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Rimarrà di noi forse solo la musica
IL FESTIVAL DEL MEDITERRANEO, APPUNTAMENTO ORMAI TRADIZIONALE DI FINE ESTATE CHE PORTA IN LIGURIA UN VIAGGIO SONORO E VISIVO ATTRAVERSO CINQUE CONTINENTI Rimarrà di noi forse solo la musica? Come una capsula del tempo affidata ai posteri, che certifichi il fatto che tutto ciò che sarà accaduto non è stato in nostro nome. E’ la suggestione, fragile come un messaggio in bottiglia, che il Festival del Mediterraneo di Genova affida alle onde agitate di questi tempi di (quasi) guerra mondiale. Musica memoria futura è appunto il titolo di questa 34esima edizione che vede Il Festival del Mediterraneo, appuntamento ormai tradizionale di fine estate che porta in Liguria un viaggio sonoro e visivo attraverso cinque continenti. Rispetto alle edizioni precedenti, quest’anno il Festival si espande ulteriormente, offrendo ben 15 date che si sviluppano  lungo un calendario di oltre tre settimane fino al 23 settembre. Ad animarlo musicisti, danzatori e performer internazionali che sono  protagonisti in alcune delle location più suggestive di Genova e, per la prima volta anche a Savona, trasformandole in palcoscenici globali. Il Festival del Mediterraneo nasce con la vocazione di favorire l’incontro tra tradizioni musicali e culture, generando nuovi dialoghi possibili: dalla musica mozartiana per pianoforte reinterpretata dalle voci zulu, al flamenco suonato con un’arpa, dai raga e dalle tabla indiane intrecciati con il beat box vocale, fino alle sei stagioni indiane che si affiancano alle quattro di Vivaldi. Tra le tappe di quest’anno spiccano anche due serate dedicate agli ottant’anni dalle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, in una rilettura corale che coinvolge voci, danze e musiche europee e giapponesi. Per dire l’indicibile di un crimine contro l’umanità come la sperimentazione di una nuova, devastante, arma in grado di fare di un uomo niente altro che un’ombra nera stampata sul muro – come un negativo fotografico – utilizzata su una popolazione civile indifesa: uomini, donne, bambini   Attenzione all’estremo oriente che continua anche nel doppio appuntamento con la musica dalla Corea del sud. Anche se, per una volta, non sono gli idoli globali del K-pop a tenere la scena ma, più discretamente, i tre componenti del gruppo  Maegandang e il fascino antico degli strumenti haegeum, gayageum e geomungo.   «La musica dal vivo – spiega Davide Ferrari, direttore artistico e organizzatore del Festival – rappresenta da sempre una forma privilegiata di condivisione collettiva, sensoriale ed emotiva, capace di evocare luoghi vicini o lontani, reali o immaginari. È memoria vivente che tramanda le storie dei popoli e al tempo stesso uno strumento con cui guardare al futuro, veicolo di cambiamenti, esplorazioni e incontri. Con un calendario che intreccia tradizioni ancestrali e sperimentazioni contemporanee, il Festival del Mediterraneo si conferma un punto di riferimento internazionale capace di raccontare l’identità e la diversità dei popoli attraverso il linguaggio universale della musica».     The post Rimarrà di noi forse solo la musica first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Rimarrà di noi forse solo la musica sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
Quando Benni rifiutò il premio di Renzi e Franceschini
ERA IL 2015 E IL GOVERNO RENZI STAVA DISSANGUANDO LE ISTITUZIONI CULTURALI. UN PICCOLO RICORDI, TRA I RICORDI INFINITI DI STEFANO BENNI Gentili responsabili del premio De Sica e gentile Ministro Franceschini, vi ringrazio per la vostra stima e per il premio che volete attribuirmi. I premi sono uno diverso dall’altro e il vostro è contraddistinto, in modo chiaro e legittimo, dall’appoggio governativo, come dimostra il fatto che è un ministro a consegnarlo. Scelgo quindi di non accettare. Come i governi precedenti, questo governo (con l’opposizione per una volta solidale), sembra considerare la cultura l’ultima risorsa e la meno necessaria. Non mi aspettavo questo accanimento di tagli alla musica, al teatro, ai musei, alle biblioteche, mentre la televisione di stato continua a temere i libri, e gli Istituti Italiani di Cultura all’estero vengono di fatto paralizzati. Non mi sembra ci sia molto da festeggiare. Vi faccio i sinceri auguri di una bella cerimonia e stimo molti dei premiati, ma mi piacerebbe che subito dopo l’evento il governo riflettesse se vuole continuare in questo clima di decreti distruttivi e improvvisati,privilegi intoccabili e processi alle opinioni. Nessuno pretende grandi cifre da Expo, ma la cultura (e la sua sorgente, la scuola) andrebbero rispettate e aiutate in modo diverso. Accettiamo responsabilmente i sacrifici, ma non quello dell’intelligenza. Comprendo il vostro desiderio di ricordare il grande Vittorio De Sica, e voi comprenderete il mio piccolo disagio. Un cordiale saluto e buon lavoro Stefano Benni The post Quando Benni rifiutò il premio di Renzi e Franceschini first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Quando Benni rifiutò il premio di Renzi e Franceschini sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
L’impossibile oltre l’immenso. George Simenon
IL ROMANZIERE FRANCESE PADRE DI MAIGRET IN MOSTRA A BOLOGNA: VIAGGIO IN OTTO TAPPE TRA VITA E OPERE La mattina del 18 settembre 1972 George Simenon scende nel suo studio, nel palazzone fatto costruire a Épalinges, non lontano da Losanna. La busta gialla col nome del prossimo romanzo è là sul tavolo, le matite sono temperate, le pipe cariche. Tutto è pronto per l’ennesima fatica, persino il titolo: Oscar. Manca solo il cartellino alla porta: “please, don’t disturb”, con cui usa isolarsi dal mondo. Si narra che una volta Hitchcock l’avesse chiamato al telefono e la moglie, notando quel cartellino appeso, gli abbia detto di richiamare senza neppure darsi la pena di disturbarlo. Quel cartellino non sarebbe stato appeso mai più, quel nome non avrebbe mai visto la luce, quella busta non sarebbe mai stata aperta. La carriera d’uno dei degli scrittori più prolifici e famosi d’ogni tempo si chiude lì, quel mattino di metà settembre. Simenon smette, se non di vivere, di scrivere quel giorno: di vivere come scrittore. Pochi giorni dopo avrebbe mandato la cameriera a far cassare sul suo documento d’identità la qualifica di romanziere per apporvi quella di pensionato, poi nullafacente, e messo in vendita il villone per ritirarsi in un appartamento tutto sommato modesto, in città. Avrebbe ceduto solo alla voglia di mettere il suo vissuto su un magnetofono comprato tempo prima, registrazioni divenute autobiografia degli ultimi anni. Generazioni di critici, editori disperati, lettori in crisi d’astinenza si sono scervellati su come e perché lo scrittore arcinoto al mondo, straricco e prolifico come pochi abbia interrotto di botto la sua produzione, i suoi immensi