Gli sguardi coloniali sulla PalestinaIL GENOCIDIO NELLA DIDATTICA DELLA STORIA. LA PERSISTENZA DI “SGUARDI COLONIALI”
SUL PASSATO INFLUENZA LA COMPRENSIONE DEL PRESENTE
Il contributo di Marco Meotto al convegno La scuola non si arruola,
organizzato il 4 novembre 2025 - in polemica con il divieto del ministro -
da Osservatorio contro la Militarizzazione delle scuole
e dell’Università e CESTES
Premessa
Il contributo, pensato come uno stimolo alla riflessione nel campo della
didattica della storia, è stato elaborato per il convegno La scuola non si
arruola, organizzato dall’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e
dell’Università e dal CESTES (Centro Studi sulle Trasformazioni
Economico-Sociali).
Il convegno non si è mai svolto nella sua proposta originale, perché, con
un’inedita e preoccupante scelta censoria il Ministero dell’Istruzione del
Merito ha intimato al Cestes (Ente accreditato per l’aggiornamento e la
formazione dei docenti) di sospendere l’iniziativa e ne ha oscurato la
visibilità sulla piattaforma S.O.F.I.A. per l’aggiornamento dei docenti, poiché
in essa “non appare coerente con le finalità di formazione professionale del
personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti
formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti”.
Con un atto di disobbedienza civile l’Osservatorio ha ugualmente svolto il
convegno, riorganizzando gli interventi e ridefinendo il titolo sulla base di
quanto accaduto. Il convegno “La scuola non va alla guerra. L’educazione alla
pace risponde alla repressione” è stato il nuovo titolo.
Lascio a chi leggerà le pagine che seguono giudicare se le riflessioni offerte
siano o meno “coerenti con le finalità di formazione del personale docente”.
INTRODUZIONE
I propositi del contributo sono due: il primo è proporre un aggiornamento dei
paradigmi di riflessione storiografica sui fenomeni genocidari nella storia del
‘900, il secondo è mostrare quanto la persistenza di “sguardi coloniali” sul
passato influenzi la nostra comprensione del presente.
A tenere insieme i due propositi è l’esigenza – imposta dal momento storico che
stiamo attraversando – di cogliere lo stretto collegamento tra i processi di
riarmo, la risignificazione semantica di termini come “guerra”, “difesa” e
“pace” e la permanenza delle strutture profonde del modello dello
“stato-nazione” nell’immaginario che ancora oggi domina nella società e, di
riflesso, nella scuola.
Nel ragionamento si proverà a mostrare come il dispositivo militare non sia un
semplice strumento dello Stato, ma il braccio armato di quella logica di
omogeneizzazione e di difesa dei confini – fisici e identitari – che, portata
all’estremo, produce la categoria del ‘nemico interno’ e rende pensabile la sua
eliminazione.
La militarizzazione della società è così sia un sintomo che un moltiplicatore
della logica eliminatoria alla base dei genocidi.
1. OLTRE IL PARADIGMA DELL’ECCEZIONALITÀ
Il Novecento è stato spesso definito il “secolo dei genocidi”[1]. Tuttavia, la
didattica della storia nella scuola ha spesso trattato questi eventi come
mostruose eccezionalità, insistendo sulla specificità irripetibile di ogni
fenomeno. Questo è valso in particolar modo per la didattica della Shoah[2].
Ancora più spesso la connotazione di tali fenomeni storici è stata all’insegna
della categoria del “crimine”. Di questo risente senz’altro la stessa
definizione di “genocidio”, così come pensata dal giurista Raphael Lemkin negli
anni Quaranta del Novecento e poi introdotta nella Convenzione delle Nazioni
Unite del 1948.
Una prospettiva storiografica improntata all’eccezionalità e alla lettura in
senso criminale del genocidio come negazione assoluta dei diritti umani, pur
legittima nella sua attenzione alle specificità dei singoli contesti, ha spesso
trascurato di indagare le chiavi di lettura che interpretano il genocidio come
un fenomeno strutturale e ricorrente nella modernità, strettamente collegato
allo sviluppo dello Stato-Nazione, e come un atto politico in senso proprio.
Tra le più recenti, si distingue la lezione dello storico Mark Levene – ancora
non tradotto in Italia – che vede nel genocidio non certo un’anomalia, ma
un’esperienza centrale dell’epoca degli stati-nazione, un lato oscuro della
modernità stessa[3].
Per Levene il nodo cruciale è che il genocidio si manifesta come possibilità più
propria solo all’interno delle strutture e delle ideologie caratteristiche della
modernità[4]. Lo Stato-Nazione, con la sua ossessione per l’omogeneità culturale
e linguistica, trasforma le sue minoranze in un “problema” da risolvere, in un
corpo estraneo da espellere o al limite da ridurre in condizioni di totale
subalternità, per raggiungere la piena coincidenza tra popolo, territorio e
sovranità.
Con scopi di questo genere si intrecciano mezzi tipici della modernità:
l’approccio ingegneristico alla realtà, la fiducia nella capacità di pianificare
e rimodellare la società secondo schemi razionali, la centralità del complesso
militare-industriale e la progressiva militarizzazione del controllo sociale.
Quando questi mezzi si combinano con forme di nazionalismo esclusivo o di
ideologie totalizzanti, gli esiti possono essere un piano di distruzione o
annientamento di parti o di intere componenti della popolazione. Questo
paradigma può valere indifferentemente dall’ideologia al potere, dal momento che
– ad esempio – anche all’interno dell’Unione Sovietica (o di altri regimi
comunisti) forme di sistematica aggressione violenta nei confronti di gruppi di
popolazione identificata su base etnica hanno avuto luogo attraverso pratiche
ricorrente nella storia dello stato moderno. Basti pensare alla continuità di
pratiche che sussiste tra la persecuzione dei circassi sotto il dominio zarista
e le politiche di deportazione e annientamento di tatari e “tedeschi del Volga”
in epoca staliniana[5].
Il confine tra difesa dai nemici esterni e eliminazione dei nemici interni, in
questo quadro, diventa sempre più labile, e l’apparato militare diventa lo
strumento principe per entrambi gli obiettivi. Questo accade perché solo lo
Stato moderno possiede quegli strumenti – come la macchina burocratica, i
sistemi di trasporto o la tecnologia seriale – che rendono possibile lo
sterminio di massa, con un’efficienza industriale, impensabile in epoche
precedenti. È in fondo questa anche la tesi sostenuta nel 1989 da Bauman nel
noto Modernità e Olocausto[6]: la Shoah va intesa come il punto di approdo di un
percorso storico pregresso e non come un’aberrazione inspiegabile.
Anche dal punto di vista dello sviluppo politico, è in fondo il concetto moderno
di sovranità a creare i presupposti di uno spazio politico chiuso in cui è lo
Stato a detenere il diritto incontestabile di fare ciò che vuole con la propria
popolazione. Le implicazioni di questa visione sono profonde e scomode:
significa che il potenziale genocidario non è un mostro esterno, ma è insito
nelle strutture stesse del mondo in cui viviamo, un’ombra proiettata dalla luce
stessa della modernità[7].
