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Il senso della festa al tempo della catastrofe
LE CELEBRAZIONI POPOLARI SONO UNA GUERRA DI CIVILTÀ O MOMENTI DI EMANCIPAZIONE COLLETTIVA? [JOSEPH CONFAVREUX] Dopo i festeggiamenti seguiti alla vittoria del PSG in Champions League il 1° giugno, il ministro dell’Interno Bruno Retailleau ha proclamato: “I barbari sono venuti nelle strade di Parigi per commettere crimini e provocare la polizia”. Tre settimane dopo, durante la Festa della Musica, l’eurodeputato del Rassemblement National (RN) ed ex capo del sindacato dei poliziotti Matthieu Valet ha denunciato la presenza nel centro di Parigi di “feccia”, “orde di teppisti” e “selvaggi che stanno trasformando la Francia in un inferno”. Ripensando a questi due eventi, l’antropologo Michel Agier ha appena dedicato un interessante articolo a un’annosa questione, esplorata anche in libri recenti: quali sono, se ci sono, le coordinate politiche delle feste? “La folla in festa è ‘barbara’?”, si chiede il ricercatore nel suo articolo. Cosa si “riversa” nella festa? Le feste di folle in movimento, il cui esempio è il carnevale da dieci secoli, creano uno spazio e un tempo di libertà e uguaglianza che segnano una pausa nel flusso della vita ordinaria con le sue disuguaglianze e dominazioni”. Ci sono infatti esempi di momenti di festa che risuonano con la politica, o addirittura la portano avanti. La marcia del Pride ha le sue origini nei disordini del Greenwich Village, iniziati con un’irruzione della polizia in un bar gay. Il 28 giugno, a Budapest, abbiamo visto come una marcia dell’orgoglio possa trasformarsi in un monumentale schiaffo politico al regime autoritario. In Georgia, nel 2018, a seguito di un’irruzione della polizia in un club clandestino, è stata organizzata una manifestazione davanti al Parlamento di Tbilisi con lo slogan “We Dance Together, We Fight Together”. E potremmo trovarne l’eco nel modo in cui, nel 1794, operai, artigiani e sans-culottes parigini arrabbiati con il governo e il prezzo del cibo decisero di organizzare banchetti conviviali piuttosto che manifestazioni, o nel modo in cui i gruppi carnevaleschi che ballavano al ritmo della gwoka hanno svolto un ruolo importante nella strutturazione del movimento di protesta contro l’alto costo della vita in Guadalupa. Ma sarebbe anche giusto sottolineare, come fa lo scrittore e critico d’arte Arnaud Idelon nel suo recente libro Boum Boum. Politiques du dancefloor (Éditions Divergences), che “il festival contemporaneo è circondato da un lato da tentativi di strumentalizzazione del potere e di celebrazione dell’identità nazionale (rinascita dei festival repubblicani, metropolizzazione dall’altro, da un processo cosmetico che annienta il potenziale critico della vita collettiva e la raccolta del suo potenziale sovversivo, operando così una depoliticizzazione della festa”. Al di là di questo, potremmo anche dire che la festa non tracima mai veramente, o addirittura permette all’ordine sociale di mantenersi lasciando sfuggire qualche valvola di pseudo-libertà. Come scrive ancora Idelon, “la sovversione del carnevale non è una sovversione. O una sovversione a metà, ambivalente e pericolosa. […] Il carnevale programma un ritorno all’ordine sociale attraverso la messa in scena temporanea della sua sospensione”. È quindi necessario, prosegue, avere chiara “l’ambivalenza della trasgressione all’opera nella maggior parte delle feste, mobilitate come camera di decompressione”. Se entriamo nei dettagli dei festival, che si definiscono soprattutto per la loro eterogeneità, possiamo comunque allontanarci da un’alternativa che vedrebbe ogni collettivo festivo come proto-politica, o ogni momento condiviso di danza come un nuovo stratagemma del capitalismo o del potere. È questo il senso della mostra “Disco. I’m Coming Out” alla Philharmonie de Paris che, contrariamente a certi luoghi comuni, dimostra che questa musica edonistica è ben lontana dalla superficialità o dalla commercialità a cui viene spesso ridotta.  Non solo ha avuto origine nella lotta, ma ha anche avuto la volontà di trasformare la festa stessa in uno spazio di lotta, con una dimensione minoritaria, progressista e trasgressiva che prefigura la cultura queer di oggi. Questo è anche ciò che l’opera collettiva di Vincent Chanson Techno & co. Chroniques de la scène dance électronique, recentemente pubblicata da Amsterdam. Senza negare la “cattura da parte dell’industria culturale”, la “privatizzazione degli spazi urbani da parte dell’industria del tempo libero” e il futuro di luoghi come Ibiza e Las Vegas, il libro si propone di esaminare i diversi status politici delle culture dance a diverse latitudini, per cogliere un fenomeno che resiste all”essere compreso “sotto il [solo] regime di inautenticità e alienazione commerciale”. Questa ambivalenza sulle feste disco e techno può valere anche per le feste organizzate dalle autorità? Arnaud Idelon osserva che “in Francia, un’analisi comparativa tra la cerimonia di apertura della Coppa del Mondo di rugby nell’autunno del 2023, durante la quale Jean Dujardin ha celebrato una Francia del terroir, delle tradizioni e della buona cucina, e la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, ha dimostrato che la Francia non è un’isola e la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici dell’estate 2024, con una Maria Antonietta decapitata e Philippe Katerine in veste di puffo blu nel bel mezzo di un banchetto burlesco, mostra chiaramente che se una funzione del festival è quella di celebrare le identità, le identità che celebra sono molteplici”. Nonostante le aberrazioni ecologiche e le ingiustizie territoriali e sociali che le Olimpiadi di Parigi hanno rivelato, va detto che i Giochi – e la cerimonia di apertura in particolare – sono stati un’occasione popolare e festosa che ha trasceso le linee politiche e istituzionali. Riprendendo quanto scritto dal filosofo Mathieu Potte-Bonneville in un precedente numero della rivista Vacarme: “Non dovremmo quindi preoccuparci troppo nel vedere l’istituzione che si mette al passo con tanti momenti di festa. La festa non è una questione di purezza, ma di inventiva, di movimento e di umorismo, e c’è un modo eccellente per individuare le feste che sono state prese dal gioco del potere: non sono più divertenti”. Se evitiamo l’opposizione manichea tra la politica e la festa, come tra la realtà e il suo doppio, possiamo trarre almeno due lezioni dalle recenti celebrazioni popolari, più o meno “straripanti”, come fa Michel Agier nel suo articolo. La prima, spiega, è che “volere la festa per il popolo, accettare l’idea che sia un momento sociale e politico che lascia spazio all’immaginazione e alla libertà di tutti, significa accettare di aprire un momento di disordine”. E che questo momento è possibile solo “al prezzo di una revisione dei modi in cui la festa è controllata e regolata. Non senza polizia, ma con una polizia più adatta ai movimenti della folla in festa, una folla da rispettare nel momento in cui le si permette di credere che “la strada appartiene al popolo”. La riduzione dei rischi, la prevenzione e il controllo fanno ovviamente parte della politica della festa, ma non dovrebbero essere di esclusiva competenza del Ministero dell’Interno. A questo proposito, anche se la misura è principalmente simbolica, è interessante che il Ministero della Cultura abbia appena creato un’etichetta “Club Culture” volta a sottolineare l’importanza culturale e sociale di alcuni “locali comunemente chiamati ‘discoteche, piste da ballo’”, per usare la terminologia ufficiale, e a far sì che non siano solo di competenza del Ministero dell’Interno, ma anche del Ministero della Cultura. Se la Fête de la musique di Parigi è sembrata davvero un incubo per i media di Bolloré, che hanno riferito solo di alcune finestre rotte a Châtelet dai cosiddetti “barbari”, è stato innanzitutto per la diversità linguistica ed etnica che si poteva vedere e sentire in una metropoli solitamente asettica e gentrificata. Ma anche perché la notte del 21 giugno ha dimostrato che è possibile riunire decine di migliaia di persone nelle strade in un’atmosfera che, checché ne dicano i fautori della politica di sicurezza ad oltranza di Place Beauvau o della