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L’educazione all’ombra del potere
di JUDITH REVEL*. Ogni epoca ha le sue tensioni e le sue fragilità. Per renderne visibile il tracciato sotterraneo, spesso occorre un rivelatore. Tra i sottili indicatori dello spirito del tempo, il rapporto con l’educazione – e più generalmente con tutta la serie di figure e temi che la questione immediatamente evoca: l’infanzia, la pedagogia, l’autorità, la disciplina, i valori, il metodo, il livello, la valutazione, le classifiche – è senza dubbio uno dei più efficaci. Oggi, nel mondo incerto in cui viviamo, è proprio sulla questione dell’educazione che sembrano cristallizzarsi molte delle angosce che costituiscono il nostro quotidiano. Da un lato, il fantasma di bambini sempre più distanti, indifferenti o forse solo diversi, essenzializzati in base alla loro data di nascita (“Millennials”, “Gen Z”…), percepiti a seconda dei casi come immaturi, demotivati, apatici, egoisti, psicologicamente fragili, violenti; dall’altro, adulti tanto più tesi quanto ossessionati dalla genitorialità perfetta, e che investono sui propri figli come se si trattasse di far fruttare fin dalla prima infanzia il capitale che ogni bambino rappresenta. Lezioni private, corsi di lingua, tutor privati, accompagnamento personalizzato, coaching, calcolo del potenziale intellettuale: oggi esiste un intero mercato che accompagna questa strana ricerca della performance genitoriale, condizione primaria della performance infantile a cui è assolutamente necessario aspirare. E poi ci sono i luoghi – e le persone – dediti professionalmente all’insegnamento. Il sistema educativo, al contrario di tutto questo, è costantemente ridotto a tre ossessioni negative: la scuola fallisce in tutte le sue missioni e costa troppo; il livello sta calando; l’autorità non esiste più. Se è necessario ricordarlo, è perché questo fenomeno, che si accentua di anno in anno, dice in realtà due cose. La prima è che il nostro mondo è in crisi e che non lo comprendiamo più. Esigiamo quindi dai nostri figli che siano ciò che crediamo, noi, di non essere abbastanza (o ciò che ci viene chiesto sempre di più): competitivi, agguerriti, concorrenziali, in nome di un individualismo che fa dell’affermazione economica personale il mantra di ogni vita riuscita. La seconda è che ci stiamo allontanando molto rapidamente da tutto quello che la riflessione sull’educazione aveva portato con sé, in particolare in due momenti fondamentali della storia della nostra cultura occidentale: da un lato, la tematizzazione della paideia nel pensiero greco (e le riprese umanistiche che ne avrebbe ricevuto molto più tardi) e, dall’altro, la riflessione moderna sui legami intimi tra educazione ed emancipazione. Due semplici esempi, tra i tanti possibili, separati da quasi venticinque secoli: Le leggi di Platone e Il maestro ignorante di Jacques Rancière. Se lo scopo di ogni legislazione è la virtù nella sua interezza, ci ricorda Platone, allora l’apprendimento della temperanza ne è la condizione fondamentale. Il libro VII delle Leggi ne descrive in dettaglio i principi. Ma ciò che Platone chiama la realizzazione di “tutta la bellezza e tutta l’eccellenza possibili” (788c) non è concepito a partire dall’obbligo della performance. È pensata invece a partire dall’idea, così estranea al nostro mondo e agli attuali discorsi nostalgici di una certa autorità perduta, dell’armonia, cioè della misura e del ritmo, sia per il corpo che per l’anima. Gli esercizi ginnici, come quelli ispirati dalle Muse, diventano quindi contemporaneamente mezzi e fini politici, perché si tratta di imparare “ad odiare ciò che bisogna odiare e ad amare ciò che bisogna amare” (653c). Ora, il ritmo e l’armonia sono direttamente – e non solo metaforicamente – le condizioni di possibilità non solo della crescita dell’individuo, ma dell’insieme corale che egli costituirà con gli altri: un coro che non richiede uniformità ma l’armonizzazione e la complementarità delle differenze. Impariamo quindi da Platone: l’educazione è, fin dalla più tenera età, formazione del cittadino; ma, proprio perché si tratta della polis, non può essere ridotta a una prospettiva individualista. Si tratta di contribuire alla città giusta, al bene comune. Costruire se stessi significa costruirsi con