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Anatomia di un’attesa. Quando il disturbo psichico incrocia il codice penale
(disegno di sam3) Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni. Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno, in attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica, ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi. Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione, favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze faticose e danni concreti. Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal 2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive, comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia diagnosi”. Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali, spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora circondato da stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato, senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte essenziale della cura. Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni. Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile. Silvio evade e viene trasferito in carcere. Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale, resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche, medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione arenatasi nel silenzio. La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica. Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione dell’ordine. Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente, poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano. Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa, trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un “dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione psichica che peggiora progressivamente. Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16 maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”, contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione. Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande complessità. Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza della propria condizione? L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche, Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere. Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione, dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e l’attenuazione del sintomo. Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi, ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela. Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa: l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato. Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale, il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la regressione si consolida, e si fa cronica. Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste, nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua tutela. Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa, perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione, rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha bisogno. Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un abbandono, o peggio ancora, come un tradimento. Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile, segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza. Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria, fatica oggi ad attivarsi. In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il suo retroterra educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura. Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a rendere la cura un’astrazione inapplicabile. Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile. Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita, ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia aperto a fatica. Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio. Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri, entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3 luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima di settembre. Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale. Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico. L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre, sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono dunque quasi naturali. La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere, Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito. Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita, lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo, dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto, ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non dover, fare il primo passo. (vera nau)
Piero Cipriano / Pensare la salute mentale
Un libro di Piero Cipriano è sempre una lettura stimolante, provocatoria, per molti aspetti sovvertitrice delle rassicuranti certezze dietro alle quali barrichiamo le nostre paure. Per esempio il fatto che ci sia un ben delineato margine tra sanità e malattia mentale e che la psichiatria sia quella branca della medicina capace di stabilire i termini della divisione e di “curare” i malati o comunque in qualche modo di risolvere le crisi. Anche questo suo ultimo lavoro non smentisce il percorso tracciato dalle sue precedenti opere e, se possibile, ne radicalizza ulteriormente l’assunto. In realtà – argomenta Cipriano – lo psichiatra non cura – nel senso di guarisce – il disturbo psichico ma ne nasconde solo i sintomi, aggiusta, rattoppa, riadatta il sofferente a quella stessa realtà che ha provocato la sofferenza. In una società malata il disagio, il disadattamento, è un segno di sanità – il vero malato è chi si integra, chi collabora, chi non ha niente da ridire – lo psichiatra il cui mestiere è riportare alla norma, ristabilizzare gli scompensi – non terapia ma cosmesi – in realtà non è un medico, piuttosto un politico (ai tempi di Hitler c’era un termine preciso che indicava lo scopo che il partito doveva imporre alla nazione: Gleichschaltung, la “messa al passo”). Lo Stato, il capitale, non confida più nella rozza repressione poliziesca (intuizione profetica di Aldous Huxley rispetto a George Orwell: non 1984 – per ora – ma Brave New World) e reprime con più efficacia grazie alla scienza e