RN, ci ha ricordato che è possibile garantire la sicurezza dei cittadini, anche in momenti favorevoli al disordine, senza riconoscimento facciale o molestie di polizia. Questo meccanismo che lega il popolo della festa e la gestione politica e poliziesca della stessa non è nuovo. Il giornalista e rivoluzionario Marat, descrivendo la Fête de la liberté del 15 aprile 1792, che si svolse sugli Champ-de-Mars a Parigi, scrisse: “In mezzo a una folla immensa, non un colpo di polso è stato dato, non uno spillo rubato, non una parola di abuso pronunciata. È vero che non un solo sorvegliante a cavallo, non un solo soldato a piedi, non un solo stipendiato che abbia cercato di creare disordine, con il pretesto di mettere fine a tutto. L’unione fraterna dei cittadini amici della libertà ha preso il posto di ogni freno e ha mostrato chiaramente la completa inutilità di questi mezzi repressivi, escogitati dalla polizia per soffocare ogni movimento popolare e tenere la nazione sotto il giogo”. L’altra lezione politica che si può trarre da certi raduni festivi contemporanei è, nelle parole di Michel Agier, che “il bisogno di festeggiare non è mai così forte come in tempi di crisi e di sconvolgimento, che accentuano le paure esistenziali (la paura di morire), sociali (la paura della società) e cosmiche (la paura del collasso). In un mondo che è così ‘traboccante’ ogni giorno, gli eccessi delle folle festose servono solo a tenergli uno specchio rovesciato”. e le notizie sugli smartphone che annunciavano gli attacchi degli Stati Uniti contro gli impianti nucleari iraniani hanno reso facile immaginare una sorta di fine del mondo, lasciandoci poca scelta se non quella di gioire insieme ancora per qualche ora… Senza arrivare a paragonare la necessità contemporanea di festeggiare con la “fête des Trompettes” che il Libro dell’Apocalisse, nella Bibbia, annuncia essere il preludio di una nuova era per l’umanità, possiamo quindi vedere nelle celebrazioni contemporanee un riflesso di ciò che è disfunzionale nelle nostre democrazie elettorali. Nel suo importante libro su “quelli che restano” nella sua regione d’origine, il sociologo Benoît Coquart dedica alcune pagine illuminanti alla scomparsa dei bals populaires, sia come sintomo che come veicolo del malessere delle piccole città deindustrializzate della Francia orientale. Su una scala diversa, potremmo anche pensare che in un triplice contesto di intensa repressione di momenti collettivi come le manifestazioni, di atomizzazione professionale e spaziale degli individui e di crescente sensazione che gli attuali regimi rimarranno incapaci di contrastare le catastrofi ecologiche e inegalitarie in corso, la forza condivisa di alcuni momenti di festa potrebbe costituire una dimensione politica, per quanto fragile, su cui costruire. The post Il senso della festa al tempo della catastrofe first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Il senso della festa al tempo della catastrofe sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega
VINCE – NON A SORPRESA – BAJANI CON L’ANNIVERSARIO, ROMANZETTO ESANGUE SUL PATRIARCATO CHE FU E LA FAMIGLIA CHE C’È. UN PREMIO SPECCHIO FEDELE DEL NULLA LETTERARIO INCAPACE DI RACCONTARE LA REALTÀ Ci risiamo. Anche st’estate è arrivato il premio Strega a sollazzare il bel mondo letterario, facendolo sobbollire un po’ nel catino di Villa Giulia. E pure st’anno nessuna sorpresa davanti allo scontato vincitore: Andrea Bajani, che s’è accosciato per gli scatti senza manco accennare allo stappo dell’ignobile bottiglione, come chiedevano a gran voce i paparazzi. Che a lui s’appioppasse la 79esima edizione del premio letterario più ambito dalle case editrici nostrane, quel che ne rimane, era cosa ovvia fin dalla serata di casa Bellonci, fin dal primo scrutinio dove lo scrittore romano, classe ‘75, ha subito staccato gli altri concorrenti della cinquina. Del resto il candidato Feltrinelli era oggettivamente il meno peggio del mazzo. Gli altri s’accodano ai suoi 194 voti: viavia Elisabetta Rasy, Perduto è questo mare (Rizzoli), con 133 voti; Nadia Terranova, Quello che so di te (Guanda), con 117 voti; Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo (Mondadori), con 103 voti; Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terra Rossa), con 99 voti. Vince Bajani con L’anniversario, dunque: esangue romanzetto – poco più di cento paginette – d’un figlio che tronca coi genitori e se ne compiace, allo scadere del decennio dove non s’è degnato manco d’una telefonata. La famiglia, che disgrazia. Il patriarcato, ancora e sempre il nemico pubblico numero uno – dopo l’autocrate di turno, s’intende – per certa intelligentsja che d’intelligenza ha solo l’eco in una stanza svuotata pure dai ricordi del tempo che fu. Ma tant’è, mazziare il maschio cattivo, padre padrone, fa sempre tendenza eppoi il pubblico dei lettori, quel che ne resta, ha nella stragrande maggioranza corpo di donna e progressista, la strizzata d’occhi è d’obbligo. Il palpeggiamento, guai. La famiglia, dunque. La più grande tragedia del mondo dai tempi della caduta d’Atlantide, eppure ancora non s’è trovato di meglio – di peggio – per sfiancare la quotidianità dell’umanità. Di famiglia parla pure l’ultimo arrivato, Ruol, anestesista prestato alla letteratura, con una lunga sequela d’oggetti che legano una coppia al ricordo dei figli morti, Maggiore e Minore, a cui è negato pure il nome, oltre la vita. Sempre tragedia, sia pure al contrario. E sempre di saghe famigliari s’interroga la Terranova. Il resto è esercizio parabiografico, bell’interno al mondo letterario: i ricordi di Napoli e della relazione con lo scrittore Raffaele La Capria per Rasy; le rimembranze del poeta Baldini per Nori. Resta, per tutti, l’impressione d’una scrittura minore per non dire minimalista: esangue, appunto. Se la letteratura è lo specchio d’una società e lo Strega è lo specchio della civiltà letteraria italiana, dei suoi gusti e dei suoi miti & riti da trasmettere al volgo, lo specchio rimanda fedele l’immagine di quel che è e di ciò che siamo. In un mondo al contrario, dove mille sarebbero i furori letterari coi quali discernere la contemporaneità, guerre e fole in cui vivacchiamo, ci si limita allo sbadiglio stanco, a rimasticare vecchie storie in cui manco più i protagonisti si ritrovano o credono. Mai un’alzata d’ingegno, un volare sopra rimasugli di grigiore quotidiano, un’illuminazione. Meglio allora lasciare che la melma corrente marcisca i pilastri letterari, ne eroda i ponti, del resto non è più la letteratura a raccontare la realtà, come ammoniva il genio di Vassalli. Volgiamoci allora alla kermesse di contorno: lo sventolìo dei bej ventagli verdi distribuiti a uomini, donne e trallallà, a dare aria e colore alla serata. Il bel monologo di Anna Foglietta per il cinquantennale della morte di Pasolini. E qui il colpo di classe della regia che s’è concessa il lusso di mandare uno spezzone nel quale lo scrittore inveiva contro i premi e la fuffa letteraria, buona solo a compiacere la scemenza borghese. La bravura di Filippo Timi, nel recitare l’incipit dei finalisti. La fugace intervista con Anna Foa, fresca vincitrice del neopremio Strega per la saggistica: Il suicidio di Israele. Rade parole contro la macelleria in atto e la grande Sion. Buon ultimi, i deragliamenti di Pino Strabioli, improbabile conduttore col farfallino, orfano di Geppi Cucciari alla quale non è stato concesso il palco dello Strega per dire le sue menate, a differenza delle ultime edizioni, forse per la sua scarsa sintonia col governo in carica. Il ministro della Cultura Alessandro Giuli, ex giurato e grande assente alla serata, s’è lagnato di non avere manco ricevuto i libri dei concorrenti. Poco male, visto quel che passava la serata. Malatempora currunt, aspettando l’edizione numero ottanta. Definitivo rincoglionimento senile o vegliarda botta di vita, chissà.www.mauriziozuccari.net   foto Sopra: Bajani e Foa, vincitori dell’edizione Strega 2025 per la narrativa e la saggistica, rispettivamente Foto crediti Musa, Fucilla, Ruscio, Mikhaiel/Taobuk The post Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Noia e tragedia della borghesia, il premio Strega sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Trasformista d’un Picasso!