gli altri: la paideia diventa qui Bildung, il modo di soggettivazione non attribuisce ruoli né impone uniformità, ma lascia per così dire “aperta” la possibilità di scambi, la forma delle relazioni e l’incrocio delle voci. All’inizio del XIX secolo, Joseph Jacotot, al quale Rancière dedicherà il bellissimo Le maître ignorant (Il maestro ignorante), stabilisce precisamente un metodo educativo che rifiuti per principio l’assegnazione dei ruoli, a cominciare da quelli dell’insegnante (colui che sa) e dell’allievo (colui che apprende). Il progetto universale di emancipazione delle intelligenze del “metodo Jacotot”, costruito interamente contro il mito pedagogico secondo cui è sempre necessario un maestro che sappia, cerca invece di mettere in pratica un assioma radicale di uguaglianza nel rapporto di insegnamento. Relazione: anche in questo caso occorre essere più di uno per crescere, ma questo incrocio di voci non significa necessariamente una loro gerarchizzazione. Elogio del comune che si costituisce insieme. Nel 1975 Foucault pubblica Sorvegliare e punire. Una frase farà molto discutere. Scrive Foucault: “L’Illuminismo, che ha scoperto le libertà, ha anche inventato le discipline”. Il paradosso, che è alla base della nascita della prigione così come la conosciamo ancora oggi, è anche – almeno secondo l’ipotesi di Foucault – alla base della reinvenzione moderna di altre istituzioni. Tra queste, insieme all’ospedale, alla caserma, alla fabbrica: la scuola. La scuola: luogo di affermazione del progetto emancipatorio dell’Illuminismo, ma anche luogo di imposizione delle discipline, quello strano falso amico concettuale a cui Foucault dà una definizione molto precisa, e più che mai attuale: “un metodo che permette il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicura il costante assoggettamento delle sue forze e impone loro un rapporto di docilità-utilità”. Le discipline creano l’individuo produttore. Chiediamoci dunque: cosa abbiamo fatto dell’altro volto dell’Illuminismo, quando lo abbiamo dimenticato a favore del culto delle prestazioni produttive? *Questo testo è un’anticipazione dell’intervento che Judith Revel terrà a Sassuolo sabato 20 settembre nell’ambito de Festival Filosofia dedicata quest’anno al concetto di “Paideia”. È stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre 2025 L'articolo L’educazione all’ombra del potere proviene da EuroNomade.
Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio
di GIROLAMO DE MICHELE. A proposito di: Francesca Albanese, FROM ECONOMY OF OCCUPATION TO ECONOMY OF GENOCIDE. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 [scaricabile qui ] Where’s your Daddy? è un videogioco nel quale un bambino cerca di uccidersi in casa recuperando uno fra le decine di oggetti potenzialmente letali – il flaccone di candeggina, una posata da infilare nella presa elettrica –, e un padre cerca di impedirglielo. Citando un bravo comico, una specie intelligente capace di concepire un prodotto del genere merita l’estinzione. Ma c’è di peggio: un programmatore ha scelto questo nome per un sistema di intelligenza artificiale che insegna ai droni israeliani a individuare ed eliminare esseri umani che, dopo il bombardamento di un luogo abitato, escono dal rifugio per cercare i superstiti. Where’s your Daddy? interviene in seconda battuta dopo Gospel, un sistema di intelligenza artificiale che stima il numero di vittime collaterali nel colpire un target in cui è ritenuto essere un potenziale obiettivo: un militare riceve l’informazione, e dà l’ok al drone, sapendo quante vittime civili saranno colpite. Con le parole di uno di questi [qui]: > Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa > a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un > dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. > Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo > esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa. Lo sviluppo di sistema di intelligenza artificiale in israele è reso possibile dalla partnership con Palantir Technologies [proprio così, Palantír: leggere Tolkien da piccolo non necessariamente farà di te un essere umano capace di distinguere il bene dal male], azienda statunitense specializzata nell’analisi dei Big Data; e dall’accesso alle proprie tecnologie cloud e di intelligenza