2. LE POLITICHE DELLA MEMORIA SACRALIZZATA
L’intreccio tra la storia dello Stato-Nazione e l’esito potenzialmente genocida
delle sue politiche si scontra con il paradosso delle politiche della memoria
pubblica edificate negli ultimi decenni.
Le solennità pubbliche per commemorare la Shoah – si pensi al Giorno della
Memoria – sono senza dubbio momenti del calendario civile di grande valore.
Hanno perseguito l’intento di trasferire il ricordo della persecuzione dal
dominio esclusivo dei sopravvissuti e degli storici per consegnarlo alla
coscienza collettiva, divenendo un rito laico molto importante per l’Europa
postbellica. Non mi soffermo in questa sede sulle riflessioni, molto discusse
nel dibattito pubblico, sull’industria culturale della memoria e sulle sue
implicazioni semiotiche[8].
Mi limito a segnalare che è proprio nella sacralizzazione pubblica che si è
assistito alla cristallizzazione della Shoah entro il paradigma
dell’eccezionalità e del “fatto criminale”[9].
Inquadrare lo sterminio principalmente come un crimine mostruoso, un orrore che
travalica la comprensione, se da un lato ne afferma l’inaudita gravità,
dall’altro ne occulta la natura profondamente politica. La narrazione
dell’eccezionalità è una cornice rassicurante, in un certo senso, perché colloca
il male al di fuori del circolo della normalità politica moderna, come un
incidente di percorso nella storia.
Tuttavia, la lezione politica più scomoda e al tempo stesso più necessaria della
Shoah ci impone di capire che essa non fu un meteorite piovuto dal nulla sul
suolo civile d’Europa, bensì l’esito di processi storici profondi e
inquietantemente connessi alla nostra storia. Ci sono ragioni storiche della
Shoah che, in fondo, ci parlano in modo diretto di noi: del nostro rapporto con
il mondo colonizzato e con le alterità che turbano l’ideale dell’omogeneità
dello Stato-nazione[10].
Ciò significa affermare che la Soluzione Finale fu il prodotto estremo di una
cultura che aveva già sperimentato, ai margini degli imperi, vale a dire nelle
colonie, tecniche di segregazione, controllo e annientamento di popolazioni
ritenute “inferiori”. Per quanto riguarda la storia tedesca, ad esempio, il
genocidio dei popoli Herero e Nama nell’Africa Sud-Occidentale tedesca – come
vedremo – ne fu non solo un semplice prologo, ma un laboratorio dove si
testarono ideologie e pratiche che sarebbero state trasposte, pochi anni dopo,
nel cuore dell’Europa[11].
Invece, insistere esclusivamente sul “paradigma criminale” per presentare
didatticamente la Shoah vuol dire concentrarsi solo sull’epilogo, trascurando il
lungo e oscuro percorso che a quell’esito ha condotto. È un percorso che
intreccia le leggi razziali europee con le politiche di sfruttamento coloniale e
con le formulazioni giuridiche che le hanno accompagnate, che pone accanto alla
definizione giuridica del “nemico interno” la paura dell’alterità che minaccia
la purezza della comunità nazionale.
La focalizzazione sull’eccezionalità ha così reso difficile integrare la Shoah
in una storia più ampia della violenza del Novecento, non tanto sottraendola al
confronto comparativo con altri genocidi o progetti di pulizia etnica – aspetto
che, invece, nell’uso politico della storia è ancora spesso evocato[12] – quanto
limitando l’indagine sui suoi fondamenti politici: l’esito di una razionalità
propria del modello moderno di Stato-Nazione, modellato sulla necessità di
creare comunità omogenee, definendo con precise tassonomie chi appartiene alla
comunità e chi ne è estraneo, chi ha diritto di cittadinanza e chi va
eliminato[13].
In tal senso, le solennità pubbliche, nel loro necessario e commosso commemorare
le vittime, faticano a trasformare quella memoria in una critica sistematica dei
meccanismi di affermazione del potere dello Stato moderno e delle sue diverse
forme assunte nello sviluppo storico.
Il vero e più radicale monito della Shoah non sta dunque solo nel ricordare che
l’uomo è capace di immense atrocità, ma nell’indicare come le strutture stesse
dello Stato moderno, la sua capacità di classificare, controllare e amministrare
la vita, affondino le radici in una storia più lunga di dominio. Questa storia è
inseparabile dalle origini coloniali della modernità stessa[14].
Possiamo qui affiancare una riflessione di Mahmood Mamdani, sul quale tornerò,
che afferma che l’uso del paradigma criminale nell’interpretazione delle azioni
genocide distrugge ogni possibilità di comprenderne le ragioni politiche, poiché
sposta tutta l’attenzione sul piano morale[15].
Mamdani afferma ad esempio che la giustizia di transizione di Norimberga “ha
effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della
violenza nazista a uomini particolari (per lo più uomini) e ignorando il fatto
che questi uomini fossero impegnati in un progetto della modernità politica per
conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.” E aggiunge che “Gli alleati che
perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le
radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle
americane.”[16] E si tratta di radici coloniali.
3. LO SGUARDO COLONIALE: LE RADICI DEL PROCESSO DI SEGREGAZIONE E ANNIENTAMENTO
Per comprendere la radicale provocazione di Mamdani – che individua le “radici
americane” del nazismo nel retroterra coloniale – è necessario partire
dall’assunto che l’inizio del Novecento, il secolo dei genocidi, coincide
esattamente con le battute finali di quello che può essere considerato, per
scala e sistematicità, il più riuscito processo di sterminio della storia
moderna: quello delle popolazioni native del Nord America, che, secondo le stime
più recenti, ha causato la scomparsa di oltre il 95% della sua popolazione
originaria[17].
La conquista del West e il sistema delle riserve indiane fornirono un repertorio
di modelli e un precedente giuridico di profonda ispirazione per il regime
nazista. James Q. Whitman ha raccontato come i giuristi nazisti studiarono
attentamente le leggi statunitensi che privavano i nativi americani della piena
cittadinanza, vedendo negli USA un laboratorio di legislazione razziale[18]. Lo
stesso progetto di conquista del ‘Lebensraum‘, che individuava nelle terre a est
della Germania lo spazio ‘vitale’, è stato posto in relazione, negli studi di
Carrol P. Kakel, con l’ideologia americana dell’espansione verso il West[19].
Le riserve indiane non rappresentarono dunque una forma di tutela delle
popolazioni native, ma piuttosto la conclusione logica di una politica di
eliminazione. Esse furono lo strumento per completare lo sterminio attraverso
mezzi amministrativi, confinando i nativi sopravvissuti in “patrie tribali”[20]
prive di sovranità reale, dove potevano essere gestiti come soggetti
non-cittadini. Questo sistema di governance indiretta, basato sulla definizione
giuridica dell’identità etnica – come ad esempio le blood quantum laws[21] – e
sulla segregazione territoriale forzata, costituì un formidabile prototipo delle
successive politiche di ingegneria demografica proprie del regime nazista[22].