guadagni. Oltre 600 milioni di copie vendute, ben 11 libri al minuto nell’arco di un secolo. Senza nessuna crisi creativa e tantomeno rimpianto. La madre era scomparsa da un paio d’anni, la figlia si sarebbe suicidata da lì a qualche anno. Nessuna ragione apparente, dunque, se non una crisi di rigetto. Era come se l’uomo capace di sfornare romanzi a josa, scrivere storie mai banali di getto, avesse perso ogni estro o voglia creativa. Come uno che dopo una grand’abbuffata non ne potesse più. Ed era così. Del resto, assieme alla voglia di scrivere se n’era andata anche quella di possedere donne a mucchi; una collezione che ammontava a diecimila corpi posseduti, come lui stesso ammetteva senza una punta di compiacimento o d’ironia. Comprese le tre mogli con le quali aveva diviso le diverse fasi della vita. Con l’ultima, la friulana Teresa Sburelin, di fatto la sua badante, aveva infine trovato la pace dei sensi, e dello scrivere. Restavano, senza considerare articoli, reportage e pubblicazioni varie firmate con una trentina di pseudonimi, circa duecento romanzi scritti nell’arco d’un cinquantennio, meno della metà dei quali dedicati al commissario Maigret, il personaggio che l’aveva consacrato alla celebrità. La gran parte erano “romances dures”, come li definiva lo stesso autore. Storie dure non perché cariche di violenza o perfidia ma di vita, perché il mestiere di vivere è quello più difficile, come amava ripetere a sé stesso e ai figli. Storie di gente comune che al dipanarsi della vita si trovano a un punto morto, e devono riavvolgerne il filo o perire. Storie di vita vera, vissuta, filtrata attraverso le maglie della sua immensa fantasia. Storie, insomma, di uomini e donne normali che a un certo punto inciampano in qualcosa più grande di loro: la vita stessa, che pochi come lui sapevano godere e raccontare a tavolino allo stesso tempo. La vita, o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello, e mai verità come questa fu tanto falsa come nel caso di Simenon. Non aveva avuto una vita difficile, lui, tutt’altro. Forse neppure felice, come diceva Miller, stupito e forse geloso di come quell’uomo sobrio e meticoloso, geniale eppure banale – un uomo come gli altri, recita una sua celebre autobiografia – sapesse destreggiarsi bene nel mestiere di scrivere come di vivere, e pure in quello di genitore dalla voce pacata, mai irata. La vita non avrebbe risparmiato al grande scrittore, oltre ai drammi famigliari e ai divorzi, la delusione di vedersi considerato dal mondo letterario francese una sorta di paria. Un bestseller permanente e perciò sospetto. Una macchina da soldi e una fucìna di creatività. Uno scrittore per le masse, non un letterato con la puzza sotto al naso come certi mandarini, insomma. Ma di questo, forse, lo scrittore che mai privilegiò il bello scrivere senza per questo scadere nella banalità – virtù rara – non era tutto sommato scontento, anzi ne faceva vanto. Tutto questo travaglio di vita e di lavoro, di passioni e d’affetti, si ripercorre nella mostra che ha aperto i battenti a Bologna, alla galleria Modernissima. Emergersi nel sottosuolo a due passi da piazza Maggiore per riemergerne assai più in là è un’esperienza unica, a tratti mistica. Per chi, come lo scrivente, è uso divorare ogni mostra di getto, ingolfandosi quasi d’emozioni e pensieri per poi lasciare che riemergano a freddo, una volta metabolizzati, una passeggiata d’oltre due ore passata in un fiat, come fosse un’opera di Simenon, è cosa più unica che rara. Otto viaggi di un romanziere, questo il sottotitolo della mostra dedicata a Simenon, curata da Gian Luca Farinelli e dal secondogenito dello scrittore, John, raccontano opere e viaggi, film e foto – tra cui Georges Massu, a capo della brigade criminelle della polizia parigina, ispiratore della figura di Maigret – in un collage dalla nascita e gli esordi di un genio della letteratura francese che seppe toccare i vertici di quella mondiale per accorgersi che dilà non si poteva andare, come nel conquistatore cantato da Vecchioni in Stranamore. E sedersi sulla sponda a lasciarsi andare. Infuggibile destino, quello del genio, al pari d’ogni altro umano, quello di non poter fuggire da sé, superare la propria natura, sfuggire al proprio talento: al fato. George Sim, come si firmava il ragazzo venuto da Liegi per farsi cittadino del mondo, tentò e riuscì anche in questo: l’impossibile oltre l’immenso. E pure in ciò si misura la sua grandezza. FINO ALL’8 FEBBRAIO, QUI LE INFO E QUI IL VIDEO DELLA MOSTRA The post L’impossibile oltre l’immenso. George Simenon first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo L’impossibile oltre l’immenso. George Simenon sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
C’erano un filosofo, uno strizzacervelli e un troll….
ABBIAMO LETTO “BURLONI ANIMATI IN LIBERA USCITA”, UMORISMO METAFISICO E METALINGUISTICO DI BARUCHELLO E BUCCOLA [SERGIO MORRA] Adesso vi racconto una barzelletta. Ci sono un filosofo teoretico, uno psicanalista junghiano e un troll islandese che decidono di scrivere insieme un libro. Sfortunatamente però il troll viene colpito dai raggi del sole e si trasforma in pietra. Gli altri due allora… (Ah no, non dovevo raccontare una barzelletta, dovevo scrivere una recensione. Vabbè, ricominciamo.) Ecco, i troll non esistono realmente, ma il filosofo e lo psicanalista sì. Il primo è Giorgio Baruchello, professore all’università di Akureyri e autore di numerosi saggi filosofici sull’umorismo, testi serissimi pubblicati da prestigiose case editrici internazionali. Lo psicanalista junghiano è G. Roberto Buccola, che oltre a esercitare la professione di psicoterapeuta ha esperienza didattica ed è autore di testi nel suo ambito di competenza. Adesso questi due si sono messi in combutta per scrivere non un libro sull’umorismo ma un libro apertamente umoristico, e vedete un po’ che cosa ne è venuto fuori. Si tratta di Burloni animati in libera uscita. Saggi satirici e soggetti semiseri di filosofia teoretica e psicologia analitica (Carlo Saladino Editore, 2025, 160 pagg, 18 euro). Ora gli autori sparano una raffica di centinaia di aforismi di materia sottile, che colpiscono le pagine del libro e vi lasciano il segno invitando il lettore all’ermeneutica… Ora narrano apologhi nelle vene dei cui personaggi scorre tanto buon senso psicanalitico (vedi il “Dialogo ipotetico” tra un gentiluomo e un archetipo, o i “Sette nani nevrotici”, o la “Favola a sé stante” che racconta di uno strano scavo). Talvolta però il divertissement consiste nel ricamare i dettagli di storie assolutamente surreali, come le sei pagine dedicate alla finale del campionato distrettuale di empatia. Talvolta il discorso vira anche su una brutale concretezza, come nella parodia degli stereotipi dell’Italia del Nord e del Sud dove Nord e Sud da punti cardinali diventano “disappunti cardinali”. Ogni tanto se la prendono