artificiale concesso al governo israeliano da Microsoft, Alphabet [cioè Google] e Amazon. Come per Shylock, il sangue umano vale nella misura in cui può essere trasfigurato in una merce messa a valore; e infatti crescono i profitti di queste aziende, e crescono gli investitori dei propri capitali in questo settore: Blackrock è il secondo maggiore investitore istituzionale in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%). Blackrock ricorda qualcosa? È la società di investimenti dalla quale proviene Friedrich Merz, il cancelliere tedesco che ha di recente dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti”. Credo possa bastare per dare un’idea del contenuto dell’ultimo rapporto redatto da Francesca Albanese in qualità di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, From economy of occupation to economy of genocide: quanto ho sintetizzato proviene dai paragrafi 41, 42, 75, solo tre dei 99 complessivi. Di questo Rapporto, scaricabile qui, ne ha fatto un’ottima sintesi Chris Hedges, già Premio Pulitzer, per molti anni inviato del New York Times sugli scenari di guerra, in particolare in Medio Oriente, che sulla sua newsletter segue da tempo il genocidio in corso a Gaza, e ha dato alle stampe un libro, Un genocidio annunciato, al tempo stesso imprescindibile e già superato dalla tragicità degli eventi. Francesca Albanese ha costruito un database che cataloga oltre 1000 aziende o entità economiche che, a diverso titolo, collaborano all’attuazione del genocidio in corso a Gaza; nel rapporto ne sono nominate 48, fra cui Palantir Technologies Inc., Lockheed Martin, Alphabet Inc., Amazon, International Business Machine Corporation (IBM), Caterpillar Inc., Microsoft Corporation e Massachusetts Institue of Technology (MIT), insieme a banche e società finanziarie come Blackrock e Vanguard. Ma anche l’italiana Leonardo, Hyundai, Volvo, HP, Booking Holding Inc., Airbnb Inc., Allianz, Axa, Paribas, Barclay, BNP. Un esempio del ruolo di banche e assicurazioni nel par. 74: > In quanto principale fonte di finanziamento del bilancio dello Stato > israeliano, i titoli del Tesoro hanno svolto un ruolo cruciale nel finanziare > l’attacco in corso a Gaza. Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano > è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un > deficit del 6,8%. Israele ha finanziato questo bilancio in forte espansione > aumentando le proprie emissioni obbligazionarie, tra cui 8 miliardi di dollari > a marzo 2024 e 5 miliardi di dollari a febbraio 2025, insieme alle emissioni > sul mercato interno del nuovo shekel. Alcune delle più grandi banche del > mondo, tra cui BNP Paribas e Barclays sono intervenute per rafforzare la > fiducia del mercato sottoscrivendo questi titoli del Tesoro nazionali e > internazionali, consentendo a Israele di contenere il premio sul tasso di > interesse, nonostante un declassamento del merito creditizio. Le società di > gestione patrimoniale, tra cui Blackrock (68 milioni di dollari), Vanguard > (546 milioni di dollari) e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, > PIMCO (960 milioni di dollari), erano tra gli almeno 400 investitori > provenienti da 36 paesi che li hanno acquistati. Nel frattempo, la Development > Corporation for Israel (ovvero Israel Bonds) fornisce un servizio di > sollecitazione di obbligazioni per il governo di Israele per privati cittadini > stranieri e altri investitori. La Development Corporation for Israel ha > triplicato le sue vendite annuali di obbligazioni per convogliare quasi 5 > miliardi di dollari in Israele da ottobre 2023, offrendo al contempo agli > investitori la possibilità di inviare il rendimento degli investimenti > obbligazionari a organizzazioni di beneficenza che sostengono l’esercito > israeliano e le colonie. Mentre le principali piattaforme di viaggio online traggono profitto dall’occupazione vendendo un turismo che sostiene le colonie, esclude i palestinesi, promuove le narrazioni dei coloni e legittima l’annessione, attraverso la pubblicazione di proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, comprese le proprietà israeliane di Gerusalemme est (parr. 69-70). Lo scopo del Rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio è molteplice. In primo luogo, con una dotta appendice giuridica che si richiama