alla tecnica: citando Ronald Laing, “se curi qualcuno significa che sei delegato dalla società a esercitare su un essere umano un potere persino più grande di quello che eserciti se lo punisci. Poiché ci sono limiti a ciò che si può fare a un carcerato in prigione, mentre non ci sono limiti al trattamento cui si può sottoporre un malato in ospedale”. Dopo Laing, Franco Basaglia ovviamente, uno dei maestri ideali di Cipriano, una rivoluzione in parte riuscita, la legge 180 e la chiusura dei manicomi, ma una rivoluzione fallita, anche, perché il manicomio apparentemente distrutto si trasforma: non più mura e sbarre materiali ma molecole e diagnostica. Il manicomio ora è chimico: dopo la morte di Basaglia nel 1980, la restaurazione degli anni 80/90 parallela all’affermarsi del neoliberismo e del realismo capitalista che – e qui Cipriano cita Mark Fisher – ha esorcizzato “lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero”, distruggendo quanto prodotto dalla controcultura degli anni 60/70 compresa la “democratizzazione della neurologia” auspicata da Timothy Leary. Ora l’epoca squadernata dalla “Iron Lady” Margaret Thatcher, non a caso ex ricercatrice in chimica, biochimizza “la sofferenza psichica escludendo ogni possibile causa sociale o politica o economica” e apre il campo al mercato farmacologico delle “psicomafie multinazionali” come la Big Pharma e agli psichiatri dell’American Psychiatric Association, ligi alle sue direttive. Se non esiste la società ma solo l’individuo e i “cervelli rotti” vanno riparati, allora il binomio diagnosi-farmaco trionfa: per favorire un mercato iatrogeno si inventano patologie inesistenti come la depressione o il disturbo bipolare (in realtà stress, stanchezza, ansia da prestazione: un problema politico e non una malattia) ed esplode improvvisamente un’epidemia psichica, anzi una vera pandemia che dichiara, su sette miliardi di persone, quasi quattrocento milioni di depressi e sessanta milioni di bipolari (e “solo” venti milioni di schizofrenici), avviati alla farmacodipendenza da benzodiazepine e antidepressivi, senza risparmiare neanche i bambini che un nuovo Erode etichetta ADHD – soggetti a deficit dell’attenzione con iperattività: quasi quattro milioni di bambini americani vengono trattati con anfetamine per questo disturbo con la complicità dei loro insegnanti. Perfino l’antitesi di quella dimensione chimica concentrazionaria, non più fatta di molecole che chiudono la mente ma che la aprono, quegli alcaloidi considerati droghe e per decenni repressi o marginalizzati, ora inizia a essere cooptata e addomesticata stravolgendone l’uso da anticapitalistico a pro-capitale. Per questo l’entusiasmo che Cipriano manifestava in alcuni dei suoi ultimi libri per il cosiddetto Rinascimento psichedelico, inteso come recupero della controcultura degli anni ’60/’70 in cui le molecole psichedeliche erano viste come il propulsore di una rivoluzione non solo individuale ma anche sociale e politica, sembra essersi ridimensionato. Il cosiddetto Microdosing di LSD, psilocibina, mescalina, ecc. diventa bieco strumento di potenziamento cognitivo e accrescimento neuronale per fighetti creativi miliardari, genietti della Silicon Valley, talenti (o presunti tali) in espansione, imprenditori sulla scia di Zuckerberg o Musk: le multinazionali chimiche rubano le medicine tradizionali dei nativi, le brevettano, le depotenziano, le impasticcano e le commercializzano (a caro prezzo) in farmacia (ci viene spontaneo pensare però che, ahimè, anche Albert Hoffman quando sintetizzò gli alcaloidi della Claviceps purpurea scoprendo l’LSD-25, stava lavorando per la Sandoz di Basilea, oggi Novartis International AG, una multinazionale…). Di nuovo il realismo capitalista disposto anche a decriminalizzare certe sostanze psicoattive purchè implementino la performatività e non la visione, sottraendole alla sfera sacrale, sciamanica, spirituale, l’unica che sia foriera di un reale cambiamento della persona, proprio come certe forme di yoga estirpate dal percorso interiore degli ashram vengono smerciate in palestra ridotte a pura ginnastica e fitness. Il gregge non deve svegliarsi ma perpetuare il suo confortevole sonno. Le pecorelle smarrite vanno ricondotte all’ovile se ancora utili come forza lavoro e trattabili (nevrotici e depressi, curati magari con una terapia psichedelica attenuata, non visionaria, che restituisca loro una produttiva dis-felicità) o abbandonate al loro destino se inutili e intrattabili (schizofrenici, maniaci, deliranti, consegnati agli antipsicotici depot a vita). Un po’ come un tempo il proletario incurabile era confinato nella gabbia del manicomio mentre il borghese curabile – ovviamente abbastanza benestante da potersela permettere – poteva ricorrere alla cura psicanalitica o a qualche sua declinazione psicoterapica. Ben poco è cambiato in fondo se non la cognizione, fattasi forse più profonda, che “La trascendenza – ovvero trascendere il linguaggio, lo spazio, il tempo, l’ego, la meità – è la massima nemica del potere. Il potere, che si declina in Stato e capitale, teme più di tutto la trascendenza”. Questo e molto altro ci racconta Cipriano inframmezzando riflessioni teoriche e filosofiche, esposizioni storiche e farmacologiche, con il racconto bruciante delle sue esperienze vissute in prima persona con pazienti e degenti dei vari Dipartimenti di salute mentale dove ha lavorato, dell’SPDC romano dove ha trascorso diciassette anni e del SerD dove attualmente si occupa di adolescenti con nuove dipendenze. C’è rabbia, scoramento ma anche molta speranza nelle sue parole: certo è duro, è faticoso procedere con coerenza nel nostro paese, con un governo come l’attuale certo ancora più duro. Cipriano dichiara che se non potrà lavorare con nuove terapie in Italia si trasferirà in Svizzera o Perù. Ci auguriamo vivamente che non debba farlo, sarebbe una grave perdita per noi tutti che condividiamo le sue idee e un sollievo invece per i molti che ostacolano ogni nuova prospettiva di cambiamento: se esiste ancora qualche speranza, flebile forse ma viva e vera, questa risiede anche in medici, pensatori e uomini come lui.         L'articolo Piero Cipriano / Pensare la salute mentale proviene da Pulp Magazine.
