, affiancata dalla coalizione TESS. A partire da un lavoro di mappatura dei comitati ambientalisti presenti sul territorio italiano, è stata intessuta una rete tra le varie realtà contro la transizione energetica della speculazione e del nucleare e per un discorso e un agire sui territori che riporti la gestione territoriale nelle mani delle comunità che lì abitano. Il focus sarà sulla dorsale appenninica e lo stato dell’arte della speculazione energetica che interessano la Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Alto Abruzzo, Lazio. Il programma, infatti, si strutturerà su due giorni dal 22 al 23 nel Mugello, il cui crinale è messo a rischio di un grande progetto di impianto eolico industriale e simili progetti interessseranno anche l’Appennino umbro-marchigiano. Ne parliamo con Elena di No Pizzone 2:
A Roma il Climate Pride per la giustizia climatica e sociale e contro il riarmo
Si è svolta sabato a Roma la seconda edizione del Climate Pride, evento che rientra tra le numerose iniziative in atto nel mondo mentre sono in corso a Belem, in Brasile, i negoziati della COP30. Alla manifestazione hanno aderito più di 80 associazioni italiane. Oltre agli ambientalisti storici di Legambiente, WWF e Greenpeace, hanno animato il corteo di diecimila persone tanti cittadini e attivisti di Arci, Unione degli Studenti, Amnesty international, Extintion Rebellion, Fridays For Future, Ultima Generazione, Per il clima fuori dal fossile, Rete Pace e Disarmo, A Sud, Rete Emergenza Climatica e Ambientale, Libera contro le Mafie, CGIL. Partita da Piazzale Aldo Moro, la lunga colorata e gioiosa street parade si è snodata per le vie della capitale per concludersi in tarda serata a Largo Preneste. Musica, performance artistiche e molte maschere di animali, compreso un dinosauro, a simboleggiare l’impatto sulla biodiversità e i rischi di estinzione della vita multispecie a causa della gravissima crisi climatica che incombe sul pianeta. Ma anche tanti cartelli di speranza e simboli come pale eoliche per evidenziare la improcrastinabile necessità di adottare un nuovo modello economico basato su fonti energetiche pulite e rinnovabili. Esplicito lo striscione di apertura del corteo: “Dall’Amazzonia all’Europa, Giustizia Climatica Planetaria”, a significare che i Paesi riuniti in questi giorni in Brasile devono abbandonare rapidamente il sistema fossile, estrattivista e coloniale, primo responsabile del cambiamento climatico. Ma anche causa di forti tensioni geopolitiche e guerre. Non a caso i conflitti scoppiano soprattutto nelle aree ricche di combustibili fossili come petrolio e gas. La riprova è data anche dalle guerre in corso in Ucraina e in Palestina. Gli eventi estremi provocati dal cambiamento climatico già oggi causano molti morti e ingenti danni economici che, secondo BloombergNEF, nel 2024 hanno raggiunto 1.400 miliardi di dollari. Se non si riuscirà a contenere l’aumento del riscaldamento globale entro 1 grado e mezzo – obiettivo dell’Accordo di Parigi e che secondo molti scienziati con il trend attuale sarà impossibile raggiungere – alluvioni, siccità e innalzamento del livello dei mari provocheranno centinaia di milioni di migranti climatici con conseguenti nuove guerre che potrebbero far impallidire quelle attuali. Giustizia climatica, giustizia sociale, pace e diritti umani sono obiettivi connessi tra di loro. Non si può lottare per uno tralasciando gli altri. Appare pertanto irresponsabile il comportamento di Capi di Stato come il presidente Trump che si è fatto principale portavoce dei negazionisti climatici, rilanciando allo stesso tempo l’estrazione e la vendita dei combustibili fossili. Così come è gravida di pesantissime conseguenze la marcia indietro ingranata dall’Unione Europea sul Green Deal e la folle politica di riarmo che sottrarrà enormi risorse economiche alla transizione ecologica, al sostegno delle comunità colpite dai disastri climatici e ai bisogni primati della popolazione come salute, istruzione e welfare. Per le associazioni promotrici il Climate Pride è solo una tappa della mobilitazione che proseguirà nelle prossime settimane e mesi, nella convinzione che solo un diretto coinvolgimento dei cittadini e una forte pressione dal basso – contro ogni criminalizzazione del dissenso – può contrastare l’enorme potere delle lobby del fossile e degli armamenti che, per perseguire i loro interessi, dettano l’agenda economica e politica dei governi. Foto di Mario Pizzola Mario Pizzola
All’arrembaggio!
