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Il deserto dei Tartari
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE ET ATTENTE. IL DESERTO DEI TARTARI Se mi chiedessero quanto tempo dura un soccorso, potrò dire che può durare 26 minuti e che quei minuti ovviamente perdono dimensione: si dilatano, allungano, sparpagliano.  Notte insonne o quasi.  Alle dieci di mattina del 5 novembre, riceviamo un Mayday relay forte e chiaro da Eagle 1, Frontex: un gommone sgonfio con a bordo circa 70 persone. Siamo a solo due ore dal target, o poco più.  Ci prepariamo, con calma, con ordine: sappiamo che siamo in SAR Libica e che la segnalazione di frontex via radio arriva a tutti, compresa alla so called Libyan GC. Siamo, quasi, poco convinti… in questi giorni le segnalazioni sono state numerose, ma alla fine qualcosa ci ha sottratto al soccorso: un’altra barca della civil fleet nella migliore delle situazioni, un naufragio o una cattura da parte di GC tunisine o libiche, nelle altre. Nel frattempo arriva la comunicazione via VHF anche da SB, aereo che fa parte della flotta civile. Ci conferma le informazioni di E1, ma aggiunge che i libici si stanno dirigendo veloci verso quella direzione e che sono armati fino ai denti. Lascio che questa informazione mi scivoli addosso, come molte di quelle che arriveranno nelle ore che seguono: giusto parole, una dopo l’altra, che non si aggrappano al cervello. Non trattengo, non “processo”, non registro. Quanto di più tipico durante un’azione d’urgenza. Mi ci soffermerò dopo, ad operazione finita, lo farò nei prossimi giorni. Una certezza: chi presta soccorso, non è e non deve essere armato, se non di forza, coraggio, speranza, desiderio, cura e molto altro. Ma no, nella lista le armi non sono previste.  Ci dirigiamo e continuiamo la corsa.  Poi, li avvistiamo e ci facciamo riconoscere. L’immagine che si profila e che appare poco a poco più netta, mi sembra quella tipica di un soccorso, come se ne vedono molte: le persone sono a bordo di un gommone mezzo sgonfio, sovraffollato. Sono dentro e a cavalcioni di questa cosa che galleggia. Ovunque persone: sui lati, all’interno. Piedi nudi,  gambe sospese nel vuoto.  Niente di rosso ci appare: nessun gilet di salvataggio, solo qualche pneumatico nero attorno alle braccia di quelli che sono più esterni, seduti sui bordi.  Facciamo segno, ci riconoscono, esultano. L’accoglienza che ci riservano, le benedizioni che ci inviano è bella ma pericolosa: il loro equilibrio è talmente precario che in un attimo lacosachegalleggia potrebbe capovolgersi. Li invitiamo alla calma. Con le parole, coi gesti.  Le procedure standard, su cui siamo formati, prevederebbero di mettere in mare il nostro RHIB. Ma la corsa contro il tempo non lo consente e quindi ci limitiamo ad avvicinarci e a comunicare in modo chiaro e forte chi siamo, che li porteremo a bordo e come lo faremo. Il resto non so spiegarlo. Come un film al rallentatore,  una serie di gesti che si incollano un pezzo alla volta. Noi dell’equipaggio funzioniamo come un corpo a cui la testa ha dato i comandi. Io a prua e un’altra persona a poppa dobbiamo lanciare una cima che le persone a bordo di quella cosa sgonfia dovranno tenere, dall’inizio alla fine, senza mai lasciarla. Due persone devono stare all’interno, per accogliere chi entrerà a bordo, due alla porta d’ingresso per farle passare dalla zattera alla nostra nave, primo porto sicuro. Il capitano al comando di questa manovra.  Iniziamo e da questo momento fino al termine dell’operazione sono concentrata su quello che devo fare senza avere una completa visibilità su quello che i miei compagni compiono. Eppure siamo coordinati. Scoprirò alla fine che per far salire a bordo tutte le 71 persone, ci abbiamo messo soltanto 26 minuti. Lancio loro la cima. Non ricordo se sono la prima a farlo o il mio compagno a poppa. Reportage e inchieste/In mare SILENCE FINI Il racconto di una navigazione a bordo del veliero Nadir Roberta Derosas 27 Novembre 2025 Lancio e la prendono, la afferrano, la stringono. Se potessero, mi sembra che se la legherebbe attorno. Dall’altro lato è uguale. Il gommone nero si attacca alla chiglia della nostra N. Le braccia si tendono. La maggior parte delle persone è adulta: dalla posizione in cui mi trovo, mi ricordano i miei figli quando da piccoli mi tendevano le braccia. Vedo i visi, gli occhi, gli sguardi.  E ancora le braccia tese.  Si appendono alle cime, cercano di arrampicarsi, mentre gridiamo per farci sentire: è pericoloso quello che che accade. Il loro barcone ondeggia mentre sono tutti in piedi nel suo ventre sgonfio e bagnato. Grida di paura, grida di ordine, di comando, di indicazioni, di pretese e richieste di essere accolti per primi.  Sollevano i bambini, vogliono passarceli, salvarli. D’istinto ne prendo uno che qualcuno mi passa.  Penso a quella celebre frase che ricorda che nessun genitore affronterebbe quel viaggio se avesse un’altra scelta. Nessuno metterebbe in mare i propri figli dandoli in pasto alla morte, prima del tempo.  Comincia il trasbordo: cerchiamo di far passare prima le donne e i bambini. Ma non sempre è possibile. le persone si pressano, accalcano: la paura di non farcela li rende aggressivi tra loro all’inizio. Uno, due, tre, quattro… “mantenete la calma, salirete a bordo tutti”.  Cinque, sei, sette, otto…  “Non lasciate le cime”  Nove, dieci, undici e ancora, ancora, ancora, uno di più, senza smettere, senza pace né tregua, correndo per portarli tutti a bordo.  E mentre alcuni salgono, altri aspettano il loro turno, chi con calma, chi con ansia, mentre li rassicuriamo. A gesti e a parole.  Un ragazzo di fronte a me, un minore che viaggia da solo. Mi guarda e mantengo il contatto con lo sguardo, gli sorrido, lo rassicura. Potrebbe avere l’età di mia figlia. Tra i 16 e i 17 anni. Lei è al caldo, a quest’ora è a scuola. Le persone salgono a bordo e io indico agli uomini che salgono sul ponte dove sedersi a prua. Le donne e i bambini all’interno. Il gommone nero si svuota. Ne restano a bordo tre, due, uno. Nessuno.  Sono tutti qui ora nella nostra barca.  Tutti al sicuro.  La procedura prevede mail e chiamate, compreso la MRCC libica. Tocca a me, fa parte delle mie funzioni a bordo. Al primo e secondo numero non risponde nessuno. Al terzo, mi rispondono. “No english, only arabic”. Ripeto e provo anche in francese. La risposta è la stessa. Silenzio. Riagganciano. Da MRCC Malta non risponde nessuno. Solo una segreteria telefonica. Da Roma invece qualcuno all’altro capo del filo. L’ufficiale di servizio conferma di aver ricevuto la mail. Sudo. Questa è la parte che mi fa più timore, eppure ho sempre l’appoggio del capitano. Ma basta una mail mandata al momento sbagliato, una parola non precisa che si rischia l’arresto delle operazioni da parte delle autorità. Nel frattempo, la N si trasforma: non esiste uno spazio vuoto. Le nostre cabine sono piene di oggetti. Altrove, persone ovunque.  