Critica psichedelica alla psichiatria
Articolo di Giulia Giraudo Libri, incontri, festival e convegni sono nati negli ultimi anni mettendo al centro il tema della salute mentale e una forte critica al sistema dominante di controllo e disciplinamento dei soggetti, tra questi il libro di Piero Cipriano (La salute mentale è politica, Fuoriscena, 2025) psichiatra e che ha trascorso diciassette anni in un Spdc (Servizio psichiatrico diagnosi e cura) romano. Cipriano fa parte di un movimento nato in maniera più o meno spontanea all’interno del variegato e complesso mondo della salute mentale in cui si interfacciano soggetti con diverse competenze e storie di vita (dallo psichiatra all’infermiera, dalla psicoterapeuta allo studente di psicologia o il professore universitario, fino ai collettivi nati, come nel caso delle Brigate Basaglia, per rispondere alla crisi della salute mentale durante la crisi pandemica).   Queste soggettività, che si muovono singolarmente o in gruppo, denunciano condizioni di lavoro insostenibili, un sistema incapace di rispondere realmente ai bisogni delle persone e una cultura e un sapere psichiatrico che deve essere ripensato e criticato a partire dalla relazione che stabilisce con il paziente. O per meglio dire, a partire dalla costruzione del paziente, etichettato e definito attraverso parole che ne costruiscono l’identità, contenendolo in una «camicia forzata» che lo obbliga a muoversi in precisi ambienti e spazi in cui l’uso degli psicofarmaci è una regola a cui adeguarsi. Un sapere che può e deve essere rigenerato anche grazie alla relazione con altre culture e tradizioni che hanno vissuto storie fatte di emergenze specifiche prodotte dallo stesso schema di rapporti di potere, espressione della natura violenta di un capitale che agisce sui singoli a diversi livelli e con diversa intensità. La violenza che uomini e donne vivono, infatti, non si esaurisce nella violenza delle guerre o del genocidio, ma si costruisce anche per mezzo del linguaggio o di forme di controllo spacciate per strumenti di libertà che esauriscono le esistenze nel quotidiano. Tra le forme di controllo, centrale è il consumo delle merci e quindi degli psicofarmaci venduti come rimedio per resistere, o meglio per costruire menti che si adattano. Così come sono centrali le parole, come il termine «resilienza» che predispone strumenti per un soggetto che costruisce individualmente strategie per resistere all’interno di un sistema che produce diseguaglianze e ingiustizie, accettando le condizioni date.  La scelta della resilienza, l’opzione degli psicofarmaci, l’adeguamento della psichiatria a ruolo di ancella nell’integrazione del soggetto nella società non è nuovo, ma nuova è la critica che nasce dentro alle discipline (la psichiatria e le discipline psicologiche), grazie a voci autorevoli. Si pensi a appunto al libro di Cipriano o a quello di Contestabile (Psicologia della resistenza, Effequ,2024) che in quanto dottorando in psicologia ha sviluppato una propria visione critica che cresce nella relazione (e nella partecipazione) con i collettivi che sul territorio si organizzano per riflettere sul proprio lavoro, sulle conseguenze di una formazione che non risponde alle legittime richieste di cura e emancipazione dei soggetti che soffrono. Queste voci di singoli e collettivi si muovono all’interno di diversi campi del sapere. La crisi del sapere «occidentale» è del resto oggi componente essenziale di una policrisi che nasce a partire dall’atteggiamento di chiusura e pretesa di superiorità: non si tratta, secondo questi soggetti, di rifiutare ogni aspetto del sapere egemone, ma di criticarlo grazie e nuovi linguaggi e pratiche sociali che possono nascere da relazioni impreviste. Oltre e in relazione a queste critiche,  da tempo si è sviluppato un interesse non nuovo nei confronti di sostanze che potrebbero supportare i soggetti che soffrono (perché sì, la malattia mentale produce sofferenza concreta, dolore mentale e fisico che isola, debilita, costringe il potenziale dei soggetti in una camicia di forza mentale che spesso non permette di immaginare forme di liberazione) a costruire ponti, pensieri e schemi diversi, altre realtà nelle quali immaginare strumenti e azioni per contrastare la sofferenza. Non si tratta di fantascienza, ma di alcune sostanze psichedeliche che in passato sono state studiate e anche assunte dagli studiosi e che nel tempo sono diventate parte di una cultura (variegata) che è stata criminalizzata e repressa.  