Il cosiddetto Generalplan Ost, che consisteva nell’ipotesi di creare riserve per
le popolazioni slave nei territori occupati dell’est e l’istituzione dei ghetti
ebraici come aree di segregazione temporanea prima della risoluzione definitiva
del “problema ebraico”[23], dimostra la traslazione di questo modello
dall’esperienza coloniale nordamericana al cuore dell’Europa.
La decolonizzazione dello sguardo ci impone tuttavia di comprendere – ci
ammonisce Mahmood Mamdani – come la stessa dicotomia tra “nativi” e “coloni” sia
in fondo uno schema tossico e semplificatorio di cui è difficilissimo liberarsi,
perché riproduce la logica identitaria alla base del conflitto stesso. Il caso
della Germania è, da questo punto di vista, illuminante: la stessa popolazione
tedesca, il cui governo nazista aveva perpetrato il genocidio contro gli ebrei e
la riduzione delle popolazioni slave alla condizione di non-cittadini, in nome
di una purezza etnica, fu a sua volta vittima, dopo la Seconda guerra mondiale,
di massicci trasferimenti forzati. Milioni di cittadini tedeschi di quella che
erano stati i confini della Germania tra le due guerre insieme ad altri milioni
di Volksdeutschen – i cosiddetti “tedeschi etnici” – furono espulsi dalle
regioni dell’Europa orientale e centrale, sulla base di una fortissima spinta
nazionalista che emergeva da quelle stesse popolazioni che i nazisti avevano
sottomesso[24]. Questi trasferimenti furono attuati sulla base di principi
ispiratori – l’idea che uno Stato debba essere etnicamente omogeneo e che le
minoranze “straniere” siano un corpo estraneo da rimuovere – che erano in piena
continuità con il nazionalismo radicale del quale il nazismo stesso era stato
l’espressione più feroce. Questa tragica ironia della storia dimostra come il
dispositivo del genocidio e del trasferimento forzato sia una tecnologia
politica sempre disponibile, un’opzione che può essere adottata e subita.
Le drammatiche vicende che riguardano il controllo, l’amministrazione e il
possesso delle “terre di cerniera” tra l’Europa centrale e l’Europa orientale
non sono scollegate da una riflessione che interroga la possibilità di applicare
la categoria interpretativa del “colonialismo di insediamento”.
Peter Wolfe ci dice che il settler colonialism non è un evento, ma una
struttura[25]. Il suo motore primario non è banalmente lo sfruttamento della
manodopera delle terre occupate, come in altre forme coloniali, ma la garanzia
di impadronirsi della terra. L’obiettivo è quindi l’eliminazione degli abitanti
di un territorio, non in quanto individui in astratto, ma in quanto ostacolo
fisico e giuridico al possesso della terra.
Questa struttura è, fin dal suo sorgere, intrinsecamente militarizzata. La
violenza non è un effetto collaterale, ma il metodo costitutivo per prendere
possesso della terra e proteggere l’insediamento coloniale. La figura del
‘colono’ è dunque inscindibile da quella del ‘soldato’, e la frontiera è uno
spazio di guerra permanente. Questa matrice militarista segna indelebilmente le
forme di governo che da essa derivano[26].
L’eliminazione, come già accennato, può assumere diverse forme: lo sterminio
fisico diretto, l’assimilazione forzata che distrugge l’identità collettiva, o
la rimozione e il confinamento in territori marginali. In questa prospettiva, il
genocidio non è un incidente di percorso, ma una caratteristica intrinseca, un
esito sempre possibile, logico e ricorrente del progetto coloniale di
insediamento.
È questa struttura a fornire la grammatica fondamentale per leggere, in una
chiave non eccezionalista, anche il progetto nazista. L’idea del Lebensraum – e
in particolare la sua declinazione nazista[27] – non sarebbe così un’invenzione
originale del nazionalsocialismo, ma la riproposizione in suolo europeo di un
mito coloniale ben consolidato. Il mito tedesco dello spazio vitale ad Est
riprenderebbe, da un lato, il “Destino Manifesto” statunitense, cioè la
convinzione che un popolo superiore abbia un diritto divino o storico di
espandersi a discapito di popoli ritenuti inferiori[28]. Dall’altro,
applicherebbe ai territori dell’Europa orientale lo stesso “sguardo coloniale”
che le potenze europee avevano riservato all’Africa, all’Australia o alle
Americhe: le terre slave diventano, nell’immaginario nazista, “vuote” o abitate
da popoli “subumani” (Untermenschen) indegni di possederle e, quindi, destinate
a essere colonizzate dal Volk tedesco. Il colonialismo fornisce così il
vocabolario, l’immaginario e la giustificazione per un progetto di conquista e
ripopolamento che si sarebbe svolto non in un lontano “altrove”, ma nel cuore
stesso dell’Europa.
4. IL LABORATORIO AFRICANO: IL GENOCIDIO DEGLI HERERO E DEI NAMA
Se il modello nordamericano delle riserve e la sua logica eliminatoria fornirono
un potente riferimento ideologico e giuridico, fu indubbiamente nell’Africa
Tedesca del Sud-Ovest (l’odierna Namibia) che la macchina statale di una potenza
europea moderna sperimentò per la prima volta, in forma compiuta, lo sterminio
sistematico di interi popoli. Secondo quanto ricostruito dallo storico Jürgen
Zimmerer il genocidio degli Herero e dei Nama (1904-1908) non fu un semplice
episodio di crudeltà coloniale particolarmente feroce, ma un vero e proprio
laboratorio dove si testarono, in un contesto di impunità quasi assoluta, le
tecniche politiche e burocratiche che sarebbero confluite, pochi decenni dopo,
nel cuore del progetto nazista[29].
Si tratta di una tragedia umana che nei libri di testo scolastici trova
generalmente poco spazio, ma anche quando è citata, raramente la si colloca in
un’ottica interpretativa di più lungo periodo, restando relegata in un discorso
che affronta più o meno sommariamente le pratiche più violente del colonialismo.
Andrebbe sempre precisato il contesto in cui ebbe luogo lo sterminio praticato
dai colonizzatori tedeschi in Africa sud-occidentale. Sin dall’inizio della
colonizzazione gli Herero e i Nama, la cui prosperità economica si basava sul
possesso delle migliori terre agricole e pascolative di una regione per il resto
desertica e poco fertile, erano stati indotti a indebitarsi con i colonizzatori
per acquistare prodotti finiti e beni voluttuari tedeschi: a garanzia dei debiti
erano state poste gravose ipoteche sulle terre. La trappola del debito scattò a
seguito di una congiuntura particolarmente negativa a inizio secolo, quando la
peste bovina decimò le mandrie e i raccolti furono molto modesti: i creditori
tedeschi, supportati dalla forza militare, cominciarono a espropriare le terre
degli Herero e dei Nama e a pignorare anche il bestiame sopravvissuto. La
sottrazione del bestiame dà il via alla rivolta degli Herero, che dopo qualche
incursione messa a segno negli insediamenti coloniali, sono sconfitti prima in
campo aperto e poi incalzati dal generale Lothar von Trotha, inviato
appositamente in Africa per “eliminare” il problema.