E poi odore di urina, di escrementi, di paura, di mare bagnato.  Gente che vomita ovunque.  Le persone sono fradice: di viaggio, di fatica, di anni di lotta ed erranza. Se mi chiedessero quale odore associo alla migrazione di chi arriva dall’Africa attraverso il mare, è questo. Lo stesso che ho sentito ai moli durante gli approdi.  Cominciamo ad aiutare le donne a lavarsi, a mettere vestiti asciutti. Ancora una volta: una, due, tre, quattro…. Ci vuole qualche ora perché siano tutte coi vestiti asciutti. I sacchi si riempiono di panni bagnati pieni di vomito, urina, dolore.  Siamo in tre donne a prenderci cura di loro. Le aiutiamo a lavarsi, a passare il sapone su schiene, seni, ventri che hanno cicatrici di colpi e smagliature dei parti. Corpi nudi, indifesi. A cui cerchiamo di restituire ciò che mi sembra sia stato tolto per anni. Non smetto di pensare a come mi sentirei se una sconosciuta mi guardasse nuda. Cerco di essere discreta, a me non piacerebbe. Credo vorrei solo chiudermi da qualche parte lontano da tutto. Chiediamo loro se vogliano essere aiutate. Nessuna rifiuta. Metto tenerezza in quel gesto, la stessa cura che userei verso i miei figli, verso me stessa, verso chi conosco e amo. Alcune parlano, altre distolgono lo sguardo, altre ancora raccontano la loro storia. Una donna nigeriana mi dice che è rimasta in Libia oltre un anno dopo aver restituito il debito alla madam. “Ho continuato a lavorare per conto mio, mi sono pagata il viaggio”. Ha una grossa ferita sul seno. Mi dice che le è esplosa una bombola di gas addosso mentre cucinava. Non faccio domande, ascolto chi ha voglia di raccontare. Osservo i corpi, in silenzio: i lividi, le cicatrici, le scarificazioni, la forma, le macchie; Siamo tutti sfiancati:  le persone a bordo sono stanche, gli ospiti si addormentano, adattando i corpi ai posti disponibili. Noi ci diamo i turni per avere qualche ora di riposo. Il ponte è dorato dalle coperte termiche; fa lo stesso rumore della carta di una caramella. Solo che le caramelle qui sono persone. 49 uomini. Dentro 26 donne. 5 bambini, tra cui una neonata di soli 21 giorni, che una madre sfinita allatta senza sosta ad ogni risveglio. Per fortuna, non ricorderà nulla di questa notte senza fine.  Avrà memoria degli anni che arriveranno, delle procedure, dei centri, dei cambiamenti di case e paesi. Forse.  Ma non dei 26 minuti di questo soccorso. 1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Silence fini
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE, ATTENTION. C’è molto da raccontare dopo tre settimane a bordo della Nadir: le vite che l’hanno attraversata e abitata, il dovere dei soccorsi a cui ho preso parte, il dolore, la miseria. E non penso solo a quella di chi parte e sale al sicuro: quella è una povertà facile.  Mi riferisco a quella sporca, di esseri umani che infliggono tortura e degradazione ad altri, quella di chi nega diritti,  quella in cui gli Stati bianchi e protetti da una fortezza pagano complici a sud per ricacciare indietro uomini, donne, bambini: vite che hanno diritti di cui si tenta di ignorare l’esistenza, vittime di un’indecenza a cui si tenta di rispondere. Tre settimane in un veliero, eterotopia per eccellenza in cui si rende onore al dovere di soccorso e in cui navigare è pratica politica. Ventuno giorni che, nel loro dispiegarsi, hanno disegnato, affermato, cancellato e sospeso frontiere. Il mare continua a essere perfetto anche quando tutto il resto non lo è, fa il suo mestiere con coerenza millimetrica: ospita, custodisce, trasporta, ingoia, mentre gli uomini sembrano smarrire il proprio compito, quando cercano senza trovare o ignorano ciò che si vede.  L’attesa talvolta è stata una compagna complessa, faticosa, che mi si è attorcigliata come un filo mal teso. Durante la navigazione, il mare mi è apparso, talvolta,  come una superficie uniforme. Più spesso, mi ha rivelato correnti, decisioni, ruoli, movimenti. Sono stata a bordo con sette persone  che lo hanno vissuto per il tempo sospeso della rotation #10. Quattro uomini e tre donne che, nel tempo di questa navigazione tra il 25 ottobre e il 15 novembre, sono stati marinai, volontari, ricercatori, giuristi, film maker, fotografi, esperti di logistica, sia rivestendo ruoli già conosciuti perché parte del loro quotidiano nel loro paese di origine, ma altrettanto nuovi e differenti nello spazio marino.  Abbiamo abitato l’ordine mobile imposto dall’acqua e dal vento,  nel ritmo altalenante delle onde, nel perimetro stretto delle manovre, nel silenzio che precede le comunicazioni radio, nel gracchiare di un canale VHF connesso h 24 rumoroso nei momenti più inopportuni. Ogni gesto quotidiano – tra nodi, scelta delle rotte, controllo di motori, mail, cibo cucinato e condiviso, soccorsi – ha disegnato una coreografia ripetuta eppure varia.  Per tre settimane ho osservato il mare e suoi i movimenti, chi lo lo abita e lo traversa, chi lo confina o ne apre i varchi e, allo stesso tempo, me  stessa lì dentro: ciò che che ho temuto, affrontato, invocato, curato. Quello che mi ha suscitato domande e quello che ha generato certezze, in un costante movimento di relazione all’Altro. Etnografia e auto etnografia del mare. Ho condiviso un tempo e uno spazio con altre persone a cominciare dalla crew. L’equipaggio aveva, in parte, esperienze pregresse di SAR nel Mediterraneo Centrale. Tutti provenienti dalla Germania tranne due persone, la comunicazione a bordo è sempre stata l’inglese, ma talvolta una lingua ibrida si è usata tra i membri, un broken english, sporcato da accenti diversi e parole tedesche, italiane e francesi, a seconda delle lingue comuni. Il capitano, I., tedesco, oltre che essere uno dei fondatori di questa OnG, lo è stato anche di un’altra, da cui si è allontanato nel 2019. Meccanico in pensione, ha profonde conoscenze dei salvataggi in mare, in cui opera come capitano volontario da oltre dieci anni. Il meccanico di bordo, ma anche responsabile degli ospiti, M.,  ha già partecipato con diverse organizzazioni a missioni di soccorso. In Germania si occupa a domicilio di persone paraplegiche, con un ruolo che prevede la cura fisica e quella amministrativa.  