alla legislazione internazionale esistente sui crimini internazioniali e il genocidio, sostenere che la compartecipazione economica consapevole da parte di queste aziende e società viola lo jus cogens e le norme internazionali, e dovrebbe quindi essere sanzionata per la sua complicità giuridica con i crimini in atto (par. 18). Ma soprattutto, Francesca Albanese interviene sulla rimozione linguistica e politica del ruolo della finanza internazionale, cioè del capitale, nella guerra in atto: ruolo che viene nascosto, rimosso – per chi ha passioni o vezzi lacaniane si può senz’altro parlare di forclusione – dalle narrazioni che, facendo iniziare il conflitto dalle “atrocità commesse dall’ottobre 2023” (par. 18), e giustificandolo come una guerra fra religioni – quando non fra “razze” – ignorano l’ombra lunga del capitale che si estende da anni sull’intera regione compresa fra il Giordano e il Mediterraneo: il “monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)” fa sì che l’economia israeliana sottragga a quella palestinese “almeno il 35% del suo PIL” (par. 24), e consenta di convogliare sui territori facenti parte dello Stato israeliano, o da questi controllati con l’occupazione militare e coloniale, gli interessi di alcuni fra quei “conglomerati aziendali [che] superano il prodotto interno lordo (PIL) di interi Stati sovrani”, “talvolta esercitando più potere – politico, economico e discorsivo – degli Stati stessi” (par. 12). Come ha detto Albanese in una intervista a Chris Hedges [l’integrale in coda al testo], > Il genocidio a Gaza non si è fermato perché è redditizio, è redditizio per > troppe persone. È un business. Ci sono entità aziendali, anche di stati > amici della Palestina, che per decenni hanno fatto affari e tratto profitti > dall’economia dell’occupazione. Israele ha sempre sfruttato la terra, le > risorse e la vita dei palestinesi. I profitti sono continuati e persino > aumentati mentre l’economia dell’occupazione si trasformava in un’economia di > genocidio. Inoltre, ha detto Albanese, i palestinesi hanno fornito “campi di addestramento sconfinati per testare le tecnologie, le armi e le tecniche di sorveglianza che ora vengono utilizzate contro le persone ovunque, dal Sud al Nord del mondo”: basta citare lo spyware Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO, progettato per operazioni segrete e sorveglianza degli smartphone, che “è stato utilizzata contro gli attivisti palestinesi e autorizzata a livello globale per prendere di mira leader, giornalisti e difensori dei diritti umani” (par. 37). Una “diplomazia dello spyware” cara ai governanti italiani, a partire dal governo Conte-Salvini (quando fu avviata, per candida ammissione di Giuseppe Conte, la sorveglianza illegale delle comunicazioni di Luca Casarini) per estendersi in seguito (aspettiamo di sapere ad opera di chi) ad altri militanti di Mediterranea, giornalisti “impiccioni”, e chissà quanti altri. Fuori dall’Italia, Pegasus aveva già fatto il suo lavoro sul telefonino della moglie del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita di Istambul il 2 ottobre 2018. Ma c’è un salto qualitativo evidente nel passaggio dallo Stato-laboratorio di tecnologie militari, e dell’intersezione di queste con l’analitica dei big data, quale fino a ieri poteva essere considerato Israele, e la messa a profitto della guerra all’interno di un vero e proprio ecosistema finanziarizzato senza il quale il processo genocidiario in atto non sarebbe stato possibile: la manifestazione evidente di un regime di guerra permanente, nella quale la macchina bellico-finanziaria sperimenta tecniche di valorizzazione e profitto, e al tempo stesso di redifinizione del ruolo dello Stato attraverso un disegno globale di ridimensionamento degli organismi politici e giuridici sovranazionali, e in definitiva di cancellazione dei limiti segnati dal diritto internazionale umanitario. Il Rapporto Albanese, ancor più dei precedenti, va quindi preso a modello per elaborare strategie di opposizione al genocidio: a partire, in attesa della pubblicazione dell’intero database, dalle 48 aziende elencate, per le quali vanno attuate pratiche di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione. L'articolo Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio proviene da EuroNomade.