Questo è avvenuto in tutto il «civile» mondo occidentale, ma nel nostro paese l’approccio alle sostanze ha assunto un accanimento peculiare, moralizzante, una criminalizzazione, uno stigma che ha prodotto conseguenze nefaste non solo sui soggetti che ne hanno fatto (o ne fanno) uso, ma per la possibilità stessa di uno studio scientifico di queste sostanze che possa permettere, attraverso la ricerca, di salvare vite umane. Salvare una vita, quando si parla di salute mentale, significa darle dignità, salvarla dalla sofferenza, lasciare la libertà di scelta al soggetto. La libertà, proprio quella parola che il «capitale» ha fatto propria: una libertà di consumare le sostanze che sono etichettate come legali (si pensi all’alcool) ma non quelle che possono liberare le coscienze e rendere difficile il loro controllo.  Nel campo della salute mentale, nonostante i controlli e i limiti, gli studiosi stanno svolgendo ricerche che necessitano di finanziamenti e legittimità.  Sul piano pubblico e politico, si registra un rinnovato attivismo rispetto a questi temi in quel variegato mondo associativo attento alla salute mentale che da anni studia e si occupa di divulgazione di ricerche su terapie e prospettive di cura: dalle associazioni di professionisti della salute mentale, passando per la Simepsi, l’associazione creata attorno al podcast «illuminismo psichedelico» e Maps Italia, Associazione multidisciplinare per gli studi psichedelici non profit e indipendente che lavora per aumentare la consapevolezza e la comprensione delle sostanze psichedeliche, fino ai canali social di divulgazione  scientifica del progetto studio Aegle.  In relazione a queste realtà, l’Associazione Luca Coscioni sta provando a costruire spazi di discussione a partire dalle cellule territoriali di cui è dotata e attraverso la campagna PsychedeliCare, iniziativa civica europea sugli psichedelici che tra le altre cose chiede una linea di bilancio dedicata alla ricerca per fini medici. Le cellule territoriali stanno costruendo momenti di riflessione e formazione sul tema. La raccolta firme per la campagna prosegue e si accompagna alla lettera pubblicata dall’associazione nel 2024 e firmata da 170 esponenti del mondo della scienza, rivolta ai Ministri della Salute e della Difesa: nella lettera si chiede di riconoscere gli psichedelici come terapie per alcune condizioni specifiche.  Vista la mancata risposta dei ministri Orazio Schillaci e Guido Crosetto, l’Associazione ha lanciato l’appello pubblico «L’Italia apra alle terapie psichedeliche»  a sostegno della lettera a loro indirizzata. Questa campagna, che si muove su diversi piani, può essere l’occasione per informarsi, capire, confrontarsi e anche per far emergere le legittime paure che sono interne e costitutive di una prospettiva per noi così nuova e fuori dagli schemi attraverso cui formiamo il nostro pensiero sul mondo. Per questo rimando al sito dell’Associazione dove è possibile trovare il materiale di riferimento, gli studi e la normativa italiana.   Questo è il futuro, o per meglio dire il presente, che ci auguriamo, quello che nasce nella relazione imprevista tra soggetti che si trovano ad agire in un clima di nuovi bisogni e richieste, di sofferenza ma anche possibilità di informarsi e provare a costruire pratiche nuove. Questo però non basta: serve la volontà politica, quella stessa che riduce il «fine vita» a una questione privata, che taglia i fondi alla ricerca e alimenta disuguaglianze e ingiustizie. Quella stessa volontà politica che ha definito un mondo nel quale le sostanze psichedeliche sono state indistintamente identificate come «pericolose», così come quei saperi del Sud globale o della tradizione popolare che sono stati maltrattati, sminuiti, infantilizzati.  