Il medico, una donna, ha una lunga esperienza nei contesti di emergenza in Germania, ma era alla sua prima navigazione. Il fatto di partecipare a questa rotazione è un’idea che si è fatta strada, per lei, nel corso del 2025. Come Filmmaker e Official Media Communicator oltre che RHIB driver, T., un altro tedesco appassionato di fotografia, ma di mestiere operatore sanitario nei contesti di urgenza da più di 25 anni nella sua città, nel nord della Germania. Di operazioni di soccorso, ne ha fatte molteplici. Come guest care un altro tedesco, J, che ha partecipato, anche lui, a molte operazioni. In Germania è avvocato penalista. Poi D, una ragazza greca che vive in Francia come me: è stata co- skipper e nel RHIB si è occupata di avere il primo contatto con le persone migranti. È la più giovane del gruppo e si affaccia alla search and rescue bubble, ma ha al suo attivo una forte esperienza di militanza con persone migranti. Naviga per mestiere. E poi ci sono io, a metà tra Italia e Francia, a metà tra lavoro sociale e ricerca. Ho il compito di comunicare con le autorità sia per scritto che via radio VHF e telefono, ma anche degli ospiti a bordo insieme a J., sia per la distribuzione di vestiti e cibo quando le persone saranno soccorse che per spiegare loro cosa significa arrivare in Europa. Questa è la seconda operazione a cui partecipo: ciò non fa di me una grande esperta, solo una persona cosciente di cosa mi aspetta. Le motivazioni che ci hanno spinti a bordo sono molteplici e col denominatore comune di pensare al soccorso in mare come un atto doveroso quando le persone attraversano. Ne abbiamo parlato in queste tre settimane di vita comune, ma più sono aumentati i giorni di navigazione che hanno trasformato la terra in un miraggio alle nostre spalle, meno sono stati gli spazi condivisi di discussione sulle motivazioni che ci avevano spinti a bordo: abbiamo vissuto in un sistema di shift in cui, due alla volta, ci siamo divisi le giornate a spicchi e quando non siamo stati di watch, spesso abbiamo cercato di dormire. La fatica  e il sonno rendono silenziosi. Il tempo in barca si ritesse come la frontiera che abbiamo percorso senza sosta.  Accanto alla relazione a me stessa e all’equipaggio di cui ho fatto parte, si è aggiunta quella con tutti gli altri attori del Mediterraneo, dalle persone in movimento, ai pescatori, dagli altri membri della civil fleet marina, aerea e terrestre, a quelli istituzionali, compagni talvolta imposti dal mare e dal diritto che lo regola, ma profondamente temuti e indesiderati, come le GC Tunisina e Libica. Nelle note che seguono, il Mediterraneo centrale è al contempo attore e scenario: con la sua bellezza ha accolto e accompagnato la nostra azione e la navigazione di questa barca, accentuando il contrasto indecente tra la perfezione della natura – che mi stupisce sempre – e l’assoluta assenza di logica che abita talvolta il soccorso in mare, tra barche segnalate che non si trovano e altre cariche solo di oggetti lasciati a macerare, ma prive di persone di cui non si conosce il destino. Siamo partiti da Malta, dove la barca è ancorata tra un’operazione e l’altra, isola che scopro per la prima volta. Mi fa pensare a Lampedusa, che arrivando dall’aereo, appare piccola piccola. Il maltese mi sembra un insieme strano di inglese, siciliano, arabo. Una lingua vecchia di rapporti e dominazione, di parole eleganti e suoni duri, un archivio di incontri, ferite, scambi, compromessi. Nelle parole si sente chi è arrivato dal mare e chi dal deserto. Mi fa pensare a chi, nei secoli, attraverso questa lingua, ha perso una patria o ne ha conquistata una, chi ha scelto di rimanere e chi è stato costretto a farlo. In fondo, un idioma è più onesto delle politiche che si applicano in migrazione: non c’è lingua che resta pura, né confine che rimane intatto. Le vocali sono un prestito, le consonanti diventano testimoni di un movimento umano: di lavoro, di fuga, di desiderio, di sopravvivenza. Le lingue si sporcano e tessono di incontri: sono testimoni del fatto che nessun popolo è mai stato solo e isolato. A bordo, navigando, si sono tessute conversazioni. A volte, il mondo si è apparentemente diviso tra noi e loro, The migrants come li chiamano nella bubble SAR: Corpi bruciati, carne ossidata dal sale, mare, gasolio che laviamo con acqua e sapone quando salgono a bordo. Persone, cicatrici, dolore, movimento, oggetto, soggetto, vittime, attori. Ossimoro vivente, continuamente riprodotto dal mare e dallo sguardo di chi lo attraversa. Io faccio fatica, all’inizio della navigazione, a usare questa parola per indicare le persone che si incontrano perché mi pare di ridurle al solo fatto della migrazione, di dimenticare che sono molto altro che il viaggio che affrontano. Penso a Sayed quando dice che l’immigrato, per definizione, non é jamais tout à fait un homme: il est d’abord immigré, un’identità che cancella la biografia, una parola che descrive la persona solo attraverso una lente e lo riduce, esclusivamente, a soggetto in movimento. Ma quante storie esistono dentro queste persone che si muovono? Penso a H. Arendt e a Judith Butler che invita a riflettere a come il linguaggio crei una frontiera tra “noi” e “loro”. Se loro sono “migranti da soccorrere”, allora automaticamente noi siamo “soccorritori”. Siamo categorie: i salvati da una parte, i salvatori dall’altra, come se non esistessero alternative. E invece la realtà è meno ordinata di così. Il viaggio ci mette tutti in una condizione vulnerabile, solo in forme diverse. C’è chi ha perso la terra da cui viene, chi si misura con la frattura tra ciò che vede e ciò che il mondo finge di non vedere e il movimento non lascia nessuno intatto. Cosa significa essere soccorsi o soccorrere, essere tratti dall’acqua, riconosciuti come persone? Cosa significa avere il diritto a esistere senza dover giustificare la propria esistenza? Le frontiere non sono solo nel mare o tra le terre, ma cominciano dalle parole e dagli sguardi.  Durante la navigazione, in mare, non esistono confini tracciati a vista o muri fatti di reti, eppure ogni tratto d’acqua ha qualcuno che ne ascolta le voci. Nella zona SAR, quando un’emergenza appare, la centrale di coordinamento di quell’area deve intervenire e distribuire i ruoli: chi si avvicina, chi rimane in attesa, chi osserva. Non si tratta di approvare o giudicare, ma di mantenere l’ordine necessario perché le vite sull’acqua non vadano disperse nella confusione. Nel soccorso in mare il paese “proprietario” di quelle acque è destinato ad averne il controllo e  riportare nella propria terra, nei propri porti. Ma da quando la Libia è un porto sicuro? E la Tunisia lo è? Perché in questi luoghi gli esseri umani sono venduti, torturati e liberati solo a condizione di pagare un riscatto. Il principio di non refoulement, che detto in francese suona elegante,  e il duty to render assistance sono solo parole inanellate le une alle altre. Il Mediterraneo Centrale è un’Odissea moderna, popolata da creature strane, luoghi, farabutti, avventurieri, eroi, protagonisti e personaggi che fanno da sfondo. Abbiamo navigato percorrendo la banana route, derivato accanto alla piattaforma di Miskar nel Golfo di Gabes: una struttura innaturale che, eppure, si confonde col paesaggio. Un sistema di piani, scale e tubature che lavora per catturare ciò che si nasconde sotto il fondale. Di giorno, il metallo sembra un’anima priva di vita; di notte, le luci la rendono una presenza spettrale. Miskar non è soltanto metallo. È anche una specie di frontiera: tra l’uomo e il mare, tra ciò che si estrae dal profondo e ciò che resta in superficie, in una sorta di dimensione sospesa. Senza essere un luogo, lo diventa, come una barca ancorata in eterno. Ne ho sentito parlare senza sosta da chi ha già navigato nel Mediterraneo Centrale partecipando a operazioni di soccorso e ne ho memoria dai racconti di un amico etiope, che lasciando la Libia nel 2006, l’ha incrociata di notte e confusa con una nave insieme ai compagni d’avventura. Mi ha raccontato dell’entusiasmo, mentre navigava con gli altri, nel vedere le luci in lontananza, ma poi della delusione alla certezza che non si trattasse di una barca.  