STRANIERO IN PATRIA E ALL’ESTERO, VITA E OPERE DI UN MIGRANTE DI SUCCESSO E UNA MOSTRA CHE CHIUDE I BATTENTI A ROMA Di Picasso uno pensa d’aver visto tutto, capito tutto. E invece. La mostra che chiude i battenti a palazzo Cipolla a Roma, Picasso lo straniero, ha messo in mostra – si passi il gioco di parole – un artista diverso, a suo modo davvero straniero. Almeno per il sottoscritto. Non tanto e non solo, com’era nelle intenzioni della curatrice, Annie Cohen-Solal, autrice dell’omonimo e pluripremiato Picasso, una vita da straniero, edito in Italia da Marsilio, nel ripercorrere le tappe del migrante di successo. Piuttosto, nel mostrare il fil rouge delle diverse fasi della vita e dell’opera dell’artista iberico che seppe primeggiare in ogni corrente artistica durante la sua lunga e prolificissima esistenza – ben 13mila opere realizzate, un record imbattuto – costruendosi una fama e una fortuna davvero invidiabili. Più che il suo essere straniero in patria e all’estero quel che emerge dall’esposizione – oltre un centinaio d’opere, alcune inedite – giunta alla quinta tappa dopo Parigi, New York, Mantova e Milano, è la poliedricità dell’artista, il suo saper restare al centro delle scene nonostante i mutamenti epocali attraversati. Al nodo della questione è l’eclettismo di Picasso, pur nella perfetta riconoscibilità che connota l’artista come pochi altri nel panorama della modernità. Picasso il trasformista più che lo straniero, insomma: un artista che seppe adattarsi ai cambiamenti e alle tendenze, spesso anticipandoli, e cadere in piedi nelle situazioni più complesse, grazie a un certo fiuto politico. A una manciata d’anni il ragazzino andaluso sapeva già dipingere come un provetto accademico, grazie al proprio talento e agli ammaestramenti del padre José Ruiz, insegnante di pittura, che lo instradò al mestiere ma col quale ruppe al punto da adottare il cognome della madre Maria Picasso, di lontane origini italiane, ma la sua strada era tutt’altro che lineare e certa. Giunto giovanissimo al successo – per il benessere avrebbe dovuto attendere gli anni venti del ‘900 – la svolta artistica arriva, dopo i periodi blu e rosa, con l’invenzione del cubismo a Gosol, quattro case e un forno sui Pirenei dove Picasso visse l’estate del 1906. Non sono ben chiare le ragioni del lungo soggiorno dell’artista con la sua compagna del tempo, Fernande Olivier, al secolo Amélie Lang, in uno sperduto paesino di contrabbandieri che oggi fa vanto di un Centre Picasso. Né se fu l’arte iberica preromana o piuttosto i rudi profili montanari a fornirgli lo spunto per Les demoiselles d’Avignon, il megadipinto dell’anno successivo che raffigura sei prostitute nude, tra cui la compagna, e dette la stura alla stagione del cubismo. Fatto è che da quel momento Pablo Ruiz Y Picasso impone il suo stile, si pone all’avanguardia. Ben rappresentata dalla sezione della mostra che illustra gli anni romani e il lavoro con Cocteau nel balletto Parade. Non senza deviazioni dalla via maestra e fughe al passato, come il ritorno all’ordine del primo dopoguerra. Abile nel coniugare l’impegno politico antifascista di Guernica (1937) al dorato esilio parigino durante la Seconda guerra mondiale. Dove a nessun ufficiale nazista venne in mente di bussare all’atelier del campione di un’arte che si diceva degenerata per rispedirlo in patria, tra le braccia dell’alleato Franco. Maestro della spatola e del pennello, del navigare sottotraccia come del cavalcare la notorietà, Picasso sarebbe divenuto icona dell’internazionalismo pacifista – sua la colomba, in realtà un piccione, posto a emblema dei partigiani della pace stalinisti negli anni Cinquanta – fino a divenire, negli anni del buen retiro d’Antibes fino alle ultime fatiche di Mougins, icona della modernità e del successo. Il bimbetto di Malaga era divenuto un vecchio satiro provenzale, ma nei suoi occhi si coglieva ancora la scintilla del genio, il marchio del predestinato alla fama oltre ogni casa e confine. Straniero sì, ma di successo. Trasformista capace di rendere, novello Mida, oro ciò che toccava. The post Trasformista d’un Picasso! first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Trasformista d’un Picasso! sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro)
VINICIO CAPOSSELA APRE VENERE IN MUSICA. TRA MITI, EMERGENZE E AFFIORAMENTI IL CONCERTO PERFETTO SULLA FOLLIA DI QUESTI TEMPI INFAUSTI Metti uno dei luoghi più iconici, fascinosi epperò misconosciuti della capitale. Metti quello che resta il maggior cantore di questi nostri tempi oscuri dove imperversano i Tonieffe e le Bigmama. Metti, insomma, Vinicio Capossela al tempio di Venere e Roma, al Foro, e hai il concerto perfetto. Un mix di sonorità & senso, malinconia e magia come meglio non si potrebbe. Vinicio ha fatto da apripista a Venere in musica, un appuntamento ormai classico all’abbrivio dell’estate romana: quattro serate, aperte ieri dal nostro e proseguite, da oggi a domenica, con altri mostri sacri del panorama musicale mondiale: Malika Ayane, Salif Keyta e Goumour Almoctar, in arte Bombino. Tutto all’insegna della “world” ma soprattutto della buona musica. Giunta alla sua quarta edizione, la rassegna musicale ideata da Alfonsina Russo, direttrice del parco archeologico del Colosseo, e curata di Fabrizio Arcuri che ne firma la direzione artistica è uno dei più interessanti appuntamenti capitolini, capace di unire musica e cultura in un unicum imperdibile, oltretutto gratuito. Tra quel che resta delle volte e dei colonnati del tempio voluto dall’imperatore Adriano all’apice del suo successo, per onorare il duplice volto della capitale imperiale, divinizzzata, e della dea Venere, progenitrice di Enea, e con lui della gens Julia e della stessa città, secondo il mito mutuato da Virgilio ai Tirreni, lo spettacolo è superbo. Luci e sirene impazzano tra le macerie del più maestoso tempio pagano dell’antichità, distrutto dalle spoliazioni papesche e costato la vita al maggior architetto del tempo. Quell’Apollodoro di Damasco che osò criticare l’opera architettata dallo stesso Adriano che se la legò al dito e non gliela fece passare liscia, mettendolo a morte. A riprova di come il potere, anche quando personificato da un imperatore che si vuole colto e illuminato, resta una gran brutta bestia. E alle sirene è dedicata la serata, alla fatuazione di quest’altri mitici esseri destinati a perdere l’essere umano negli abissi. Una fatuazione, la loro, per dirla come Capossela, utile a stappare l’orecchie dello spettatore, indurite e ingolfate dalle narrazioni contemporanee, dal dilagare dei nonsensi e dall’abuso di tecnologia che si vuole salvifica ma è tutt’altro. È un viaggio nel mito, questa seconda tappa del tour iniziato ier l’altro al parco archeologico di Norba, antico insediamento latino, poi romano, non distante dalla moderna Norma. Un percorso che si dipana tra richiami, emergenze e affioramenti, seguendo un filo rosso dove s’annodano i grandi classici del repertorio caposseliano con una banda sempre diversa, a sottolineare la specificità dei luoghi e dei paesaggi musicali nelle diverse tappe. Altro e caratteristico motivo conduttore della serata, tra un frammento discorsivo e un bicchier di vino di capitan Vinicio, i suoni delle sirene. Quelle vere di Kiev e Gaza, dei teatri di guerra aperti dalla follia al potere, a partire dal genocidio in atto in terra palestinese per mano israeliana. Nemesi tra le più sanguinarie della storia che troppi fingono di non vedere tappandosi occhi bocca e orecchi – come le tre scimmiette sul comò – pur di credere ancora alla finzione d’Israele baluardo della democrazia occidentale piuttosto che sanguinaria democrazia totalitaria, come il resto dell’Occidente. Ma queste son fole, follie coève. Lasciamoci cullare dal canto d’altre sirene, quelle omeriche piuttosto che antiaeree, affoghiamo nell’oblio le follie d’un mondo precipitato nell’abisso. Con l’augurio, come dice il gran cantore Vinicio, che all’immersione nei fondali di questi tempi infausti segua l’emersione in tempi più fausti, umani e gentili. Prosit. Info e prenotazioni (praticamente impossibili online, un neo che gli organizzatori dovranno risolvere). Info sul tour Sirene. The post Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro) first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sirene, fatuazione dell’abisso (Capossela al Foro) sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Lotta e gioco per far incontrare le sinistre