Abbiamo oggi la possibilità di contaminare il sapere in crisi di legittimità con conoscenze diverse che nutrono le nostre menti e, nel caso della salute mentale, possono aprire percorsi di cura innovative, speranze di «sol dell’avvenire» per i tanti e le tante che vivono dipendendo da uno o più psicofarmaci. Quello stesso psicofarmaco che è prodotto da una casa farmaceutica che lucra sulle vite delle persone. La salute mentale ci obbliga a guardare alla complessità della realtà, a guardare alla politica in relazione all’economia, all’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro. La nostra salute mentale, la nostra sofferenza, è il sintomo che qualcosa non funziona: non deve essere silenziato, ma compreso, non deve essere contenuto, ma inteso come una critica all’esistente che non riesce a esprimersi diversamente.  È un’occasione per ripensarci, per pensare e rispondere alle richieste di chi vive la sofferenza, nell’ottica di costruire una società in cui la cura non sia solo uno slogan, ma una pratica politica quotidiana a partire dal movimento di corpi e menti che criticano un sapere che vuole il controllo e la disciplina e non libera la potenza dei soggetti. *Giulia Giraudo, dottoranda in mutamento sociale e politico, si è occupata di precarietà, con un focus sul collettivo San Precario. L'articolo Critica psichedelica alla psichiatria proviene da Jacobin Italia.
Galleria degli orrori
La banalità del male al processo Stella Maris. di Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud Un’operatrice prende alle spalle un ragazzo e gli stringe il collo da dietro con il braccio serrato intorno alla gola. Il ragazzo ha in mano un oggetto. «Lascialo! Lascialo! Lascialo!…» ripete in maniera monotona l’operatrice in tuta viola. Il ragazzo emette qualcosa […]
Che cosa vuol dire transculturale? Parte II
LA TRANSCULTURA NON È SOLO LA PROPOSTA DI UNA DIREZIONE, UN TRANSITO FRA MONDI CULTURALI DIVERSI INEVITABILMENTE DINAMICI, MA VUOLE INDICARE ANCHE UNA TRASFORMAZIONE FRA COLORO CHE COSTRUISCONO UNA RELAZIONE -------------------------------------------------------------------------------- Foto ed elaborazione di Giovanni Izzo -------------------------------------------------------------------------------- Se è vero che le parole sottendono un pensiero quindi sono parole-pensiero, anche il termine transculturale necessita di alcune spiegazioni per non cadere nella trappola di parole criptiche e quindi incomprensibili. Questo rischio è abbastanza frequente soprattutto quando si utilizzano in campo scientifico (psichiatria transculturale, psicoterapia etc.) dove sono frequenti classificazioni e definizioni spesso distaccate dalla realtà. Fenomeni come l’emigrazione – un terremoto secondo Karl Jaspers -presenta anche aspetti culturali spesso non considerati nella loro giusta rilevanza. Migranti, rifugiati – persone non categorie – vengono in molti casi deprivati della loro storia e della loro cultura. Noi, come operatori della salute mentale, quale atteggiamento utilizziamo verso la loro sofferenza? I vecchi metodi frutto di un pensiero “catastale” forse non sono sufficienti per avvicinarsi a quel qualcosa di “di nuovo” che irrompe nelle nostri menti prima che nei nostri ambulatori, servizi, centri di accoglienza. Siamo presi solo dallo “studiare un oggetto esotico” e quindi interessante, lasciando inalterati i nostri modi di osservare/agire? Quale scienza e con quali strumenti? Queste interrogazioni – più che interrogativi – sono presenti nei nostri processi di cura e di formazione professionale spesso non adeguati di fronte a “nuovi utenti”. In questa sede possiamo accennare a un approccio transculturale, consapevoli che è solo l‘inizio di un percorso articolato che cercheremo di sviluppare più approfonditamente in seguito su queste pagine. Con tale metodo intendiamo un attraversamento di culture durante il quale si è contaminati e si contamina a sua volta, influenzandosi vicendevolmente, senza che una cultura prevalga sull’altra, secondo gli insegnamenti dell’antropologo cubano Ferdinando Ortiz (2025). Egli, coniando il