Il mondo si è fermato Mò ce lo riprendiamo. Mai più io sarò saggio – 99 Posse Chi campa ‘nsiene ‘a te, te para’ nient’ Si jesce pazz è pazz overamente L’unica verità pe’ tutte quante Sarria chell’ ‘e fui’ Ma po’ addo’ jamm’ Vesuvio – Canti popolari Quando si verifica un’esplosione, di solito si corre a cercare la miccia, e i più spavaldi rivendicheranno di averla accesa loro. Ma quando la terra trema e poi esplode in fiumi di fuoco, non c’è nessuna miccia, solo il magma bollente che dal cuore del pianeta si fa strada verso la superficie, verso l’aria aperta. La portata degli eventi di fronte a cui ci troviamo non ci permette più di pensare semplicemente in termini di convergenza al centro (perché la somma delle parti è sempre più del tutto), ma piuttosto valutare il risultato di un insieme di contingenze, calcoli e intuizioni che hanno portato a un accumulo di tensione, frustrazione e desiderio in attesa di un punto di sfogo, la goccia che facesse traboccare il vaso. E la goccia è arrivata, con l’intercettazione e l’assalto delle navi della Global Samud Flotilla da parte dell’Idf, e così tacitamente, senza bisogno di comunicazioni formali, ma per necessità, mosse da uno slancio di rabbia vitale, ci si è riversate ancora e ancora nelle piazze e nelle strade, dove finalmente abbiamo potuto vedere quel nuovo, che da tempo ci diciamo che sta nascendo, muovere i primi passi e iniziare a prendere forma. Riteniamo utile a questo proposito riflettere sui rapporti tra spontaneismo e organizzazione, che non sono mai nettamente dicotomici e manichei, ma anzi due elementi di un binomio da cui bisogna trarre sempre nuove pratiche di conflitto. Gli ultimi due anni hanno inciso profondamente sulle società politiche occidentali, inaridite e frammentate, per le quali l’intensificarsi dell’operazione sionista di pulizia etnica del popolo palestinese, avviata dal regime sionista quasi ottant’anni fa, ha rappresentato la secchiata d’acqua fredda che ci ha riportato con i piedi per terra. Da una parte per l’enormità e la gravità di ciò che accadeva – e accade tutt’ora – in Palestina, che ci ha richiesto di agire con urgenza e determinazione; dall’altra perché è stato chiaro fin da subito, dalle prime manifestazioni di complicità dei nostri governi e delle nostre Istituzioni, che gli orrori che ci venivano trasmessi in tempo reale via social dall’altra parte del Mediterraneo erano il requisito fondamentale su cui si regge un meccanismo di estrazione di valore e di risorse, di estrazione della vita stessa, che ha radici proprio qui, nell’Occidente ’democratico‘ e ’progressista’. GLOBALIZZARE L’INTIFADA (PERCHÉ IL SISTEMA ESTRATTIVISTA È GLOBALE) Il senso di urgenza scaturito dal concretizzarsi del disegno genocidario in Palestina ha risvegliato, nei contesti occidentali, il desiderio e la voglia di essere parte attiva di qualcosa che possa incidere sul reale, e questo allargamento capillare della partecipazione ha prodotto, secondo noi, diversi effetti. l primo è che oggi, finalmente, parliamo di Palestina globale, dopo due anni di attivismo umanitario. Le strade e le università di tutto il mondo si sono riempite di nuovo di striscioni e cori che incitavano a “Globalize the Intifada!”: abbiamo visto in maniera evidente come il colonialismo dei regimi imperialisti si radica qui, in Occidente, e che si sostiene e si rigenera attraverso il nostro lavoro, attraverso i nostri consumi, ed è lo stesso regime estrattivista che da una parte uccide in Palestina e dall’altra non ci permette di arrivare a fine mese pur di avere le armi per continuare a sterminare. E le rivolte che nel frattempo sono scoppiate in molti, moltissimi Paesi del ’Sud del mondo‘, ci hanno ricordato che se il nemico è globale, deve esserlo anche l’Intifada. Tuttavia, globalizzare l’Intifada non vuol dire solo renderla un fatto internazionale, ma legarla alle lotte che già in ogni Stato e territorio si muovono contro il sistema estrattivista: le lotte per la casa, per l’aumento dei salari, contro le privatizzazioni selvagge e le speculazioni. In particolare, le collaborazioni istituzionali con i colossi della filiera bellica e del capitalismo fossile (a tutti i livelli, da quelle dei Comuni a quelle universitarie) si sono dimostrate il vero punto cruciale da colpire. E sono state difese a tutti i costi, sfoderando un alto livello di repressione. Nell’università si incontrano il processo di aziendalizzazione, che va avanti ormai da anni, e i legami strettissimi con il settore privato e della difesa. Decine di Atenei collaborano con aziende come