TORNA LA FESTA DEI CIRCOLI DI ARCI ROMA. DAL 25 AL 29 GIUGNO AL PARCO MARTA RUSSO DI LABARO DI GIOCO E DI LOTTA: 85 CIRCOLI, PIÙ DI 90MILA SOCЗ, 5 GIORNATE DI FESTA, 6 CONCERTI LIVE, 10 DIBATTITI, 4 DOCUMENTARI, STAND UP, DJ SET, LABORATORI ARTISTICI E MUSICALI. ECCO IL PROGRAMMA DELLA SECONDA FESTA DI ARCI ROMA, SPAZIO APERTO ALLA CULTURA DAL BASSO E ALLE SINISTRE POLITICHE, SOCIALI E SINDACALI DELLA CITTÀ.   Dal 25 al 29 giugno torna la festa di Arci Roma e dei circoli. Dopo la prima edizione, Arci Roma Fa Rumore, l’appuntamento annuale lascia la location di Parco Piccolomini per spostarsi decisamente in periferia e riaprire lì uno spazio “di gioco e di lotta”, fruibile da tuttз e aperto al confronto fra le sinistre sociali, sindacali e politiche della città. Siamo fatti di gioco e di lotta, infatti, è il titolo di questa seconda edizione che si terrà nella cornice del Parco Marta Russo, nel quartiere Labaro, facilmente raggiungibile con la Ferrovia urbana Roma Viterbo. Per cinque giornate lз socз degli 85 circoli dell’area metropolitana daranno vita a panel, dibattiti, laboratori e spettacoli coinvolgendo artistз e protagonisti della scena politica e delle vertenze sociali sui temi cari alla storica associazione ricreativa e culturale che, tra la città e la provincia, conta oltre 90mila iscrittз che ogni anno producono concerti, spettacoli dal vivo, corsi di teatro, musica, danza, cineclub, fotografia, intervento sociale, pratiche di mutualismo, educazione extrascolastica, laboratori dedicati a ogni fascia d’età. Una comunità multiculturale e intergenerazionale, fatta di gioco e di lotta, capace di esprimere con ogni linguaggio artistico la propria idea di città polifonica, conflittuale, antipatriarcale, pacifica, solidale, ambientalista e anticoloniale. i dialoghi In un momento storico drammatico contrassegnato da un lato dalla combinazione micidiale tra genocidio in Palestina, escalation in Medio Oriente, riarmo europeo e cambiamenti climatici e dall’altro, dall’erosione dell’agibilità democratica determinata dal modello Giubileo applicato a Roma da Meloni, Gualtieri e Rocca, non potevano non essere protagoniste degli spazi di dibattito le tante vertenze territoriali per l’ambiente, le mobilitazioni a fianco della popolazione palestinese, le rivendicazioni di chi opera nella produzione di cultura, le battaglie transfemministe. Il festival, ancora più della prima edizione, promette di essere uno spazio inclusivo ma interdetto a ogni forma di fascismo, razzismo e discriminazione. Una delle giornate, quella del 27 giugno sarà dedicata ai temi delle migrazioni e della cittadinanza in collaborazione con i progetti SAI-AIDA di Roma e Monterotondo.  la musica Il programma musicale riflette le scelte artistiche dei circoli, sideralmente distanti dal mainstream e attenti a forme, contenuti e stimoli provenienti dalle controculture, dai territori e dai mondi delle autoproduzioni. Ne è scaturito un cartellone vivace e articolato che propone progetti italiani e internazionali dai pionieri della cumbia made in Italy, Los3Saltos, ai maghi colombiani della rumba digitale, Ghetto Kumbé; dall’originale ibridazione di Fucksia tra dj set e live experience fino al punk eccentrico dal New Jersey di Ron Gallo, per finire in bellezza con il reggae della Wogiagia crew e i fiati di Mefisto Brass LIVE street band milanese che di definisce “Sound System a Energia Polmonare”. la socialità Da segnalare, i laboratori organizzati dalle scuole di musica del circuito Arci e, nel pomeriggio della domenica, a partire dalle 17:30, la possibilità di provare pattini e skateboard nella zona palco in compagnia di skater esperti del circolo Arci Trick Track. La trattoria e la mescita sociale riprodurranno l’atmosfera di socialità dei circoli con estrema attenzione all’impatto ambientale della festa a partire dalla messa al bando dei prodotti sotto boicottaggio da parte delle campagne contro sionismo e colonialismo e della plastica nelle bottiglie e nelle stoviglie. Prodotti e bevande verranno proposti anche sulla base dell’attenzione dei produttori alla sostenibilità socio-ambientale degli ingredienti e delle filiere. Naturalmente sarà disponibile solo acqua pubblica e gratuita. POTERE ALLA PAROLA – PROGRAMMA DEI PANEL MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 18:00 – 18:45 PALCO B I SAHARAWI: UNA STORIA PER L’AUTODETERMINAZIONE con Fatima Mahfud, rappresentante in Italia del Fronte Polisario; Gianluca Diana, giornalista e scrittore; Valentina Roversi, Rete Saharawi. 19:00 – 20:00 PALCO B PALESTINA, IL GENOCIDIO SOTTO TRACCIA Con con Walter Massa, presidente nazionale Arci, Moni Ovadia, Maya Issa, presidente del Movimento Studenti Palestinesi, Palestine Chronicle, Vito Scalisi, presidente di Arci Roma 20:15 – 20:50 PALCO A PERCHÉ QUI, PERCHÉ ORA: CIAO LABARO con Daniele Torquati, presidente del Municipio Roma XV; Luigia Chirizzi, assessora LL.PP Municipio Roma XV; Gaetano Seminatore, segreteria romana Pci; Stefania Piccinnu, presidente Arci No Problem; Vincenzo Pira, Comitato di Quartiere Labaro. GIOVEDÌ 26 GIUGNO 18:00 – 18:30 PALCO B PRESENTAZIONE DI FESTA! IL MANIFESTO DEI FESTIVAL PROMOSSO DA ARCI con Marco Trulli, responsabile Cultura e Giovani di Arci Nazionale 18: 30 – 20:00 LA CITTÀ DELLA NOTTE.  COPROGETTARE E COPROGRAMMARE IL TEMPO E GLI SPAZI DELLE CULTURE con Marco Trulli, responsabile Cultura e Giovani di Arci Nazionale; Erica Battaglia, presidente Commissione Cultura Roma Capitale; Tatiana Marchisio, assessora politiche culturali Municipio Roma XV; Claudio Cippitelli, sociologo; Raniero Pizza, direttore artistico Monk Club; Tommaso De Angelis, Zalib-Centro Giovani; Daniela Lebano, delegata Arci Roma, Francesca Coleti, responsabile Terzo Settore Arci Nazionale; conduce Leonardo Zaccone (Sveja) VENERDÌ 27 GIUGNO CITTADINЗ DEL MONDO. ARCI ROMA PER LA GIORNATA DEL RIFUGIATO IN COLLABORAZIONE CON I PROGETTI SAI-AIDA DI ROMA E MONTEROTONDO 18:30 – 20:00 PALCO B DALL’ACCOGLIENZA ALLA CITTADINANZA – SIAMO TUTTЗ MIGRANTЗ Modera Annalisa Camilli, giornalista; Mattia Fonzi (Openpolis) presenta il report “Accoglienza al collasso. Centri d’Italia 2024”, con Agnese Rollo, assessora politiche sociali Municipio Roma XIV; Anci Lazio; Valerio Tursi, progetto Sai-Gea; Francesca De Masi, presidente cooperativa Be Free; Sara Grimaldi, coordinatrice progetto Sai-Aida; Marta Bonafoni, segreteria Pd; Alberto Grandi, docente di Storia del Cibo; Antonio Maurizio Loiacono, storico ed esperto di storia delle religioni, specializzato nella presenza araba e nei rapporti interculturali e interreligiosi nell’Italia meridionale altomedievale; Papia Aktar, delegata alle politiche sulle migrazioni di Arci Roma SABATO 28 GIUGNO 19:30 – 20:30 PALCO B MILANO-ROMA, DUE MODELLI, UNA SOLA RISPOSTA: RESISTENZA! con Alvise Tassell (Ecoresistenze Milano); Rocco Spinelli (Milano Città Pubblica); David Di Bianco (Coord Tavoli del Porto Fiumicino); Giancarlo Storto (Carteinregola Roma); Michele Itasaka (Comitato Si al Parco, Si all’Ospedale, No allo Stadio – Roma); Comitato San Siro Città Pubblica – Milano; Barbara Manara, delegata Pace e pianeta Arci Roma. 20:30 PALCO B IL PREZZO CHE PAGHIAMO – DOCUMENTARIO Scritto e diretto da Sara Manisera, prodotto da Greenpeace e ReCommon, Italia 2025, 37’ a seguire dibattito con Diletta Bellotti, L’Espresso; Felice Moramarco, Greenpeace Italia; Eva Pastorelli, ReCommon; Luca Manes, ReCommon DOMENICA 29 GIUGNO 18:00 – 19:00 PALCO B NON SI CALPESTA L’ERBA. STILI DI VITA, LAVORO, E SALUTE NEL MIRINO DEL PROIBIZIONISMO con Matteo Mantero, autore di “Una pianta ci salverà. Storia virtuosa della canapa”; Chiara Lo Cascio (Canapa Sativa Italia), Leonardo Fiorentini (segretario di Forum Droghe) modera Paolo Occidente (Pot Radio) 19:30 – 20:45 PALCO B REPRESSIONE, OSSIA IL RIARMO VISTO DAL FRONTE INTERNO con Paolo Di Vetta (Movimenti per il diritto all’abitare), Linda Meleo (M5s Roma), Valerio Zaratti (Europa Verde Roma), Luca Blasi (Rete A Pieno Regime), Eliana Como (minoranza Cgil-Le radici del sindacato), Daniele Leppe (giurista), Beatrice Gamberini (Pap), coordina Gianluca Cicinelli (direttore Diogene Notizie) IL CARTELLONE – PROGRAMMA DEGLI SPETTACOLI INGRESSO SEMPRE GRATUITO   MERCOLEDÌ 25 GIUGNO 21.00 PALCO A NAZRA PALESTINE SHORT FILM