col Mercato e con gli adoratori del Mercato (e fanno bene). Sporadicamente si apre uno squarcio luminoso in cui vediamo immagini plastiche e dinamiche come sculture di Canova: a me piace particolarmente “toccare il fondo e alzare le braccia al cielo”. Ma lo stile prevalente nel libro è un umorismo diafano, a livelli di astrazione almeno stratosferici. Un umorismo che a volte capiranno solo i filosofi, anzi, solo quei filosofi che si siano trasferiti per un apposito stage di quattro settimane nell’Iperuranio. A ben pensarci, mi sorprende che un analista junghiano partecipi alla scrittura di un libro umoristico in cui si elencano tra i “nemici non dichiarati dell’umorismo” (p.24) le persone serie e le persone impegnate. Ora, io mi ricordo che Jung era persona serissima e impegnatissima. Quando ero giovane lessi attentamente parecchi suoi libri, affrontando coraggiosamente gli ardui concetti de “L’io e l’inconscio” e talvolta chiedendomi a quale dei suoi “Tipi psicologici” io appartenessi. Finalmente il libro dell’illustre junghiano Enzo Codignola “Il vero e il falso: saggio sulla struttura logica dell’interpretazione psicanalitica” mi persuase che la psicanalisi non ha nulla a che fare col metodo scientifico e perciò, da bravo aspirante scienziato, potevo ben astenermi da certe insane letture. Insomma, Jung era il capostipite di una tribù di persone molto serie e impegnate di cui il Buccola fa certamente parte. Che ora annoveri la sua tribù fra i nemici dell’umorismo è un bel paradosso. Molto bene: il paradosso è la madre archetipica di ogni umorismo. L’umorismo di questo libro è un umorismo metafisico e metalinguistico. Il sottile humor britannico, in confronto, sembra quasi una volgarità da caserma. L’umorismo di questo libro è “candido e raffinato come lo zucchero”. Gli autori di questo libro non diffonderebbero mai e poi mai (ehm… quasi mai) una barzelletta che inizi con “ci sono un x, un y e uno z…”, troppo banale e grossolana. Chiedo venia, non dovevo proprio esordire in quel modo così lontano dalla loro finesse d’esprit. Il libro è già in vendita nelle migliori librerie, ma si può acquistare anche su Situs Amazonis per 18 sesterzi, su Casbah.com per 18 bond argentini, e sul sito del Ministero della Verità dell’Arabia Saudita per 18.000 petrodollari. Io però l’ho avuto da un mercante levantino in cambio di 18 lire turche e una dose di gas esilarante. Tale investimento valse la pena? Ai posteri l’ardua sentenza. The post C’erano un filosofo, uno strizzacervelli e un troll…. first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo C’erano un filosofo, uno strizzacervelli e un troll…. sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Il senso della festa al tempo della catastrofe
LE CELEBRAZIONI POPOLARI SONO UNA GUERRA DI CIVILTÀ O MOMENTI DI EMANCIPAZIONE COLLETTIVA? [JOSEPH CONFAVREUX] Dopo i festeggiamenti seguiti alla vittoria del PSG in Champions League il 1° giugno, il ministro dell’Interno Bruno Retailleau ha proclamato: “I barbari sono venuti nelle strade di Parigi per commettere crimini e provocare la polizia”. Tre settimane dopo, durante la Festa della Musica, l’eurodeputato del Rassemblement National (RN) ed ex capo del sindacato dei poliziotti Matthieu Valet ha denunciato la presenza nel centro di Parigi di “feccia”, “orde di teppisti” e “selvaggi che stanno trasformando la Francia in un inferno”. Ripensando a questi due eventi, l’antropologo Michel Agier ha appena dedicato un interessante articolo a un’annosa questione, esplorata anche in libri recenti: quali sono, se ci sono, le coordinate politiche delle feste? “La folla in festa è ‘barbara’?”, si chiede il ricercatore nel suo articolo. Cosa si “riversa” nella festa? Le feste di folle in movimento, il cui esempio è il carnevale da dieci secoli, creano uno spazio e un tempo di libertà e uguaglianza che segnano una pausa nel flusso della vita ordinaria con le sue disuguaglianze e dominazioni”. Ci sono infatti esempi di momenti di festa che risuonano con la politica, o addirittura la portano avanti. La marcia del Pride ha le sue origini nei disordini del Greenwich Village, iniziati con un’irruzione della polizia in un bar gay. Il 28 giugno, a Budapest, abbiamo visto come una marcia dell’orgoglio possa trasformarsi in un monumentale schiaffo politico al regime autoritario. In Georgia, nel 2018, a seguito di un’irruzione della polizia in un club clandestino, è stata organizzata una manifestazione davanti al Parlamento di Tbilisi con lo slogan “We Dance Together, We Fight Together”. E potremmo trovarne l’eco nel modo in cui, nel 1794, operai, artigiani e sans-culottes parigini arrabbiati con il governo e il prezzo del cibo decisero di organizzare banchetti conviviali piuttosto che manifestazioni, o nel modo in cui i gruppi carnevaleschi che ballavano al ritmo della gwoka hanno svolto un ruolo importante nella strutturazione del movimento di protesta contro l’alto costo della vita in Guadalupa. Ma sarebbe anche giusto sottolineare, come fa lo scrittore e critico d’arte Arnaud Idelon nel suo recente libro Boum Boum. Politiques du dancefloor (Éditions Divergences), che “il festival contemporaneo è circondato da un lato da tentativi di strumentalizzazione del potere e di celebrazione dell’identità nazionale (rinascita dei festival repubblicani, metropolizzazione dall’altro, da un processo cosmetico che annienta il potenziale critico della vita collettiva e la raccolta del suo potenziale sovversivo, operando così una depoliticizzazione della festa”. Al di là di questo, potremmo anche dire che la festa non tracima mai veramente, o addirittura permette all’ordine sociale di mantenersi lasciando sfuggire qualche valvola di pseudo-libertà. Come scrive ancora Idelon, “la sovversione del carnevale non è una sovversione. O una sovversione a metà, ambivalente e pericolosa. […] Il carnevale programma un ritorno all’ordine sociale attraverso la messa in scena temporanea della sua sospensione”. È quindi necessario, prosegue, avere chiara “l’ambivalenza della trasgressione all’opera nella maggior parte delle feste, mobilitate come camera di decompressione”. Se entriamo nei dettagli dei festival, che si definiscono soprattutto per la loro eterogeneità, possiamo comunque allontanarci da un’alternativa che vedrebbe ogni collettivo festivo come proto-politica, o ogni momento condiviso di danza come un nuovo stratagemma del capitalismo o del potere. È questo il senso della mostra “Disco. I’m Coming Out” alla Philharmonie de Paris che, contrariamente a certi luoghi comuni, dimostra che questa musica edonistica è ben lontana dalla superficialità o dalla commercialità a cui viene spesso ridotta.  