Nel cuore di questo sud liquido, abbiamo incontrato imbarcazioni: piene di persone, vuote. Di lamiera, di gomma, di legno, di vetroresina. Blu, nere, azzurre, grigie, ruggine. Anonime o col marchio di fabbrica: una tra tutte quella incontrata  dopo qualche giorno di navigazione. Dieci metri di lamiera stridenti incollata con lo sputo e il sudore destinate ad accogliere almeno ottanta persone. Sulla chiglia, a prua, il marchio di chi l’ha prodotta: King 24. Di questo mostro di metallo, Marinetti avrebbe riprodotto una serie di suoni sinistri. È un affronto alle leggi della fisica. Dentro, qualche scarpa, qualche pneumatico nero, uno zaino da bambino, due macchinine giocattolo, distrazione infantile durante un viaggio insensato. Abbiamo tentato di affondarlo, questo mostro, ma ci ha resistito cigolando in modo sinistro.  In ventuno giorni, abbiamo perlustrato, derivato, corso, veleggiato, usato il motore: ci siamo imbattuti per caso in barche abbandonate, ci siamo diretti verso mezzi di fortuna segnalati che non abbiamo mai trovato. Certi giorni abbiamo lottato, altri abbiamo dovuto riporre la speranza. Penso al giorno in cui siamo andati la mattina in direzione di un target che non abbiamo mai raggiunto e di cui, la sera, abbiamo conosciuto il triste epilogo: uomini che, partiti dalla Libia, sono rimasti troppo vicini alle coste e entrati nella SAR tunisina. Sottratti al mare dalla GC Tunisina, sono stati immediatamente detenuti. L’epilogo si conosce: saranno portati alla frontiera tra Tunisia e Libia, incarcerati, trasferiti e poi venduti dagli agenti di Stato Tunisini ai miliziani libici. Ne parlano anche i testimoni del rapporto State Trafficking del collettivo RRX. Si sa; è storia nota che si vuole tenere all’oscuro. C’è un privilegio che ho sentito dolorosamente a bordo: quello della bellezza costante di questo mare, quella della navigazione su un veliero, quella di essere bianchi e nati dentro la fortezza e non al di fuori, quella di scegliere sempre da che parte stare.  1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Il governo spagnolo apre due centri di detenzione per migranti in Mauritania
PABLO FERNÁNDEZ, JOSÉ BAUTISTA, FUNDACIÓN PORCAUSA Questa inchiesta, pubblicata da El Salto, ricostruisce la recente apertura di due centri di detenzione per persone migranti in Mauritania da parte del governo spagnolo, analizzando gli accordi, i finanziamenti e le implicazioni delle politiche migratorie esternalizzate. Ringraziamo la redazione di El Salto 1 e gli autori dell’inchiesta per averci concesso l’autorizzazione a tradurre e pubblicare il loro lavoro in italiano. La traduzione è stata curata da Juan Torregrosa. Entrambi i centri di detenzione sono stati costruiti dall’agenzia di cooperazione spagnola FIAP, del Ministero degli Affari Esteri, e riservano spazi e persino culle per privare della libertà anche i migranti minorenni. Dizionario della RAE: Carcere: 1.f. Luogo destinato alla detenzione dei prigionieri. Dal 17 ottobre scorso la Mauritania dispone di due nuovi centri di detenzione per migranti, uno situato a Nouakchott, capitale del Paese, e l’altro a Nouadhibou, al confine con il Sahara occidentale occupato illegalmente dal Marocco. Entrambi i centri sono stati avviati dalla Fondazione per l’Internazionalizzazione delle Amministrazioni Pubbliche (FIAP), un’agenzia di cooperazione del governo spagnolo che dipende dal Ministero degli Affari Esteri. Le autorità spagnole affermano che questi spazi sono ispirati ai Centri di Assistenza Temporanea per Stranieri (CATE) delle Isole Canarie e ammettono che, a differenza della Spagna, priveranno della libertà anche i minori, compresi i neonati in fase di allattamento, cosa che la legislazione spagnola proibisce. Una fonte spagnola coinvolta nella creazione di questi centri afferma che, nonostante il loro nome ufficiale, “si tratta ovviamente di centri di detenzione” e precisa che i bambini saranno trattenuti lì solo se accompagnati da un familiare. Due fonti mauritane confermano questa affermazione. La FIAP, il governo mauritano e la Delegazione dell’Unione Europea in Mauritania non rispondono a nessuna delle domande formulate per questo articolo. Il centro di detenzione costruito dal governo spagnolo a Nouakchott dispone di almeno 107 posti, comprese due culle per neonati, secondo i documenti della FIAP a cui ha avuto accesso questa indagine, mentre quello di Nouadhibou avrà almeno 76 posti, oltre ad altre due culle. I lavori e le forniture per la realizzazione di questi edifici sono stati finanziati con fondi spagnoli e del Fondo fiduciario di emergenza dell’Unione Europea, attraverso il progetto di polizia Associazione Operativa Congiunta (POC, acronimo francese), guidato dalla FIAP. Il presidente della Repubblica Islamica di Mauritania, Mohamed Ould El Ghazouani, accoglie il presidente Pedro Sánchez all’aeroporto di Nouakchott. Fernando Calvo MONCLOA LA SPAGNA ESTERNALIZZA I PROPRI CONFINI IN MAURITANIA Per comprendere la storia dietro le carceri per migranti che la Spagna ha aperto in Mauritania, bisogna risalire al 15 maggio 2024, quando 15 governi dell’Unione Europea hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiedendo di seguire l’esempio di Giorgia Meloni, presidente del governo italiano, che ha avviato un centro di detenzione per migranti in Albania. Il governo spagnolo non ha firmato quella missiva, ma una settimana prima, l’8 maggio 2024, aveva assegnato all’impresa edile CADG i lavori per allestire due centri di detenzione per migranti in Mauritania. Tre mesi dopo, nell’agosto 2024, il presidente spagnolo e la presidente europea si sono recati in Mauritania e hanno promesso di inviare oltre 500 milioni di euro al governo militare del generale Mohamed Ould El Ghazouani. > La FIAP non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per > impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti. Negli