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L’eco dei fiori sommersi, stasera al Modernissimo. Intervista a Rosa Maietta
(disegno di manincuore) L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue “novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21; proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema, un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto. Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.  L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso, poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle carte processuali. Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è durata più di due ore. Perché hai scelto l’Archivio? In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico, fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute, loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro stesse sono nel film. L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale. Qual è stato il processo creativo? Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua del Potere. Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi? L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura. Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste, anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico. Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard? Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a utilizzare e manipolare. Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai fatto il film, cosa volevi dire? Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile. Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando? Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia, nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto, insomma, per il mio film. A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo problema anche con altri tuoi colleghi. I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri. Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)
Gli sguardi coloniali sulla Palestina
IL GENOCIDIO NELLA DIDATTICA DELLA STORIA. LA PERSISTENZA DI “SGUARDI COLONIALI” SUL PASSATO INFLUENZA LA COMPRENSIONE DEL PRESENTE Il contributo di Marco Meotto al convegno La scuola non si arruola, organizzato il 4 novembre 2025 - in polemica con il divieto del ministro - da Osservatorio contro la Militarizzazione delle scuole e dell’Università e CESTES Premessa Il contributo, pensato come uno stimolo alla riflessione nel campo della didattica della storia, è stato elaborato per il convegno La scuola non si arruola, organizzato dall’Osservatorio contro la Militarizzazione delle Scuole e dell’Università e dal CESTES (Centro Studi sulle Trasformazioni Economico-Sociali). Il convegno non si è mai svolto nella sua proposta originale, perché, con un’inedita e preoccupante scelta censoria il Ministero dell’Istruzione del Merito ha intimato al Cestes (Ente accreditato per l’aggiornamento e la formazione dei docenti) di sospendere l’iniziativa e ne ha oscurato la visibilità sulla piattaforma S.O.F.I.A. per l’aggiornamento dei docenti, poiché in essa “non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti”. Con un atto di disobbedienza civile l’Osservatorio ha ugualmente svolto il convegno, riorganizzando gli interventi e ridefinendo il titolo sulla base di quanto accaduto. Il convegno “La scuola non va alla guerra. L’educazione alla pace risponde alla repressione” è stato il nuovo titolo. Lascio a chi leggerà le pagine che seguono giudicare se le riflessioni offerte siano o meno “coerenti con le finalità di formazione del personale docente”. INTRODUZIONE I propositi del contributo sono due: il primo è proporre un aggiornamento dei paradigmi di riflessione storiografica sui fenomeni genocidari nella storia del ‘900, il secondo è mostrare quanto la persistenza di “sguardi coloniali” sul passato influenzi la nostra comprensione del presente. A tenere insieme i due propositi è l’esigenza – imposta dal momento storico che stiamo attraversando – di cogliere lo stretto collegamento tra i processi di riarmo, la risignificazione semantica di termini come “guerra”, “difesa” e “pace” e la permanenza delle strutture profonde del modello dello “stato-nazione” nell’immaginario che ancora oggi domina nella società e, di riflesso, nella scuola. Nel ragionamento si proverà a mostrare come il dispositivo militare non sia un semplice strumento dello Stato, ma il braccio armato di quella logica di omogeneizzazione e di difesa dei confini – fisici e identitari – che, portata all’estremo, produce la categoria del ‘nemico interno’ e rende pensabile la sua eliminazione. La militarizzazione della società è così sia un sintomo che un moltiplicatore della logica eliminatoria alla base dei genocidi. 1. OLTRE IL PARADIGMA DELL’ECCEZIONALITÀ Il Novecento è stato spesso definito il “secolo dei genocidi”[1]. Tuttavia, la didattica della storia nella scuola ha spesso trattato questi eventi come mostruose eccezionalità, insistendo sulla specificità irripetibile di ogni fenomeno. Questo è valso in particolar modo per la didattica della Shoah[2]. Ancora più spesso la connotazione di tali fenomeni storici è stata all’insegna della categoria del “crimine”. Di questo risente senz’altro la stessa definizione di “genocidio”, così come pensata dal giurista Raphael Lemkin negli anni Quaranta del Novecento e poi introdotta nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1948. Una prospettiva storiografica improntata all’eccezionalità e alla lettura in senso criminale del genocidio come negazione assoluta dei diritti umani, pur legittima nella sua attenzione alle specificità dei singoli contesti, ha spesso trascurato di indagare le chiavi di lettura che interpretano il genocidio come un fenomeno strutturale e ricorrente nella modernità, strettamente collegato allo sviluppo dello Stato-Nazione, e come un atto politico in senso proprio. Tra le più recenti, si distingue la lezione dello storico Mark Levene – ancora non tradotto in Italia – che vede nel genocidio non certo un’anomalia, ma un’esperienza centrale dell’epoca degli stati-nazione, un lato oscuro della modernità stessa[3]. Per Levene il nodo cruciale è che il genocidio si manifesta come possibilità più propria solo all’interno delle strutture e delle ideologie caratteristiche della modernità[4]. Lo Stato-Nazione, con la sua ossessione per l’omogeneità culturale e linguistica, trasforma le sue minoranze in un “problema” da risolvere, in un corpo estraneo da espellere o al limite da ridurre in condizioni di totale subalternità, per raggiungere la piena coincidenza tra popolo, territorio e sovranità. Con scopi di questo genere si intrecciano mezzi tipici della modernità: l’approccio ingegneristico alla realtà, la fiducia nella capacità di pianificare e rimodellare la società secondo schemi razionali, la centralità del complesso militare-industriale e la progressiva militarizzazione del controllo sociale. Quando questi mezzi si combinano con forme di nazionalismo esclusivo o di ideologie totalizzanti, gli esiti possono essere un piano di distruzione o annientamento di parti o di intere componenti della popolazione. Questo paradigma può valere indifferentemente dall’ideologia al potere, dal momento che – ad esempio – anche all’interno dell’Unione Sovietica (o di altri regimi comunisti) forme di sistematica aggressione violenta nei confronti di gruppi di popolazione identificata su base etnica hanno avuto luogo attraverso pratiche ricorrente nella storia dello stato moderno. Basti pensare alla continuità di pratiche che sussiste tra la persecuzione dei circassi sotto il dominio zarista e le politiche di deportazione e annientamento di tatari e “tedeschi del Volga” in epoca staliniana[5]. Il confine tra difesa dai nemici esterni e eliminazione dei nemici interni, in questo quadro, diventa sempre più labile, e l’apparato militare diventa lo strumento principe per entrambi gli obiettivi. Questo accade perché solo lo Stato moderno possiede quegli strumenti – come la macchina burocratica, i sistemi di trasporto o la tecnologia seriale – che rendono possibile lo sterminio di massa, con un’efficienza industriale, impensabile in epoche precedenti. È in fondo questa anche la tesi sostenuta nel 1989 da Bauman nel noto Modernità e Olocausto[6]: la Shoah va intesa come il punto di approdo di un percorso storico pregresso e non come un’aberrazione inspiegabile. Anche dal punto di vista dello sviluppo politico, è in fondo il concetto moderno di sovranità a creare i presupposti di uno spazio politico chiuso in cui è lo Stato a detenere il diritto incontestabile di fare ciò che vuole con la propria popolazione. Le implicazioni di questa visione sono profonde e scomode: significa che il potenziale genocidario non è un mostro esterno, ma è insito nelle strutture stesse del mondo in cui viviamo, un’ombra proiettata dalla luce stessa della modernità[7]. 2. LE POLITICHE DELLA MEMORIA SACRALIZZATA L’intreccio tra la storia dello Stato-Nazione e l’esito potenzialmente genocida delle sue politiche si scontra con il paradosso delle politiche della memoria pubblica edificate negli ultimi decenni. Le solennità pubbliche per commemorare la Shoah – si pensi al Giorno della Memoria – sono senza dubbio momenti del calendario civile di grande valore. Hanno perseguito l’intento di trasferire il ricordo della persecuzione dal dominio esclusivo dei sopravvissuti e degli storici per consegnarlo alla coscienza collettiva, divenendo un rito laico molto importante per l’Europa postbellica. Non mi soffermo in questa sede sulle riflessioni, molto discusse nel dibattito pubblico, sull’industria culturale della memoria e sulle sue implicazioni semiotiche[8]. Mi limito a segnalare che è proprio nella sacralizzazione pubblica che si è assistito alla cristallizzazione della Shoah entro il paradigma dell’eccezionalità e del “fatto criminale”[9]. Inquadrare lo sterminio principalmente come un crimine mostruoso, un orrore che travalica la comprensione, se da un lato ne afferma l’inaudita gravità, dall’altro ne occulta la natura profondamente politica. La narrazione dell’eccezionalità è una cornice rassicurante, in un certo senso, perché colloca il male al di fuori del circolo della normalità politica moderna, come un incidente di percorso nella storia. Tuttavia, la lezione politica più scomoda e al tempo stesso più necessaria della Shoah ci impone di capire che essa non fu un meteorite piovuto dal nulla sul suolo civile d’Europa, bensì l’esito di processi storici profondi e inquietantemente connessi alla nostra storia. Ci sono ragioni storiche della Shoah che, in fondo, ci parlano in modo diretto di noi: del nostro rapporto con il mondo colonizzato e con le alterità che turbano l’ideale dell’omogeneità dello Stato-nazione[10]. Ciò significa affermare che la Soluzione Finale fu il prodotto estremo di una cultura che aveva già sperimentato, ai margini degli imperi, vale a dire nelle colonie, tecniche di segregazione, controllo e annientamento di popolazioni ritenute “inferiori”. Per quanto riguarda la storia tedesca, ad esempio, il genocidio dei popoli Herero e Nama nell’Africa Sud-Occidentale tedesca – come vedremo – ne fu non solo un semplice prologo, ma un laboratorio dove si testarono ideologie e pratiche che sarebbero state trasposte, pochi anni dopo, nel cuore dell’Europa[11]. Invece, insistere esclusivamente sul “paradigma criminale” per presentare didatticamente la Shoah vuol dire concentrarsi solo sull’epilogo, trascurando il lungo e oscuro percorso che a quell’esito ha condotto. È un percorso che intreccia le leggi razziali europee con le politiche di sfruttamento coloniale e con le formulazioni giuridiche che le hanno accompagnate, che pone accanto alla definizione giuridica del “nemico interno” la paura dell’alterità che minaccia la purezza della comunità nazionale. La focalizzazione sull’eccezionalità ha così reso difficile integrare la Shoah in una storia più ampia della violenza del Novecento, non tanto sottraendola al confronto comparativo con altri genocidi o progetti di pulizia etnica – aspetto che, invece, nell’uso politico della storia è ancora spesso evocato[12] – quanto limitando l’indagine sui suoi fondamenti politici: l’esito di una razionalità propria del modello moderno di Stato-Nazione, modellato sulla necessità di creare comunità omogenee, definendo con precise tassonomie chi appartiene alla comunità e chi ne è estraneo, chi ha diritto di cittadinanza e chi va eliminato[13]. In tal senso, le solennità pubbliche, nel loro necessario e commosso commemorare le vittime, faticano a trasformare quella memoria in una critica sistematica dei meccanismi di affermazione del potere dello Stato moderno e delle sue diverse forme assunte nello sviluppo storico. Il vero e più radicale monito della Shoah non sta dunque solo nel ricordare che l’uomo è capace di immense atrocità, ma nell’indicare come le strutture stesse dello Stato moderno, la sua capacità di classificare, controllare e amministrare la vita, affondino le radici in una storia più lunga di dominio. Questa storia è inseparabile dalle origini coloniali della modernità stessa[14]. Possiamo qui affiancare una riflessione di Mahmood Mamdani, sul quale tornerò, che afferma che l’uso del paradigma criminale nell’interpretazione delle azioni genocide distrugge ogni possibilità di comprenderne le ragioni politiche, poiché sposta tutta l’attenzione sul piano morale[15]. Mamdani afferma ad esempio che la giustizia di transizione di Norimberga “ha effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della violenza nazista a uomini particolari (per lo più uomini) e ignorando il fatto che questi uomini fossero impegnati in un progetto della modernità politica per conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.” E aggiunge che “Gli alleati che perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle americane.”