Non solo ha avuto origine nella lotta, ma ha anche avuto la volontà di trasformare la festa stessa in uno spazio di lotta, con una dimensione minoritaria, progressista e trasgressiva che prefigura la cultura queer di oggi. Questo è anche ciò che l’opera collettiva di Vincent Chanson Techno & co. Chroniques de la scène dance électronique, recentemente pubblicata da Amsterdam. Senza negare la “cattura da parte dell’industria culturale”, la “privatizzazione degli spazi urbani da parte dell’industria del tempo libero” e il futuro di luoghi come Ibiza e Las Vegas, il libro si propone di esaminare i diversi status politici delle culture dance a diverse latitudini, per cogliere un fenomeno che resiste all”essere compreso “sotto il [solo] regime di inautenticità e alienazione commerciale”. Questa ambivalenza sulle feste disco e techno può valere anche per le feste organizzate dalle autorità? Arnaud Idelon osserva che “in Francia, un’analisi comparativa tra la cerimonia di apertura della Coppa del Mondo di rugby nell’autunno del 2023, durante la quale Jean Dujardin ha celebrato una Francia del terroir, delle tradizioni e della buona cucina, e la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, ha dimostrato che la Francia non è un’isola e la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici dell’estate 2024, con una Maria Antonietta decapitata e Philippe Katerine in veste di puffo blu nel bel mezzo di un banchetto burlesco, mostra chiaramente che se una funzione del festival è quella di celebrare le identità, le identità che celebra sono molteplici”. Nonostante le aberrazioni ecologiche e le ingiustizie territoriali e sociali che le Olimpiadi di Parigi hanno rivelato, va detto che i Giochi – e la cerimonia di apertura in particolare – sono stati un’occasione popolare e festosa che ha trasceso le linee politiche e istituzionali. Riprendendo quanto scritto dal filosofo Mathieu Potte-Bonneville in un precedente numero della rivista Vacarme: “Non dovremmo quindi preoccuparci troppo nel vedere l’istituzione che si mette al passo con tanti momenti di festa. La festa non è una questione di purezza, ma di inventiva, di movimento e di umorismo, e c’è un modo eccellente per individuare le feste che sono state prese dal gioco del potere: non sono più divertenti”. Se evitiamo l’opposizione manichea tra la politica e la festa, come tra la realtà e il suo doppio, possiamo trarre almeno due lezioni dalle recenti celebrazioni popolari, più o meno “straripanti”, come fa Michel Agier nel suo articolo. La prima, spiega, è che “volere la festa per il popolo, accettare l’idea che sia un momento sociale e politico che lascia spazio all’immaginazione e alla libertà di tutti, significa accettare di aprire un momento di disordine”. E che questo momento è possibile solo “al prezzo di una revisione dei modi in cui la festa è controllata e regolata. Non senza polizia, ma con una polizia più adatta ai movimenti della folla in festa, una folla da rispettare nel momento in cui le si permette di credere che “la strada appartiene al popolo”. La riduzione dei rischi, la prevenzione e il controllo fanno ovviamente parte della politica della festa, ma non dovrebbero essere di esclusiva competenza del Ministero dell’Interno. A questo proposito, anche se la misura è principalmente simbolica, è interessante che il Ministero della Cultura abbia appena creato un’etichetta “Club Culture” volta a sottolineare l’importanza culturale e sociale di alcuni “locali comunemente chiamati ‘discoteche, piste da ballo’”, per usare la terminologia ufficiale, e a far sì che non siano solo di competenza del Ministero dell’Interno, ma anche del Ministero della Cultura. Se la Fête de la musique di Parigi è sembrata davvero un incubo per i media di Bolloré, che hanno riferito solo di alcune finestre rotte a Châtelet dai cosiddetti “barbari”, è stato innanzitutto per la diversità linguistica ed etnica che si poteva vedere e sentire in una metropoli solitamente asettica e gentrificata. Ma anche perché la notte del 21 giugno ha dimostrato che è possibile riunire decine di migliaia di persone nelle strade in un’atmosfera che, checché ne dicano i fautori della politica di sicurezza ad oltranza di Place Beauvau o della RN, ci ha ricordato che è possibile garantire la sicurezza dei cittadini, anche in momenti favorevoli al disordine, senza riconoscimento facciale o molestie di polizia. Questo meccanismo che lega il popolo della festa e la gestione politica e poliziesca della stessa non è nuovo. Il giornalista e rivoluzionario Marat, descrivendo la Fête de la liberté del 15 aprile 1792, che si svolse sugli Champ-de-Mars a Parigi, scrisse: “In mezzo a una folla immensa, non un colpo di polso è stato dato, non uno spillo rubato, non una parola di abuso pronunciata. È vero che non un solo sorvegliante a cavallo, non un solo soldato a piedi, non un solo stipendiato che abbia cercato di creare disordine, con il pretesto di mettere fine a tutto. L’unione fraterna dei cittadini amici della libertà ha preso il posto di ogni freno e ha mostrato chiaramente la completa inutilità di questi mezzi repressivi, escogitati dalla polizia per soffocare ogni movimento popolare e tenere la nazione sotto il giogo”. L’altra lezione politica che si può trarre da certi raduni festivi contemporanei è, nelle parole di Michel Agier, che “il bisogno di festeggiare non è mai così forte come in tempi di crisi e di sconvolgimento, che accentuano le paure esistenziali (la paura di morire), sociali (la paura della società) e cosmiche (la paura del collasso). In un mondo che è così ‘traboccante’ ogni giorno, gli eccessi delle folle festose servono solo a tenergli uno specchio rovesciato”. e le notizie sugli smartphone che annunciavano gli attacchi degli Stati Uniti contro gli impianti nucleari iraniani hanno reso facile immaginare una sorta di fine del mondo, lasciandoci poca scelta se non quella di gioire insieme ancora per qualche ora… Senza arrivare a paragonare la necessità contemporanea di festeggiare con la “fête des Trompettes” che il Libro dell’Apocalisse, nella Bibbia, annuncia essere il preludio di una nuova era per l’umanità, possiamo quindi vedere nelle celebrazioni contemporanee un riflesso di ciò che è disfunzionale nelle nostre democrazie elettorali. Nel suo importante libro su “quelli che restano” nella sua regione d’origine, il sociologo Benoît Coquart dedica alcune pagine illuminanti alla scomparsa dei bals populaires, sia come sintomo che come veicolo del malessere delle piccole città deindustrializzate della Francia orientale. Su una scala diversa, potremmo anche pensare che in un triplice contesto di intensa repressione di momenti collettivi come le manifestazioni, di atomizzazione professionale e spaziale degli individui e di crescente sensazione che gli attuali regimi rimarranno incapaci di contrastare le catastrofi ecologiche e inegalitarie in corso, la forza condivisa di alcuni momenti di festa potrebbe costituire una dimensione politica, per quanto fragile, su cui costruire. The post Il senso della festa al tempo della catastrofe first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il senso della festa al tempo della catastrofe sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega
VINCE – NON A SORPRESA – BAJANI CON L’ANNIVERSARIO, ROMANZETTO ESANGUE SUL PATRIARCATO CHE FU E LA FAMIGLIA CHE C’È. UN PREMIO SPECCHIO FEDELE DEL NULLA LETTERARIO INCAPACE DI RACCONTARE LA REALTÀ Ci risiamo. Anche st’estate è arrivato il premio Strega a sollazzare il bel mondo letterario, facendolo sobbollire un po’ nel catino di Villa Giulia. E pure st’anno nessuna sorpresa davanti allo scontato vincitore: Andrea Bajani, che s’è accosciato per gli scatti senza manco accennare allo stappo dell’ignobile bottiglione, come chiedevano a gran voce i paparazzi. Che a lui s’appioppasse la 79esima edizione del premio letterario più ambito dalle case editrici nostrane, quel che ne rimane, era cosa ovvia fin dalla serata di casa Bellonci, fin dal primo scrutinio dove lo scrittore romano, classe ‘75, ha subito staccato gli altri concorrenti della cinquina. Del resto il candidato Feltrinelli era oggettivamente il meno peggio del mazzo. Gli altri s’accodano ai suoi 194 voti: viavia Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare (Rizzoli), con 133 voti; Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda), con 117 voti; Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo (Mondadori), con 103 voti; Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terra Rossa), con 99 voti. Vince Bajani con L’anniversario, dunque: esangue romanzetto – poco più di cento paginette – d’un figlio che tronca coi genitori e se ne compiace, allo scadere del decennio dove non s’è degnato manco d’una telefonata. La famiglia, che disgrazia. Il patriarcato, ancora e sempre il nemico pubblico numero uno – dopo l’autocrate di turno, s’intende – per certa intelligentsja che d’intelligenza ha solo l’eco in una stanza svuotata pure dai ricordi del tempo che fu. Ma tant’è, mazziare il maschio cattivo, padre padrone, fa sempre tendenza eppoi il pubblico dei lettori, quel che ne resta, ha nella stragrande maggioranza corpo di donna e progressista, la strizzata d’occhi è d’obbligo. Il palpeggiamento, guai. La famiglia, dunque. La più grande tragedia del mondo dai tempi della caduta d’Atlantide, eppure ancora non s’è trovato di meglio – di peggio – per sfiancare la quotidianità dell’umanità. Di famiglia parla pure l’ultimo arrivato, Ruol, anestesista prestato alla letteratura, con una lunga sequela d’oggetti che legano una coppia al ricordo dei figli morti, Maggiore e Minore, a cui è negato pure il nome, oltre la vita. Sempre tragedia, sia pure al contrario. E sempre di saghe famigliari s’interroga la Terranova. Il resto è esercizio parabiografico, bell’interno al mondo letterario: i ricordi di Napoli e della relazione con lo scrittore Raffaele La Capria per Rasy; le rimembranze del poeta Baldini per Nori. Resta, per tutti, l’impressione d’una scrittura minore per non dire minimalista: esangue, appunto. Se la letteratura è lo specchio d’una società e lo Strega è lo specchio della civiltà letteraria italiana, dei suoi gusti e dei suoi miti & riti da trasmettere al volgo, lo specchio rimanda fedele l’immagine di quel che è e di ciò che siamo. In un mondo al contrario, dove mille sarebbero i furori letterari coi quali discernere la contemporaneità, guerre e fole in cui vivacchiamo, ci si limita allo sbadiglio stanco, a rimasticare vecchie storie in cui manco più i protagonisti si ritrovano o credono. Mai un’alzata d’ingegno, un volare sopra rimasugli di grigiore quotidiano, un’illuminazione. Meglio allora lasciare che la melma corrente marcisca i pilastri letterari, ne eroda i ponti, del resto non è più la letteratura a raccontare la realtà, come ammoniva il genio di Vassalli. Volgiamoci allora alla kermesse di contorno: lo sventolìo dei bej ventagli verdi distribuiti a uomini, donne e trallallà, a dare aria e colore alla serata. Il bel monologo di Anna Foglietta per il cinquantennale della morte di Pasolini. E qui il colpo di classe della regia che s’è concessa il lusso di mandare uno spezzone nel quale lo scrittore inveiva contro i premi e la fuffa letteraria, buona solo a compiacere la scemenza borghese. La bravura di Filippo Timi, nel recitare l’incipit dei finalisti. La fugace intervista con Anna Foa, fresca vincitrice del neopremio Strega per la saggistica: Il suicidio di Israele. Rade parole contro la macelleria in atto e la grande Sion. Buon ultimi, i deragliamenti di Pino Strabioli, improbabile conduttore col farfallino, orfano di Geppi Cucciari alla quale non è stato concesso il palco dello Strega per dire le sue menate, a differenza delle ultime edizioni, forse per la sua scarsa sintonia col governo in carica. Il ministro della Cultura Alessandro Giuli, ex giurato e grande assente alla serata, s’è lagnato di non avere manco ricevuto i libri dei concorrenti. Poco male, visto quel che passava la serata. Malatempora currunt, aspettando l’edizione numero ottanta. Definitivo rincoglionimento senile o vegliarda botta di vita, chissà.www.mauriziozuccari.net   foto Sopra: Bajani e Foa, vincitori dell’edizione Strega 2025 per la narrativa e la saggistica, rispettivamente Foto crediti Musa, Fucilla, Ruscio, Mikhaiel/Taobuk The post Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Trasformista d’un Picasso!
STRANIERO IN PATRIA E ALL’ESTERO, VITA E OPERE DI UN MIGRANTE DI SUCCESSO E UNA MOSTRA CHE CHIUDE I BATTENTI A ROMA Di Picasso uno pensa d’aver visto tutto, capito tutto. E invece. La mostra che chiude i battenti a palazzo Cipolla a Roma, Picasso lo straniero, ha messo in mostra – si passi il gioco di parole – un artista diverso, a suo modo davvero straniero. Almeno per il sottoscritto. Non tanto e non solo, com’era nelle intenzioni della curatrice, Annie Cohen-Solal, autrice dell’omonimo e pluripremiato Picasso, una vita da straniero, edito in Italia da Marsilio, nel ripercorrere le tappe del migrante di successo. Piuttosto, nel mostrare il fil rouge delle diverse fasi della vita e dell’opera dell’artista iberico che seppe primeggiare in ogni corrente artistica durante la sua lunga e prolificissima esistenza – ben 13mila opere realizzate, un record imbattuto – costruendosi una fama e una fortuna davvero invidiabili. Più che il suo essere straniero in patria e all’estero quel che emerge dall’esposizione – oltre un centinaio d’opere, alcune inedite – giunta alla quinta tappa dopo Parigi, New York, Mantova e Milano, è la poliedricità dell’artista, il suo saper restare al centro delle scene nonostante i mutamenti epocali attraversati. Al nodo della questione è l’eclettismo di Picasso, pur nella perfetta riconoscibilità che connota l’artista come pochi altri nel panorama della modernità. Picasso il trasformista più che lo straniero, insomma: un artista che seppe adattarsi ai cambiamenti e alle tendenze, spesso anticipandoli, e cadere in piedi nelle situazioni più