Come ha ricostruito la storica Isabel V. Hull, a partire dal tristemente celebre
ordine di sterminio (Vernichtungs Befehl) dell’ottobre 1904 che impose alle
truppe la fucilazione di ogni Herero catturato dentro i confini della colonia,
la repressione si trasformo in un preciso piano di sterminio. La caccia all’uomo
spinse i sopravvissuti nel deserto dell’Omaheke, dove le truppe tedesche
avvelenarono i pozzi d’acqua, trasformando l’ambiente stesso in un’arma di
annientamento di massa. Quando anche i Nama si ribellarono a loro volta,
subirono un destino analogo. Per coloro che non morirono di fame e di sete,
furono allestiti campi di concentramento, come quello tristemente noto di Shark
Island, il cui scopo principale era annientare i prigionieri, sottoponendoli a
lavoro forzato fino allo sfinimento[30].
Le numerose acquisizioni storiografiche odierne ci permettono di leggere questi
eventi non come un prologo distante, ma come un antefatto significativo e
diretto della Soluzione Finale[31]. In Namibia, la Germania imperiale sperimentò
per la prima volta la burocratizzazione dello sterminio, come un processo
amministrato, documentato e discusso nei circoli governativi di Berlino. Gli
Herero e i Nama furono da subito costruiti ideologicamente come un’alterità
radicale: queste popolazioni dell’Africa sudoccidentale erano Untermenschen,
subumani, esattamente come lo sarebbero poi stati slavi e ebrei, la cui
esistenza stessa era considerata un ostacolo biologico al progetto coloniale.
Non ultimo va sottolineato come i campi di concentramento in Namibia,
rappresentarono il prototipo di uno spazio eccezionale, al di fuori della legge
ordinaria, dove la vita umana era completamente spogliata di valore e ridotta a
mera risorsa da sfruttare fino all’annichilimento[32].
Il “laboratorio” africano dimostra con tragica chiarezza l’esistenza di un
continuum di violenza che pone in relazione l’esperienza coloniale con il regime
nazista e i suoi metodi.
Le tecniche di gestione della popolazione, le ideologie razziali e le strutture
dell’annientamento migrarono dalla periferia coloniale verso il centro,
dimostrando che il confine tra la violenza nel “mondo selvaggio” e la civiltà in
patria era molto più permeabile di quanto la narrazione autoassolutoria
dell’Occidente abbia, a lungo, voluto ammettere.
Che esista una linea di continuità tra l’epoca coloniale e il nazismo è una tesi
resa “classica” – ma mai fino in fondo recepita – già da Hannah Arendt, che
poneva in continuità l’apoteosi dell’imperialismo con le politiche europee che
avrebbero condotto ai fenomeni totalitari. Vale però la pena sottolineare che,
nella stessa epoca in cui Arendt scriveva Le origini del totalitarismo, il poeta
martinicano Aimé Césaire ci ammoniva – nel suo celebre Discorso sul colonialismo
– riguardo al fatto che il nazismo, dopotutto, altro non fosse che uno choc di
ritorno per gli europei che, tramite il nazismo, avevano visto applicati su se
stessi i metodi coloniali[33].
5. LA SHOAH ATTRAVERSO LA LENTE COLONIALE
Alla luce della matrice coloniale, la storiografia più recente ha cominciato a
interrogare la Shoah con domande radicalmente nuove. Il classico – e ormai
sterile – dibattito tra intenzionalisti e funzionalisti, che per decenni ha
diviso gli studiosi chiedendosi se lo sterminio fosse un piano preciso e
deliberato fin dall’inizio o il frutto di una radicalizzazione progressiva del
sistema nazista, appare oggi come una disputa che, nel concentrarsi sul quando e
sul come, ha finito per eludere la questione più profonda del perché. Perché un
progetto di risistemazione demografica dell’Europa su base razziale divenne
pensabile? Perché l’eliminazione fisica di interi popoli poté presentarsi come
una soluzione politica praticabile?
La risposta, per una corrente sempre più influente di storici, va cercata
proprio nella normalizzazione, nell’immaginario politico europeo della prima
metà del XX secolo, delle logiche e delle pratiche proprio del colonialismo. Lo
storico Dirk Moses, con la sua teoria del “paradigma della sicurezza
permanente”, sostiene che il nazionalsocialismo ereditò e portò all’estremo una
preoccupazione tipica degli stati-nazione moderni[34]: la paura dell’alterità
interna percepita come una minaccia esistenziale alla coesione del corpo
sociale. In questa logica, va colto lo slittamento concettuale tra il
tradizionale antigiudaismo, che diviene antisemitismo nel corso dell’Ottocento,
e l’intento eliminazionista del progetto nazista: gli ebrei d’Europa furono
costruiti e percepiti come una minaccia prima e poi come un “nemico demografico”
da eliminare, nel momento in cui l’espansione a est, a guerra in corso, sembrava
praticabile. Lo sterminio non fu quindi un piano elaborato astrattamente, ma una
risposta genocidaria a una percezione, non importa quanto infondata e
irrealistica, di minaccia demografica, una risposta le cui opzioni erano già
state esplorate e normalizzate nelle terre degli imperi coloniali[35].
Si comprende così il senso della provocatoria affermazione di Mahmood Mamdani
che abbiamo citato e in cui sostiene che Norimberga abbia “depoliticizzato il
nazismo”. In questo senso Mamdani denuncia come l’azione giudiziaria del
tribunale alleato abbia ridotto la questione a un processo nei confronti di
criminali, occultando il fatto che il progetto nazista non era un’anomalia
metafisica, ma l’applicazione in suolo europeo di un modello di Stato-nazione
etnicamente omogeneo, la cui realizzazione più compiuta i colonialisti avevano
cercato – attraverso lo sterminio e i trasferimenti forzati – in altri
continenti. Le “radici americane” del nazismo di cui parla Mamdani non sono
certo un’analogia letterale, ma l’individuazione di una grammatica politica
comune: la convinzione che la sovranità di un popolo si realizzi attraverso
l’eliminazione dell’altro da un territorio desiderato o la sua riduzione in una
condizione di totale subalternità.