Identità oltre i confini nella società-mondo
di SANDRO CHIGNOLA. Gli ultimi decenni hanno reso necessario un significativo salto di scala nella ricerca sulle dimensioni globali della politica. Trasformazioni irrecuperabili, che hanno investito istituzioni, soggetti e poteri coinvolti negli spazi di produzione e di circolazione del mercato mondiale, costringono a un nuovo posizionamento teorico e politico. Il recente volume di Maurizio Ricciardi, La politica dello Stato globale. Democrazia, migrazioni e neoliberalismo nella società-mondo, primo contributo della nuova collana «Transnazionale» presso l’editore Meltemi (pp. 184, euro 16), affronta questa sfida. Quella di Ricciardi è una storia costituzionale dello Stato globale. Questo è definito come la forma politica metastabile che, reagendo ai movimenti transnazionali di capitali e di persone, si trova a fare i conti con i limiti della propria sovranità ma a dover contemporaneamente attivare il proprio intervento per legittimare e per implementare le misure delle istituzioni tecniche e sovranazionali che quei movimenti, di capitali e di persone, governano. Di fronte alla piattaformizzazione dell’economia globale e alla composizione di classe contemporanea, rispetto alla quale i migranti hanno un ruolo decisivo, lo Stato non può più essere inteso secondo la sua forma tradizionale – ordine sovrano inscritto su un territorio -, ma il ruolo che continua a svolgere – controllo dei confini, disciplinamento dell’azione collettiva e messa a terra dei protocolli neoliberali, esclusione integrativa del lavoro migrante – non può essere ritenuto, come era potuto apparire nelle fasi espansive della globalizzazione, destituito a favore di altre forme e apparati di regolazione. Fare una storia costituzionale dello Stato globale implica perciò una ridefinizione dello Stato all’altezza delle trasformazioni che lo investono, ma significa anche problematizzare lo statuto del riferimento costituzionale in esse coinvolto. Costituzione non è intesa qui come la forma dell’istituirsi del rapporto societario nel corpo collettivo della cittadinanza nazionale, ma – e questo viene indagato nell’ordine del discorso neoliberale che segna il punto di soglia genetico dello Stato globale – come allineamento all’ordine economico competitivo che esso è chiamato a formare e a garantire come sistema indicizzato alla differenza, alla negoziazione e alla salvaguardia dei piani di impresa individuali. Una sorta di autocostituzionalizzazione di ordini globali (apparentemente) senza Stato, per usare l’espressione di Günther Teubner, il cui senso è l’organizzazione normativa di transazioni frammentarie e permanentemente a rischio di frizione tra soggetti, interessi e strutture parziali. Questo implica uno spazio di massima tensione all’interno di quella che Ricciardi chiama la «costellazione costituzionale», una tensione che risignifica i contenuti di altri concetti chiave della Forma-Stato moderna. Democrazia, cittadinanza e uguaglianza, per citarne solo alcuni, sono radicalmente modificati dai processi di decostituzionalizzazione e di destatalizzazione resi operativi dalla prassi neoliberale, sia in relazione al ruolo che assolvono nel paradigma politico moderno, sia in relazione a quello che possono svolgere in relazione alle pratiche politiche che vi fanno riferimento. Anche il lessico dei «diritti», attraverso cui sono tradotte le eterogenee aspettative di tutela da parte dello Stato, tende a presentarsi come rivendicazione di un’unità sociale ormai inesistente, in forza dell’avanzato lavoro di destrutturazione che l’ha investita, e come indicatore della crisi che attraversa il concetto di cittadinanza: migranti, poveri e rifugiati, che non possono far valere giuridicamente i propri diritti, li rivendicano come limite al materiale dominio cui sono sottomessi, rendendo evidenti le linee di frattura e di scissione attraverso le quali si riproduce un ordine differenziale e gerarchico. Lo Stato si è fatto globale – in quanto denazionalizzato del popolo e desovranizzato dagli apparati e dai dispositivi di potere che ne hanno sottratto e ridefinito le competenze – e questo implica che esso si trova a svolgere un ruolo inedito, all’incrocio tra precari equilibri postcoloniali e postcostituzionali, nel sistema di relazioni che lo sovrascrivono, in risposta a sfide (le migrazioni; il capitalismo di piattaforma, con le sue conseguenze in relazione al cristallizzarsi di blocchi monopolistici che fondono imprenditoria privata e immediato potere politico; il deformarsi dei quadri della democrazia formale in autocratura o liberalismo autoritario) che non possono essere processate dagli schemi o dagli apparati che ne garantiscono la tradizionale operatività e che impattano lo Stato modificandone significato e compiti. questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 14 giugno 2025 L'articolo Identità oltre i confini nella società-mondo proviene da EuroNomade.