complesse, grazie a un certo fiuto politico. A una manciata d’anni il ragazzino andaluso sapeva già dipingere come un provetto accademico, grazie al proprio talento e agli ammaestramenti del padre José Ruiz, insegnante di pittura, che lo instradò al mestiere ma col quale ruppe al punto da adottare il cognome della madre Maria Picasso, di lontane origini italiane, ma la sua strada era tutt’altro che lineare e certa. Giunto giovanissimo al successo – per il benessere avrebbe dovuto attendere gli anni venti del ‘900 – la svolta artistica arriva, dopo i periodi blu e rosa, con l’invenzione del cubismo a Gosol, quattro case e un forno sui Pirenei dove Picasso visse l’estate del 1906. Non sono ben chiare le ragioni del lungo soggiorno dell’artista con la sua compagna del tempo, Fernande Olivier, al secolo Amélie Lang, in uno sperduto paesino di contrabbandieri che oggi fa vanto di un Centre Picasso. Né se fu l’arte iberica preromana o piuttosto i rudi profili montanari a fornirgli lo spunto per Les demoiselles d’Avignon, il megadipinto dell’anno successivo che raffigura sei prostitute nude, tra cui la compagna, e dette la stura alla stagione del cubismo. Fatto è che da quel momento Pablo Ruiz Y Picasso impone il suo stile, si pone all’avanguardia. Ben rappresentata dalla sezione della mostra che illustra gli anni romani e il lavoro con Cocteau nel balletto Parade. Non senza deviazioni dalla via maestra e fughe al passato, come il ritorno all’ordine del primo dopoguerra. Abile nel coniugare l’impegno politico antifascista di Guernica (1937) al dorato esilio parigino durante la Seconda guerra mondiale. Dove a nessun ufficiale nazista venne in mente di bussare all’atelier del campione di un’arte che si diceva degenerata per rispedirlo in patria, tra le braccia dell’alleato Franco. Maestro della spatola e del pennello, del navigare sottotraccia come del cavalcare la notorietà, Picasso sarebbe divenuto icona dell’internazionalismo pacifista – sua la colomba, in realtà un piccione, posto a emblema dei partigiani della pace stalinisti negli anni Cinquanta – fino a divenire, negli anni del buen retiro d’Antibes fino alle ultime fatiche di Mougins, icona della modernità e del successo. Il bimbetto di Malaga era divenuto un vecchio satiro provenzale, ma nei suoi occhi si coglieva ancora la scintilla del genio, il marchio del predestinato alla fama oltre ogni casa e confine. Straniero sì, ma di successo. Trasformista capace di rendere, novello Mida, oro ciò che toccava. The post Trasformista d’un Picasso! first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Trasformista d’un Picasso! sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro)
VINICIO CAPOSSELA APRE VENERE IN MUSICA. TRA MITI, EMERGENZE E AFFIORAMENTI IL CONCERTO PERFETTO SULLA FOLLIA DI QUESTI TEMPI INFAUSTI Metti uno dei luoghi più iconici, fascinosi epperò misconosciuti della capitale. Metti quello che resta il maggior cantore di questi nostri tempi oscuri dove imperversano i Tonieffe e le Bigmama. Metti, insomma, Vinicio Capossela al tempio di Venere e Roma, al Foro, e hai il concerto perfetto. Un mix di sonorità & senso, malinconia e magia come meglio non si potrebbe. Vinicio ha fatto da apripista a Venere in musica, un appuntamento ormai classico all’abbrivio dell’estate romana: quattro serate, aperte ieri dal nostro e proseguite, da oggi a domenica, con altri mostri sacri del panorama musicale mondiale: Malika Ayane, Salif Keyta e Goumour Almoctar, in arte Bombino. Tutto all’insegna della “world” ma soprattutto della buona musica. Giunta alla sua quarta edizione, la rassegna musicale ideata da Alfonsina Russo, direttrice del parco archeologico del Colosseo, e curata di Fabrizio Arcuri che ne firma la direzione artistica è uno dei più interessanti appuntamenti capitolini, capace di unire musica e cultura in un unicum imperdibile, oltretutto gratuito. Tra quel che resta delle volte e dei colonnati del tempio voluto dall’imperatore Adriano all’apice del suo successo, per onorare il duplice volto della capitale imperiale, divinizzzata, e della dea Venere, progenitrice di Enea, e con lui della gens Julia e della stessa città, secondo il mito mutuato da Virgilio ai Tirreni, lo spettacolo è superbo. Luci e sirene impazzano tra le macerie del più maestoso tempio pagano dell’antichità, distrutto dalle spoliazioni papesche e costato la vita al maggior architetto del tempo. Quell’Apollodoro di Damasco che osò criticare l’opera architettata dallo stesso Adriano che se la legò al dito e non gliela fece passare liscia, mettendolo a morte. A riprova di come il potere, anche quando personificato da un imperatore che si vuole colto e illuminato, resta una gran brutta bestia. E alle sirene è dedicata la serata, alla fatuazione di quest’altri mitici esseri destinati a perdere l’essere umano negli abissi. Una fatuazione, la loro, per dirla come Capossela, utile a stappare l’orecchie dello spettatore, indurite e ingolfate dalle narrazioni contemporanee, dal dilagare dei nonsensi e dall’abuso di tecnologia che si vuole salvifica ma è tutt’altro. È un viaggio nel mito, questa seconda tappa del tour iniziato ier l’altro al parco archeologico di Norba, antico insediamento latino, poi romano, non distante dalla moderna Norma. Un percorso che si dipana tra richiami, emergenze e affioramenti, seguendo un filo rosso dove s’annodano i grandi classici del repertorio caposseliano con una banda sempre diversa, a sottolineare la specificità dei luoghi e dei paesaggi musicali nelle diverse tappe. Altro e caratteristico motivo conduttore della serata, tra un frammento discorsivo e un bicchier di vino di capitan Vinicio, i suoni delle sirene. Quelle vere di Kiev e Gaza, dei teatri di guerra aperti dalla follia al potere, a partire dal genocidio in atto in terra palestinese per mano israeliana. Nemesi tra le più sanguinarie della storia che troppi fingono di non vedere tappandosi occhi bocca e orecchi – come le tre scimmiette sul comò – pur di credere ancora alla finzione d’Israele baluardo della democrazia occidentale piuttosto che sanguinaria democrazia totalitaria, come il resto dell’Occidente. Ma queste son fole, follie coève. Lasciamoci cullare dal canto d’altre sirene, quelle omeriche piuttosto che antiaeree, affoghiamo nell’oblio le follie d’un mondo precipitato nell’abisso. Con l’augurio, come dice il gran cantore Vinicio, che all’immersione nei fondali di questi tempi infausti segua l’emersione in tempi più fausti, umani e gentili. Prosit. Info e prenotazioni (praticamente impossibili online, un neo che gli organizzatori dovranno risolvere). Info sul tour Sirene. The post Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro) first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro) sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Lotta e gioco per far incontrare le sinistre