In questa prospettiva, la specificità della Shoah – il suo carattere
industriale, burocratico e il suo focus su un gruppo definito per discendenza –
non scompare, ma viene riposizionata in un quadro interpretativo più ampio. Essa
non è più l’evento unico e incomparabile della narrazione eccezionalista, ma
rappresenta piuttosto la sintesi più radicale e tecnologicamente avanzata delle
diverse forme di eliminazione proprie del colonialismo di insediamento. È il
punto in cui il modello della riserva (fondata sulla segregazione e
separazione), il modello del trasferimento forzato (che ha come fine
l’espulsione) e il modello del genocidio (che mira all’annientamento fisico)
convergono e vengono portati a compimento in un unico, tragico processo, reso
possibile dalla tecnologia e dalla burocrazia dello Stato moderno. La Soluzione
Finale fu, in ultima analisi, la “questione ebraica” risolta con gli strumenti e
l’immaginario della “questione coloniale”.
Una chiave di lettura particolarmente efficace ce la fornisce la proposta di
Enzo Traverso[36]. Nel suo La violenza nazista. Una genealogia, Traverso parla
di una “grammatica della violenza” condivisa, di un repertorio di pratiche e un
immaginario che circolano tra la periferia coloniale e il centro europeo. La
Shoah non sarebbe dunque comprensibile né come una semplice “copia” dei genocidi
coloniali, né come un evento totalmente avulso da essi. Piuttosto, essa
rappresenta il momento in cui quella grammatica – fatta di campi,
classificazioni razziali, burocrazia dello sterminio e sguardo eliminatorio –
viene riassemblata e applicata, con una ferocia e una sistematicità senza
precedenti, a un nemico interno al cuore dell’Occidente. Questa genealogia non
relativizza la specificità della Shoah, ma ne storicizza le condizioni di
possibilità, mostrando come il suo orrore unico sia stato reso pensabile da un
linguaggio della distruzione a lungo elaborato altrove.
6. IL PARADIGMA POST-COLONIALE: DALL’APARTHEID AL GENOCIDIO
Se il progetto nazista rappresentò l’apice e il crollo di un’applicazione in
Europa del modello eliminatorio, il secondo Novecento vide la piena fioritura,
l’adattamento e la tragica eredità di questo paradigma nei territori
ex-coloniali. Qui, le categorie razziali inventate dall’amministrazione
coloniale non scomparvero con l’indipendenza, ma si irrigidirono, divenendo il
linguaggio stesso del potere e del conflitto politico nel mondo post-coloniale.
L’esempio più sistematico e legalizzato è senza dubbio il regime di apartheid
sviluppatosi in Sudafrica. I Bantustan, le “patrie tribali” assegnate ai neri,
rappresentano l’evoluzione più compiuta e cinica del modello della riserva
indiana – e furono pensati in totale continuità con essa, dal momento che
l’edificazione del sistema dell’apartheid, a inizio Novecento, è del tutto
parallelo alla risoluzione del “problema indiano” negli Stati Uniti[37].
I Bantustan non furono semplici luoghi di segregazione, ma il perno di un
ingegnoso progetto di ingegneria demografica e giuridica. Privando milioni di
sudafricani neri della cittadinanza nazionale e confinandoli in entità statuali
fittizie e economicamente non vitali, il governo bianco poté simultaneamente
sfruttarne la manodopera come “migranti interni” e negare ogni loro diritto
politico all’interno dello Stato sudafricano propriamente detto. È
l’applicazione su scala industriale del principio in base al quale la “nazione”
si definisce attraverso l’esclusione di chi è classificato come non-appartenente
ad essa. Un principio che vediamo riaffermato anche oggi attraverso una ripresa
tossica del concetto di “nazione” nel discorso pubblico[38].
Un caso evidente di queste dinamiche – e che ci rimanda a vicende di tragica
attualità – è quello relativo alle vicende del Sudan. In quest’area dell’Africa
il dominio coloniale britannico – o meglio il “condominio” anglo-egiziano –
applicò metodicamente la versione moderna del divide et impera, quella fondata,
secondo la proposta interpretativa di Mamdani, su “classifica” e “comanda”[39].
Gli amministratori coloniali non si limitarono a sfruttare tensioni preesistenti
tra gruppi di popolazione, ma costruirono ex novo identità razziali rigide,
amministrando separatamente un “nord” arabo-musulmano e un “sud” nero e
animista-cristiano, istituendo persino delle leggi che impedivano agli abitanti
di una regione di viaggiare al sud senza permesso, e viceversa. Questa
segregazione istituzionalizzata cristallizzò differenze e creò gerarchie
razziali laddove in precedenza esistevano relazioni più fluide tra le
appartenenze, trasformando così le categorie amministrative coloniali in linee
di faglia identitaria insanabili. I semi avvelenati di questa politica
germogliarono in decenni di guerre civili e nel successivo genocidio nel Darfur,
dove il governo di Khartoum ha riprodotto lo schema coloniale mobilitando
milizie janjaweed – composte da miliziani a cavallo appartenenti a gruppo di
popolazione di religione islamica e di origine nomadica -contro le popolazioni
nere definite, appunto, come “straniere” e “subalterne”[40].
Tuttavia, è il genocidio dei Tutsi in Rwanda nel 1994 a rappresentare l’esito
più brutale e letale di questo processo di etnicizzazione coloniale. I belgi,
ereditando e irrigidendo le distinzioni preesistenti, trasformarono le categorie
sociali fluide di Hutu e Tutsi in razze biologiche e immutabili, fissando questa
dicotomia persino sui documenti di identità. Crearono una gerarchia artificiale,
favorendo i Tutsi come élite dominante – intesi come “razza hamitica” e quindi
ritenuta superiore – durante il periodo coloniale, per poi, in prossimità
dell’indipendenza, compiere un brusco voltafaccia e appoggiare la maggioranza
Hutu, fomentandone strategicamente il risentimento contro l’élite tutsi che i
colonizzatori stessi avevano creato. Questo cinico capovolgimento delle alleanze
trasformò una distinzione socio-professionale in una bomba etnica a orologeria.
La “razza” divenne così il codice primario della cittadinanza e del conflitto
politico. Il genocidio del 1994, pianificato e portato a termine con macabra
efficienza dal progetto nazionalista hutu della milizia-partito Interahamwe, fu
l’atto finale di questo copione coloniale: il tentativo di creare uno Stato
etnicamente “puro” (hutu) attraverso lo sterminio fisico del “nemico interno”
tutsi, costruito per decenni come un corpo estraneo e pericoloso per la nazione.
Come ha sottolineato Mahmood Mamdani, in Rwanda si passò dalla definizione del
“nativo” (soggetto a leggi speciali) alla definizione del “cittadino”, ma un
cittadino la cui appartenenza era ormai irrevocabilmente marchiata da
un’identità totalmente etnicizzata e razzializzata[41]. Il genocidio fu, in
questo senso, una “soluzione finale” per risolvere la questione dell’identità
nazionale ereditata dal colonialismo.
I casi sudanese e rwandese dimostrano, con tragica evidenza, che lo “sguardo
coloniale” non appartiene a un’epoca ormai superata, ma esso è un dispositivo
logico e politico di lunga durata. Le sue categorie, una volta interiorizzate,
continuano a strutturare i conflitti, a definire l’appartenenza e a fornire, nei
momenti di crisi più acuta, il vocabolario stesso dello sterminio.