[16] E si tratta di radici coloniali. 3. LO SGUARDO COLONIALE: LE RADICI DEL PROCESSO DI SEGREGAZIONE E ANNIENTAMENTO Per comprendere la radicale provocazione di Mamdani – che individua le “radici americane” del nazismo nel retroterra coloniale – è necessario partire dall’assunto che l’inizio del Novecento, il secolo dei genocidi, coincide esattamente con le battute finali di quello che può essere considerato, per scala e sistematicità, il più riuscito processo di sterminio della storia moderna: quello delle popolazioni native del Nord America, che, secondo le stime più recenti, ha causato la scomparsa di oltre il 95% della sua popolazione originaria[17]. La conquista del West e il sistema delle riserve indiane fornirono un repertorio di modelli e un precedente giuridico di profonda ispirazione per il regime nazista. James Q. Whitman ha raccontato come i giuristi nazisti studiarono attentamente le leggi statunitensi che privavano i nativi americani della piena cittadinanza, vedendo negli USA un laboratorio di legislazione razziale[18]. Lo stesso progetto di conquista del ‘Lebensraum‘, che individuava nelle terre a est della Germania lo spazio ‘vitale’, è stato posto in relazione, negli studi di Carrol P. Kakel, con l’ideologia americana dell’espansione verso il West[19]. Le riserve indiane non rappresentarono dunque una forma di tutela delle popolazioni native, ma piuttosto la conclusione logica di una politica di eliminazione. Esse furono lo strumento per completare lo sterminio attraverso mezzi amministrativi, confinando i nativi sopravvissuti in “patrie tribali”[20] prive di sovranità reale, dove potevano essere gestiti come soggetti non-cittadini. Questo sistema di governance indiretta, basato sulla definizione giuridica dell’identità etnica – come ad esempio le blood quantum laws[21] – e sulla segregazione territoriale forzata, costituì un formidabile prototipo delle successive politiche di ingegneria demografica proprie del regime nazista[22]. Il cosiddetto Generalplan Ost, che consisteva nell’ipotesi di creare riserve per le popolazioni slave nei territori occupati dell’est e l’istituzione dei ghetti ebraici come aree di segregazione temporanea prima della risoluzione definitiva del “problema ebraico”[23], dimostra la traslazione di questo modello dall’esperienza coloniale nordamericana al cuore dell’Europa. La decolonizzazione dello sguardo ci impone tuttavia di comprendere – ci ammonisce Mahmood Mamdani – come la stessa dicotomia tra “nativi” e “coloni” sia in fondo uno schema tossico e semplificatorio di cui è difficilissimo liberarsi, perché riproduce la logica identitaria alla base del conflitto stesso. Il caso della Germania è, da questo punto di vista, illuminante: la stessa popolazione tedesca, il cui governo nazista aveva perpetrato il genocidio contro gli ebrei e la riduzione delle popolazioni slave alla condizione di non-cittadini, in nome di una purezza etnica, fu a sua volta vittima, dopo la Seconda guerra mondiale, di massicci trasferimenti forzati. Milioni di cittadini tedeschi di quella che erano stati i confini della Germania tra le due guerre insieme ad altri milioni di Volksdeutschen – i cosiddetti “tedeschi etnici” – furono espulsi dalle regioni dell’Europa orientale e centrale, sulla base di una fortissima spinta nazionalista che emergeva da quelle stesse popolazioni che i nazisti avevano sottomesso[24]. Questi trasferimenti furono attuati sulla base di principi ispiratori – l’idea che uno Stato debba essere etnicamente omogeneo e che le minoranze “straniere” siano un corpo estraneo da rimuovere – che erano in piena continuità con il nazionalismo radicale del quale il nazismo stesso era stato l’espressione più feroce. Questa tragica ironia della storia dimostra come il dispositivo del genocidio e del trasferimento forzato sia una tecnologia politica sempre disponibile, un’opzione che può essere adottata e subita. Le drammatiche vicende che riguardano il controllo, l’amministrazione e il possesso delle “terre di cerniera” tra l’Europa centrale e l’Europa orientale non sono scollegate da una riflessione che interroga la possibilità di applicare la categoria interpretativa del “colonialismo di insediamento”. Peter Wolfe ci dice che il settler colonialism non è un evento, ma una struttura[25]. Il suo motore primario non è banalmente lo sfruttamento della manodopera delle terre occupate, come in altre forme coloniali, ma la garanzia di impadronirsi della terra. L’obiettivo è quindi l’eliminazione degli abitanti di un territorio, non in quanto individui in astratto, ma in quanto ostacolo fisico e giuridico al possesso della terra. Questa struttura è, fin dal suo sorgere, intrinsecamente militarizzata. La violenza non è un effetto collaterale, ma il metodo costitutivo per prendere possesso della terra e proteggere l’insediamento coloniale. La figura del ‘colono’ è dunque inscindibile da quella del ‘soldato’, e la frontiera è uno spazio di guerra permanente. Questa matrice militarista segna indelebilmente le forme di governo che da essa derivano[26]. L’eliminazione, come già accennato, può assumere diverse forme: lo sterminio fisico diretto, l’assimilazione forzata che distrugge l’identità collettiva, o la rimozione e il confinamento in territori marginali. In questa prospettiva, il genocidio non è un incidente di percorso, ma una caratteristica intrinseca, un esito sempre possibile, logico e ricorrente del progetto coloniale di insediamento. È questa struttura a fornire la grammatica fondamentale per leggere, in una chiave non eccezionalista, anche il progetto nazista. L’idea del Lebensraum – e in particolare la sua declinazione nazista[27] – non sarebbe così un’invenzione originale del nazionalsocialismo, ma la riproposizione in suolo europeo di un mito coloniale ben consolidato. Il mito tedesco dello spazio vitale ad Est riprenderebbe, da un lato, il “Destino Manifesto” statunitense, cioè la convinzione che un popolo superiore abbia un diritto divino o storico di espandersi a discapito di popoli ritenuti inferiori[28]. Dall’altro, applicherebbe ai territori dell’Europa orientale lo stesso “sguardo coloniale” che le potenze europee avevano riservato all’Africa, all’Australia o alle Americhe: le terre slave diventano, nell’immaginario nazista, “vuote” o abitate da popoli “subumani” (Untermenschen) indegni di possederle e, quindi, destinate a essere colonizzate dal Volk tedesco. Il colonialismo fornisce così il vocabolario, l’immaginario e la giustificazione per un progetto di conquista e ripopolamento che si sarebbe svolto non in un lontano “altrove”, ma nel cuore stesso dell’Europa. 4. IL LABORATORIO AFRICANO: IL GENOCIDIO DEGLI HERERO E DEI NAMA Se il modello nordamericano delle riserve e la sua logica eliminatoria fornirono un potente riferimento ideologico e giuridico, fu indubbiamente nell’Africa Tedesca del Sud-Ovest (l’odierna Namibia) che la macchina statale di una potenza europea moderna sperimentò per la prima volta, in forma compiuta, lo sterminio sistematico di interi popoli. Secondo quanto ricostruito dallo storico Jürgen Zimmerer il genocidio degli Herero e dei Nama (1904-1908) non fu un semplice episodio di crudeltà coloniale particolarmente feroce, ma un vero e proprio laboratorio dove si testarono, in un contesto di impunità quasi assoluta, le tecniche politiche e burocratiche che sarebbero confluite, pochi decenni dopo, nel cuore del progetto nazista[29]. Si tratta di una tragedia umana che nei libri di testo scolastici trova generalmente poco spazio, ma anche quando è citata, raramente la si colloca in un’ottica interpretativa di più lungo periodo, restando relegata in un discorso che affronta più o meno sommariamente le pratiche più violente del colonialismo. Andrebbe sempre precisato il contesto in cui ebbe luogo lo sterminio praticato dai colonizzatori tedeschi in Africa sud-occidentale. Sin dall’inizio della colonizzazione gli Herero e i Nama, la cui prosperità economica si basava sul possesso delle migliori terre agricole e pascolative di una regione per il resto desertica e poco fertile, erano stati indotti a indebitarsi con i colonizzatori per acquistare prodotti finiti e beni voluttuari tedeschi: a garanzia dei debiti erano state poste gravose ipoteche sulle terre. La trappola del debito scattò a seguito di una congiuntura particolarmente negativa a inizio secolo, quando la peste bovina decimò le mandrie e i raccolti furono molto modesti: i creditori tedeschi, supportati dalla forza militare, cominciarono a espropriare le terre degli Herero e dei Nama e a pignorare anche il bestiame sopravvissuto. La sottrazione del bestiame dà il via alla rivolta degli Herero, che dopo qualche incursione messa a segno negli insediamenti coloniali, sono sconfitti prima in campo aperto e poi incalzati dal generale Lothar von Trotha, inviato appositamente in Africa per “eliminare” il problema. Come ha ricostruito la storica Isabel V. Hull, a partire dal tristemente celebre ordine di sterminio (Vernichtungs Befehl) dell’ottobre 1904 che impose alle truppe la fucilazione di ogni Herero catturato dentro i confini della colonia, la repressione si trasformo in un preciso piano di sterminio. La caccia all’uomo spinse i sopravvissuti nel deserto dell’Omaheke, dove le truppe tedesche avvelenarono i pozzi d’acqua, trasformando l’ambiente stesso in un’arma di annientamento di massa. Quando anche i Nama si ribellarono a loro volta, subirono un destino analogo. Per coloro che non morirono di fame e di sete, furono allestiti campi di concentramento, come quello tristemente noto di Shark Island, il cui scopo principale era annientare i prigionieri, sottoponendoli a lavoro forzato fino allo sfinimento[30]. Le numerose acquisizioni storiografiche odierne ci permettono di leggere questi eventi non come un prologo distante, ma come un antefatto significativo e diretto della Soluzione Finale[31]. In Namibia, la Germania imperiale sperimentò per la prima volta la burocratizzazione dello sterminio, come un processo amministrato, documentato e discusso nei circoli governativi di Berlino. Gli Herero e i Nama furono da subito costruiti ideologicamente come un’alterità radicale: queste popolazioni dell’Africa sudoccidentale erano Untermenschen, subumani, esattamente come lo sarebbero poi stati slavi e ebrei, la cui esistenza stessa era considerata un ostacolo biologico al progetto coloniale. Non ultimo va sottolineato come i campi di concentramento in Namibia, rappresentarono il prototipo di uno spazio eccezionale, al di fuori della legge ordinaria, dove la vita umana era completamente spogliata di valore e ridotta a mera risorsa da sfruttare fino all’annichilimento[32]. Il “laboratorio” africano dimostra con tragica chiarezza l’esistenza di un continuum di violenza che pone in relazione l’esperienza coloniale con il regime nazista e i suoi metodi. Le tecniche di gestione della popolazione, le ideologie razziali e le strutture dell’annientamento migrarono dalla periferia coloniale verso il centro, dimostrando che il confine tra la violenza nel “mondo selvaggio” e la civiltà in patria era molto più permeabile di quanto la narrazione autoassolutoria dell’Occidente abbia, a lungo, voluto ammettere. Che esista una linea di continuità tra l’epoca coloniale e il nazismo è una tesi resa “classica” – ma mai fino in fondo recepita – già da Hannah Arendt, che poneva in continuità l’apoteosi dell’imperialismo con le politiche europee che avrebbero condotto ai fenomeni totalitari. Vale però la pena sottolineare che, nella stessa epoca in cui Arendt scriveva Le origini del totalitarismo, il poeta martinicano Aimé Césaire ci ammoniva – nel suo celebre Discorso sul colonialismo – riguardo al fatto che il nazismo, dopotutto, altro non fosse che uno choc di ritorno per gli europei che, tramite il nazismo, avevano visto applicati su se stessi i metodi coloniali[33]. 