ultimi anni, l’esecutivo presieduto da Pedro Sánchez ha anche aumentato il trasferimento di intelligence e attrezzature di polizia al regime mauritano con l’obiettivo di reprimere la partenza di imbarcazioni dirette alle Isole Canarie. Questo subappalto del controllo migratorio a paesi terzi, noto come “esternalizzazione delle frontiere” e attuato attraverso la FIAP, ha portato la Mauritania a raddoppiare i raid per arrestare i migranti. Agenti della Guardia Civil e della Polizia Nazionale Spagnola dispiegati nel paese partecipano a queste operazioni, che includono perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e arresti arbitrari per motivi razziali. L’apertura di due centri di detenzione per migranti ha comportato una spesa totale di almeno 1.080.625 euro di fondi europei, secondo i documenti ufficiali a cui ha avuto accesso questa indagine. Tutti i contratti sono stati assegnati senza gara pubblica da parte della FIAP e hanno beneficiato di finanziamenti europei. La Mauritania è diventata una delle priorità finanziarie della FIAP in coincidenza con l’aumento del flusso migratorio sulla “rotta delle Canarie”. Senza andare oltre, il 1° novembre questa agenzia ha erogato 160.000 euro (senza gara d’appalto) per acquistare un numero indeterminato di veicoli 4×4 e droni con visori notturni per la polizia mauritana. In una comunicazione della FIAP successiva alla pubblicazione di questo articolo, l’agenzia nega categoricamente che l’appalto sia stato aggiudicato senza gara pubblica e sostiene che i contratti sono stati aggiudicati con “procedura pubblica” in base alla prima disposizione aggiuntiva della legge sugli appalti pubblici che regola i contratti all’estero. Questa agenzia di cooperazione del Ministero degli Affari Esteri, coinvolta nello scandalo di corruzione noto come “caso Mediador” o “caso Tito Berni”, non specifica se abbia messo in atto alcun meccanismo o protocollo per impedire alle autorità mauritane di maltrattare e torturare i detenuti, né fornisce il regolamento che ne disciplinerà il funzionamento. Sul suo sito web, la FIAP riconosce che questi centri contribuiranno a “determinare se [i migranti detenuti] sono vittime di tratta, minori non accompagnati, persone vulnerabili o richiedenti protezione internazionale” e assicura che i detenuti rimarranno in custodia per un massimo di 72 ore. Questa agenzia di cooperazione spagnola non ha risposto a nessuna delle domande poste, sostenendo che porCausa non è un mezzo di comunicazione. Inaugurazione del centro di detenzione per migranti a Nouakchott (Mauritania) – Foto Delegazione dell’UE in Mauritania L’inaugurazione di entrambi gli spazi ha avuto luogo lo scorso 17 ottobre alla presenza di agenti della Polizia Nazionale spagnola, rappresentanti dell’Unione Europea e del ministro dell’Interno mauritano. La Spagna conta più di 80 funzionari e agenti della Guardia Civil, della Polizia Nazionale e del CNI dispiegati in modo permanente in Mauritania. Tre fonti con accesso a questi centri di detenzione affermano che le carceri per migranti della FIAP in Mauritania sono già pronte ma non sono ancora entrate in fase operativa, quindi nessun migrante detenuto avrebbe pernottato in esse per il momento. Inizialmente era prevista anche la partecipazione all’inaugurazione del commissario Abdel Fattah, capo dell’Ufficio per la lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani della polizia mauritana. Fattah, incaricato di ricevere e gestire i dispositivi per il controllo dei flussi migratori che la Spagna fornisce alla Mauritania attraverso la FIAP, alla fine non ha partecipato alla cerimonia perché è stato sollevato dal suo incarico dopo che si è scoperto che riceveva tangenti dai trafficanti di esseri umani che organizzano i cayucos dirette alle Canarie, in cambio di informazioni errate fornite alla Guardia Civil, come rivelato da un’indagine di porCausa e dai quotidiani El País e Le Monde. Nel 2022 Fattah è stato insignito della medaglia al merito di polizia dal ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska. Questo ufficiale della polizia mauritana, cugino dell’ex presidente Mohamed Ould Abdel Aziz, è libero e non ha accuse a suo carico. Il commissario mauritano destituito, Abdel Fattah, riceve la medaglia al merito di polizia dalle mani del ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, nel 2022. PH: Agenzia Mauritana di Informazione LE AZIENDE COINVOLTE Falcon Consultores, la società che ha redatto lo studio tecnico di queste carceri, non ha risposto alle domande poste per questo articolo. CADG, che ha realizzato i lavori e fornito anche arredi e attrezzature, sottolinea di avere “regole severe” per evitare pratiche corrotte e conflitti di interesse in conformità con le “norme etiche internazionali” e chiede di risolvere le questioni relative a queste carceri per migranti con la FIAP. In Mauritania entrambe le società sono anche aggiudicatrici di diversi contratti di TRAGSA, un’azienda di proprietà dello Stato spagnolo. Da quando Pedro Sánchez è arrivato alla Moncloa, TRAGSA è responsabile di diversi contratti relativi al controllo dell’immigrazione, come i lavori di ammodernamento delle recinzioni di confine di Ceuta e Melilla. Essendo costituita come società privata, i giornalisti non possono richiedere informazioni sui suoi contratti e sulle sue attività ai sensi della legge sulla trasparenza. In risposta alle domande poste, TRAGSA riconosce di aver ricevuto «un incarico dalla FIAP per la realizzazione del progetto costruttivo e l’esecuzione dei lavori dei centri di detenzione temporanea a Nouakchott e Nouadhibou» e chiarisce che successivamente, su richiesta della FIAP, «è stato deciso» e alla fine non ha eseguito tali lavori. FIAP sostiene che la risoluzione del contratto sia avvenuta in termini amichevoli e ha inviato il fascicolo che lo dimostra successivamente alla pubblicazione dell’articolo su El Salto. Il team di giornalisti che ha redatto questa informazione ha inviato alcune domande anche alle autorità della Mauritania, tramite il Ministero dell’Interno e l’ambasciata a Madrid. Il governo mauritano non ha risposto a nessuna delle domande poste né ha chiarito cosa intende fare con i migranti privati della libertà nelle due prigioni costruite dalla Spagna. ABBANDONI NEL DESERTO SPONSORIZZATI DALLA SPAGNA E DALL’UE Il regime mauritano effettua retate – con il sostegno e le informazioni fornite dalla Guardia Civil, dalla Polizia Nazionale e dal CNI – per arrestare arbitrariamente persone di colore, compresi bambini in età lattante. Le autorità mauritane utilizzano quad, veicoli 4×4, droni e dispositivi tecnologici forniti dalla FIAP per effettuare questi arresti. I migranti arrestati vengono privati di tutti i loro effetti personali (compresi documenti d’identità e