TORNA LA FESTA DEI CIRCOLI DI ARCI ROMA. DAL 25 AL 29 GIUGNO AL PARCO MARTA RUSSO DI LABARO DI GIOCO E DI LOTTA: 85 CIRCOLI, PIÙ DI 90MILA SOCЗ, 5 GIORNATE DI FESTA, 6 CONCERTI LIVE, 10 DIBATTITI, 4 DOCUMENTARI, STAND UP, DJ SET, LABORATORI ARTISTICI E MUSICALI. ECCO IL PROGRAMMA DELLA SECONDA FESTA DI ARCI ROMA, SPAZIO APERTO ALLA CULTURA DAL BASSO E ALLE SINISTRE POLITICHE, SOCIALI E SINDACALI DELLA CITTÀ.   Dal 25 al 29 giugno torna la festa di Arci Roma e dei circoli. Dopo la prima edizione, Arci Roma Fa Rumore, l’appuntamento annuale lascia la location di Parco Piccolomini per spostarsi decisamente in periferia e riaprire lì uno spazio “di gioco e di lotta”, fruibile da tuttз e aperto al confronto fra le sinistre sociali, sindacali e politiche della città. Siamo fatti di gioco e di lotta, infatti, è il titolo di questa seconda edizione che si terrà nella cornice del Parco Marta Russo, nel quartiere Labaro, facilmente raggiungibile con la Ferrovia urbana Roma Viterbo. Per cinque giornate lз socз degli 85 circoli dell’area metropolitana daranno vita a panel, dibattiti, laboratori e spettacoli coinvolgendo artistз e protagonisti della scena politica e delle vertenze sociali sui temi cari alla storica associazione ricreativa e culturale che, tra la città e la provincia, conta oltre 90mila iscrittз che ogni anno producono concerti, spettacoli dal vivo, corsi di teatro, musica, danza, cineclub, fotografia, intervento sociale, pratiche di mutualismo, educazione extrascolastica, laboratori dedicati a ogni fascia d’età. Una comunità multiculturale e intergenerazionale, fatta di gioco e di lotta, capace di esprimere con ogni linguaggio artistico la propria idea di città polifonica, conflittuale, antipatriarcale, pacifica, solidale, ambientalista e anticoloniale. i dialoghi In un momento storico drammatico contrassegnato da un lato dalla combinazione micidiale tra genocidio in Palestina, escalation in Medio Oriente, riarmo europeo e cambiamenti climatici e dall’altro, dall’erosione dell’agibilità democratica determinata dal modello Giubileo applicato a Roma da Meloni, Gualtieri e Rocca, non potevano non essere protagoniste degli spazi di dibattito le tante vertenze territoriali per l’ambiente, le mobilitazioni a fianco della popolazione palestinese, le rivendicazioni di chi opera nella produzione di cultura, le battaglie transfemministe. Il festival, ancora più della prima edizione, promette di essere uno spazio inclusivo ma interdetto a ogni forma di fascismo, razzismo e discriminazione. Una delle giornate, quella del 27 giugno sarà dedicata ai temi delle migrazioni e della cittadinanza in collaborazione con i progetti SAI-AIDA di Roma e Monterotondo.  la musica Il programma musicale riflette le scelte artistiche dei circoli, sideralmente distanti dal mainstream e attenti a forme, contenuti e stimoli provenienti dalle controculture, dai territori e dai mondi delle autoproduzioni. Ne è scaturito un cartellone vivace e articolato che propone progetti italiani e internazionali dai pionieri della cumbia made in Italy, Los3Saltos, ai maghi colombiani della rumba digitale, Ghetto Kumbé; dall’originale ibridazione di Fucksia tra dj set e live experience fino al punk eccentrico dal New Jersey di Ron Gallo, per finire in bellezza con il reggae della Wogiagia crew e i fiati di Mefisto Brass LIVE street band milanese che di definisce “Sound System a Energia Polmonare”. la socialità Da segnalare, i laboratori organizzati dalle scuole di musica del circuito Arci e, nel pomeriggio della domenica, a partire dalle 17:30, la possibilità di provare pattini e skateboard nella zona palco in compagnia di skater esperti del circolo Arci Trick Track. La trattoria e la mescita sociale riprodurranno l’atmosfera di socialità dei circoli con estrema attenzione all’impatto ambientale della festa a partire dalla messa al bando dei prodotti sotto boicottaggio da parte delle campagne contro sionismo e colonialismo e della plastica nelle bottiglie e nelle stoviglie. Prodotti e bevande verranno proposti anche sulla base dell’attenzione dei produttori alla sostenibilità socio-ambientale degli ingredienti e delle filiere. Naturalmente sarà disponibile solo acqua pubblica e gratuita. POTERE ALLA PAROLA – PROGRAMMA DEI PANEL MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 18:00 – 18:45 PALCO B I SAHARAWI: UNA STORIA PER L’AUTODETERMINAZIONE con Fatima Mahfud, rappresentante in Italia del Fronte Polisario; Gianluca Diana, giornalista e scrittore; Valentina Roversi, Rete Saharawi. 19:00 – 20:00 PALCO B PALESTINA, IL GENOCIDIO SOTTO TRACCIA Con con Walter Massa, presidente nazionale Arci, Moni Ovadia, Maya Issa, presidente del Movimento Studenti Palestinesi, Palestine Chronicle, Vito Scalisi, presidente di Arci Roma 20:15 – 20:50 PALCO A PERCHÉ QUI, PERCHÉ ORA: CIAO LABARO con Daniele Torquati, presidente del Municipio Roma XV; Luigia Chirizzi, assessora LL.PP Municipio Roma XV; Gaetano Seminatore, segreteria romana Pci; Stefania Piccinnu, presidente Arci No Problem; Vincenzo Pira, Comitato di Quartiere Labaro. GIOVEDÌ 26 GIUGNO 18:00 – 18:30 PALCO B PRESENTAZIONE DI FESTA! IL MANIFESTO DEI FESTIVAL PROMOSSO DA ARCI con Marco Trulli, responsabile Cultura e Giovani di Arci Nazionale 18: 30 – 20:00 LA CITTÀ DELLA NOTTE.  COPROGETTARE E COPROGRAMMARE IL TEMPO E GLI SPAZI DELLE CULTURE con Marco Trulli, responsabile Cultura e Giovani di Arci Nazionale; Erica Battaglia, presidente Commissione Cultura Roma Capitale; Tatiana Marchisio, assessora politiche culturali Municipio Roma XV; Claudio Cippitelli, sociologo; Raniero Pizza, direttore artistico Monk Club; Tommaso De Angelis, Zalib-Centro Giovani; Daniela Lebano, delegata Arci Roma, Francesca Coleti, responsabile Terzo Settore Arci Nazionale; conduce Leonardo Zaccone (Sveja) VENERDÌ 27 GIUGNO CITTADINЗ DEL MONDO. ARCI ROMA PER LA GIORNATA DEL RIFUGIATO IN COLLABORAZIONE CON I PROGETTI SAI-AIDA DI ROMA E MONTEROTONDO 18:30 – 20:00 PALCO B DALL’ACCOGLIENZA ALLA CITTADINANZA – SIAMO TUTTЗ MIGRANTЗ Modera Annalisa Camilli, giornalista; Mattia Fonzi (Openpolis) presenta il report “Accoglienza al collasso. Centri d’Italia 2024”, con Agnese Rollo, assessora politiche sociali Municipio Roma XIV; Anci Lazio; Valerio Tursi, progetto Sai-Gea; Francesca De Masi, presidente cooperativa Be Free; Sara Grimaldi, coordinatrice progetto Sai-Aida; Marta Bonafoni, segreteria Pd; Alberto Grandi, docente di Storia del Cibo; Antonio Maurizio Loiacono, storico ed esperto di storia delle religioni, specializzato nella presenza araba e nei rapporti interculturali e interreligiosi nell’Italia meridionale altomedievale; Papia Aktar, delegata alle politiche sulle migrazioni di Arci Roma SABATO 28 GIUGNO 19:30 – 20:30 PALCO B MILANO-ROMA, DUE MODELLI, UNA SOLA RISPOSTA: RESISTENZA! con Alvise Tassell (Ecoresistenze Milano); Rocco Spinelli (Milano Città Pubblica); David Di Bianco (Coord Tavoli del Porto Fiumicino); Giancarlo Storto (Carteinregola Roma); Michele Itasaka (Comitato Si al Parco, Si all’Ospedale, No allo Stadio – Roma); Comitato San Siro Città Pubblica – Milano; Barbara Manara, delegata Pace e pianeta Arci Roma. 20:30 PALCO B IL PREZZO CHE PAGHIAMO – DOCUMENTARIO Scritto e diretto da Sara Manisera, prodotto da Greenpeace e ReCommon, Italia 2025, 37’ a seguire dibattito con Diletta Bellotti, L’Espresso; Felice Moramarco, Greenpeace Italia; Eva Pastorelli, ReCommon; Luca Manes, ReCommon DOMENICA 29 GIUGNO 18:00 – 19:00 PALCO B NON SI CALPESTA L’ERBA. STILI DI VITA, LAVORO, E SALUTE NEL MIRINO DEL PROIBIZIONISMO con Matteo Mantero, autore di “Una pianta ci salverà. Storia virtuosa della canapa”; Chiara Lo Cascio (Canapa Sativa Italia), Leonardo Fiorentini (segretario di Forum Droghe) modera Paolo Occidente (Pot Radio) 19:30 – 20:45 PALCO B REPRESSIONE, OSSIA IL RIARMO VISTO DAL FRONTE INTERNO con Paolo Di Vetta (Movimenti per il diritto all’abitare), Linda Meleo (M5s Roma), Valerio Zaratti (Europa Verde Roma), Luca Blasi (Rete A Pieno Regime), Eliana Como (minoranza Cgil-Le radici del sindacato), Daniele Leppe (giurista), Beatrice Gamberini (Pap), coordina Gianluca Cicinelli (direttore Diogene Notizie) IL CARTELLONE – PROGRAMMA DEGLI SPETTACOLI INGRESSO SEMPRE GRATUITO   MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 21.00 PALCO A NAZRA PALESTINE SHORT FILM FESTIVAL – CORTOMETRAGGI due pellicole centrate sulla vita e la resistenza delle donne e dei giovani palestinesi The Poem We Sang – BEST EXPERIMENTAL SHORT FILM 21.30 diretto da Annie Sakkab, Palestina 2023 Mate Superb –  BEST DOCUMENTARY SHORT FILM 22.30 diretto da Hamdi AlHaroub, Palestina 2013 21.30 PALCO A NO OTHER LAND – FILM diretto da Yuval Abraham, Basel Adra Hamdan Ballal, Rachel Szor, Palestina, Norvegia 2024 La storia di amicizia tra l’attivista palestinese Basel e il giornalista israeliano Yuval. Ha vinto un premio ai Premi Oscar e ha ottenuto una candidatura al Festival di Berlino GIOVEDÌ 26 GIUGNO 21:30 PALCO A LOS3SALTOS CUMBIA Pionieri della cumbia made in Italy, dosano in maniera fresca e spontanea la scrittura dei testi in madre lingua alla mescolanza di ritmi trascinanti, dando vita ad una formula del tutto nuova nella scena musicala italiana in cui la cumbia e le sue derivazioni divengono un potentissimo mezzo per declinare la propria “occidentalità”. Ad oggi i Los3saltos sono arrivati al traguardo del quarto disco “Temporada”. Dall’inizio del 2017 Los3saltos è parte integrante dell’Istituto Italiano di Cumbia, progetto fondato e capitanato da Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e prodotto dall’etichetta indipendente La Tempesta, che ha portato parte del gruppo romano ad esibirsi su alcuni dei palchi più importanti d’Italia sia nei grandi festival che in prestigiosi club. 22:30 PALCO A GHETTO KUMBÉ AFRO-FUTURISTIC ELECTRO CARIBBEAN I famosi cantanti e percussionisti “maghi” colombiani, evocatori degli spiriti pagani della rumba digitale faranno tappa a Roma alla Festa dei Circoli Arci Roma durante il loro sesto Tour europeo. Un potente mix di ritmi elettronici caraibici, tradizioni afro-colombiane e dell’Africa occidentale. I Ghetto Kumbé sono il punto d’incontro di 3 grandi musicisti della costa caraibica colombiana. Melodie africane e colombiane incontrano tamburi, ritmi, ed elettronica di stampo Tech/House. I Ghetto Kumbé sono creatori di paesaggi sonori afro-futuristi. Il punto di forza dei GHETTO KUMBÉ è ovviamente il live grazie anche alla loro originaria identità visiva, fatta di maschere etno-futuristiche fluorescenti, visual abbinati ma soprattutto un sound potentissimo, un rituale di ballo che viene dal passato e proiettato nel futuro. VENERDÌ 27 GIUGNO 21.30 PALCO A STAND UP/ RASSEGNA STAMPA NON RICHIESTA un monologo tragicomico di e con Le Recensioni non Richieste Le Recensioni non richieste, autore di satira, psicologo, gay, transfemminista, cofondatore del progetto di queer comedy “Fraciche”. 22.30 PALCO A FUCKSIA HYBRID LIVE – DJSET Le Fucksia sono una band Italo brasiliana formata da Mariana Mona Oliboni, Marzia Stano e Poppy Pellegrini. Transfemministe e queer, sono la combinazione perfetta tra attitudine punk, sonorità techno/dance e psichedelia. Il progetto “Fucksia” Hybrid è una combinazione tra un DJ set e un concerto live, con sessioni di 45/50 minuti ciascuna. “Fucksia” Hybrid integra di stili musicali diversi dall’elettronica, al funky brasilero, dai ritmi tropicali allo psytech e acid tekno live. SABATO 28 GIUGNO 22.30 PALCO A RON GALLO LIVE, NEW JERSEY – GARAGE ROCK “Il mondo è fottuto, ma l’universo è dentro di te” è il filo conduttore di tutti e 5 gli album di Ron Gallo: essere umano, cantautore, musicista e disruptor costruttivo. Il suo album di debutto “HEAVY META”, descritto da NPR come “elettricità letterata”, è stato pubblicato con un ampio successo di critica e un tour mondiale, e un singolo di successo improbabile, “Young Lady, You’re Scaring Me”, che ha totalizzato oltre 61 milioni di streaming. Si è esibito al Coachella, al Bonnaroo, al Governors Ball e al Pukkelpop. Il suo ultimo album, “FOREGROUND MUSIC”, pubblicato dalla leggendaria etichetta indie Kill Rock Stars, affronta i cattivi della nostra società e aiuta coloro che ne sono schiacciati, trovando un modo per ridere dell’assurdità di tutto ciò attraverso 11 tracce di punk eccentrico, pop weirdo e garage rock distorto. DOMENICA 29 GIUGNO 21.30 PALCO A Wogiagia LIVE reggae La Wogiagia crew nasce nel febbraio 1999 nella periferia Nord di Roma e da allora non ha mai smesso di suonare. 22.30 PALCO A MEFISTO BRASS LIVE STREET BAND “Sound System a Energia Polmonare”: il gruppo, con un organico da Street Band, attinge dalle sonorità tipiche della musica elettronica, riformulandole e adattandole a una formazione composta esclusivamente da strumenti a fiato e percussioni. Il progetto nasce nel 2019 a Milano e, proponendo un repertorio di brani originali, si inserisce nella scena dapprima milanese e poi italiana anche grazie a un’intensa attività di busking e performance di strada. Dal loro esordio, grazie alla dirompente carica del loro live show, i Mefisto hanno collezionato più di 180 esibizioni presso locali, sale da concerto e festival in Italia ed Europa. Nel 2020 i Mefisto pubblicano il loro primo EP, “Amhardcore” e a Marzo 2024 è uscito il loro primo album “Totem”. Dal 25 al 29 giugno al Parco Marta Russo, viale Gemona del Friuli (Labaro) ➳Public water                 ★          Free Entry             ★                     Kids Area Una iniziativa di Arci Roma con Roma Incontra il Mondo per Tessere la Città In collaborazione con Progetti Sai/Aida Roma e Monterotondo Ucca, ReCommon, Greenpeace  The post Lotta e gioco per far incontrare le sinistre first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Lotta e gioco per far incontrare le sinistre sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.