5. LA SHOAH ATTRAVERSO LA LENTE COLONIALE Alla luce della matrice coloniale, la storiografia più recente ha cominciato a interrogare la Shoah con domande radicalmente nuove. Il classico – e ormai sterile – dibattito tra intenzionalisti e funzionalisti, che per decenni ha diviso gli studiosi chiedendosi se lo sterminio fosse un piano preciso e deliberato fin dall’inizio o il frutto di una radicalizzazione progressiva del sistema nazista, appare oggi come una disputa che, nel concentrarsi sul quando e sul come, ha finito per eludere la questione più profonda del perché. Perché un progetto di risistemazione demografica dell’Europa su base razziale divenne pensabile? Perché l’eliminazione fisica di interi popoli poté presentarsi come una soluzione politica praticabile? La risposta, per una corrente sempre più influente di storici, va cercata proprio nella normalizzazione, nell’immaginario politico europeo della prima metà del XX secolo, delle logiche e delle pratiche proprio del colonialismo. Lo storico Dirk Moses, con la sua teoria del “paradigma della sicurezza permanente”, sostiene che il nazionalsocialismo ereditò e portò all’estremo una preoccupazione tipica degli stati-nazione moderni[34]: la paura dell’alterità interna percepita come una minaccia esistenziale alla coesione del corpo sociale. In questa logica, va colto lo slittamento concettuale tra il tradizionale antigiudaismo, che diviene antisemitismo nel corso dell’Ottocento, e l’intento eliminazionista del progetto nazista: gli ebrei d’Europa furono costruiti e percepiti come una minaccia prima e poi come un “nemico demografico” da eliminare, nel momento in cui l’espansione a est, a guerra in corso, sembrava praticabile. Lo sterminio non fu quindi un piano elaborato astrattamente, ma una risposta genocidaria a una percezione, non importa quanto infondata e irrealistica, di minaccia demografica, una risposta le cui opzioni erano già state esplorate e normalizzate nelle terre degli imperi coloniali[35]. Si comprende così il senso della provocatoria affermazione di Mahmood Mamdani che abbiamo citato e in cui sostiene che Norimberga abbia “depoliticizzato il nazismo”. In questo senso Mamdani denuncia come l’azione giudiziaria del tribunale alleato abbia ridotto la questione a un processo nei confronti di criminali, occultando il fatto che il progetto nazista non era un’anomalia metafisica, ma l’applicazione in suolo europeo di un modello di Stato-nazione etnicamente omogeneo, la cui realizzazione più compiuta i colonialisti avevano cercato – attraverso lo sterminio e i trasferimenti forzati – in altri continenti. Le “radici americane” del nazismo di cui parla Mamdani non sono certo un’analogia letterale, ma l’individuazione di una grammatica politica comune: la convinzione che la sovranità di un popolo si realizzi attraverso l’eliminazione dell’altro da un territorio desiderato o la sua riduzione in una condizione di totale subalternità. In questa prospettiva, la specificità della Shoah – il suo carattere industriale, burocratico e il suo focus su un gruppo definito per discendenza – non scompare, ma viene riposizionata in un quadro interpretativo più ampio. Essa non è più l’evento unico e incomparabile della narrazione eccezionalista, ma rappresenta piuttosto la sintesi più radicale e tecnologicamente avanzata delle diverse forme di eliminazione proprie del colonialismo di insediamento. È il punto in cui il modello della riserva (fondata sulla segregazione e separazione), il modello del trasferimento forzato (che ha come fine l’espulsione) e il modello del genocidio (che mira all’annientamento fisico) convergono e vengono portati a compimento in un unico, tragico processo, reso possibile dalla tecnologia e dalla burocrazia dello Stato moderno. La Soluzione Finale fu, in ultima analisi, la “questione ebraica” risolta con gli strumenti e l’immaginario della “questione coloniale”. Una chiave di lettura particolarmente efficace ce la fornisce la proposta di Enzo Traverso[36]. Nel suo La violenza nazista. Una genealogia, Traverso parla di una “grammatica della violenza” condivisa, di un repertorio di pratiche e un immaginario che circolano tra la periferia coloniale e il centro europeo. La Shoah non sarebbe dunque comprensibile né come una semplice “copia” dei genocidi coloniali, né come un evento totalmente avulso da essi. Piuttosto, essa rappresenta il momento in cui quella grammatica – fatta di campi, classificazioni razziali, burocrazia dello sterminio e sguardo eliminatorio – viene riassemblata e applicata, con una ferocia e una sistematicità senza precedenti, a un nemico interno al cuore dell’Occidente. Questa genealogia non relativizza la specificità della Shoah, ma ne storicizza le condizioni di possibilità, mostrando come il suo orrore unico sia stato reso pensabile da un linguaggio della distruzione a lungo elaborato altrove. 6. IL PARADIGMA POST-COLONIALE: DALL’APARTHEID AL GENOCIDIO Se il progetto nazista rappresentò l’apice e il crollo di un’applicazione in Europa del modello eliminatorio, il secondo Novecento vide la piena fioritura, l’adattamento e la tragica eredità di questo paradigma nei territori ex-coloniali. Qui, le categorie razziali inventate dall’amministrazione coloniale non scomparvero con l’indipendenza, ma si irrigidirono, divenendo il linguaggio stesso del potere e del conflitto politico nel mondo post-coloniale. L’esempio più sistematico e legalizzato è senza dubbio il regime di apartheid sviluppatosi in Sudafrica. I Bantustan, le “patrie tribali” assegnate ai neri, rappresentano l’evoluzione più compiuta e cinica del modello della riserva indiana – e furono pensati in totale continuità con essa, dal momento che l’edificazione del sistema dell’apartheid, a inizio Novecento, è del tutto parallelo alla risoluzione del “problema indiano” negli Stati Uniti[37]. I Bantustan non furono semplici luoghi di segregazione, ma il perno di un ingegnoso progetto di ingegneria demografica e giuridica. Privando milioni di sudafricani neri della cittadinanza nazionale e confinandoli in entità statuali fittizie e economicamente non vitali, il governo bianco poté simultaneamente sfruttarne la manodopera come “migranti interni” e negare ogni loro diritto politico all’interno dello Stato sudafricano propriamente detto. È l’applicazione su scala industriale del principio in base al quale la “nazione” si definisce attraverso l’esclusione di chi è classificato come non-appartenente ad essa. Un principio che vediamo riaffermato anche oggi attraverso una ripresa tossica del concetto di “nazione” nel discorso pubblico[38]. Un caso evidente di queste dinamiche – e che ci rimanda a vicende di tragica attualità – è quello relativo alle vicende del Sudan. In quest’area dell’Africa il dominio coloniale britannico – o meglio il “condominio” anglo-egiziano – applicò metodicamente la versione moderna del divide et impera, quella fondata, secondo la proposta interpretativa di Mamdani, su “classifica” e “comanda”[39]. Gli amministratori coloniali non si limitarono a sfruttare tensioni preesistenti tra gruppi di popolazione, ma costruirono ex novo identità razziali rigide, amministrando separatamente un “nord” arabo-musulmano e un “sud” nero e animista-cristiano, istituendo persino delle leggi che impedivano agli abitanti di una regione di viaggiare al sud senza permesso, e viceversa. Questa segregazione istituzionalizzata cristallizzò differenze e creò gerarchie razziali laddove in precedenza esistevano relazioni più fluide tra le appartenenze, trasformando così le categorie amministrative coloniali in linee di faglia identitaria insanabili. I semi avvelenati di questa politica germogliarono in decenni di guerre civili e nel successivo genocidio nel Darfur, dove il governo di Khartoum ha riprodotto lo schema coloniale mobilitando milizie janjaweed – composte da miliziani a cavallo appartenenti a gruppo di popolazione di religione islamica e di origine nomadica -contro le popolazioni nere definite, appunto, come “straniere” e “subalterne”[40]. Tuttavia, è il genocidio dei Tutsi in Rwanda nel 1994 a rappresentare l’esito più brutale e letale di questo processo di etnicizzazione coloniale. I belgi, ereditando e irrigidendo le distinzioni preesistenti, trasformarono le categorie sociali fluide di Hutu e Tutsi in razze biologiche e immutabili, fissando questa dicotomia persino sui documenti di identità. Crearono una gerarchia artificiale, favorendo i Tutsi come élite dominante – intesi come “razza hamitica” e quindi ritenuta superiore – durante il periodo coloniale, per poi, in prossimità dell’indipendenza, compiere un brusco voltafaccia e appoggiare la maggioranza Hutu, fomentandone strategicamente il risentimento contro l’élite tutsi che i colonizzatori stessi avevano creato. Questo cinico capovolgimento delle alleanze trasformò una distinzione socio-professionale in una bomba etnica a orologeria. La “razza” divenne così il codice primario della cittadinanza e del conflitto politico. Il genocidio del 1994, pianificato e portato a termine con macabra efficienza dal progetto nazionalista hutu della milizia-partito Interahamwe, fu l’atto finale di questo copione coloniale: il tentativo di creare uno Stato etnicamente “puro” (hutu) attraverso lo sterminio fisico del “nemico interno” tutsi, costruito per decenni come un corpo estraneo e pericoloso per la nazione. Come ha sottolineato Mahmood Mamdani, in Rwanda si passò dalla definizione del “nativo” (soggetto a leggi speciali) alla definizione del “cittadino”, ma un cittadino la cui appartenenza era ormai irrevocabilmente marchiata da un’identità totalmente etnicizzata e razzializzata[41]. Il genocidio fu, in questo senso, una “soluzione finale” per risolvere la questione dell’identità nazionale ereditata dal colonialismo. I casi sudanese e rwandese dimostrano, con tragica evidenza, che lo “sguardo coloniale” non appartiene a un’epoca ormai superata, ma esso è un dispositivo logico e politico di lunga durata. Le sue categorie, una volta interiorizzate, continuano a strutturare i conflitti, a definire l’appartenenza e a fornire, nei momenti di crisi più acuta, il vocabolario stesso dello sterminio. 7. IL CASO PARADIGMATICO DEL PRESENTE: LA PALESTINA La vicenda della Palestina rappresenta l’esempio contemporaneo più chiaro e discusso di un processo di colonialismo d’insediamento ancora in corso. In esso, tutte le logiche analizzate – lo sguardo coloniale, l’eliminazione dell’altro come struttura di pratica politica, l’esercizio di forme di ingegneria demografica e la creazione di forme di cittadinanza subalterna – sono osservabili in tempo reale, offrendo una lente drammaticamente attuale per comprendere la continuità di queste dinamiche. La logica eliminatoria descritta da Patrick Wolfe nelle sue riflessioni sul settler colonialism trova qui una piena applicazione. Il progetto politico sionista, nella sua componente egemonica e statuale, è stato storicamente mosso da un obiettivo primario: l’accesso alla terra e la costruzione di una sovranità nazionale ebraica in un territorio già abitato, ma reinventato come privo di popolazione, sulla base dello slogan propagandistico “un popolo senza terra, per una terra senza popolo”[42]. Ciò ha richiesto, fin dall’inizio, una serie di strategie volte all’eliminazione della società nativa palestinese. Questa eliminazione non si è espressa unicamente attraverso lo sterminio fisico, ma attraverso un ventaglio di tecniche: la sostituzione demografica attraverso l’immigrazione organizzata, l’espropriazione territoriale sistematica – iniziata con la Nakba del 1948 e proseguita con le leggi sulla proprietà degli assenti -, l’occupazione militare da parte dell’esercito israeliano dei territori formalmente sotto sovranità palestinese e, infine, l’assimilazione culturale forzata del territorio, che si esprime con la cancellazione dei toponimi arabi e con la distruzione delle vestigia della presenza araba precedente la nascita di Israele[43]. Ancora una volta la riflessione di Mahmood Mamdani sul governo coloniale che è fondato sull’identità permette di comprendere a pieno la situazione dei palestinesi rimasti all’interno dei confini israeliani del 1948[44]. Essi furono inizialmente sottoposti a un governo militare e, pur ottenendo in seguito una formale cittadinanza israeliana, rimangono di fatto cittadini subalterni, una minoranza interna la cui lealtà è permanentemente posta in condizione di sospetto e i cui diritti sono spesso subordinati alla loro non appartenenza all’identità ebraica dello Stato. Questo status riecheggia la condizione dei nativi confinati nelle riserve o dei sudafricani neri nei Bantustan: fisicamente presenti, ma politicamente segregati e giuridicamente marginalizzati. Infine, all’interno dei territori della Cisgiordania e di Gaza la situazione rappresenta l’evoluzione più contemporanea del modello coloniale. La popolazione palestinese non è stata (ancora) fisicamente sterminata in massa, ma è stata sottoposta a un processo di confinamento frammentato in enclavi non contigue. La Cisgiordania è ormai ridotta a un arcipelago di micro-cantoni separati gli uni dagli altri da check-point o da insediamenti di coloni israeliani. Un bilancio reale della distruzione sistematica operata a Gaza potrà essere compiuto solo nel prossimo futuro. Ciò che è possibile affermare è che il sistema messo in atto dai governi israeliani, sostenuto da un apparato legale e militare e da una condizione di occupazione militare permanente, ha reso nei fatti impossibile l’esistenza di una unità politica e sociale palestinese e ha impedito lo sviluppo di un’economia vitale. Di fatto è stata preclusa la possibilità di un’autodeterminazione vera. Nel caso di Israele vediamo in azione il circolo vizioso per eccellenza: la logica securitaria e militare giustifica l’occupazione, che a sua volta genera resistenza, che viene poi usata per giustificare una militarizzazione ancora più spinta e una repressione più violenta. La violenza strutturale del colonialismo e la violenza diretta dell’occupazione militare si alimentano così a vicenda. È una forma di eliminazione che agisce attraverso l’erosione delle basi materiali per la sopravvivenza collettiva, una “pulizia etnica” lenta ma insesorabile, che normalizza l’apartheid spaziale. Il caso palestinese, dunque, non è un’analogia storica forzata, ma l’ultimo anello – per ora – di una catena