telefoni), condotti in carcere e sottoposti a soggiorni di diversi giorni in condizioni disumane, senza cibo, acqua né accesso ai servizi igienici. Almeno due agenti della Polizia Nazionale spagnola si recano settimanalmente in questi centri, a Nouakchott e Nouadhibou, per rilevare le impronte digitali e scattare fotografie ai detenuti. L’ottenimento di questi dati non è banale: dal 2003 la Spagna e la Mauritania hanno un accordo in base al quale le autorità spagnole possono espellere cittadini di paesi terzi verso la Mauritania. > Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve > liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano > in zone remote. Infine, i detenuti vengono abbandonati in zone remote come Gogui, al confine desertico con il Mali, un territorio con un’alta presenza dell’organizzazione jihadista JNIM, affiliata ad Al Qaeda nel Sahel. Tra i migranti che subiscono questi abbandoni nel deserto spiccano persone con profilo di richiedenti asilo in fuga dalla guerra in paesi come il Mali o il Niger e dalla violenza politica in nazioni come la Guinea Conakry. Ogni settimana la Polizia Nazionale spagnola di stanza in Mauritania riceve liste con i nomi e cognomi delle persone che gli agenti mauritani abbandonano in zone remote. Le prove a sostegno di queste informazioni sono contenute in un’inchiesta giornalistica coordinata da Lighthouse Reports, con la partecipazione di porCausa, e in un ampio rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch. L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono a conoscenza di questi abusi, secondo documenti interni a cui porCausa ha avuto accesso. Tra queste vittime ci sono giovani come Sady Traoré, un giovane musicista maliano fuggito da Bamako (Mali) dopo aver ricevuto minacce per aver organizzato concerti contro il colpo di Stato militare nel suo Paese. Traoré ha deciso di stabilirsi temporaneamente in Mauritania, ma dopo essere stato abbandonato due volte nel deserto dalle forze mauritane, ha deciso di emigrare in Spagna. Questo giovane è arrivato alle Canarie nel gennaio 2024 e da allora non ha potuto esercitare il suo diritto di chiedere asilo. Traoré attualmente dorme sotto un ponte in una località vicino a Valencia e sopravvive svolgendo lavori occasionali come bracciante nel settore agricolo. Il Comitato spagnolo di aiuto ai rifugiati (CEAR) sta cercando di aiutarlo a ottenere un appuntamento per richiedere l’asilo. -------------------------------------------------------------------------------- Fundación porCausa Il giornalismo è una professione rischiosa in Mauritania. Un professionista dell’informazione che ha collaborato a questo reportage ha deciso di non firmare per paura di ritorsioni. Per motivi di sicurezza, questa informazione omette anche il nome e i dettagli di diverse fonti umane, tra cui diversi migranti vittime di questo schema e una mezza dozzina di funzionari delle forze di sicurezza spagnole e mauritane. Questa indagine è stata condotta con il sostegno del Pulitzer Center. La Fondazione porCausa è un’organizzazione indipendente di giornalismo e ricerca sulle migrazioni. Il lavoro di porCausa è reso possibile dalla sua comunità di soci. Anche tu puoi unirti a noi tramite questo link. Se desideri inviare informazioni sensibili a porCausa o El Salto, contattaci tramite Signal senza rivelare la tua identità al seguente numero di telefono: +33 7 81 52 99 58. 1. El Salto è un progetto di circa 200 persone e oltre 10.000 soci, che promuove un giornalismo radicalmente diverso: indipendente, autogestito, orizzontale e assembleare. È un medium democratico, a proprietà collettiva, decentralizzato e finanziato dalla comunità, non da grandi corporazioni. Il suo obiettivo principale è contribuire alla trasformazione sociale attraverso giornalismo di qualità, analisi, inchiesta e anche umorismo ↩︎
Nati nel limbo
Sono a Cipro da cinque giorni, è aprile 2024. Atterro a Pafos, sulla costa ovest, passando per Limassol,  risalgo poi verso Nicosia. Cammino in un’isola che è uno Stato e allo stesso tempo due. Non per chiunque, e nemmeno da sempre. Oggi, nel paesaggio e nelle istituzioni restano impressi i segni di una divisione che la storia politica recente ha inciso, trasformando differenze culturali, religiose e identitarie in una frattura politica e militare quotidiana. Cipro oggi è un Paese sovrano e membro dell’Unione Europea. A sud si estende la Repubblica di Cipro, riconosciuta dalla comunità internazionale, a nord la Repubblica Turca di Cipro del Nord, proclamata nel 1983 e sostenuta soltanto da Ankara. In mezzo corre la buffer zone delle Nazioni Unite che attraversa l’isola e divide in due anche la capitale. Camminando a Nicosia si avverte la cesura. A sud botteghe e caffè si alternano a palazzi veneziani, moschee e tribunali coloniali, strade dritte e viali ombreggiati portano a edifici moderni e torri di vetro. L’aria sa di Mediterraneo ma richiama anche Londra. A nord la lingua si fa turca, la moneta lira, le stesse case hanno un aspetto più dimesso, i ritmi rallentano e l’isolamento si percepisce nei servizi incerti e nelle strade meno curate. La città conserva la sua ossatura comune, ma ogni lato racconta un destino che si è allontanato dall’altro. La presenza greco-ortodossa e turco-musulmana risale al 1570, con l’arrivo degli ottomani. Cipro era già un crocevia conteso, ma il sistema dei millet organizzava la società in comunità confessionali autonome: gli ortodossi nel millet rum, i musulmani in quello islamico. Ogni gruppo amministrava matrimonio, eredità e istruzione attraverso le proprie istituzioni. Non esisteva una cittadinanza unitaria, ma una pluralità di sudditi che condividevano lo stesso spazio, con frizioni quotidiane che non degeneravano in antagonismo. Il vero salto avviene nel 1878, con l’amministrazione britannica. Londra non abolisce i millet, li riconfigura. La distinzione religiosa viene codificata come etnica e nazionale: gli ortodossi sono classificati come greco-ciprioti, i musulmani come turco-ciprioti. La cittadinanza coloniale, pur includendoli come natives of the colony, li etnicizza dall’interno, avviando un processo di nazionalizzazione che cancella la dimensione comune. Scuole, manuali e lingue d’insegnamento consolidano due identità contrapposte. Nel 1931, quando i greco-ciprioti si sollevano, la repressione britannica mostra come la priorità fosse impedire l’emergere di un’identità condivisa più che contenere i nazionalismi opposti. TIMELINE DI CIPRO 1570: Arrivo Ottomani 1878: Amministrazione britannica 1950: Referendum unione con la Grecia 1964: Scontri intercomunitari 1974: Colpo di Stato e intervento turco 1983: Nascita Turkish Republic of Northern Cyprus Dopo la Seconda guerra mondiale la spirale accelera. Con Makarios III e il referendum del 1950, in