7. IL CASO PARADIGMATICO DEL PRESENTE: LA PALESTINA
La vicenda della Palestina rappresenta l’esempio contemporaneo più chiaro e
discusso di un processo di colonialismo d’insediamento ancora in corso. In esso,
tutte le logiche analizzate – lo sguardo coloniale, l’eliminazione dell’altro
come struttura di pratica politica, l’esercizio di forme di ingegneria
demografica e la creazione di forme di cittadinanza subalterna – sono
osservabili in tempo reale, offrendo una lente drammaticamente attuale per
comprendere la continuità di queste dinamiche.
La logica eliminatoria descritta da Patrick Wolfe nelle sue riflessioni sul
settler colonialism trova qui una piena applicazione. Il progetto politico
sionista, nella sua componente egemonica e statuale, è stato storicamente mosso
da un obiettivo primario: l’accesso alla terra e la costruzione di una sovranità
nazionale ebraica in un territorio già abitato, ma reinventato come privo di
popolazione, sulla base dello slogan propagandistico “un popolo senza terra, per
una terra senza popolo”[42].
Ciò ha richiesto, fin dall’inizio, una serie di strategie volte all’eliminazione
della società nativa palestinese. Questa eliminazione non si è espressa
unicamente attraverso lo sterminio fisico, ma attraverso un ventaglio di
tecniche: la sostituzione demografica attraverso l’immigrazione organizzata,
l’espropriazione territoriale sistematica – iniziata con la Nakba del 1948 e
proseguita con le leggi sulla proprietà degli assenti -, l’occupazione militare
da parte dell’esercito israeliano dei territori formalmente sotto sovranità
palestinese e, infine, l’assimilazione culturale forzata del territorio, che si
esprime con la cancellazione dei toponimi arabi e con la distruzione delle
vestigia della presenza araba precedente la nascita di Israele[43].
Ancora una volta la riflessione di Mahmood Mamdani sul governo coloniale che è
fondato sull’identità permette di comprendere a pieno la situazione dei
palestinesi rimasti all’interno dei confini israeliani del 1948[44]. Essi furono
inizialmente sottoposti a un governo militare e, pur ottenendo in seguito una
formale cittadinanza israeliana, rimangono di fatto cittadini subalterni, una
minoranza interna la cui lealtà è permanentemente posta in condizione di
sospetto e i cui diritti sono spesso subordinati alla loro non appartenenza
all’identità ebraica dello Stato. Questo status riecheggia la condizione dei
nativi confinati nelle riserve o dei sudafricani neri nei Bantustan: fisicamente
presenti, ma politicamente segregati e giuridicamente marginalizzati.
Infine, all’interno dei territori della Cisgiordania e di Gaza la situazione
rappresenta l’evoluzione più contemporanea del modello coloniale. La popolazione
palestinese non è stata (ancora) fisicamente sterminata in massa, ma è stata
sottoposta a un processo di confinamento frammentato in enclavi non contigue. La
Cisgiordania è ormai ridotta a un arcipelago di micro-cantoni separati gli uni
dagli altri da check-point o da insediamenti di coloni israeliani. Un bilancio
reale della distruzione sistematica operata a Gaza potrà essere compiuto solo
nel prossimo futuro.
Ciò che è possibile affermare è che il sistema messo in atto dai governi
israeliani, sostenuto da un apparato legale e militare e da una condizione di
occupazione militare permanente, ha reso nei fatti impossibile l’esistenza di
una unità politica e sociale palestinese e ha impedito lo sviluppo di
un’economia vitale. Di fatto è stata preclusa la possibilità di
un’autodeterminazione vera.
Nel caso di Israele vediamo in azione il circolo vizioso per eccellenza: la
logica securitaria e militare giustifica l’occupazione, che a sua volta genera
resistenza, che viene poi usata per giustificare una militarizzazione ancora più
spinta e una repressione più violenta. La violenza strutturale del colonialismo
e la violenza diretta dell’occupazione militare si alimentano così a vicenda.
È una forma di eliminazione che agisce attraverso l’erosione delle basi
materiali per la sopravvivenza collettiva, una “pulizia etnica” lenta ma
insesorabile, che normalizza l’apartheid spaziale.
Il caso palestinese, dunque, non è un’analogia storica forzata, ma l’ultimo
anello – per ora – di una catena logica e storica. Esso ci impone di usare gli
strumenti della critica postcoloniale non per archiviare il passato, ma per
decifrare un presente in cui lo Stato-nazione, nella sua ricerca di omogeneità
etnica, continua a produrre forme di esclusione, segregazione e eliminazione. Ci
obbliga a chiederci, oggi, dove e come si stia scrivendo la prossima pagina di
questa storia.
CONCLUSIONI. PER UNA DIDATTICA DELLA STORIA COME CRITICA DEL PRESENTE
Questa ricognizione – senza pretesa di esaustività – attraverso alcune politiche
dalle intenzioni genocidarie nel corso del ‘900 non ha avuto l’ambizione di
stabilire equivalenze morali, ma di tracciare connessioni storiche e
strutturali. Si giunge a una conclusione scomoda ma necessaria: il genocidio non
è il ritorno di una barbarie arcaica, ma un potenziale insito nella modernità
politica stessa, nel suo cuore oscuro che batte all’incrocio tra Stato-nazione,
monopolio assoluto della sovranità e progetto coloniale.
La didattica della storia non può più permettersi di insegnare gli eventi
genocidari come mostruose eccezioni a un ordine altrimenti fondato sui diritti
umani, consegnando i fatti storici a una commemorazione sacralizzata che, pur
nel suo valore civile, ne depotenzia la carica politica. Al contrario, la
didattica deve farsi decoloniale in senso proprio – il che non significa
inseguire mode del momento. Si tratta di smontare gli “sguardi coloniali” che
permangono nei nostri manuali e nel senso comune, sulla base di un aggiornamento
dei paradigmi storiografici.
Compito della ricerca didattica è mostrare come la linea che unisce le riserve
indiane, i campi namibiani, i ghetti nazisti, i Bantustan sudafricani, le
colline del Rwanda e le enclavi palestinesi non è una forzatura, ma la traccia
di un unico, profondo filo rosso: la logica dell’eliminazione dell’Altro per
fare posto a una comunità immaginata come pura e pacificata.
Alla luce di questa consapevolezza, il vero monito della storia per il nostro
presente non è solo annunciare “mai più“. È anche, e forse soprattutto,
suggerire alle nuove generazioni: “guardatevi intorno e riconoscetevi
nell’altro“. In un’epoca di retorica identitaria e di corsa al riarmo, di crisi
migratorie e di ridefinizione violenta dei confini, le strutture mentali e
politiche che abbiamo analizzato sono più vive che mai.
Smontare la retorica della sicurezza nazionale, che legittima la
militarizzazione e l’esclusione, diventa un compito pedagogico urgente.