logica e storica. Esso ci impone di usare gli strumenti della critica postcoloniale non per archiviare il passato, ma per decifrare un presente in cui lo Stato-nazione, nella sua ricerca di omogeneità etnica, continua a produrre forme di esclusione, segregazione e eliminazione. Ci obbliga a chiederci, oggi, dove e come si stia scrivendo la prossima pagina di questa storia. CONCLUSIONI. PER UNA DIDATTICA DELLA STORIA COME CRITICA DEL PRESENTE Questa ricognizione – senza pretesa di esaustività – attraverso alcune politiche dalle intenzioni genocidarie nel corso del ‘900 non ha avuto l’ambizione di stabilire equivalenze morali, ma di tracciare connessioni storiche e strutturali. Si giunge a una conclusione scomoda ma necessaria: il genocidio non è il ritorno di una barbarie arcaica, ma un potenziale insito nella modernità politica stessa, nel suo cuore oscuro che batte all’incrocio tra Stato-nazione, monopolio assoluto della sovranità e progetto coloniale. La didattica della storia non può più permettersi di insegnare gli eventi genocidari come mostruose eccezioni a un ordine altrimenti fondato sui diritti umani, consegnando i fatti storici a una commemorazione sacralizzata che, pur nel suo valore civile, ne depotenzia la carica politica. Al contrario, la didattica deve farsi decoloniale in senso proprio – il che non significa inseguire mode del momento. Si tratta di smontare gli “sguardi coloniali” che permangono nei nostri manuali e nel senso comune, sulla base di un aggiornamento dei paradigmi storiografici. Compito della ricerca didattica è mostrare come la linea che unisce le riserve indiane, i campi namibiani, i ghetti nazisti, i Bantustan sudafricani, le colline del Rwanda e le enclavi palestinesi non è una forzatura, ma la traccia di un unico, profondo filo rosso: la logica dell’eliminazione dell’Altro per fare posto a una comunità immaginata come pura e pacificata. Alla luce di questa consapevolezza, il vero monito della storia per il nostro presente non è solo annunciare “mai più“. È anche, e forse soprattutto, suggerire alle nuove generazioni: “guardatevi intorno e riconoscetevi nell’altro“. In un’epoca di retorica identitaria e di corsa al riarmo, di crisi migratorie e di ridefinizione violenta dei confini, le strutture mentali e politiche che abbiamo analizzato sono più vive che mai. Smontare la retorica della sicurezza nazionale, che legittima la militarizzazione e l’esclusione, diventa un compito pedagogico urgente. Insegnare questa storia, allora, significa anche decostruire il mito dello Stato che, per proteggerci, deve sempre identificare un nemico e armarsi fino ai denti, mostrando come questo stesso meccanismo sia all’origine dei più grandi disastri del secolo scorso. Insegnare la storia, allora, cessa di essere esercizio di erudizione, ma diventa un atto di critica del presente. Significa dotare le nuove generazioni di strumenti per riconoscere, smascherare e contrastare, nell’oggi, quelle stesse logiche di esclusione che producono la catastrofe. Solo una didattica coraggiosa, che percorre strade scomode, può diventare strumento di comprensione e di trasformazione del mondo. MARCO MEOTTO È DOCENTE DI FILOSOFIA E STORIA E ATTIVISTA DI ASSEMBLEA SCUOLATORINO  NOTE -------------------------------------------------------------------------------- [1] Si vedano: Weitz, E. D. (2003), A century of genocide: Utopias of race and nation, Princeton University Press; Bruneteau, B. (2006), Il secolo dei genocidi, Bologna, Il Mulino. (ed. or. 2004) [2] Una buona rassegna degli sviluppi didattici legati alla storia della Shoah è presentata in: Olivieri, N., Nencioni, C., Mastretta, E., (2020), Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, in Novecento.org, n. 13 febbraio 2020. Si veda anche Traverso, E.,  (1995) (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino, Bollati Boringhieri. La riflessione sulla “sacralizzazione” della Shoah è trattata anche in Pisanty V., (2012), Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano. [3] Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 1. The meaning of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2005), Genocide in the age of the nation state. Vol. 2. The rise of the West and the coming of genocide, Oxford University Press; Levene, M. (2013), Devastation: Volume I: The European Rimlands 1912–1938. Oxford University Press; Levene, M., Annihilation: Volume II: The European Rimlands 1939–1953. Oxford University Press [4] Esiste tuttavia una storiografia che, pur riconoscendo una centralità alle forme di genocidio che si sviluppano nell’ambito dello Stato-Nazione, ne sottolinea il carattere di ricorrenza del fenomeno genocidario anche in epoche precedenti. Si veda al proposito Naimark, N.M., (2016), Genocide. A World History, Oxford University Press [5] Sulla vicenda dei Circassi: R. Walter, (2013), The Circassian Genocide. Genocide, Political Violence, Human Rights, Rutgers University Press. Sulle politiche staliniane nei confronti di “tedeschi del Volga” si veda: Iashchenko, I., & Carteny, A. (2024). ‘Is it Genocide or not?’ Some Considerations about the Ethnic Cleansing and Punishment System in Soviet Union (1930s-1950s). Nuovi Autoritarismi E Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società (NAD-DIS), 6(2) [6] Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna, Il Mulino (ed. or. 1989). [7] Dopotutto si tratta della tesi di fondo che anima la riflessione di Adorno e Horkheimer nel loro più celebre lavoro: Adorno, T.W., Horkheimer (1966), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, (ed. or. 1947) [8] Riflessioni importanti sull’argomento possono prendere le mosse da: Novick, P. (1999), The Holocaust in American life. Houghton Mifflin; Finkelstein, N. G. (2000), The Holocaust industry: Reflections on the exploitation of Jewish suffering, Verso; Pisanty, V. (2021), I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani. [9] Interessante è la riflessione di David Bidussa che invita a pensare alla Shoah in termini storici e non semplicemente morali. Bidussa, D., (2009), Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino [10] Mi ha aiutato a sviluppare la riflessione sul senso della memoria della Shoah in relazione ai processi di decolonizzazione il saggio di Rothberg, M. (2009), Multidirectional Memory. Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford University Press [11] Nicolas Patin (2022), «The massacre of the Herero and Nama: A colonial laboratory for genocide?», Encyclopédie d’histoire numérique de l’Europe [online], ISSN 2677-6588, https://ehne.fr/fr/node/21449 published on 18/02/22 , consulted on 31/10/2025 [12] Sul disinvolto modo con cui si producono storie comparative tra la Shoah e altre tragedie del Novecento sono preziosi alcuni lavori di Focardi:   F. Focardi, B. Greppo (a cura di), (2013), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma; F. Focardi (2020), Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma [13] È la tesi che si incontra nelle riflessioni di Foucault e in particolare in Foucault, M. (1998), Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano. Più recentemente le riflessioni antropologiche di James C. Scott, centrate sull’analisi di contesti non europei (in particolar modo il sud-est asiatico) stimolano una riflessione in base alla quale è la forma statale in quanto tale a portare con sé la possibilità dell’annientamento genocida: si veda Scott, J.C., (2020), L’arte di non essere governati. Una storia anarchica degli altopiani del Sud-Est asiatico, Einaudi, Torino. [14] Di grande rilievo sono le riflessioni che accompagnano ad esempio la recente svolta storiografica che sottolinea la centralità delle vicende africane (e del rapporto europeo con l’Africa) nella nascita della modernità: il titolo originale del saggio di Howard W. French – Born in blackness – rende sicuramente meglio l’idea di quanto faccia la traduzione italiana. Vedi French H.W., (2023), L’Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, Rizzoli, Milano (ed. or. 2021) [15] Peraltro lo slittamento semantico dal piano politico al piano coloniale non tiene conto di come la stessa origine dei “diritti umani” debba essere riconsiderata alla luce di riflessioni decoloniali. Si veda il recente Zaffaroni. E.R., (2025), Una storia criminale del mondo. Colonialismo e diritti umani dal 1492 ad oggi, Laterza, Bari). Un altro stimolante spunto tiene conto di acquisizioni storico-antropologiche: devo moltissimo alle illuminanti riflessioni del compianto David Graeber e di David Wengrow sull’origine “irochese” della riflessione moderna e illuminista sulla condizione umana. Vedi Graeber, D., Wengrow, D., (2021), L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano [16] Mamdani, M. (2023), Né coloni, né nativi. Lo Stato-Nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, pp. 26 [17]  I dati sono quelli di Stannard, D.E. (2001), Olocausto americano. La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri (ed. or. 1993) [18] Whitman, J. (2017), Hitler’s American Model: The United States and the Making of Nazi Race Law, Princeton University Press [19] Kakel C.P., (2011) The American West and the Nazi East: A Comparative and Interpretive Perspective, Palgrave; Kakel C.P. (2013), The Holocaust as Colonial Genocide: Hitler’s ‘Indian Wars’ in the ‘Wild East’, Palgrave [20] Leake E., (2024), “The Construction of ‘Tribe’ as a Socio-Political Unit in Global History” in The Historical Journal. 2024;67(4), pp. 826-849. doi:10.1017/S0018246X24000323 [21] Ancora attualmente circa il 70% delle riserve indiane riconosciute dal governo federale degli Stati Uniti assegna la cittadinanza alla “naziona” sulla base di una legislazione fondata sulla “quantità di sangue indiano” posseduta. Il Native Governative Center sostiene che sia un elemento di profonda autodeterminazione lasciare alle nazioni indiane stesse l’ultima parola sull’efficacia delle leggi basate sul sangue (si veda: https://nativegov.org/resources/blood-quantum-and-sovereignty-a-guide/ consultato il 3 novembre 2025) [22] Oltre al già citato Whitman, sul tema segnalo Miller, R.J., (2020), “Nazi Germany’s Race Laws, the United States, and American Indians”, in St. John’s Law Review, Volume 94, 2020, N. 3, pp. 751-817 [23] Una riflessione interessante sull’immaginario nazista e sulla prospettiva di trasformare lo spazio vitale in una vasta regione di comunità di coloni la si trova in Fernández de Betoño, U. (2020): «The Nazi anti-urban utopia: ‘Generalplan Ost’» in Mètode Science Studies Journal, vol. 10, pp. 165-171, 2020, Universitat de Valencia [24] Questo imponente fenomeno (stimato nel movimento di un numero compreso tra 12 e 14 milioni di profughi) comportò almeno 500.000 vittime, in prevalenza tra le fasce di popolazione più fragile, come anziani e bambini. Sul tema: Douglas, R.M. (2012), Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War, Yale University Press [25] Wolfe, P., (2023). “Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione del nativo”. In Il colonialismo di insediamento. Diritto, terra e sovranità, a cura di Lorenzo Veracini e Micaela Frulli, Meltemi, Milano, pp. 53-86. In campo accademico internazionale, le riflessioni sulle distinzioni tra il settler colonialism e altre pratiche coloniali si sono andate sviluppando da almeno cinquant’anni. Dal 2011 esiste la rivista internazionale Settler colonial studies, edita da Taylor & Francis [26] Sul caso sudafricano sono ricchi di spunti i saggi raccolti in un’opera collettanea a cura di Miller, S.M., (2009), Soldiers and Settlers in Africa: 1850 – 1918, Koninklijke Brill, Leiden. In particolar modo il capitolo di John Laband (“From Mercenaries to Military Settlers: The British-German Legion, 1854-1861”) [27] Liulevicius, V.G., (2011), The German Myth of the East: 1800 to the Present, Oxford University Press [28] Sul tema del “Manifest Destiny” esistono ormai una storiografia e una riflessione consolidata, tra cui segnalo: Slotkin, R. (1973), Regeneration through Violence. The Mythology of American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown, Connecticut;  Horsman, R. (1981), Race and manifest destiny: the origins of American racial anglo-saxonism, Harvard University Press; [29] Accanto a Zimmerer (2024, cit.), il filone della continuità tra il genocidio namibiano e la successiva storia tedesca è esplorato anche da altri studiosi. Si veda: Erichsen, C.W., Olusoga, D., (2010), The Kaiser’s Holocaust. Germany’s Forgotten Genocide and the Colonial Roots of Nazism, Londres, Faber and Faber, 2010 [30] Hull, I.V., (2005), Absolute Destruction: Military Culture and the Practices of War in Imperial Germany, Cornell University Press, Ithaca and London [31] Zimmerer, J. (2024), From Windhoek to Auschwitz? Reflections on the Relationship between Colonialism and National Socialism, DeGruyter Oldenbourg, Berlin [32] Erichsen, C. W. (2005). “The angel of death has descended violently among them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. Leiden: African Studies Centre. Retrieved from https://hdl.handle.net/1887/4646 [33] Césaire, A. (2005). Discours sur le colonialisme, Éditions Présence Africaine, Paris, (ed. or. 1950), p. 88 (traduzione mia): “Sì, varrebbe la pena studiare, clinicamente e in dettaglio, gli approcci di Hitler e dell’hitlerismo e rivelare al borghese molto distinto, attento