Eni e Leonardo, simboli dell’industria estrattivista e complici del genocidio in Palestina. Israele intrattiene centinaia di collaborazioni di varia natura con gli Atenei e gli Enti di ricerca italiani. Già da due anni le studenti delle università stanno provando a costruire strategie di boicottaggio, mosse dalla necessità di svelare la sistematicità dei processi di privatizzazione e neocolonialismo. La colonizzazione della Palestina e il genocidio del suo popolo rappresentano, infatti, un paradigma perfetto del sistema estrattivista, che delimita zone di sacrificio e masse in eccesso, ed elimina tutto ciò da cui non può trarre profitto. Assistiamo, quindi, al funzionamento a pieno regime di una zona di sacrificio globale, di una messa a profitto di corpi ormai divenuti anch’essi sacrificali, e alla produzione di esternalità negative generate dall’adozione di economie di guerra nei Paesi offensori. Abbiamo parlato di globalizzare l’Intifada e ripensare la convergenza: non si tratta di un generico richiamo a un’unità posticcia, ma di un bisogno di uscire dall’immobilismo, di trovare ognuno il proprio ’porto da bloccare‘, mettendo in campo tutte le pratiche, le esperienze e i metodi che caratterizzano le diverse anime che compongono un Movimento, per produrre un nuovo, inaspettato metodo che insidi il sistema estrattivista-coloniale in cui viviamo. di Fotomovimiento (Flickr) PROSPETTIVE DI MOVIMENTO Negli ultimi due anni abbiamo osservato il lento e graduale inizio di un processo di svecchiamento, rinnovamento nelle pratiche tanto quanto nei contenuti che, dopo lo strappo, il vuoto, lo scollamento generato dal Covid, inizia a germinare nelle università con le mobilitazioni per la Palestina, l’intifada studentesca e contagia tutti gli strati della società. Le giovani di tutto il mondo si avvicinano alla politica mosse da necessità e urgenza. Nasce in maniera decentralizzata, contingente e spontanea una rete internazionale che si aggrega non più attorno all’identità dell’ideologia, ma all’obiettivo: bloccare gli accordi di collaborazione con il regime genocidario, boicottare l’industria bellica, rendendo in questo processo protagoniste le persone e i loro corpi. Al tempo stesso il regime di guerra globale innestato dal genocidio in Palestina, in Congo e in Sudan, permette e facilita l’avanzamento di un fascismo anch’esso globale, di cui stiamo iniziando a conoscere le insidie anche in Italia: ne sono un esempio la vera e propria guerra alle donne e libere soggettività che questo governo sta conducendo sul piano legale, tramite la legge finanziaria e a colpi di decreti, e su quello ideologico, culturale, mentre il numero di femminicidi del 2025 continua a salire; decreti sicurezza, militarizzazione dei territori e gentrificazione stanno modificando la percezione collettiva dello spazio pubblico, e la situazione nel suo complesso inizia a essere inquietante. Alla luce di questo, in quelle giornate elettriche e di fermento che hanno portato masse oceaniche a “Bloccare tutto!”, si è liberato qualcosa: quella spinta – individuale e collettiva, spontanea e organizzata – a invadere ogni spazio pubblico con parole, corpi e musica. Abbiamo liberato quella voce che ci chiede di sollevarci dai margini e andare a invadere il centro del discorso, il centro della città, della produzione, dell’università, della scuola, della fabbrica. Insomma, l’importante non è stato bloccare tutto, ma aver fatto capire alle persone che se vogliono, possono farlo. Prima delle mobilitazioni in Italia e in Francia al grido di “Blocchiamo tutto!”, molto prima, il Movimento femminista Non Una di Meno portava l’attenzione sul fatto che “Se ci fermiamo noi si ferma il mondo”, ed è questo che crediamo sia il punto focale, il “se”. Perché se abbiamo il potere di fermare il mondo, allora abbiamo anche il potere per farlo ripartire in un’altra direzione. Per bloccare realmente la catena produttiva bisogna essere in tante, essere ovunque: non funziona più accentrare le forze per sferrare colpi decisi: è il momento di infiltrarsi in tutti gli spazi e gli interstizi del potere, infestarlo come edera per farlo collassare su se stesso, a partire dalle sue fondamenta reali, materiali. Non mettere più al centro della propria strategia il fare la guerra, il braccio di ferro, quanto piuttosto il fare la vita, e farla bella, libera e felice. All’arrembaggio! L’articolo originale è stato pubblicato su Attac.it. La copertina è di pierre c.38, da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo All’arrembaggio! proviene da DINAMOpress.