FESTIVAL – CORTOMETRAGGI due pellicole centrate sulla vita e la resistenza delle donne e dei giovani palestinesi The Poem We Sang – BEST EXPERIMENTAL SHORT FILM 21.30 diretto da Annie Sakkab, Palestina 2023 Mate Superb –  BEST DOCUMENTARY SHORT FILM 22.30 diretto da Hamdi AlHaroub, Palestina 2013 21.30 PALCO A NO OTHER LAND – FILM diretto da Yuval Abraham, Basel Adra Hamdan Ballal, Rachel Szor, Palestina, Norvegia 2024 La storia di amicizia tra l’attivista palestinese Basel e il giornalista israeliano Yuval. Ha vinto un premio ai Premi Oscar e ha ottenuto una candidatura al Festival di Berlino GIOVEDÌ 26 GIUGNO 21:30 PALCO A LOS3SALTOS CUMBIA Pionieri della cumbia made in Italy, dosano in maniera fresca e spontanea la scrittura dei testi in madre lingua alla mescolanza di ritmi trascinanti, dando vita ad una formula del tutto nuova nella scena musicala italiana in cui la cumbia e le sue derivazioni divengono un potentissimo mezzo per declinare la propria “occidentalità”. Ad oggi i Los3saltos sono arrivati al traguardo del quarto disco “Temporada”. Dall’inizio del 2017 Los3saltos è parte integrante dell’Istituto Italiano di Cumbia, progetto fondato e capitanato da Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e prodotto dall’etichetta indipendente La Tempesta, che ha portato parte del gruppo romano ad esibirsi su alcuni dei palchi più importanti d’Italia sia nei grandi festival che in prestigiosi club. 22:30 PALCO A GHETTO KUMBÉ AFRO-FUTURISTIC ELECTRO CARIBBEAN I famosi cantanti e percussionisti “maghi” colombiani, evocatori degli spiriti pagani della rumba digitale faranno tappa a Roma alla Festa dei Circoli Arci Roma durante il loro sesto Tour europeo. Un potente mix di ritmi elettronici caraibici, tradizioni afro-colombiane e dell’Africa occidentale. I Ghetto Kumbé sono il punto d’incontro di 3 grandi musicisti della costa caraibica colombiana. Melodie africane e colombiane incontrano tamburi, ritmi, ed elettronica di stampo Tech/House. I Ghetto Kumbé sono creatori di paesaggi sonori afro-futuristi. Il punto di forza dei GHETTO KUMBÉ è ovviamente il live grazie anche alla loro originaria identità visiva, fatta di maschere etno-futuristiche fluorescenti, visual abbinati ma soprattutto un sound potentissimo, un rituale di ballo che viene dal passato e proiettato nel futuro. VENERDÌ 27 GIUGNO 21.30 PALCO A STAND UP/ RASSEGNA STAMPA NON RICHIESTA un monologo tragicomico di e con Le Recensioni non Richieste Le Recensioni non richieste, autore di satira, psicologo, gay, transfemminista, cofondatore del progetto di queer comedy “Fraciche”. 22.30 PALCO A FUCKSIA HYBRID LIVE – DJSET Le Fucksia sono una band Italo brasiliana formata da Mariana Mona Oliboni, Marzia Stano e Poppy Pellegrini. Transfemministe e queer, sono la combinazione perfetta tra attitudine punk, sonorità techno/dance e psichedelia. Il progetto “Fucksia” Hybrid è una combinazione tra un DJ set e un concerto live, con sessioni di 45/50 minuti ciascuna. “Fucksia” Hybrid integra di stili musicali diversi dall’elettronica, al funky brasilero, dai ritmi tropicali allo psytech e acid tekno live. SABATO 28 GIUGNO 22.30 PALCO A RON GALLO LIVE, NEW JERSEY – GARAGE ROCK “Il mondo è fottuto, ma l’universo è dentro di te” è il filo conduttore di tutti e 5 gli album di Ron Gallo: essere umano, cantautore, musicista e disruptor costruttivo. Il suo album di debutto “HEAVY META”, descritto da NPR come “elettricità letterata”, è stato pubblicato con un ampio successo di critica e un tour mondiale, e un singolo di successo improbabile, “Young Lady, You’re Scaring Me”, che ha totalizzato oltre 61 milioni di streaming. Si è esibito al Coachella, al Bonnaroo, al Governors Ball e al Pukkelpop. Il suo ultimo album, “FOREGROUND MUSIC”, pubblicato dalla leggendaria etichetta indie Kill Rock Stars, affronta i cattivi della nostra società e aiuta coloro che ne sono schiacciati, trovando un modo per ridere dell’assurdità di tutto ciò attraverso 11 tracce di punk eccentrico, pop weirdo e garage rock distorto. DOMENICA 29 GIUGNO 21.30 PALCO A Wogiagia LIVE reggae La Wogiagia crew nasce nel febbraio 1999 nella periferia Nord di Roma e da allora non ha mai smesso di suonare. 22.30 PALCO A MEFISTO BRASS LIVE STREET BAND “Sound System a Energia Polmonare”: il gruppo, con un organico da Street Band, attinge dalle sonorità tipiche della musica elettronica, riformulandole e adattandole a una formazione composta esclusivamente da strumenti a fiato e percussioni. Il progetto nasce nel 2019 a Milano e, proponendo un repertorio di brani originali, si inserisce nella scena dapprima milanese e poi italiana anche grazie a un’intensa attività di busking e performance di strada. Dal loro esordio, grazie alla dirompente carica del loro live show, i Mefisto hanno collezionato più di 180 esibizioni presso locali, sale da concerto e festival in Italia ed Europa. Nel 2020 i Mefisto pubblicano il loro primo EP, “Amhardcore” e a Marzo 2024 è uscito il loro primo album “Totem”. Dal 25 al 29 giugno al Parco Marta Russo, viale Gemona del Friuli (Labaro) ➳Public water                 ★          Free Entry             ★                     Kids Area Una iniziativa di Arci Roma con Roma Incontra il Mondo per Tessere la Città In collaborazione con Progetti Sai/Aida Roma e Monterotondo Ucca, ReCommon, Greenpeace  The post Lotta e gioco per far incontrare le sinistre first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Lotta e gioco per far incontrare le sinistre sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Dalla Palestina al mondo: Sumud ArtFest è a Roma
DAL 20 AL 22 GIUGNO AL CIRCOLO ARCI “CONCETTO MARCHESI”, MUSICA, CANTI, MOSTRE E INCONTRI CHE TESTIMONIANO LA VIVIDA REALTÀ DEL MONDO FEMMINILE DI PALESTINA E DEL MEDIO-ORIENTE Dal 20 al 22 giugno a Roma, al Circolo ARCI “Concetto Marchesi” (via del Frantoio 9c), il festival si annuncia come momento culminante delle proteste, delle mobilitazioni e delle iniziative della società civile che fronteggia l’ignavia complice del governo italiano e il riarmo dell’Europa e fa eco alle proteste mondiali contro il genocidio perpetrato dal governo Netanyau. I tre giorni offrono un denso calendario di musica, canti, mostre e incontri che testimoniano la vivida realtà del mondo femminile di Palestina e del medio-oriente in cui confluiscono sonorità e sensibilità arabe, curde, libanesi, in una strepitosa estetica mediterranea di contaminazioni. Il cuore della manifestazione batte in due tempi che scandiscono il pulsare etico ed estetico della cultura e della bellezza delle genti di Palestina. Si inizia venerdì 20 con Beat SB Roma, una performance di musica, skateboarding e arte urbana. Saranno quindi presentati due libri importanti: Questa terra è donna, di Cecilia Della Negra dedicato ai movimenti femministi e Il loro grido e la mia voce. Poesie da Gaza, con Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti. Seguirà l’incontro con Humans Rights Defenders sulle pratiche di interposizione umana nei territori occupati. L’altro tempo da vivere e ascoltare nei tre giorni è quello di una riflessione sul “Modello Israele” di potere sulla vita, esempio neo-coloniale di guerra cosmica intrapresa a partire dal secondo decennio di questo secolo. Dalle 18,00 Modera Federica D’Alessio (fondatrice di Kritica) con Raffaella Bolini (Campagna Stop ReARM), Marianna Lentini (Sociologa e Scrittrice), Patrizia Cecconi (Sociologa e Giornalista free lance), Alba Nabulsi (Giornalista e Docente), Francesco Romeo (Giurista, “A pieno Regime”). A seguire lo scintillante concerto di Toufiq Koleilat con la CIP Orkestra: musica tradizionale, folk e sonorità mediterranee; la comicità di Marco Passiglia e poi ancora musica con Los 3 Saltos. Sabato 21: manifestazione STOP REARM EUROPE, il Festival si trasferisce in piazza e partecipa al corteo nazionale. Al ritorno, alle 18,30 “Voci dalla Palestina”, testimonianze dirette da Gaza e dalla Cisgiordania, quindi presentazione del progetto ACQUA PER GAZA. Alle 19,00 presentazione della mostra BE MY VOICE di e con Marcella Brancaforte e Alhassan Selmi. In diretta da Gaza interverranno il giornalista Alhassan Selmi e da Trieste il giornalista Raffaele Oriani. Insieme presenteranno Hassan e il genocidio con i testi dei due autori e le immagini in mostra. Modera Clara Habte (Rete NO Bavaglio). Dalle 20,00 sul palco Alessandra Ravizza e Tareq Abusalameh