umanista, buon cristiano del XX secolo che porta dentro di sé un Hitler inconsapevole, che Hitler dimora in lui, che Hitler è il suo demone, che se lo denigra, è per mancanza di logica, e che, in fondo, ciò che non può perdonare a Hitler non è il crimine in sé, il crimine contro l’umanità, non è l’umiliazione dell’umanità stessa, è il crimine contro i bianchi, è l’umiliazione dei bianchi, e per aver applicato all’Europa metodi colonialisti che fino ad allora erano stati applicati solo agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai neri d’Africa.” [34] Moses, A. D. (2021). The Problems of Genocide: Permanent Security and the Language of Transgression. Cambridge University Press [35] Moses (2021, cit.) sviluppa questo ragionamento in particolare nel capitolo intitolato “The Nazi Empire as Illiberal Permanent Security” (pp. 277-331), in cui sostiene che il progetto nazosta teneva insieme un immaginario imperialistico e le pratiche proprie del colonialismo di insediamento. [36] Traverso, E., (2002), La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna [37] Il Land Act del 1913 – che fu il fondamento giuridico ed economico sulla cui base si sarebbe poi sviluppato il sistema dell’apartheid – assegnava il 7% del territorio sudafricano alle popolazioni native e la restante parte ai coloni bianchi. È evidente l’analogia con quanto stesse accadendo quasi contemporaneamente negli Stati Uniti con le leggi di creazione delle riserve indiane. Si veda Worden, N., (2012), The Making of Modern South Africa: Conquest, Apartheid, Democracy, Wiley-Blackwell, Chichester [38] Si veda: Calvi, A., (2022), Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda, in “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”, Inverno 2022 [39] Mamdani, M., (2012), Define and Rule: Native as Political Identity. Harvard University Press [40] Sharkey, H. J. (2003), Living with Colonialism: Nationalism and Culture in the Anglo-Egyptian Sudan. University of California Press [41] Mamdani, M., (2001), When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism, and the Genocide in Rwanda, princeton University Press [42] Pappé, I., (2022), Dieci miti su Israele, Temu Edizioni, Napoli. In particolare si vedano il primo e il secondo capitolo “Palestina, terra di nessuno” e “Gli ebrei: un popolo senza terra”. [43] Si veda il recentissimo Rashidi, K., (2025), Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, Laterza, Roma-Bari [44] Mamdani, M. (2023), cit., pp. 294-370 Bibliografia Adorno, T.W., Horkheimer, M. (1966). Dialettica dell’illuminismo. Torino: Einaudi (ed. or. 1947) Bauman, Z. (1992). Modernità e Olocausto (M. Baldini, trad.). Bologna: Il Mulino (ed. or. 1989) Bidussa, D. (2009). Dopo l’ultimo testimone. Torino: Einaudi Bruneteau, B. (2006). Il secolo dei genocidi. Bologna: Il Mulino (ed. or. 2004) Calvi, A. (2022). Con la destra al governo la parola ‘nazione’ è tornata di moda. In “Parole. Numero speciale di Internazionale – L’Essenziale”, Inverno 2022 Césaire, A. (2005).Discours sur le colonialisme. Paris: Éditions Présence Africaine (ed. or. 1950) Douglas, R.M. (2012). Orderly and Humane: The Expulsion of the Germans after the Second World War. Yale University Press Erichsen, C.W. (2005). “The angel of death has descended violently among them”: concentration camps and prisoners-of-war in Namibia, 1904-08. 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DeGruyter The post Gli sguardi coloniali sulla Palestina first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Gli sguardi coloniali sulla Palestina sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione
“VITE DURE”, A CUNEO LA MOSTRA FOTOGRAFICA DEL REPORTER TORINESE. CRONACHE DI MIGRAZIONI, FATICHE, SOLITUDINI La durezza del lavoro, la lontananza dagli affetti, i legami sospesi, ma anche la solidarietà, la resilienza e la capacità di reinventare la propria vita altrove. Le “vite dure”. Curata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea, la mostra espone un centinaio di fotografie in bianco e nero dedicate al tema dell’emigrazione degli Italiani fra gli anni ’50 e ’70, scattate da Mauro Vallinotto. Questo artista di Torino, classe 1946, si è avvicinato alla fotografia alla fine degli anni ’60, concentrandosi in particolare sulle questioni sociali di quel periodo. I suoi primi scatti ritraevano le condizioni degli immigrati provenienti dal Sud Italia e le lotte dei lavoratori della FIAT: lavori che lo hanno portato immediatamente a collaborare con il settimanale L’Espresso. “Ho avuto la fortuna di vivere in quella Torino che a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 era uno straordinario laboratorio politico e sociale […] la città-fabbrica di Torino era fatta di tram e biciclette, case fatiscenti, masse di uomini e donne che scendevano dei treni dal Sud con le valigie legate con lo spago […] il loro era un lavoro fatto di sudore e fatica, sporco […] era una umanità dolente così tragicamente simile a quella incontrata in quegli stessi anni nei miei viaggi in Belgio e Germania fatti per raccontare l’odissea delle migliaia di nostri immigrati approdati in terre per loro sconosciute per cultura, lingua e clima […] una fatica di vivere resa più pesante dagli atteggiamenti ostili verso i nuovi arrivati”, scrive Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.  Le immagini, acquisite dall’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, raccontano uno dei capitoli più intensi della storia italiana recente: l’emigrazione di migliaia di italiani o dal Sud in cerca di un futuro migliore nelle fabbriche del Nord, in Germania o in Belgio.  All’inizio degli anni ’70, l’Italia conobbe una nuova ondata migratoria, sia interna che verso l’estero, spinta dalla ricerca di lavoro nelle grandi fabbriche e nei distretti industriali europei. Dal Sud, migliaia di giovani si trasferirono a Torino, attratti dalle campagne di assunzione della FIAT: per molti l’integrazione fu difficile, caratterizzata da soffitte fatiscenti e quartieri ghetto costruiti in fretta e furia intorno alle fabbriche. Oltre confine, la Germania Ovest divenne una destinazione privilegiata. A Wolfsburg, la Volkswagen fece arrivare in treno centinaia di immigrati italiani, alloggiandoli in villaggi operai separati dalla città. Ancora più dure erano le condizioni di coloro che erano impiegati dalle Ferrovie Federali, costretti a vivere nei Bauzug, treni trasformati in cucine e dormitori, costantemente in movimento e senza una dimora fissa. In Belgio, l’estrazione del carbone continuava ad attrarre migranti. Il lavoro rimaneva pesante e afflitto da gravi malattie professionali, ma i nuovi arrivati – giovani siciliani, calabresi e sardi con un background educativo più solido – alimentarono le lotte sindacali e contribuirono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro.  La mostra, divisa in cinque sezioni, ci restituisce per immagini questa storia.  PRIMA SEZIONE: SOGNI E FAGOTTI.  Un viaggio lunghissimo, ventitré ore dalla Sicilia al Piemonte attraversando lo Stivale. Le valigie di cartone legate con lo spago racchiudono abiti leggeri e i ricordi di una vita. Uomini di tutte le età sono assiepati nelle carrozze di quei treni dai nomi quasi beffardi: la Freccia del Sud, il Treno del Sole. Dai finestrini aperti entrano i profumi delle terre che stanno lasciando: l’azzurro del mare, le spiagge incastonate nelle rocce laviche, i paesi arroccati sulle colline. Tutto si dissolve lentamente nella corsa verso le fabbriche del Nord. Come cantava Sergio Endrigo: “il treno che viene dal Sud / non porta soltanto Marie /con le labbra di corallo. / Porta gente nata tra gli ulivi, / porta gente che va a scordare il sole”.   Torino: il Treno del Sole alla stazione di Torino Porta Nuova  All’arrivo nella stazione di Porta Nuova, dove le pensiline non bastano a contenere tutti i vagoni, questi migranti in cerca di un futuro si trovano catapultati in un ambiente ostile, sconosciuto. Solo chi ha già un contatto – parenti o amici – sa dove andare. Gli altri, arrivati tra gli anni ’50 e ’60, si muovono spaesati in una città travolta dalla richiesta di manodopera delle fabbriche FIAT e dalla conseguente emergenza abitativa. Tra occupazioni abusive e sgomberi, molti si arrangiano nelle baracche di Borgo San Paolo e di Altessano, oppure si stipano nelle fatiscenti soffitte del centro storico, dove i letti vengono affittati a rotazione, seguendo i turni del lavoro in fabbrica. Si costruiscono in fretta interi quartieri-ghetto, dalle Vallette a Mirafiori Sud, che anziché integrare finiscono per amplificare le distanze sociali e culturali. Nelle strade e nei linguaggi quotidiani emergono diffidenza, pregiudizi, epiteti dialettali inventati per marcare la differenza.   Kästorf: l’arrivo di un emigrato italiano nel villaggio operaio della Volkswagen   Eppure, dentro quelle periferie nate come zone di confine, qualcosa cambia. Le famiglie si radicano, i bambini crescono, le abitudini si fondono. Le tradizioni del Sud resistono e si adattano al ritmo della città industriale. Le feste di quartiere, le voci dei mercati mescolano inflessioni e ricette, e la domenica tutti a giocare a carte, con la bianca camicia d’ordinanza a maniche corte, come nelle piazze dei paesi che hanno lasciato, diventando parte del paesaggio torinese.  Una famiglia di emigrati  SECONDA SEZIONE: UNA VITA SUI BINARI La seconda sezione è dedicata all’emigrazione italiana in Germania, dove gli uomini venivano talvolta impiegati come operai itineranti sui treni.  Negli anni Settanta la Deutsche Bundesbahn, le Ferrovie Federali Tedesche, utilizzava per la manutenzione della rete ferroviaria della Germania Ovest una singolare struttura di lavoro: i Bauzug, i “treni operai”. Erano convogli speciali che univano officina, dormitorio e mensa, viaggiando lungo il Paese per eseguire lavori di riparazione o di controllo ovunque si presentasse un guasto. Le carrozze erano un’eredità delle ferrovie del Terzo Reich: vecchi vagoni con piccole piattaforme alle estremità che non permettevano facilmente il passaggio da un vagone all’altro.   Un emigrato italiano sul treno-alloggio della DB  Ognuna aveva una funzione precisa: alcune erano dotate di letti a castello e cuccette, altre adibite a cucina o a spazio comune. In certi casi c’era persino un cuoco incaricato di preparare i pasti per chi non voleva arrangiarsi. Erano camper su rotaia, microcosmi mobili capaci di offrire tutto il necessario per vivere e lavorare.  A dirigere i lavori erano capisquadra tedeschi, ma la manodopera era composta in gran parte da migranti italiani, arrivati in Germania negli anni del boom economico. Per molti di loro il Bauzug rappresentò un destino di isolamento: non esistendo confini regionali o gerarchie territoriali, i treni operai si muovevano dove serviva, da Monaco a Francoforte, da Amburgo a Stoccarda. Ogni intervento poteva durare giorni o settimane, impedendo di fatto ai nostri connazionali non solo di stabilirsi in un luogo o costruirsi una famiglia, ma anche, più semplicemente, di ricevere la posta da casa, vivendo in una precarietà costante, sospesi tra una fermata e l’altra, lontani dagli affetti e dalla stabilità, nomadi loro malgrado.  LA TERZA SEZIONE: UOMINI SOLI Uomini soli è dedicata agli emigrati italiani alla Volkswagen di Wolfsburg, una vicenda collettiva spesso dimenticata. Si tratta di migliaia di lavoratori, maschi, giunti nella Germania Ovest dopo l’accordo bilaterale tra Roma e Bonn del 1955. Sono i Gastarbeiter, i “lavoratori ospiti”: reclutati dal Sud – siciliani, calabresi, lucani – spesso senza istruzione né conoscenza del tedesco, a volte persino incapaci di esprimersi in un italiano corretto.  Ad accoglierli è Wolfsburg, città senza radici antiche, fondata nel 1938 come “Stadt des KdF-Wagens”, la città dell’auto del popolo voluta dal regime nazista. Distrutta dalla guerra, rinasce nel dopoguerra attorno alla Volkswagen, diventando negli anni Cinquanta uno dei motori del miracolo economico tedesco, a soli 18 km dal confine con la DDR.   Un emigrato italiano in Germania nella sua cucina di fortuna   I primi italiani arrivano nel 1962, ospitati nelle baracche lasciate dall’esercito britannico dopo l’occupazione, poi trasferiti negli alloggi di Kästorf, un quartiere-dormitorio costruito dall’azienda alla parte opposta della città, quasi a sancirne l’isolamento fisico e sociale.Fuori dalla fabbrica, Wolfsburg offre ben poco: nessun centro storico, pochi svaghi, una vita scandita dal lavoro. Eppure, su poco più di centomila abitanti negli anni Sessanta, oltre ventimila sono italiani: tanto che la città viene chiamata “la più italiana della Germania”.  Kästorf, Germania Ovest. Le note di una fisarmonica contro la malinconia nel villaggio della Volkswagen.  Quello degli operai italiani è un mondo interamente maschile, segnato da turni estenuanti alla catena del Maggiolino, il modello di punta della Volkswagen, dove si lavora piegati dentro le scocche o sollevando portiere e sedili a mano.   Wolfsburg: un operaio italiano al lavoro sul maggiolino Volkswagen  Le serate scorrono nei Kaffeehaus, tra partite a carte o a biliardino e le pagine della Gazzetta dello Sport che arriva con giorni di ritardo.   