cui il 95% dei greco-ciprioti vota per l’unione con la Grecia, il nazionalismo greco-cipriota si istituzionalizza. Nasce l’EOKA, che considera i turco-ciprioti un ostacolo. La risposta arriva con l’appoggio di Ankara: prende forma il TMT, che rilancia con il progetto opposto, il taksim, la divisione dell’isola. Due nazionalismi costruiti in opposizione si fronteggiano, compiendo fino in fondo il meccanismo coloniale che aveva tradotto la differenza in conflitto. Il punto di rottura matura nel decennio che precede il 1974. Già negli anni Sessanta le tensioni esplodono in violenza, lo mostrano le fotografie di Don McCullin: nel 1964, nelle strade di Nicosia, immortala una donna in lacrime per un familiare ucciso durante gli scontri intercomunitari, un’immagine che gli valse il World Press Photo. Una donna greco-cipriota piange la morte di un familiare durante la guerra civile a Cipro. Don McCullin, Cipro (1964; stampa 2013), © Don McCullin. Per gentile concessione delle National Galleries of Scotland Dieci anni più tardi la crisi si radicalizza con il colpo di Stato greco-cipriota e l’intervento militare della Turchia, presentato come difesa della comunità turco-cipriota. Da quel momento l’isola si ridisegna: i turco-ciprioti vengono concentrati a nord, lasciando case e quartieri condivisi per generazioni con i vicini greci, mentre i greco-ciprioti residenti a nord vengono trasferiti a sud. LA TUTELA CHE DIVENTA CONTROLLO: IL PESO TURCO SU CIPRO Nel periodo successivo agli scontri intercomunitari molte persone trascorrono anni in alloggi provvisori o in villaggi recintati. La neonata repubblica de facto, riconosciuta soltanto dalla Turchia, si trova fin da subito in isolamento internazionale: embargo commerciale, esclusione da eventi sportivi e culturali, divieto di collegamenti aerei diretti con l’estero. Una condizione che alimenta una dipendenza strutturale da Ankara, che provvede a stipendi pubblici, investimenti e garanzie militari. Fattori che assicurano una stabilità solo apparente e che diventano al tempo stesso gli strumenti con cui la Turchia imprime sull’isola un preciso progetto politico e culturale.  Uno dei principali strumenti di rafforzamento del legame con Ankara è stato il progressivo trasferimento di popolazione dalla Turchia verso Cipro Nord, organizzato in diverse ondate dopo il 1974 e tale da modificare in profondità la composizione demografica dell’area. La prima, tra il 1974 e il 1979, portò circa quindicimila cittadini turchi a ottenere la cittadinanza della Turkish Republic of Northern Cyprus (TRNC) e l’assegnazione di villaggi e proprietà appartenuti ai greco-ciprioti. Negli anni Ottanta arrivarono professionisti e studenti, mentre negli anni Novanta il boom edilizio e la liberalizzazione dei permessi di lavoro alimentarono ulteriormente i flussi. Tra il 1996 e il 2011 il numero di cittadini turchi residenti nella TRNC passò da 3.700 a oltre 80.000. Le stime più recenti collocano la popolazione complessiva tra 400.000 e 800.000 abitanti, ma l’assenza di un censimento ufficiale dopo il 2011 impedisce di conoscere con precisione la consistenza attuale dei turco-ciprioti sull’isola.  Accanto ai cambiamenti demografici si è consolidata anche una pressione culturale. I turco-ciprioti, storicamente influenzati dal kemalismo – l’ideologia laica e nazionalista promossa da Mustafa Kemal Atatürk nella Turchia del Novecento, che relegava la religione alla sfera privata – si trovano oggi esposti a un processo inverso promosso da Ankara. Negli ultimi vent’anni sono state costruite più di cinquantadue nuove moschee, un numero che supera quello delle scuole. Sono stati aperti centri di formazione religiosa come l’Hala Sultan College of Theology e avviati corsi coranici finanziati dalla Diyanet e da fondazioni turche. Sul piano linguistico, il dialetto turco-cipriota, il Gibrislidja, è stato escluso dai media nazionali nel 2009 e definito un ‘turco sbagliato’.  Anche la vita politica è stata influenzata. Le elezioni presidenziali del 2020 sono state segnate da episodi di ingerenza documentati dal report indipendente di Raporluyoruz 1, un gruppo di avvocati, ricercatori e membri della società civile, che descrive il ruolo diretto dell’intelligence turca (MIT) nella campagna elettorale. Secondo il report, ad alcuni collaboratori del presidente uscente Mustafa Akıncı fu comunicato che sarebbe stato “meglio per lui, la sua famiglia e i suoi colleghi” ritirare la candidatura. Bambini che tornano da scuola attraversano la strada a Nicosia (Lefkoşa), sullo sfondo il volto di Erdoğan e una bandiera turca dominano la scena. PH: Federico Rinaldi Lo stesso documento segnala che l’ambasciata turca a Nicosia Nord convocò parlamentari locali per fare pressione a favore di Ersin Tatar e che quest’ultimo compì due visite improvvise ad Ankara, ricevendo la promessa di iniezioni di fondi nell’economia turco-cipriota. BÜLENT E LE SUE SORELLE: CRESCIUTI A NICOSIA, CITTADINI ALTROVE Una visuale del quartiere di Samanbahçe. PH: Federico Rinaldi Durante il mio viaggio, alloggio nella parte greca di Nicosia e continuo a muovermi avanti e indietro, passaporto alla mano. Un giorno capito per caso nel quartiere di Samanbahçe, nella parte turco-cipriota della città. È il primo progetto di edilizia popolare dell’isola: venti case disposte su una griglia regolare, una fontana bianca e grigia al centro che ne riprende i colori. L’atmosfera è ordinata, silenziosa e un po’ sospesa. Incontro per caso Pembe e Hamide, che vivono l’una di fronte all’altra da anni con le rispettive famiglie. Pembe e Hamide si incontrano dopo pranzo per una chiacchierata davanti casa Hamide e Fevzi davanti alla porta di casa Hamide è sposata con Fevzi, un uomo sulla sessantina, presenza autorevole e occhi gentili. Corre avanti e indietro per Nicosia in sella al suo motorino, e io l’ho soprannominato “Örümcek Adam”, l’uomo ragno. Insieme hanno tre figli: Bülent, il maggiore, e le sorelle minori Yağmur e Gülseren di ventitré e ventuno anni.  