racconteranno con il canto storie tra Genova e Gerusalemme. Lei, cantautrice genovese e autrice del libro Il maestro di Gaza. Lui, musicista e cantautore palestinese, raccoglie memorie collettive e le trasforma in canzoni con l’oud. Alle 21,30 è la volta di Lavinia Mancusi con “Voci e suoni dal Sud del mondo”. Cantante e polistrumentista romana, Lavinia Mancusi intreccia folk e musica mediterranea in una performance che è memoria e resistenza. Alle 22,00 sale sul palco Francesca Fornario, Autrice, giornalista e voce brillante della satira italiana 5 giorni alla settimana con “Un giorno da pecora” su RadioRai. Domenica 22 ci saranno gli artisti di strada e il magnifico FRENTE MURGUERO ROMANO Carnaval, resistenza e tamburi in marcia. A seguire DABKA Rouh el Dabke, gruppo di danza tradizionale palestinese con sede a Roma. Alle 17,00 presentazioni di La storia nascosta del sionismo, del filosofo statunitense Ralph Schoenmann, scomparso nel 2023, con Karim Farsah e Maria di Gaza e Onde di terra di Ibrahim Nasrallah, nato in un campo profughi e autore di numerose raccolte di poesia, romanzi, saggi; legge Amma Maria Bruni. Alle 18,00 è tutto da seguire il dibattito Libere tutte: dalla Palestina al mondo. Culture, resistenze, decolonizzazione, con Francesca Cusumano (giornalista), Maya Issa, attivista e presidente del movimento degli studenti palestinesi in Italia, Yasmine Aljarba, artista palestinese, specializzata in pittura ad olio e acrilico, fotografia concettuale e video arte, Sabreen Mukarker fotografa e artista visuale di Beit Jala, Rawa, (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) organizzazione femminile afghana indipendente affermata tra i rifugiati in Afghanistan e in Pakistan (videomessaggio registrato da CISDA), Zilan Diyar giornalista e attivista del movimento delle donne curde, Jin Jiyad Azadi (Donna vita libertà, in collegamento), Parisa Nazari iraniana, interprete, mediatrice culturale e attivista femminista. La sera alle 20,00 va in scena Gaza siamo noi dell’autrice e attrice Anna Maria Bruni: la sua voce dà corpo alle responsabilità collettive, alle lotte dimenticate, ai territori che resistono. A seguire Yallarabì, musica migrante e suoni di resistenza e Nora Tigges con Zenìa, canti antichi per mondi liberati. Nei tre giorni lo spazio cineforum sarà affollato di incontri, scambi e gioia di stare insieme. Assolutamente da vedere From Ground Zero, un film antologico del 2024 diretto da 22 registi palestinesi sulla situazione attuale della popolazione della Striscia di Gaza e Naila and the Uprising di Julia Bacha (2017), un documentario incentrato sulla storia della femminista palestinese Naila Ayesh, che si trova a dover conciliare amore, legami familiari e lotta per la libertà, e di altre donne palestinesi che hanno avuto ruoli di primo piano nella Prima Intifada. Tra le mostre permanenti nei tre giorni segnaliamo BE MY VOICE di e con Marcella Brancaforte, presentata in diretta da Gaza dal giornalista Alhassan Selmi e da Trieste dal giornalista Raffaele Oriani. E SGUARDI un progetto intenso e intimo, nato dall’incontro umano e artistico tra Roberta Pastore e Souleyman Barry a cura di Baobab Experience. Da non perdere le cene di cucina popolare palestinese di Samir che porterà in tavola i sapori della tradizione gastronomica palestinese. Da visitare gli stand delle associazioni che tanto hanno contribuito in questi mesi. Tra le realtà presenti e promotrici dell’evento: Defend Gaza & Rojava, Un Ponte Per, Assopace Palestina, Cultura è Libertà, BDS, CISDA, Baobab Experience, Biblioteca Livio Maitan, ARCI.  La lunga diretta di SUMUD Radio proporrà interviste agli ospiti del festival, incontri con giornalisti e analisti, approfondimenti e una rassegna stampa quotidiana. ASCOLTALA su https://zeno.fm/radio/radio-res-network/ Contatto SUMUD ArtFest: Email: festivalpalestina@proton.me Telefono / WhatsApp: +39 351 5430778 Social media: Instagram → @sumud_artfest_roma – Facebook → Sumud ArtFest Ascolta SUMUD Radio: Tutti i podcast su: https://open.spotify.com/show/ 6xaCS1kfDWSDr9fa3khoUb?si=8a7478e6402340d4  Tutto il ricavato sarà destinato ai progetti di solidarietà internazionale in Palestina. The post Dalla Palestina al mondo: Sumud ArtFest è a Roma first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Dalla Palestina al mondo: Sumud ArtFest è a Roma sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Futuro presente: Amazon e il suo dominio globale
(archivio disegni napolimonitor) Oggi, giovedì 29 maggio, alle ore 17:30, presso Zero81 – Laboratorio di mutuo soccorso (largo Banchi Nuovi, 10), sarà presentato il nuovo volume del collettivo Into the Black Box, intitolato Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon. Il dibattito vedrà la partecipazione di Niccolò Cuppini e Maurilio Pirone. *     *     * Il caso Amazon ha generato un vasto dibattito a livello internazionale. Anche in Italia, in questi anni, non sono mancate pubblicazioni, traduzioni e analisi critiche. Altre ricerche promettenti sono tuttora in corso, e contribuiranno a delineare un quadro complesso. Tra le numerose pubblicazioni che hanno affrontato l’argomento, tre volumi meritano di essere menzionati. Il costo della spedizione gratuita. Amazon nell’economia globale, curato da Jake Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, è un testo fondamentale per comprendere le molteplici caratteristiche di questa multinazionale. Il Magazzino di Alessandro Delfanti offre invece un’indagine puntuale sulla vita all’interno dell’hub logistico Amazon di Piacenza. Infine, Conflitto di classe e sindacato in Amazon, curato da Marco Veruggio, è un volume agile che raccoglie i contributi di alcuni collaboratori di Amazonians United (questo volume lo abbiamo presentato di fronte ai lavoratori della logistica distributiva napoletana in stato d’agitazione da oltre un anno). A questa ricca letteratura si aggiunge ora Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon (Red Star Press, 194 pagine, 20 euro), curato dal gruppo di ricerca Into The Black Box. Questo collettivo, nato dalle esperienze di lotta nell’area metropolitana di Bologna, si è distinto negli ultimi anni per la capacità di elaborare riflessioni teoriche di ampio respiro sulle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Trovare un minimo comune denominatore tra questi testi non è facile, ma in ognuno si percepisce lo sforzo, declinato in modi diversi, di comprendere una fase storica definita dalla personalizzazione di massa, un fenomeno scaturito dalla coniugazione tra mondo logistico e digitalizzazione. L’ultimo lavoro di Into the Black Box nasce da un’inchiesta territoriale sulla logistica, che ha presto dovuto confrontarsi con dinamiche che andavano oltre il territorio d’indagine. E il nesso tra il locale e il globale, in questo contesto, non poteva che essere il colosso multiforme di Jeff Bezos. Come sottolinea Sandro Mezzadra nella prefazione, l’intento non è ridurre il capitalismo a una semplificazione su Amazon (dato che sul mercato globale operano anche altri attori simili come Mercadolibre e Alibaba). Si tratta piuttosto di analizzare un modello di integrazione di diversi piani di azione economica che, nel loro insieme, manifestano “un potere infrastrutturale che mira a egemonizzare le relazioni socio-economiche”. Amazon non si limita a invertire il rapporto tra circolazione e produzione, ma esemplifica e condiziona le operazioni del capitale, colonizzando e privatizzando il futuro. Da qui il titolo del volume. Il collettivo dimostra come Amazon sia molto più che semplice logistica, evidenziando che l’irrompere del digitale ha ibridato la materialità stessa delle infrastrutture. In quest’ottica, Amazon si configura come “capitale costituente”, capace di agire come un ecosistema espanso e gerarchico che si allarga in altri settori, influenzando la sfera sociale e politica. Il volume analizza e mette in relazione molteplici dimensioni. Amazon funge da punto di accesso per indagare l’intreccio tra salto tecnologico, relazioni socio-economiche e questioni politiche. La sfida è comprendere a fondo il paradigma Amazon: un’azienda partita come startup e cresciuta fino a valere miliardi di dollari, che si struttura come un impero commerciale con una proiezione globale. Un gigante che si caratterizza per la sua aspirazione a dettare standard e regole del