Kästorf: Partite a tressette nella Kantine del villaggio  Col tempo, quel mondo si apre. Molti dei Gastarbeiter, partiti per restare “solo qualche anno”, mettono radici. Arrivano le famiglie, nascono figli che parlano tedesco come lingua madre. Seconde e terze generazioni perfettamente inserite nel tessuto sociale e culturale della città.  Una famiglia di emigrati italiani  QUARTA SEZIONE: ULTIMA FERMATA MIRAFIORI  L’approdo era sempre lo stesso: la grande fabbrica di Mirafiori, con i suoi ritmi serrati e implacabili che ti prendevano appena varcavi i cancelli d’ingresso. Nel grande stabilimento della Fiat la vita era scandita dai turni in un luogo di lavoro dove contavano i minuti per entrare, uscire, mangiare, andare alla toilette (a discrezione del capo reparto) e, soprattutto, contavano i secondi nella scansione delle operazioni che impegnavano gli operai quasi sempre in posizioni assurde, accucciati sui pianali delle auto o sdraiati sotto i telai degli autocarri.  Torino, 1969: Un guardiano alla Porta 8 della FIAT Mirafiori  Anche a colonna sonora era sempre la stessa, per ore: i soffitti che sorreggevano i convogliatori per far viaggiare motori e scocche erano come un cielo buio; i pavimenti avevano il colore del catrame e tutto, in qualsiasi reparto, era invaso dal fragore e dal calore: le scintille delle saldatrici, lo sferragliare delle catene di montaggio, sibili, getti d’acqua e d’aria compressa, il clangore delle lamiere piegate, le voci di chi urlava all’orecchio del compagno per farsi sentire.   Torino: un metalmeccanico dello stabilimento Fiat OM autocarri  E poi, i 20 minuti per consumare il pranzo nel barachin portato da casa, prima che le lotte sindacali dell’Autunno caldo portassero alle conquiste sancite dallo Statuto dei lavoratori nel 1970. Così ogni giorno, che piovesse o ci fosse il sole, così come l’alternarsi del giorno e della notte nella rotazione dei turni nei reparti.  Rivalta di Torino: il barachin per gli operai nella mensa della Fiat  Andare e tornare dalla Fiat significava tante cose: tram, pullman, treni, biciclette, con il tesserino di riconoscimento tra i denti da mostrare agli ingressi ai sorveglianti avvolti in cupe mantelline. E a fine turno, la corsa tra le pozzanghere del piazzale sterrato della vecchia stazione del Lingotto, dove, violando ogni regola di sicurezza, ci si arrampicava dalla massicciata dei binari sui vagoni per trovare uno spazio dove abbandonarsi al sonno.  E si dormiva, andando e tornando: sui bus navetta, sui pullman, sul tram della linea 10 con il capolinea “FIAT MIRAFIORI” scritto in nero sulla fiancata. Teste reclinate, busti appoggiati al sedile davanti: la spossatezza del dopo, la consapevolezza dell’implacabile appuntamento del giorno seguente.  Torino: la ressa dei lavoratori pendolari per trovare un posto sul treno del ritorno  QUINTA SEZIONE: NERI COME IL CARBONE.  Le foto sono scattate nel cuore del Belgio industriale degli anni Settanta, nella regione di Charleroi, dove la vita dei minatori italiani si consuma tra le gallerie del carbone e i villaggi operai.   La Louvière: una strada del quartiere costruito per ospitare i minatori di Bois du   Il ricordo della tragedia di Marcinelle, dove nel 1956 persero la vita 136 connazionali, è una ferita lontana dal rimarginarsi.   Marcinelle: il cimitero dei minatori italiani morti nella tragedia del 1956   Le miniere restano luoghi segnati da incidenti e malattie professionali: asbestosi, la silicosi e le intossicazioni da gas sono presenze quotidiane e letali. Ma a questa fatica si aggiunge la minaccia incombente della chiusura: il carbone belga non è più competitivo e il piano di smantellamento delle miniere procede inesorabile, innescando un’ondata di disoccupazione che colpisce in primo luogo i lavoratori immigrati.   La Louvière: un minatore appena uscito da un pozzo  Nelle aree dell’Hainaut e del Limburgo, il “Paese Nero”, gli uomini che risalgono dai pozzi, volti scavati, corpi anneriti dalla polvere, occhi che cercano la luce dopo ore di buio, sembrano ignorare le ombre sul loro futuro.   Un minatore negli spogliatoi della miniera di Bois du Luc  Dopo la doccia, si cambiano in spogliatoi senza armadietti, dove gli abiti sono custoditi in piccole borse di tela appese a catene al soffitto per prevenire l’accumulo di pulviscolo.  Gli spogliatoi della miniera di Bois du Luc  Fuori dalle miniere, la vita è dura. I villaggi operai si allineano ai piedi dei terril, le colline nere di scarti minerari. Case identiche, porte in fila lungo la stessa strada, come al Carré du Bois-du-Luc di La Louvière. Nessuna cucina comune, pochi mobili, spesso neppure i vetri alle finestre. Tutto è da costruire, persino la propria quotidianità.   Waterschei: le baracche che ospitano i minatori italiani  Sono quasi tutti uomini soli. I più anziani, emigrati all’inizio degli anni Cinquanta (principalmente bergamaschi e abruzzesi), trascorrono le sere nei bar per italiani o nelle cantines, dove un bicchiere di birra aiuta a dimenticare la fatica e il buio.   Waterschei: Il circolo ritrovo dei minatori italiani del Limburgo  I più giovani, invece, provenienti dal Sud (siciliani, calabresi, pugliesi), non hanno più gli occhi rivolti solo al paese d’origine. Sono la seconda generazione di migranti, e il loro atteggiamento verso il Paese ospitante è radicalmente mutato. Non si sentono più solo ospiti o manodopera usa e getta. Di fronte alla crisi e alle discriminazioni, si organizzano sindacalmente rivendicando pari diritti. Da lavoratori invisibili, diventano protagonisti di una nuova stagione dell’emigrazione italiana: quella dell’integrazione, seppur difficile e combattuta, in un Belgio che sta chiudendo un capitolo fondamentale della sua storia industriale.  Bruxelles: una manifestazione sindacale degli emigrati italiani in Belgio  Il percorso espositivo accompagna il visitatore in un viaggio tra volti segnati dalla fatica, gesti ripetuti accanto ai macchinari in catene di montaggio frenetiche, corpi coperti di polvere e sudore e luoghi malsani, trasporti inadeguati per i pendolari che testimoniano la fatica e la speranza di chi partiva. Sono immagini che mostrano la durezza delle condizioni di lavoro ma rivelano anche la forza e la dignità dei lavoratori, protagonisti silenziosi della costruzione della modernità. I primi piani che spiccano nelle immagini, l’attenzione riservata agli sguardi, la ricerca dei particolari e delle specificità delle situazioni e degli ambienti sono assai diversi dalle immagini cui la cronaca c’è abituati in questi anni, quelle delle folle anonime rinchiuse nei campi di raccolta, di uomini indistinti accalcati su gommoni, di masse umane stipate su carrette del mare, volte a incrementare la “sindrome da invasione” alimentata dalla destra, che fa dell’emigrazione una questione di cronaca nera, di allarme sociale, di pubblica sicurezza, dimenticando le storie personali che stanno dietro ad ogni partenza, ad ogni viaggio e, nella migliore delle ipotesi, ad ogni arrivo. Le foto di Vallinotto, invece, rivelano grande sensibilità e profonda umanità nel cogliere dietro ai volti neri dei minatori, alle tute degli operai, alle valigie di cartone vicende umane difficili, fatte di fatica e sradicamento.  Con uno sguardo partecipe e privo di retorica, Vallinotto restituisce la complessità di quell’esperienza collettiva. La mostra non si limita a documentare, ma invita a riflettere su un’esperienza collettiva che ha segnato il Novecento e continua a parlare al presente.  I curatori hanno scelto di non confrontare esplicitamente il passato e il presente di emigrazione/immigrazione attraverso la giustapposizione di immagini di epoche diverse, ma hanno lasciato alla potenza delle foto di Vallinotto “un compito maieutico” – come lo definisce il curatore Gigi Garelli -, permettendo all’occhio del visitatore la libertà di individuare i termini di un confronto. “oggi gli immigrati di quegli anni sono stati sostituiti dai maghrebini. dei rumeni, dagli albanesi, dai turchi e dei profughi in fuga dalle guerre mediorientali, la fatica di vivere però è rimasta la stessa: nelle loro storie, drammatiche e a volte disumane, dovremmo ritrovare rifuggendo ogni atteggiamento demagogico populista, l’eco delle esperienze e delle speranze che accompagnava il viaggio dei nostri immigrati” sottolinea Vallinotto nell’Introduzione al catalogo.  La mostra sarà aperta fino al 30 novembre il venerdì (dalle 17 alle 19), sabato e domenica (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19). Nei giorni infrasettimanali, per scuole e visite su prenotazione al 349 193153. Sala del Collegio dei Geometri e Geometri Laureati di Cuneo via San Giovanni Bosco 7h     The post Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Sogni, fagotti, uomini soli: lo sguardo di Vallinotto sull’emigrazione sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
La plastificazione delle città, un libro sul turismo nei Paesi Baschi
(disegno di otarebill) “Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro / dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo / che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”. Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica. Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati, un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva, impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville. Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda. Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una monocultura turistica. A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,  Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal 1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco). Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il 2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del 1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110). Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna). Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati, almeno nei tribunali. Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal 2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale, della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi. Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando “Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi. Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia, non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro. Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre inconsapevoli. Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere / cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata. Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata. Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro. Dipende da come reagisce la società. Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento. Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
Tutto ciò che Almudena Grandes ci ha insegnato sul prima e dopo Franco
MEZZO SECOLO DALLA MORTE DI FRANCISCO FRANCO, UN PERCORSO DI LETTURA. I CINQUE ROMANZI DEL PROGETTO EPISODIOS DE UNA GUERRA INTERMINABLE  Il 20 novembre è stato il cinquantesimo dalla morte di Francisco Franco. La sua scomparsa pose fine a un regime nato dalla Guerra Civile e aprì un processo politico complesso di transizione che sarebbe sfociato nella Costituzione del 1978. La figura del dittatore, mezzo secolo dopo, continua a essere uno dei capitoli più complessi e controversi della storia contemporanea spagnola. Almudena Grandes è una delle grandi autrici che ha lasciato, nel suo splendido lascito letterario, una serie di romanzi, indipendenti ma connessi, che raccontano le resistenze e le ferite di quest’epoca. Il progetto si intitola Episodios de una guerra interminable (“Episodi di una guerra interminabile”) ed è composto da cinque libri che narrano momenti significativi della resistenza antifranchista in un periodo compreso tra il 1939 e il 1964. L’idea iniziale del ciclo prevedeva sei romanzi, ma la scrittrice è morta prima di concludere l’ultimo (che si sarebbe intitolato Mariano en el Bidasoa), il 27 novembre 2021. A pochi giorni dall’anniversario della morte della madrilena, proponiamo un percorso attraverso cinque libri dell’autrice che penetrano nelle viscere di un’epoca che è meglio non dimenticare. INÉS Y LA ALEGRÍA (2010) Inés y la alegría è il primo romanzo del ciclo. Ambientato nell’estate del 1939, racconta l’episodio dell’invasione della Valle di Arán (19-27 ottobre 1944) da parte di un esercito clandestino repubblicano, come simbolo della resistenza antifranchista. L’autrice combina finzione e fatti reali poco esplorati dalla storiografia tradizionale. La protagonista è Inés, una giovane borghese che risveglia il suo lato più sociale e si coinvolge nella lotta, compiendo un interessante e potente passaggio dal privilegio all’impegno. EL LECTOR DE JULIO VERNE (2012) Secondo romanzo. Si svolge in un piccolo paese della provincia di Jaén (Sierra Sur) nel dopoguerra e racconta la guerriglia dei maquis, il Trienio del Terror (1947-49) e il modo in cui la dittatura cercò di silenziare quelle lotte. In queste pagine il lettore scopre come la resistenza non si estingua al termine della guerra civile, ma muti e si dissimuli. Rimane però più viva che mai. L’amore, la passione e la tenerezza tra i personaggi sono un altro dei punti di forza. LAS TRES BODAS DE MANOLITA (2014) Ambientato nel Madrid immediatamente successivo all’instaurazione del franchismo, racconta la vita di Manolita Perales tra gli effetti della guerra civile, il carcere, la clandestinità, l’amicizia, l’attivismo e la repressione, mescolando personaggi reali e fittizi. Il romanzo diventa un ritratto corale di come si riorganizzò la vita nel dopoguerra: le carceri, la cultura popolare, l’attivismo sotterraneo e la vita quotidiana segnata dall’ideologia del regime. LOS PACIENTES DEL DOCTOR GARCÍA (2017) Qui la narrazione cresce in ambizione: spionaggio internazionale, identità false, fughe e reti di evasione di nazisti nella Spagna franchista. Il protagonista, Guillermo García, vive sotto falsa identità dopo la guerra civile, mentre incrocia altre storie che collegano la Spagna all’Europa e all’America Latina. Questo volume dimostra che il franchismo non era isolato: la rete mondiale dei fascismi sconfitti, delle dittature alleate, degli esiliati, aveva anch’essa il suo epicentro in Spagna. LA MADRE DE FRANKENSTEIN (2020) L’ultima uscita, anche se i piani dell’autrice erano diversi. Ambientato in un sanatorio psichiatrico nella Spagna degli anni ’50, il libro esplora la repressione sociale, ideologica e medica del regime franchista. La protagonista, María, e lo psichiatra Germán Velázquez offrono un’altra prospettiva: quella della marginalità, della donna, della follia imposta come forma di controllo. Attraverso uno scenario meno ovvio —il manicomio— Grandes affronta il modo in cui la dittatura gestì i corpi, le menti e i margini della normalità. The post Tutto ciò che Almudena Grandes ci ha insegnato sul prima e dopo Franco first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Tutto ciò che Almudena Grandes ci ha insegnato sul prima e dopo Franco sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