termine di transculturacion “dando e prendendo“( toma y daca) aveva espresso il dinamismo proprio di ogni processo culturale aperto allo scambio paritario. Deleuze la considerava una scienza “dei margini, degli interstizi della liminarità”(Deleuze-Guettari,1980) connaturata alla dimensione dell’incontro e della relazione con tutti gli imponderabili a cui questa modalità conduce. Una sua possibile applicazione, la “psichiatria transculturale”, non deve aggiungersi al già affollato mondo ”psy”come un nuovo modo di catalogare sintomi e sindromi, ma di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, passando attraverso (non sopra) le modalità di esprimere le sofferenze psichiche e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio fra pratiche e saperi diversi che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita e provoca. si produce un arricchimento reciproco. Tale percorso offre la possibilità all’osservatore, al terapeuta, al ricercatore, ad ogni operatore di mettersi in discussione, di scommettersi per rendersi conto che il famoso “oggetto” di studio è da tempo diventato soggetto. È qui fra noi, con tutto il suo carico di sofferenza e di diversità. La sua presenza, tra l’altro, pare continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”, a “quello straniero” che ci costringe a guardarci, non solo a guardarlo. Ascolta come mi batte forte il tuo cuore, recita la poetessa Wisława Szymborska. Una società complessa, divenuta da tempo multiculturale e multietnica – a dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore non preparato e porre in forse l’adeguatezza degli stessi i servizi in cui lavora. Una “modalità transculturale” forse può aiutare in quegli attraversamenti di altri mondi e modi di conoscenza associati alla possibilità di modificare l’orizzonte della ricerca, della cura e, in generale, dell’approccio ad eventi e persone provenienti da paesi diversi. Non aiuta certo rimanere ancorati a una posizione culturo-centrica, secondo cui ogni società pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto con cui viene in contatto”. Ecco quindi l’idea di un viaggio, di una mobilitazione dentro e fuori di sé, di preparazione a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, nell’altrove e nell’altrui. Se è vero che da tempo l’immagine dell’osservatore inerte non va più bene, anche l’osservatore che interagisce con l’oggetto della sua ricerca ha bisogno di ingranare un’ulteriore marcia, quella dell’esploratore un po’ sporco, con i segni del con-tatto. È un viaggio comunque assai poco esotico che si configura specialmente come un processo di trasformazione del “viaggiatore”, all’interno dei propri pregiudizi e visioni del mondo, previa sospensione delle sue vecchie categorie di pensiero. La transcultura non è solo la proposta di una direzione, un transito fra mondi culturali diversi, ma vuole indicare anche una trasformazione fra i contraenti della relazione che si costruisce. Una operazione rischiosa che richiede un cambiamento, un diverso posizionamento lontani da facili la tentazioni di “derive” più facili, più comode, più “alla moda”, consoni a un dibattito marcato da consolidati stereotipi. Un messaggio fuori dal “solito” approccio statico e auto confermante e pronto a divenire sociale e culturale e quindi “politico”, nel senso più alto del temine (e a cui sembra non siamo più abituati). -------------------------------------------------------------------------------- Che cosa vuol dire transculturale? Parte I -------------------------------------------------------------------------------- Alfredo Ancora, Psichiatra e psicoterapeuta, Directeur Scientifique Université Populaire “E. De Martino D. Carpitella” Paris, Ordinary member Society for Academic Research on Shamanism, è condirettore della rivista “Transculturale”. Si occupa di psichiatria e psicoterapia transculturale di gruppo, sciamanesimo, problematiche migratorie e tradizioni popolari. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Che cosa vuol dire transculturale? Parte II proviene da Comune-info.
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