Insegnare questa storia, allora, significa anche decostruire il mito dello Stato
che, per proteggerci, deve sempre identificare un nemico e armarsi fino ai
denti, mostrando come questo stesso meccanismo sia all’origine dei più grandi
disastri del secolo scorso.
Insegnare la storia, allora, cessa di essere esercizio di erudizione, ma diventa
un atto di critica del presente. Significa dotare le nuove generazioni di
strumenti per riconoscere, smascherare e contrastare, nell’oggi, quelle stesse
logiche di esclusione che producono la catastrofe. Solo una didattica
coraggiosa, che percorre strade scomode, può diventare strumento di comprensione
e di trasformazione del mondo.
MARCO MEOTTO È DOCENTE DI FILOSOFIA E STORIA E ATTIVISTA DI ASSEMBLEA
SCUOLATORINO
NOTE
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[1] Si vedano: Weitz, E. D. (2003), A century of genocide: Utopias of race and
nation, Princeton University Press; Bruneteau, B. (2006), Il secolo dei
genocidi, Bologna, Il Mulino. (ed. or. 2004)
[2] Una buona rassegna degli sviluppi didattici legati alla storia della Shoah è
presentata in: Olivieri, N., Nencioni, C., Mastretta, E., (2020), Formarsi sulla
didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, in Novecento.org, n. 13
febbraio 2020. Si veda anche Traverso, E., (1995) (a cura di), Insegnare
Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e
dello sterminio, Torino, Bollati Boringhieri. La riflessione sulla
“sacralizzazione” della Shoah è trattata anche in Pisanty V., (2012), Abusi di
memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano.
[3] Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 1. The
meaning of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2005), Genocide in the
age of the nation state. Vol. 2. The rise of the West and the coming of
genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2013), Devastation: Volume I: The
European Rimlands 1912–1938. Oxford University Press; Levene, M., Annihilation:
Volume II: The European Rimlands 1939–1953. Oxford University Press
[4] Esiste tuttavia una storiografia che, pur riconoscendo una centralità alle
forme di genocidio che si sviluppano nell’ambito dello Stato-Nazione, ne
sottolinea il carattere di ricorrenza del fenomeno genocidario anche in epoche
precedenti. Si veda al proposito Naimark, N.M., (2016), Genocide. A World
History, Oxford University Press
[5] Sulla vicenda dei Circassi: R. Walter, (2013), The Circassian Genocide.
Genocide, Political Violence, Human Rights, Rutgers University Press. Sulle
politiche staliniane nei confronti di “tedeschi del Volga” si veda: Iashchenko,
I., & Carteny, A. (2024). ‘Is it Genocide or not?’ Some Considerations about the
Ethnic Cleansing and Punishment System in Soviet Union (1930s-1950s). Nuovi
Autoritarismi E Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società (NAD-DIS), 6(2)
[6] Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna, Il
Mulino (ed. or. 1989).
[7] Dopotutto si tratta della tesi di fondo che anima la riflessione di Adorno e
Horkheimer nel loro più celebre lavoro: Adorno, T.W., Horkheimer (1966),
Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, (ed. or. 1947)
[8] Riflessioni importanti sull’argomento possono prendere le mosse da: Novick,
P. (1999), The Holocaust in American life. Houghton Mifflin; Finkelstein, N. G.
(2000), The Holocaust industry: Reflections on the exploitation of Jewish
suffering, Verso; Pisanty, V. (2021), I guardiani della memoria e il ritorno
delle destre xenofobe, Bompiani.
[9] Interessante è la riflessione di David Bidussa che invita a pensare alla
Shoah in termini storici e non semplicemente morali. Bidussa, D., (2009), Dopo
l’ultimo testimone, Einaudi, Torino
[10] Mi ha aiutato a sviluppare la riflessione sul senso della memoria della
Shoah in relazione ai processi di decolonizzazione il saggio di Rothberg, M.
(2009), Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of
Decolonization, Stanford University Press
[11] Nicolas Patin (2022), «The massacre of the Herero and Nama: A colonial
laboratory for genocide?», Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe
[online], ISSN 2677-6588, https://ehne.fr/fr/node/21449 published on 18/02/22 ,
consulted on 31/10/2025
[12] Sul disinvolto modo con cui si producono storie comparative tra la Shoah e
altre tragedie del Novecento sono preziosi alcuni lavori di Focardi: F.
Focardi, B. Greppo (a cura di), (2013), L’Europa e le sue memorie. Politiche e
culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma; F. Focardi (2020), Nel cantiere
della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma
[13] È la tesi che si incontra nelle riflessioni di Foucault e in particolare in
Foucault, M. (1998), Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France
(1975-1976), Feltrinelli, Milano. Più recentemente le riflessioni antropologiche
di James C. Scott, centrate sull’analisi di contesti non europei (in particolar
modo il sud-est asiatico) stimolano una riflessione in base alla quale è la
forma statale in quanto tale a portare con sé la possibilità dell’annientamento
genocida: si veda Scott, J.C., (2020), L’arte di non essere governati. Una
storia anarchica degli altopiani del Sud-Est asiatico, Einaudi, Torino.
[14] Di grande rilievo sono le riflessioni che accompagnano ad esempio la
recente svolta storiografica che sottolinea la centralità delle vicende africane
(e del rapporto europeo con l’Africa) nella nascita della modernità: il titolo
originale del saggio di Howard W. French – Born in blackness – rende sicuramente
meglio l’idea di quanto faccia la traduzione italiana. Vedi French H.W., (2023),
L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, Rizzoli, Milano
(ed. or. 2021)
[15] Peraltro lo slittamento semantico dal piano politico al piano coloniale non
tiene conto di come la stessa origine dei “diritti umani” debba essere
riconsiderata alla luce di riflessioni decoloniali. Si veda il recente
Zaffaroni. E.R., (2025), Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti
umani dal 1492 ad oggi, Laterza, Bari). Un altro stimolante spunto tiene conto
di acquisizioni storico-antropologiche: devo moltissimo alle illuminanti
riflessioni del compianto David Graeber e di David Wengrow sull’origine
“irochese” della riflessione moderna e illuminista sulla condizione umana. Vedi
Graeber, D., Wengrow, D., (2021), L’alba di tutto. Una nuova storia
dell’umanità, Rizzoli, Milano
[16] Mamdani, M. (2023), Né coloni, né nativi. Lo Stato-Nazione e le sue
minoranze permanenti, Meltemi, Milano, pp. 26
[17] I dati sono quelli di Stannard, D.E. (2001), Olocausto americano. La
conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri (ed. or. 1993)
[18] Whitman, J. (2017), Hitler’s American Model: The United States and the
Making of Nazi Race Law, Princeton University Press
[19] Kakel C.P., (2011) The American West and the Nazi East: A Comparative and
Interpretive Perspective, Palgrave; Kakel C.P. (2013), The Holocaust as Colonial
Genocide: Hitler’s ‘Indian Wars’ in the ‘Wild East’, Palgrave
[20] Leake E., (2024), “The Construction of ‘Tribe’ as a Socio-Political Unit in
Global History” in The Historical Journal. 2024;67(4), pp. 826-849.
doi:10.1017/S0018246X24000323
[21] Ancora attualmente circa il 70% delle riserve indiane riconosciute dal
governo federale degli Stati Uniti assegna la cittadinanza alla “naziona” sulla
base di una legislazione fondata sulla “quantità di sangue indiano” posseduta.