La danza alla fine delle parole
IL CARTELLONE AUTUNNALE DELLA RASSEGNA DI DANZA CONTEMPORANEA REC 25 DEL TEATRO DELLA TOSSE DI GENOVA Metti una Sagra della primavera nell’estate di San Martino di un autunno genovese. E questa confusione stagionale, per una volta, non è imputabile a mutamenti climatici di origine antropica. Oppure in un certo senso si, perché è piuttosto la nuova fase autunnale della rassegna di danza contemporanea REC 25 del teatro della Tosse di Genova. Che rilancia ancora una volta l’idea di un corpo insubordinato e resistente (REC sta esattamente per Resistere e Creare). Che danza come ultima risorsa di mobilitazione autenticamente politica, quando anche le parole vengono meno di fronte allo sgomento della ferocia dell’esistente. Danzare, quindi, come ultima ridotta dell’umano, esercizio di combattimento, arte marziale in un corpo a corpo che nel corpo rintraccia un perimetro politico estremo e ultimo, sempre in gioco in ogni cinetica di resistenza alla sopraffazione di qualunque potere. Balletto-Civile GIOCASTA ph andreamacchia Una rassegna che entra nel vivo proprio con la compagnia dei Dewey Dell di Teodora Castellucci, Agata Castellucci, Vito Matera e il musicista Demetrio Castellucci, che si misurano con il classico di Igor Stravinskij mettendone in scena un’interpretazione tutta entomologica che si consuma in una tana scavata sottoterra. E dove gli insetti sono protagonisti assoluti, tra regni neri che ballano la break dance e umani che ne disinfestano il nido vestiti da apicoltori. Ma che poi quando si tolgono il casco rivelano un volto cancellato come fossero grandi insetti essi stessi. In una rinascita della Terra dopo un inverno (forse nucleare) che, strisciando e trascinandosi sotto la superficie del mondo, è probabilmente una festa a inviti per soli scarafaggi e affini, dopo una guerra atomica. Balletto-Civile-GIOCASTA-ph.andreamacchia- A seguire la coreografa e danzatrice Miche Lucenti – che col festival genovese ha già condiviso un bel percorso comune – propone una sua personale lettura della tragedia di Edipo vestendo i panni di una Giocasta contemporanea, che dipana la sua angoscia domestica in un salottino borghese tra telefoni che squillano ma a cui nessuno risponde e frullatori che centrifugano liquidi di colore rosso, come rossa è tutta la mobilia che la circonda. Si alterano siparietti in cui il suo giovane figlio/amante si esibisce in surreali brani da cantante confidenziale seduto sulla tazza del gabinetto. Il personaggio di Edipo è infatti interpretato da Thybaud Monterisi, giovane cantautore e performer, i cui testi irriverenti, ne fanno un interlocutore spiazzante. Le-sacre-du-printemps_@Triennale-Milano- ph.Lorenza-Daverio La rassegna prosegue poi proponendo spettacoli di ospiti nazionali ed eccellenze locali come la compagnia genovese Deos Danse Ensemble Opera Studio fino al 20 dicembre, con highlight internazionali come: 26 e 27 novembre Teatro della Tosse WE CAME TO DANCE Nasim Ahmadpour , Ali Asghar Dashti Cosa significa essere un danzatore quando danzare è vietato? Partendo da questa domanda, la compagnia iraniana presenta una lettera d’amore al teatro. 28 e 29 novembre Teatro della Tosse BEYTNA Omar Rajeh/Maqamat Omar Rajeh, coreografo e danzatore franco libanese, acclamato dalla critica, è uno dei più importanti esponenti della danza contemporanea nel mondo arabo. Le-Sacre-du-Printemps_ph.-John-Nguyen 5 dicembre Teatro della Tosse BEASTS & BODIES – Prima nazionale Overhead Project La compagnia di Colonia Overhead Project, presenta in prima nazionale Beasts and Bodies, uno spettacolo dedicato alle forme di bestialità e agli immaginari collettivi che vi si associano. 19 e 20 dicembre Teatro della Tosse LES NUITS BARBARES Hervé Koubi Un gioiello del coreografo franco-algerino Hervé Koubi che unisce la potenza ipnotica della parata e la precisione del balletto classico. Il fascino dell’incontro fra culture e religioni. INFO E PRENOTAZIONI: https://teatrodellatosse.it/ Le-sacre-du-printemps_@Triennale-Milano-ph.Lorenza-Daverio               The post La danza alla fine delle parole first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo La danza alla fine delle parole sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Neanche un filo d’erba. Il carcere minorile in un libro di Curcio e Bellati
(disegno di dalila amendola) Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti. Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità. Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più – mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi. Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
Compagno, musicista, fratello, partigiano
RICORDANDO FAUSTO AMODEI. UN INVITO ALL’ASCOLTO DI UNA LEZIONE DI STORIA [CARLA PAGLIERO] Il nome di Fausto Amodei è legato a quello del gruppo dei Cantacronache, un collettivo formato da musicisti, letterati e poeti che, alla fine degli anni Cinquanta, inizia a proporre canzoni connotate da un forte messaggio politico e sociale. I testi si ispirano liberamente alle canzoni di Brecht, Kurt Weil e Brassens. Il gruppo, inoltre porta avanti un lavoro di ricerca e trascrizione di brani appartenenti alla tradizione popolare italiana, sia in lingua che in dialetto, che vengono in questo modo salvati dall’oblio. La produzione dei Cantacronache va in direzione ostinata e contraria al melodico-commerciale italiano, ben espresso nei brani che venivano presentati sul palco del neonato Festival di San Remo e nello stesso tempo apre un filone musicale legato al recupero della memoria di strumenti, testi, interpreti della tradizione che, negli anni Settanta, avrà i suoi estimatori, si pensi al Nuovo Canzoniere, Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Francesco Guccini. Il collettivo prende forma nel 1958 grazie a Fausto Amodei, Michele Straniero, Giorgio De Maria, Margot, Emilio Jona, Sergio Liberovici e gode del contributo di personalità straordinarie quali Italo Calvino, Umberto Eco, Gianni Rodari, Franco Fortini e Cesare Bermani. In quegli anni Amodei si innamorò delle canzoni di Georges Brassens che tradusse in piemontese e ne offrì alcune versioni bellissime, apprezzate dallo stesso cantautore francese e da Fabrizio De André che, a sua volta, le tradusse e le rese popolari attraverso i suoi dischi. Architetto, per studi e formazione, e musicista per passione, Fausto iniziò giovanissimo a studiare la fisarmonica, strumento molto popolare per quelli della sua generazione, per passare poi al pianoforte ed approdare alla chitarra. Un segno di adeguamento ai tempi, che favorì la diffusione di quei testi che proprio grazie all’uso della chitarra, uno strumento nuovo e facile da gestire collettivamente, permise ad una generazione di costruirsi una colonna sonora ad hoc per gli eventi che andavano riempiendo le pagine dei giornali in quel momento, che stavano disegnando il profilo storico di una nazione appena uscita da una guerra mondiale, interessata da una profonda trasformazione produttiva e sociale. Nascono così canzoni fortemente connotate politicamente come Il tarlo, critica feroce al capitalismo; L’avvoltoio, con testo di Calvino e musiche di Liberovici, inno appassionato contro tutte le guerre; Se non li conoscete, una feroce satira contro il Movimento Sociale Italiano (MSI) e il suo leader, Giorgio Almirante, che aveva “con il mitra e il manganello” raccolto l’eredità del disciolto Partito Fascista. La sua canzone più famosa, Per i morti di Reggio Emilia, ancora oggi ricorda i nomi di Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli, operai uccisi in piazza durante una manifestazione contro il governo Tambroni, nel 1960. Del 1964 La marcia della pace, scritta con Franco Fortini, inno antimilitarista, pubblicato nell’album Le canzoni del No per l’etichetta dei “Dischi del sole”, una casa discografica che aveva una collana tutta dedicata alle canzoni dell’impegno, e a cui collaboravano Franco Fortini, Ivan Della Mea, Giovanna Marini. Il brano, giudicato sovversivo in quanto invitava all’obiezione di coscienza, fu messo al bando e l’album fu sequestrato e ritirato. Nel ’68 Amodei si presentò alle elezioni con il Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP) e venne eletto deputato. Ne L’ultima crociata del 1974, l’ultimo album pubblicato, cui seguì un silenzio trentennale, vengono raccontate le vicende di quell’anno, legate alla vittoria del referendum per mantenere la legge sul divorzio. “Al referendum rispondiamo No”, recita una delle canzoni più popolari dell’LP, citata anche in successive occasioni. Nel 1975 gli fu assegnato il premio Tenco. Negli anni successivi, del riflusso e delle sconfitte, Amodei si dedicherà soprattutto al suo lavoro di architetto, pur continuando a scrivere canzoni e a collaborare con autori come Ivan Della Mea, Raffaella De Vita, Il Canzoniere delle Lame, Giovanna Marini, che nel frattempo aveva aperto la sua scuola popolare di musica di Testaccio. Solo nel 2005, tornò a pubblicare il disco Per fortuna c’è il cavaliere, avente come soggetto lo strano oggetto politico Silvio Berlusconi, che pareva uscito fuori davvero dal cappello di un mago con un forte senso del ridicolo, quindi l’obiettivo ideale per l’ironia garbata e dissacratoria di Fausto. Con la scuola popolare di Testaccio nel 2021, in occasione del centenario della nascita del Partito Comunista Italiano, mise in scena uno spettacolo con canzoni sue degli anni Settanta, eseguite dal coro della Scuola diretto da Sandra Cotronei. Fausto, uomo gentile e dall’ironia elegante, era davvero un figlio di tempi che oggi appaiono molto distanti: un signore con una grande passione per la politica che a novant’anni manifestava ancora con vivace allegria la sua passione per una musica al servizio di una società migliore. Le sue canzoni, caratterizzate da una narrazione sottile ed intelligente, denotano un uso della metrica e della rima attente e assolutamente puntuali. Lo conobbi nel 2000, nel periodo del Social Forum, praticamente un mito vivente per chi aveva iniziato a strimpellare la chitarra con le sue canzoni. Gli proposi di venire nella mia scuola, il Santorre di Santarosa, un Liceo Linguistico, a cantarci le sue canzoni, accettò di buon grado, e incantò i ragazzi e i colleghi, che si infilarono in classe per ascoltarlo. Accompagnandosi con la sua fedele chitarra raccontò un secolo di storia italiana attraverso un repertorio che attingeva alla ricerca collettiva e a canzoni d’autore sue e di altri colleghi di strada. Due anni fa mi è tornata fra le mani la registrazione fatta su cassetta di quella memorabile giornata e, grazie all’entusiasmo e alla collaborazione di Alice Mammola, una ricercatrice appassionata di musica popolare, di Salvo Lo Galbo, un giovane sindacalista filofaustiano, e con la partecipazione di alcuni giovani cantautori torinesi, Chiara e Francesco, riuscimmo ad organizzare un incontro prezioso e bellissimo dove ascoltammo la lezione di storia cantata da Fausto e cantammo con lui le sue canzoni. Fausto era commosso e felice che la sua musica fosse ancora viva e compresa. Un buon tecnico del suono ci aiutò a riversare e a digitalizzare la lezione di Fausto che venne pubblicata in pillole, da Cesare Manachino, sul canale radio del circolo La Poderosa di Torino. Concludo con l’invito all’ascolto della registrazione: un meraviglioso ricordo di Fausto e un bellissimo regalo, credetemi, per le nostre orecchie e per il nostro cuore. https://radiopoderosa.org/la-storia-in-carne-pensiero-e-passione/ Torino, 24 settembre 2025 The post Compagno, musicista, fratello, partigiano first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Compagno, musicista, fratello, partigiano sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.