mercato, monopolizzando ambiti cruciali attraverso specifiche politiche di sviluppo, un assemblaggio spregiudicato di giochi finanziari, uso di nuove tecnologie, modalità originali di organizzazione della forza lavoro e una spiccata capacità di influenzare il potere politico dello stato. Secondo questa interpretazione, Amazon agisce come soggetto politico in un doppio senso: sia come un’infrastruttura dotata di un potere di indirizzo dei flussi di merci, informazioni, saperi e capitali, sia come un vero e proprio attore politico che si sovrappone alle prerogative che in precedenza appartenevano alla sfera pubblica. Unendo razionalità logistica, innovazione tecnologica e servizi digitali, Amazon gioca un ruolo determinante nell’espansione del capitalismo contemporaneo, arrivando a indirizzarne lo sviluppo e incidendo tanto sulla dimensione territoriale della metropoli planetaria quanto sull’immaginario collettivo, fondato sulla fusione tra tecnologia e lavoro umano. Di fronte a questo scenario, una prima risposta che emerge dal volume sembra essere la critica all’ineluttabilità di queste dinamiche. L’analisi di Amazon non si limita a descrivere un impoverimento dell’esperienza umana, ma suggerisce altre possibilità di azione dall’esito non prevedibile. Si intravede quindi un’ambivalenza, secondo gli autori del volume. Il ruolo sempre più “infrastrutturale” di colossi come Amazon nella riproduzione sociale e nella gestione della macchina statale ci pone dinanzi a nuove sfide, che possono essere affrontate con gli strumenti che questi stessi processi mettono in circolazione. L’enorme quantità di dati accumulati, elaborati e utilizzati dalle Big Tech, conferisce loro un potere che si dirama in tutte le nostre interazioni sociali e che non si limita a fotografare l’esistente, ma delinea il campo di possibilità del nostro agire. Questo punto merita attenzione. Se è vero che siamo davanti a una “amazonizzazione della società”, se il dominio globale del mondo secondo Amazon è dettato dalla capacità di sintetizzare diverse operazioni del capitale, di costruire immaginari e di esercitare un potere governamentale, e se in definitiva questo paradigma ingabbia e al contempo sprigiona energie vitali, è importante riconoscere che la diffusione di queste dinamiche non è omogenea. Nelle società avanzate persiste un divario significativo tra tecnologia potenziale e quella effettivamente applicata, sia nel progresso tecnologico in sé che nelle sue applicazioni ai processi produttivi e distributivi. Accanto a risorse inutilizzate come valore non impiegato nella produzione, forza lavoro disoccupata, risorse naturali non sfruttate e capacità produttiva latente, esiste anche una plustecnica potenziale: uno scarto ben superiore al semplice ritardo applicativo, tra ciò che la tecnologia potrebbe fare e ciò che fa realmente. Questo suggerisce sia una certa fragilità del potere infrastrutturale che una non linearità dello sviluppo che il paradigma Amazon potrebbe indirizzare. Se questa premessa è corretta, si può ipotizzare l’intima irrazionalità del capitalismo di cui Amazon è una diretta espressione. Il suo potere infrastrutturale potrebbe essere più debole di quanto non sembri, e di pari passo, il dominio delle Big Tech su economia, politica, società e immaginari rischia di essere sovrastimato. Sebbene Amazon stia costruendo una realtà malleabile e riprogrammabile a suo piacimento, questa stessa realtà è sovvertibile in una pluralità di modi tutti da sperimentare o, meglio, che si stanno già sperimentando. Il lavoro di ricerca collettivo di Into the Black Box getta una luce sulle dinamiche di espansione e colonizzazione di un colosso che è molto più di un e-commerce, indagandone ramificazioni e forme del potere e stimolando una riflessione sulle pratiche di conflitto da escogitare per il futuro. (andrea bottalico)
Pornografia o documentario? San Damiano, un film sulle disgrazie di Termini
(archivio disegni napolimonitor) Nel 1949, utilizzando per la prima volta in Italia il registratore magnetico a nastro, il giornalista della Rai Roberto Costa realizza un documentario inchiesta che rimane nella storia del giornalismo radiofonico. Si chiama I barboni. Dopo anni di conversazioni con decine di persone che vivono tra le strade di Milano, Costa affida loro il microfono. Ci sono disoccupati, cantanti, musicisti, poeti, “gente che si è fatta una cultura rinunciando a ogni cosa superflua”. È un lavoro onesto: l’autore scende per strada, ascolta, impara, riflette, registra. Nessun pugno nello stomaco, nessuna musichetta commovente a sottolineare i racconti. Sono biografie autentiche, complesse. Una ex insegnante caduta in disgrazia durante la guerra, un ex ufficiale dell’esercito, una ex studentessa universitaria separata dal marito che vende fiori per strada, “il mondo è pieno di gente che dà consigli, ma nessuno aiuta”, dice nel registratore. L’ho riascoltato, dopo avere visto al cinema San Damiano, film del 2024 di Alejandro Cifuentes e Gregorio Sassoli, in questi giorni sul grande schermo di decine di sale italiane. I registi incontrano Damiano vicino alla stazione Termini e iniziano a filmarlo. Damiano è un trentacinquenne polacco fuggito dall’ospedale psichiatrico di Breslavia, è ripreso mentre monta audacemente su una torre delle mura aureliane alle spalle della stazione, è ripreso mentre infila il suo pene tra le chiappe di una donna alle spalle dei binari, mentre picchia ripetutamente un uomo, mentre una donna lecca avidamente il suo piede. Le immagini sono perfette, la fotografia nitida, la colonna sonora coinvolgente. Attorno a Damiano, ci sono uomini e donne disperati, una ragazza si infila un ago in una mano, una donna mostra le tette alla telecamera, un’altra il pube, un uomo balla di fronte all’obiettivo, guarda dritto in camera e spacca a gomitate il vetro di una macchina. Nei giorni successivi leggo qualche recensione. “Senzatetto ma turrito, Damiano ci prende e ci si porta via, interrogando la nostra visione fin nel profondo, laddove è morale”. “Si avvale di una sincera libertà creativa che è davvero rara, in una stabilità che non si incrina neppure davanti a un possibile eccesso ed è attraversato da una sorta di purezza”. Scopro anche che è stato premiato di recente a Lo Spiraglio Film Festival della Salute Mentale di Roma “per la potenza della sua narrazione, che affronta con profondità i temi della migrazione, del trauma e della violenza vissuti dai protagonisti ritraendo il personaggio principale con realismo, senza idealizzarlo né censurare le sue contraddizioni”. Ne parlo con Francesco Conte, giornalista, attivista, da anni frequenta la stazione Termini, stringe amicizie, racconta storie, insieme al gruppo Mama Termini organizza cene, distribuisce cibo ogni domenica nella piazza antistante la stazione e anima lo spazio pubblico con concerti. “Il punto non è il film, ma quello che c’è dietro. Critichiamo il prodotto senza capire come è stato prodotto. San Damiano è come i pomodori raccolti dai sikh a Latina, i recensori mangiano il pomodoro ma non si chiedono davvero da dove arrivi. Fin quando la gente che si occupa di cultura non esce davvero per strada, questa cultura è divertissement borghese”. Che i registi in qualche misura si siano affezionati al protagonista, traspare da un passaggio del film – che fatico onestamente a chiamare documentario – in cui i due accompagnano Damiano, che aspira a diventare cantante, in una sala di registrazione. Tuttavia ancora una volta il racconto cede il passo all’esibizione, si riduce a due minuti di ripresa del matto che canta nella sala, urla, si sgola, si danna per qualcosa che non torna. Della sua musica nelle nostre orecchie non rimane nulla. L’episodio narrato allarga ancora di qualche chilometro quello spazio tra il noi che siamo qui, seduti sulle poltroncine a guardare, e il loro davanti alla camera, sporchi e disperati. Eppure qualcosa dentro noi – sempre quelli delle poltroncine – si muove. Non è ascolto, non è comprensione: è l’appagamento di una sordida brama pornografica di sangue, disgrazia e fango. Il film ha un epilogo spettacolare: Damiano, dalla cima della torre in cui ha costruito il suo rifugio, appicca un incendio. I “documentaristi” documentano. Arrivano le forze dell’ordine. Damiano è rispedito in Polonia, ora è di nuovo in un ospedale psichiatrico. (marzia coronati)