Il Native Governative Center sostiene che sia un elemento di profonda
autodeterminazione lasciare alle nazioni indiane stesse l’ultima parola
sull’efficacia delle leggi basate sul sangue (si veda:
https://nativegov.org/resources/blood-quantum-and-sovereignty-a-guide/
consultato il 3 novembre 2025)
[22] Oltre al già citato Whitman, sul tema segnalo Miller, R.J., (2020), “Nazi
Germany’s Race Laws, the United States, and American Indians”, in St. John’s Law
Review, Volume 94, 2020, N. 3, pp. 751-817
[23] Una riflessione interessante sull’immaginario nazista e sulla prospettiva
di trasformare lo spazio vitale in una vasta regione di comunità di coloni la si
trova in Fernández de Betoño, U. (2020): «The Nazi anti-urban utopia:
‘Generalplan Ost’» in Mètode Science Studies Journal, vol. 10, pp. 165-171,
2020, Universitat de Valencia
[24] Questo imponente fenomeno (stimato nel movimento di un numero compreso tra
12 e 14 milioni di profughi) comportò almeno 500.000 vittime, in prevalenza tra
le fasce di popolazione più fragile, come anziani e bambini. Sul tema: Douglas,
R.M. (2012), Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second
World War, Yale University Press
[25] Wolfe, P., (2023). “Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione del
nativo”. In Il colonialismo di insediamento. Diritto, terra e sovranità, a cura
di Lorenzo Veracini e Micaela Frulli, Meltemi, Milano, pp. 53-86. In campo
accademico internazionale, le riflessioni sulle distinzioni tra il settler
colonialism e altre pratiche coloniali si sono andate sviluppando da almeno
cinquant’anni. Dal 2011 esiste la rivista internazionale Settler colonial
studies, edita da Taylor & Francis
[26] Sul caso sudafricano sono ricchi di spunti i saggi raccolti in un’opera
collettanea a cura di Miller, S.M., (2009), Soldiers and Settlers in Africa:
1850 – 1918, Koninklijke Brill, Leiden. In particolar modo il capitolo di John
Laband (“From Mercenaries to Military Settlers: The British-German Legion,
1854-1861”)
[27] Liulevicius, V.G., (2011), The German Myth of the East: 1800 to the
Present, Oxford University Press
[28] Sul tema del “Manifest Destiny” esistono ormai una storiografia e una
riflessione consolidata, tra cui segnalo: Slotkin, R. (1973), Regeneration
through Violence. The Mythology of American Frontier, 1600-1860, Wesleyan
University Press, Middletown, Connecticut; Horsman, R. (1981), Race and
manifest destiny: the origins of American racial anglo-saxonism, Harvard
University Press;
[29] Accanto a Zimmerer (2024, cit.), il filone della continuità tra il
genocidio namibiano e la successiva storia tedesca è esplorato anche da altri
studiosi. Si veda: Erichsen, C.W., Olusoga, D., (2010), The Kaiser’s Holocaust.
Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism, Londres, Faber
and Faber, 2010
[30] Hull, I.V., (2005), Absolute Destruction: Military Culture and the
Practices of War in Imperial Germany, Cornell University Press, Ithaca and
London
[31] Zimmerer, J. (2024), From Windhoek to Auschwitz? Reflections on the
Relationship between Colonialism and National Socialism, DeGruyter Oldenbourg,
Berlin
[32] Erichsen, C. W. (2005). “The angel of death has descended violently among
them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. Leiden:
African Studies Centre. Retrieved from https://hdl.handle.net/1887/4646
[33] Césaire, A. (2005). Discours sur le colonialisme, Éditions Présence
Africaine, Paris, (ed. or. 1950), p. 88 (traduzione mia): “Sì, varrebbe la pena
studiare, clinicamente e in dettaglio, gli approcci di Hitler e dell’hitlerismo
e rivelare al borghese molto distinto, attento umanista, buon cristiano del XX
secolo che porta dentro di sé un Hitler inconsapevole, che Hitler dimora in lui,
che Hitler è il suo demone, che se lo denigra, è per mancanza di logica, e che,
in fondo, ciò che non può perdonare a Hitler non è il crimine in sé, il crimine
contro l’umanità, non è l’umiliazione dell’umanità stessa, è il crimine contro i
bianchi, è l’umiliazione dei bianchi, e per aver applicato all’Europa metodi
colonialisti che fino ad allora erano stati applicati solo agli arabi d’Algeria,
ai coolie dell’India e ai neri d’Africa.”
[34] Moses, A. D. (2021). The Problems of Genocide: Permanent Security and the
Language of Transgression. Cambridge University Press
[35] Moses (2021, cit.) sviluppa questo ragionamento in particolare nel capitolo
intitolato “The Nazi Empire as Illiberal Permanent Security” (pp. 277-331), in
cui sostiene che il progetto nazosta teneva insieme un immaginario
imperialistico e le pratiche proprie del colonialismo di insediamento.
[36] Traverso, E., (2002), La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino,
Bologna
[37] Il Land Act del 1913 – che fu il fondamento giuridico ed economico sulla
cui base si sarebbe poi sviluppato il sistema dell’apartheid – assegnava il 7%
del territorio sudafricano alle popolazioni native e la restante parte ai coloni
bianchi. È evidente l’analogia con quanto stesse accadendo quasi
contemporaneamente negli Stati Uniti con le leggi di creazione delle riserve
indiane. Si veda Worden, N., (2012), The Making of Modern South Africa:
Conquest, Apartheid, Democracy, Wiley-Blackwell, Chichester
[38] Si veda: Calvi, A., (2022), Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è
tornata di moda, in “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”,
Inverno 2022
[39] Mamdani, M., (2012), Define and Rule: Native as Political Identity. Harvard
University Press
[40] Sharkey, H. J. (2003), Living with Colonialism: Nationalism and Culture in
the Anglo-Egyptian Sudan. University of California Press
[41] Mamdani, M., (2001), When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism,
and the Genocide in Rwanda, princeton University Press
[42] Pappé, I., (2022), Dieci miti su Israele, Temu Edizioni, Napoli. In
particolare si vedano il primo e il secondo capitolo “Palestina, terra di
nessuno” e “Gli ebrei: un popolo senza terra”.
[43] Si veda il recentissimo Rashidi, K., (2025), Palestina. Cento anni di
colonialismo, guerra e resistenza, Laterza, Roma-Bari
[44] Mamdani, M. (2023), cit., pp. 294-370
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