Che cosa succederà al prossimo SFestival
DAL 14 AL 16 NOVEMBRE LA SECONDA EDIZIONE DELLA CONVENTION ROMANA DELLA FANTASCIENZA Roma, a differenza di città come Milano e Trieste, non aveva fino al 2024 (quando si è tenuta la prima edizione) un festival dedicato alla letteratura di fantascienza, con un’attenzione anche alla commistione di generi. SFESTIVAL, dunque, è il festival di fantascienza di Roma. La seconda edizione si tiene dal 14 al 16 novembre, ospitata dal polo civico e culturale Allarga.menti di via Numidia 2 (zona San Giovanni – Porta Metronia) con la partecipazione di autrici e autori, critiche e critici, traduttori e traduttrici, editor, e soprattutto persone interessate e curiose. Tra gli ospiti di quest’anno: Paolo Di Orazio (scrittore, fumettista, batterista); Andrea Baroni (regista); Armando Festa (sceneggiatore); Giuliana Misserville (critica); Giovanna Repetto (scrittrice); Matteo Grilli (sceneggiatore fumetti e serie tv). Il concorso per racconti brevi di fantascienza VISIONI DAL FUTURO, riservato ad alunne e alunni delle scuole primarie, medie e superiori con sede nel Comune di Roma nasce dall’idea che immaginare il futuro sia il primo passo per costruirlo: un esercizio di creatività, di libertà e di consapevolezza collettiva. Stimolare bambine, bambini e adolescenti a scrivere fantascienza significa invitarli a riflettere sul presente e a progettare il domani, ad affrontare temi come tecnologia, ecologia, intelligenza artificiale, convivenza, diritti e identità, traducendoli in narrazioni personali e collettive. La lettura e la scrittura diventano così atti di cittadinanza, strumenti per formare le menti critiche e curiose dei cittadini di domani. In un tempo in cui il futuro sembra spesso dominato da incertezze e paure, il concorso offre un messaggio forte e condiviso: immaginare è un atto politico e comunitario. E Roma, città di storia, diventa così anche città di futuro. La giuria è composta dalla scrittrice Giovanna Repetto; Stefano Sacchini, esperto di SF;  Nicoletta Frasca (libreria Tomo, Roma); Andrea Franco, scrittore ed editore;  Giorgia Sallusti, critica e saggista; Silvia Costantino, direttrice editoriale EffeQu; Dario Orilio, docente e scrittore; Ettore Perozzi, fisico e divulgatore. Il Polo civico Allarga.menti, attivo dal 2023 negli spazi della scuola, si è affermato come un punto di riferimento non solo per il quartiere, promuovendo partecipazione, inclusione e accesso alla cultura, grazie a presentazioni di libri e incontri con autori, proiezioni, concerti, corsi e laboratori. info@sfestival.it   https://sfestival.it/ PROGRAMMA Venerdì 14 Novembre 2025 ore 18.00 LA FANTASCIENZA È GIOVANE SF per ragazze e ragazzi con Stefania Cane (libreria Perdigiorno), Laura Marinelli (autrice) Emma Misitano (autrice), Dario Orilio (autore e curatore di collana) a seguire: VISIONI DAL FUTURO Presentazione del concorso di racconti di fantascienza per le scuole di Roma con Andrea Franco (autore ed editore), Ettore Perozzi (fisico), Giovanna Repetto (autrice e co-organizzatrice SFestival) ore 20.00 FANTAPERITIVO MUSICALE Concerto di Ekranoplan (Kosmische Musik, retro-futurism, space echoes and phasers) Sabato 15 Novembre ore 10.30 SCOPE VOLANTI. IL NOSTRO SGUARDO SULLA FANTASCIENZA Chi sono le Fantascientiste Femministe? con Laura Coci (saggista), Claudia Corso Marcucci (illustratrice), Giuliana Misserville (critica e saggista), Giovanna Repetto (autrice e co-organizzatrice SFestival) ore 11.30 URSULA K. LE GUIN E IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE Monografia con Laura Coci (saggista), Giuliana Misserville (critica e saggista) ore 12.30 LEGGENDARIA. TRASFIGURARE LA VIOLENZA Le scrittrici fantastiche dell’America Latina con Paola Guazzo (saggista, editor, sceneggiatrice), Giuliana Misserville (critica e saggista), Nadia Tarantini (giornalista e scrittrice) ore 14.30 PROIEZIONE DI “DARK STAR” Il primo lungometraggio di John Carpenter del 1974, pietra miliare della fantascienza autoironica. Visione con tessera soci AllargoPannonia APS (costo annuale 5 euro) e in contemporanea… CAOS SUL TAVOLO partita dimostrativa aperta a Warhammer 40K con Luciano Troili (in veste di arbitro) ore 16.30 FUTUROMA e anticipazioni dell’antologia “Futuri Mutanti” FutuRoma è un’antologia di racconti che gioca con il futuro della Città Eterna. Scritti da una ventina di autori del collettivo Carboneria Letteraria “& Friends”, tra cui diversi vincitori del Premio Urania, sono storie di personaggi singolari e scenari sorprendenti, sospesi tra ironia e dramma. con Francesca Garello (storica, specialista di giochi e scrittrice), Francesco Grasso (scrittore) e Francesco Troccoli (scrittore) ore 17.30 IRONICI FUTURI satira & fantascienza Dialogo con il pubblico su come cinema, serie tv, romanzi, fumetti e videogame spesso mostrino in chiave satirica mondi futuribili per criticare il presente … o è solo divertimento? A cura dei Bokononisti, con Lorenzo M. d’Amico (autore e sceneggiatore comico) ore 18.30 FANTAPERITIVO: HO VISTO SERIE CHE VOI UMANI La fantascienza nelle serie, in streaming e tv con Armando Festa (sceneggiatore), Marc Walden (scrittore) e chiunque voglia intervenire (con un bicchiere in mano) Domenica 16 Novembre ore 10.30 FANTAHORROR Commistioni di genere con Andrea Baroni (regista), Paolo Di Orazio (scrittore, fumettista e batterista), Andrea Franco (scrittore ed editore), Matteo Grilli (autore, sceneggiatore di fumetti e serie tv) ore 12.00 FANTASCIENZA IN TRANSITO Da libro a film a serie a gioco (e ritorno): fantascienza e transmedialità. con Federico Bissacco (regista e scrittore), Fabio Carta (autore), Giovanna Repetto (autrice e co-organizzatrice SFestival), Umberto Rossi (autore) e un contributo video di Gino Carosini e Marco Mastroianni (illustratori) The post Che cosa succederà al prossimo SFestival first appeared on Popoff Quotidiano. 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Come documentare la miseria del franchismo
testi e foto di Álvaro Minguito tratto da El Salto Alla fine di ottobre 2025 si sono conclusi i lavori della quarta e ultima campagna archeologica condotta nel quartiere madrileno di Vallecas dal team coordinato dall’archeologo Alfredo González-Ruibal e dallo storico Luis A. Ruiz Casero. Il progetto, avviato nel 2022 su iniziativa della Fundación Anastasio de Gracia (oggi ribattezzata Manuel Fernández “Lito”), aveva come obiettivo iniziale la documentazione dei bombardamenti subiti da Entrevías durante la guerra civile, soprattutto nel primo anno del conflitto. Ruiz Casero ha spiegato che il gruppo era stato spinto a intervenire dal bombardamento del novembre 1936, considerato un’icona internazionale della violenza contro i civili nelle guerre, immortalato da Robert Capa con alcune fotografie scattate proprio in quel luogo. Nelle prime campagne furono rinvenuti i resti delle abitazioni ai numeri 6 e 8 di via Peironcely, distrutte dalle bombe. Il numero 10 è ancora in piedi, sebbene gravemente danneggiato, e si trova attualmente in fase di restauro da parte del Comune di Madrid. Gli scavi portarono alla luce i muri originali di quelle case, in alcuni casi conservati fino a un metro d’altezza, ma soprattutto permisero di documentare la successiva occupazione baraccopoli del dopoguerra. Si riteneva che quell’area fosse stata completamente distrutta, ma González-Ruibal ha osservato che la struttura del quartiere si era in realtà mantenuta intatta fino ai livelli di degrado degli anni Settanta. L’ultima campagna, nel 2025, si è concentrata su due obiettivi specifici: da un lato individuare il cratere di una delle bombe italiane del novembre 1936, visibile in alcune fotografie del 1943; dall’altro, documentare una discarica attiva dagli anni Venti, situata accanto alle abitazioni prima e alle baracche poi. Il cratere è stato localizzato, ma il team ha preferito conservare il pavimento successivo delle baracche — circa dodici metri quadrati, realizzato con piastrelle idrauliche di recupero — in vista di una possibile musealizzazione del sito. Il lavoro archeologico realizzato a Entrevías in questi anni ha messo in evidenza, attraverso i materiali rinvenuti, una delle grandi menzogne del franchismo: quella secondo cui le condizioni di vita delle classi popolari erano da sempre arretrate, un’eredità immutabile fin dal XIX secolo. Gli scavi dimostrano invece come il regime abbia condannato la maggior parte della popolazione spagnola a vent’anni di miseria. Dopo la guerra civile, la pessima gestione economica della dittatura provocò scene di carestia paragonabili a quelle dell’Etiopia negli anni Ottanta o della recente crisi di Gaza. González-Ruibal ha spiegato che, scavando negli strati degli anni Venti e Trenta, anteriori alla guerra, aveva colpito la qualità delle costruzioni: le case disponevano di fognature, elettricità, bagni; anche gli oggetti rinvenuti restituivano l’immagine di un quartiere abitato da diversi gruppi sociali, com’era comune all’epoca. Questo modello di quartiere multiclasse scomparve con il franchismo, che impose invece una forte segregazione sociale: il centro restò alle classi borghesi, mentre la periferia fu destinata ai lavoratori. Dai reperti è stato possibile ricostruire come la classe operaia, già prima della guerra, stesse migliorando le proprie condizioni di vita. Piatti decorati, tazze da tè e resti alimentari testimoniano l’accesso a prodotti un tempo riservati ai ceti alti, come certi tipi di carne e pesce. Gli studi concludono che Entrevías non era, prima della guerra, una zona particolarmente povera. A partire dal 1936, la fame fu utilizzata dal fronte franchista come arma in tutto il paese, oltre ai bombardamenti, e questa pratica si protrasse almeno fino agli anni Sessanta. Tuttavia, anche dopo, i livelli di consumo non tornarono mai a quelli dei primi decenni del secolo. La carestia che colpì la Spagna tra il 1936 e il 1942 fu devastante — si stimano circa 200.000 morti direttamente legati alla fame — e colpì in modo particolare questo quartiere. Nacque persino l’espressione “sindrome di Vallecas”, riferita alla carenza di nutrienti nella popolazione infantile. González-Ruibal ha sottolineato che l’immagine promossa dal franchismo — secondo cui la classe operaia avrebbe cominciato a prosperare solo negli anni Sessanta, grazie alle politiche economiche imposte dalla dittatura — non corrispondeva alla realtà. A suo avviso, la classe lavoratrice prosperava già dalla fine del XIX secolo fino alla Seconda Repubblica, e tutto ciò era stato cancellato per vent’anni, riportando le condizioni di vita a livelli simili a quelli del XVIII secolo. Negli anni Settanta, ha aggiunto, la popolazione viveva ancora in baracche prive di elettricità e acqua corrente. foto di David F. Sabadell L’idea, tanto compiacente verso il franchismo, secondo cui la classe lavoratrice in Spagna avrebbe vissuto quasi come sotto l’antico regime fino al trionfo della dittatura e al “miracolo economico” degli anni Sessanta, risulta dunque falsa. I risultati di questa campagna archeologica confermano quanto sostenuto da storici come Luis Enrique Otero Carvajal e Santos Juliá: ciò che caratterizza quel decennio non fu l’inizio di un processo di modernizzazione, ma la ripresa di una storia interrotta da una volontà politica vittoriosa alla fine di una guerra civile. La vittoria della ribellione e la repressione che si abbatté sulle classi operaia e contadina avevano infatti spezzato tutte le tendenze al cambiamento sociale emerse dall’inizio del secolo. The post Come documentare la miseria del franchismo first appeared on Popoff Quotidiano. L'articolo Come documentare la miseria del franchismo sembra essere il primo su Popoff Quotidiano.