Genova, wanted Posse alla Tosse
DANCE N’ SPEAK EASY, IN PRIMA NAZIONALE AL TEATRO DELLA TOSSE, CHIUDE ALLA GRANDE LA PRIMA PARTE DELLA RASSEGNA FORME 100 anni di gangster rap e affini. Ovvero dagli anni Venti del secolo scorso a oggi, nello spettacolo Dance N’ Speak Easy  della compagnia Wanted Posse, che il Teatro della Tosse porta a Genova in prima nazionale. In un evento in cui danza e burlesque si uniscono in una formula inaspettata e in cui i passi della house dance si fondono con quelli  del Charleston, le performance della breakdance con la vivacità del Lindy Hop, l’hip hop free style con il ritmo frenetico del Jitterbug. E dove 5 uomini e una donna – Martin Thai, Marcel Ndjeng, Mamé Diarra, Arthur Grandjean, Victor Balatier e Lydia Elattar – mettono in scena le atmosfere equivoche e fumose di una bisca clandestina nei bassifondi di New York, New Orleans o Los Angeles.. Ovunque il proibizionismo veniva trasgredito  negli speakeasy, luoghi segreti in cui ci si nascondeva per bere, ballare, fare musica, esprimersi liberamente. Dove si doveva parlare a voce bassa. Ed è subito rissa. A suon di breakdance, swing, e jazz e a passo di danza per le coreografie di Njagui Hagbe, però. Per una bottiglia di gin, una partita a dadi o a poker. O le attenzioni di una femme fatale formosa e sinuosa come una Jessica Rabbit in carne e ossa. In un immaginario noir e decadente che deve molto a Hollywood e ai cartoon, cui il talento e la spettacolare agilità dei ballerini restituisce una galleria di ritratti e tipi umani ispirati a epoche diverse, evocate dal Jazz di Miles Davis e dal soul-funk di James Brow, dai   suoni e ritmi del Jazz di Miles Davis e del soul-funk di James Brown. Una folgorante chiusura di stagione solo momentanea per la rassegna di danza contemporanea Forme, che si prende una pausa estiva prima di riprendere con la seconda parte da ottobre a dicembre.  INFO E PROGRAMMA REC25 FORME — Teatro della Tosse – Genova   The post Genova, wanted Posse alla Tosse first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Genova, wanted Posse alla Tosse sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Come Cristo in croce. Da un libro sulla contenzione uno spiraglio per la sua abolizione
(disegno di ginevra naviglio) Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione, di Antonio Esposito, è un libro politico, di testimonianza e denuncia. L’autore ci mette in dialogo con chi la contenzione meccanica l’ha vissuta e con chi lavora quotidianamente per superarla, consentendoci di vedere oltre l’apparente stato di necessità che ancora legittimerebbe le violenze di cui racconta. In tradimento al lavoro e alle aspettative del gruppo Basaglia, la contenzione meccanica è tutt’oggi una prassi nelle strutture di assistenza psichiatrica. Per contenzione meccanica, scrive Mauro Palma, “si intende l’utilizzo di dispositivi applicabili al corpo e allo spazio circostante la persona, per limitare la libertà dei movimenti volontari; in particolare, i mezzi applicati al paziente allettato o seduto, i mezzi di contenzione di segmenti corporei e quelli che determinano una postura obbligata”. Dichiarata già con la sentenza Mastrogiovanni “un presidio restrittivo della libertà personale con una mera funzione cautelare” e non una prassi terapeutica, la contenzione continua tuttavia a essere utilizzata, perché considerata inevitabile per far fronte alle situazioni d’urgenza. L’urgenza: è l’abusata logica dell’emergenza che, anche in ambito psichiatrico, non solo consente di aggirare i limiti normativi e utilizzare una tecnica che tradisce i principi della legge 180, ma impedisce anche di destituire quel paradigma manicomialista che sopravvive, subdolo, alla sua formale abolizione. Che sia perché ancora condiviso dalla forma mentis del sistema medico di cura, o perché passivamente reiterato nell’abitudine di una prassi routinaria, il dispositivo si conserva nelle maglie di una narrazione che poggia sull’impossibilità di gestire altrimenti l’escalation dello stato d’alterazione mentale. Mostrandoci invece la possibilità concreta di prassi alternative, e condividendo con noi l’esperienza di medici che operano in reparti no-restraint, Esposito riesce a spezzare la linearità dello schema causa-effetto che giustifica il ricorso alla contenzione: se è possibile fare altrimenti, legare diventa una scelta di cui doversi assumere la responsabilità. Fuori dallo stato di necessità, gli abusi psichiatrici possono finalmente dichiararsi tali e i racconti di chi li ha subiti diventano denuncia immediata di un sistema che avrebbe dovuto mettersi nella condizione di non attuarli. Le storie che intessono le trame del libro restituiscono alle persone che le hanno vissute l’ascolto di cui il sistema sanitario le ha private. Wissem, Francesca, Elena, Bruno, Alice, Elio, Mariarosaria: da pazienti scorporati, succubi di decisioni altrui, tornano soggetti di vissuti che, direttamente o indirettamente raccontatici, possono mettere in crisi quello sguardo stigmatizzante che si è fatto complice delle loro crocifissioni. La “banalità del male” della contenzione meccanica si reitera, infatti, inosservata, solo finché non si interrompe il processo di spersonalizzazione che reifica a oggetti i soggetti psichiatrizzati. Non appena cambia il focus della prospettiva, a emergere è l’asimmetria di potere che si cela dietro il paternalistico “è per il suo bene”; da camuffata, risulta a quel punto esplicita l’ingiustizia costitutiva della contenzione – una violenza subdola, ci dice Esposito, “agita a parte dalla sottrazione delle parole della relazione e dell’imposizione di un vocabolario di comando”. Il ribaltamento del punto di vista crea una frattura che è, insieme, rottura e spiraglio: restituita alle persone la propria centralità, non solo crolla l’impalcatura retorica che giustifica i nodi della custodia psichiatrica, ma apre alla possibilità di ripartire da fondamenta diverse per costruire una salute mentale di comunità. Marga Romagnoni, intervistata da Esposito, spiega: “Affinché i processi di deistituzionalizzazione siano pienamente realizzati, perché si smetta di legare le persone, è necessario il riconosciuto protagonismo delle persone con esperienza di sofferenza psichica, accompagnato, certamente, dal sostegno di tutti gli altri”. È solo tornando alle persone che si può smettere di ricondurre a false interpretazioni e categorie nosografiche l’esigenza di assistenza e di cura, unico modo per dare priorità alla flessibilità, ai tempi della relazione, non più subordinati alle esigenze di sicurezza e tranquillità interna delle istituzioni sanitarie. È tornando alle persone che si può costruire uno spazio terapeutico in cui, in sinergia tra diversi attori e saperi, è possibile prevenire e affrontare le crisi senza che raggiungano il picco dell’emergenzialità, rispettando la corporalità di chi vive la condizione psichiatrica e assumendosi la responsabilità di accogliere e riconoscere il suo dolore. Ponendo al centro la “rincontrattazione”, l’assistenza pubblica può concepirsi dinamica e in continua revisione: può farsi coraggiosa, fuori dagli schemi, anarchica, erogatrice di un servizio non-violento perché strutturato nella relazione, tanto con le persone alle quali si rivolge, quanto con i membri dell’equipe, con il privato e il pubblico sociali. Le esperienze del Csm di Gorizia, dell’Spdc di Ravenna e dell’Ausl della Romagna ci insegnano proprio questo nei loro tentativi di dare forma concreta all’immaginario proposto da Sergio Pirro già nel 1994: un servizio territoriale che sia armonicamente composito di strutture differenziate che si coordinano tra loro, dando vita a una salute mentale multiordinale e pluriqualitativa, reperibile, tempestiva e non selettiva. Accompagnandoci oltre lo specialismo disciplinare e le porte chiuse dei reparti psichiatrici, Esposito ci permette, quindi, non solo di vedere i limiti di un’assistenza sanitaria degradata in custodia costrittiva, ma di superarli all’interno del percorso da lui stesso tracciato, facendoci immergere nella prospettiva di una cura che si esprime nel contatto di un abbraccio comprensivo. È questo il profondo potenziale del suo lavoro: ripartendo dai “sommersi” e dai “salvati” e dalle loro voci dissonanti, ci consegna un orizzonte abolizionista che già attraverso le sue parole inizia a prendere realtà. (zoe ermini)