[2025-11-13] Cineforum “Foragers” di Jumana Manna @ Roma3, dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo, sala del consiglio II piano
CINEFORUM “FORAGERS” DI JUMANA MANNA Roma3, dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo, sala del consiglio II piano - Via Ostiense, 234-236, 00146 Roma RM (giovedì, 13 novembre 18:00) 🇵🇸 Il film dell’artista di origine palestinese Jumana Manna racconta le difficoltà quotidiane dell3 palestines3 nel vivere la propria terra, che gli viene sottratta dall’occupazione sionista. Ambientato sulle alture del Golan, il film mette in evidenza come l’autorità israeliane responsabili dei parchi e delle riserve naturali, dietro la retorica della “protezione” della terra, partecipi al processo di espropriazione di quella stessa terra da cui l3 palestines3 raccolgono piante commestibili e che invece gli viene sottratta. Il cineforum é parte della preparazione al prossimo ecolab che si terrà a RomaTre nell’ultima settimana di novembre: La Palestina, zona di sacrificio globale. Il laboratorio sarà la prima tappa del ciclo sull’estrazione di valore 🏴‍☠️
[Le Dita nella Presa] Mineria responsable? Cuento miserable!
Con una compagna del Frente Nacional Antiminero parliamo di estrattivismo in Ecuador. Dopo i "boom" delle banane e del petrolio, il governo Noboa accelera i progetti legati, stavolta, alle megaminiere. Come ci ricorda Erika, cambiano soltanto i nomi mentre vediamo impiegate le stesse pratiche di violenza e sfruttamento dei territori e delle vite considerate sacrificabili: il Plan Condor diventa Plan Fenix e all'oro nero si affianca l'estrazione ancora più massiccia di oro e rame. Ma continuiamo a tessere resistenze transnazionali.
[2025-11-10] Intersezione delle Lotte - La Resistenza Palestinese e le lotte nei territori contro l'estrattivismo capitalista @ CSOA Ex-Snia
INTERSEZIONE DELLE LOTTE - LA RESISTENZA PALESTINESE E LE LOTTE NEI TERRITORI CONTRO L'ESTRATTIVISMO CAPITALISTA CSOA Ex-Snia - Via Prenestina 173 (lunedì, 10 novembre 18:00) la Resistenza Palestinese e le lotte nei territori contro l'estrattivismo capitalista con Mjriam Abu Samra attivista italo-palestinese, co-fondatrice del Palestinian Youth Movement e ricercatrice presso la Ca' Foscari e l'Università della California Davis. Lunedì 10 novembre, h.18, CSOA EX SNIA A partire da una lettura della Palestina in un’ottica decoloniale, come espressione della necessità esistenziale delle popolazioni di resistere e autodifendersi e, al tempo stesso, come laboratorio contemporaneo di distruzione massiva della vita in tutte le sue forme, l'incontro vuole costruire un’analisi più ampia che connetta locale e globale. Da questa prospettiva, si vuole riflettere su come i processi di distruzione e messa a profitto dei territori che abitiamo, dell'ambiente e dello sfruttamento degli esseri umani si inseriscano in una più ampia dinamica di devastazione ecosistemica, analizzata in chiave anticapitalista e antimperialista. Nel tracciare questi legami, si vuole anche ragionare sul tema della decolonizzazione della solidarietà e delle lotte, come condizione necessaria per costruire insieme forme di resistenza e di conflitto capaci di sfidare realmente le logiche del dominio e dello sfruttamento.
[entropia massima] Estrattivismo dei dati
Puntata 5 di EM, prima del ciclo Estrattivismo dei Dati, parliamo di intelligenza artificiale dal punto di vista dello sfruttamento socio-ambientale che la rende possibile: consumo di risorse materiali, energetiche, acqua, suolo, impatti sulle popolazioni locali. Lo facciamo con un’ospite che ci ha raggiunto nella nostra redazione di San Lorenzo a Roma6, Sara Marcucci, ricercatrice e membro del collettivo AI + Planetary Justice Alliance, che si occupa proprio di rendere visibili gli impatti planetari dell’intelligenza artificiale. Dopo la prima parte di presentazione delle attività del collettivo e di alcuni degli strumenti di cui si è dotato per analizzare gli impatti dell’AI nei più disparati scenari globali, nella seconda parte parliamo degli AI Hyperscaler Data Center, fabbriche di calcolo a scala mastodontica, spesso dislocate in regioni già fragili, dove causano scarsità d’acqua e di energia, con aumenti straordinari dei costi in bolletta e dove le persone cominciano a ribellarsi. Nella terza parte, proviamo a ragionare su cosa si può fare per non cedere all’inevitabilismo tecnologico, a partire dalla divulgazione e dalla diffusione di conoscenza, fino all’advocacy politica e all’autorganizzazione dal basso per la resistenza ai soprusi dei Big Tech.