Bülent ne ha venticinque. Chiama le sorelle Anaconda e Kobra, dice che hanno sempre risposte taglienti e cattive. Non ha molti amici e, tra venti giorni, partirà per il servizio militare in Turchia, dove rimarrà per sei mesi,  ha infatti cittadinanza turca. Lo stesso vale per le sorelle: sono nate in Turchia e i genitori le hanno portate a Cipro all’età di due anni. Davanti alla porta di casa di Hamide con lei la figlia Gülseren a destra e Pembe a sinistra Di recente Bülent non ha lavorato e non sembra avere molta voglia di cercare un impiego. Sul braccio ha tatuato la frase fuck work, drink beer, che riassume con ironia la sua filosofia di vita. Mi fa sorridere, ma al tempo stesso dà l’idea di un giovane che fatica a immaginare un futuro diverso. Il mercato del lavoro per i coetanei turco-ciprioti, mi racconta, offre poco più del corrispettivo di  3 euro l’ora. Nonostante sia cresciuto a Nicosia, Bülent è cittadino turco, così come le sorelle. Per la legge della Repubblica di Cipro non sono considerati ciprioti perché la madre è arrivata sull’isola dopo il 1974 attraverso porti e aeroporti che Nicosia sud considera ‘illegali’. Questa esclusione non riguarda solo la loro famiglia, ma migliaia di casi simili, ed è il risultato diretto della normativa sulla cittadinanza. Nel 2002 è entrato in vigore il Civil Registry Law: l’articolo 109(1) stabilisce che chi nasce a Cipro dopo il 16 agosto 1960 è cittadino se almeno uno dei genitori lo è, a meno che l’ingresso o la permanenza di un genitore nella Repubblica non sia stato ‘illegale’. In questi casi la domanda passa al Consiglio dei Ministri. Poiché tutti gli ingressi dal Nord dopo il 1974 sono classificati come illegali, migliaia di richieste si trovano sospese in questa corsia discrezionale, inclusi i figli di matrimoni misti. La situazione si è irrigidita nel 2007, quando il Consiglio dei Ministri ha introdotto criteri ancora più restrittivi che hanno di fatto bloccato la quasi totalità delle domande, congelando migliaia di pratiche. Le stime parlano di almeno diecimila persone coinvolte, altre fonti alzano il numero fino a trentamila 2: giovani cresciuti a Cipro, che parlano il dialetto locale e hanno frequentato le scuole dell’isola, ma che non hanno mai ottenuto il documento che li renderebbe cittadini europei. È una questione che si trascina da quasi vent’anni e che ha creato una generazione sospesa in un limbo giuridico. Il paradosso è che il principio dello ius sanguinis, applicato senza esitazioni in altri casi, riconosce la cittadinanza anche a chi nasce a migliaia di chilometri dall’isola da un genitore cipriota, mentre chi cresce qui, da padre o madre turco-cipriota, ne resta escluso. Le domande di cittadinanza presentate dai figli di coppie miste vengono trasmesse al Consiglio dei Ministri e, dal 2007, la maggior parte resta sospesa o non giunge mai a esito. La Corte Suprema ha stabilito che questi giovani non sono tecnicamente apolidi, poiché possiedono quasi sempre la cittadinanza turca. Tuttavia la mancata cittadinanza della Repubblica di Cipro li priva dei diritti europei, con conseguenze dirette nella vita quotidiana. Sul piano dello studio, non possono iscriversi come studenti comunitari nelle università dell’UE e si trovano a dover pagare tasse elevate come studenti internazionali, con accesso limitato a borse e programmi di mobilità Erasmus+. Quanto al lavoro, non hanno la possibilità di esercitare liberamente la professione in Europa e necessitano di visti o permessi specifici, un ostacolo che li spinge spesso a cercare impiego in Turchia o nel mercato non riconosciuto del Nord. La mobilità è ugualmente condizionata: senza passaporto cipriota non possono viaggiare nell’UE senza visto, devono appoggiarsi a documenti turchi e spesso subiscono controlli più severi ai checkpoint interni dell’isola. Questa esclusione ha portato il tema al centro dell’agenda politica e internazionale. L’Unione Europea e le Nazioni Unite hanno più volte richiesto che le pratiche vengano trattate in modo trasparente e non discriminatorio: lo testimoniano la petizione al Parlamento europeo 3, i rilievi dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani e le raccomandazioni espresse nell’Universal Periodic Review del 2019 4 e del 2024 5.  Nel 2024 il governo di Nikos Christodoulides ha annunciato quattordici misure correttive 6, tra cui la revisione delle domande arretrate e interventi su servizi, istruzione e attraversamenti di frontiera. Questi provvedimenti sono stati accolti con scetticismo dalle autorità del Nord, ma rappresentano un segnale di possibile apertura. OLTRE IL CONFINE: DIRITTI, MEMORIE E FUTURO Il principio di autodeterminazione, pilastro del diritto internazionale, per i turco-ciprioti resta una formula teorica. Tra la pressione culturale esercitata dalla Turchia e l’esclusione legale dalla cittadinanza della Repubblica di Cipro, la comunità subisce da anni un processo lento ma costante di cancellazione. Le sue radici, che affondano nella lingua, nella memoria e nella storia dell’isola, sono minacciate da due Stati antagonisti, e a pagarne il prezzo è il patrimonio storico e culturale incarnato in migliaia di vite. Hannah Arendt ricordava il paradosso dei diritti umani: restano fragili quando non esiste uno Stato pronto a difenderli. Nel caso della comunità turco-cipriota il paradosso è ancora più netto, perché non è l’assenza ma l’azione di due Stati a renderli vulnerabili. In questo vuoto, la società civile turco-cipriota ha mantenuto un ruolo decisivo di mediazione e difesa. Associazioni, sindacati e gruppi spontanei hanno dato voce a chi rischiava di restare invisibile, aprendo spazi di confronto e di tutela dei diritti. Le campagne del Movement for Resolution of the Mixed Marriage Problem per il riconoscimento dei figli di coppie miste, l’impegno del sindacato degli insegnanti KTÖS contro le interferenze di Ankara e i progetti culturali del Home for Cooperation e di PeacePlayers, che coinvolgono giovani greco- e turco-ciprioti, mostrano la pluralità di un attivismo che rimane centrale nel dibattito sull’isola.  Dal 2003, i nove checkpoint lungo la linea verde hanno reso più permeabile un confine che per decenni era invalicabile. Organizzazioni locali come HADE! chiedono l’apertura di nuovi varchi e il miglioramento di quelli esistenti, spesso congestionati da file interminabili. L’idea che questi passaggi possano trasformarsi in strumenti di pace è ormai parte della dinamica cipriota.  Io posso attraversare i checkpoint con un passaporto in mano, superare le postazioni dei caschi blu e in pochi minuti trovarmi dall’altra parte. Per Bülent invece, che qui è nato e cresciuto, quel confine resta spesso invalicabile. Ci siamo salutati con la promessa di rivederci a Nicosia al suo ritorno, immaginando un giorno in cui per lui sarà facile varcare quella linea quanto lo è oggi per me.  Bülent sulla sinistra accanto a Pembe e a suo marito, i vicini di casa 1. Report on the Interference in the 2020 TRNC Presidential Elections ↩︎ 2. In search of a legal bond: Turkish Cypriot children of mixed marriages in Cyprus, European Network on Statelessness (2023) ↩︎ 3. Petition No 0754/2020 by Derya Beyatli (Cypriot) on the discrimination of Turkish speaking Cypriots as EU-citizens ↩︎ 4. Cyprus’ responses to recommendations (as of 13 September 2019) ↩︎ 5. All country summary and recommendations related to the right to a nationality and the rights of stateless persons, European Network on Statelessness ↩︎ 6. Christodoulides reveals 14 CBMs for Turkish Cypriots, Financial Mirror (gennaio 2024) ↩︎