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Un apripista dell’esodo dotato di ottima mira
di MARCO BASCETTA. Quanto più lunghe e intense sono le storie e intrecciate le esperienze, le sensibilità, le idiosincrasie; quanto più sono numerosi gli scambi, gli azzardi e i ricordi condivisi, tanto meno si sa da che parte cominciare. Perché non, allora, da una piccola rubrica che si affiancava a più impegnative riflessioni nella rivista Luogo comune che, all’inizio degli anni Novanta, aveva messo al lavoro intorno a un nucleo tematico essenzialmente imbastito da Paolo un gruppo di compagni, amici vecchi e nuovi, intellettuali e militanti, interessati a misurarsi con quanto fosse cambiato nel decennio appena trascorso degli anni Ottanta. Si chiamava, quella rubrica, «Citazioni di fronte al nemico», riferendosi alla ricorrente sequenza Western (ripresa anche da Quentin Tarantino) nella quale il pistolero, prima di sparare, declama un versetto della Bibbia. Ebbene, gli articoli di Paolo, i suoi saggi brevi (e non solo quelli con una finalità politica più diretta) costituiscono uno straordinario catalogo di «citazioni di fronte al nemico», tratte e rielaborate da uno studio vasto e rigoroso e rese acuminate da grande passione politica e ottima mira. Mai il lavoro di Paolo è stato privo di un bersaglio, anche se a un certo punto della sua vita ha sentito il bisogno di separare nettamente la militanza politica dalla ricerca filosofica. Non certo per negarne l’imprescindibile connessione e la reciproca necessità in un mondo, quello della merce immateriale, nel quale senza metafisica la vita concreta sarebbe rimasta imperscrutabile. Piuttosto per suggerire rigore e concentrazione delle energie. Due compiti tanto decisivi come la ricerca e la lotta, riteneva Paolo, non potevano essere svolti a metà, con approssimazione, salvo in momenti di eccezionale precipitazione e condensazione degli eventi storici. Ancora oggi non so se avesse fino in fondo ragione. Molti di noi, abituati a vivere proprio in quella zona grigia in cui si mescolano i tempi lunghi della riflessione e della ricerca con l’urgenza dell’agire politico, ne rimanemmo spiazzati. Ma anche se lo strumentario filosofico di Paolo si faceva più indiretto e raffinato, mai rinunciando tuttavia a un esemplare sforzo di chiarezza, la radicalità del suo pensiero continuava ad alimentare la cultura e l’inventiva dei movimenti. E, inevitabilmente, nella lettura degli eventi e dei mutati climi, torniamo sempre a misurarci con qualche suo insegnamento filosofico, o con qualche folgorante «citazione di fronte al nemico». Anche ora che non potremo più ascoltarlo scherzoso e serissimo, serissimo proprio perché scherzoso, intendendoci al volo al tavolo di un bar. Solo negli ultimi anni, lasciato l’insegnamento, Paolo aveva manifestato l’interesse a ritrovare un rapporto più diretto con la battaglia politica. Ne parlavamo spesso, ma non siamo riusciti a trovare una strada all’altezza della radicalità a cui aspirava. Se la parola «compagno» ha un senso, non orribilmente usurpato o pigramente abitudinario, è per me quello che Paolo sapeva conferirle, un significato di amicizia e affetto, speranze ed entusiasmi condivisi, intelligenza collettiva e libertà individuale. Parola serissima e scherzosa ad un tempo con la quale ha scelto di salutarci me e Andrea Colombo ancora una volta lo scorso giovedì mattina. Parola che non certifica certo l’appartenenza alla cosa chiamata sinistra, ma il distacco, l’esodo da una terra inaridita e ostile. Ancora una volta un ricordo e un’ironica citazione possono venirci in soccorso. Facendo il verso agli esponenti del Psi che negli anni Sessanta amavano definirsi la sinistra non marxista, Paolo aveva coniato per sé e per il piccolo gruppo di Luogo comune la definizione di «marxisti non di sinistra». Si intendeva con questo epiteto l’impiego e il rinnovamento di uno strumentario critico non annacquato dalle culture del compromesso, né infettato da fascinazioni populiste. Un pensiero saldamente ancorato nella tradizione materialista in attesa però di essere tratta fuori dalla sua condizione di indigenza teorica. Compito per il quale Paolo aveva scelto la strada non proprio agevole della filosofia del linguaggio. Una strada che richiedeva impegno a tempo pieno. Nondimeno, anche nei lavori più strettamente filosofici non è raro imbattersi nei suoi bersagli politici di sempre (lo stato, il popolo, il lavoro salariato) nonché nelle caustiche «citazioni di fronte al nemico». Quanto possa mancare un affetto tanto lungo e importante, nato nelle aule di un liceo romano 56 anni fa, l’interrompersi sempre brusco anche quando non è inatteso di un rapporto di vicinanza su cui poter sempre contare, confesso di non essere in grado di scrivere. Mi affido allora a un’ultima citazione cinematografica cara a Paolo e che spesso ci siamo scambiati. Caro amico «che te lo dico a fa’?». L'articolo Un apripista dell’esodo dotato di ottima mira proviene da EuroNomade.
“Né veritcale né orizzontale”: alcune note sulla proposta di Rodrigo Nunes
di GIROLAMO DE MICHELE. Pubblicato nel 2020, il libro di Rodrigo Nones Né verticale né orizzontale. Una teoria dell’organizzazione politica (Alegre, 2025) esce in traduzione italiana in queste settimane, accompagnato da un giro di presentazioni dello stesso Nunes. In verità, non avendolo potuto pressentare all’uscita, Nunes era poi venuto in Italia nel 2022: ma adesso, con la traduzione a mano – e, cosa non da poco, con la disponibilità dell’autore di presentarlo e discuterlo in italiano – le presentazioni consentono una discussione e un approfondimento dei contenuti (cui si giova il sottoscritto). Aggiungo che sul primo numero di Teiko, dedicato all’enigma dell’organizzazione, lo stesso Nunes ha discusso le sue tesi. La pubblicazione del 2020 cadeva in un momento in apparenza propizio, venendo dopo un ciclo di mobilitazioni internazionali, che hanno però dovuto fare i conti con il loockdown; la sua traduzione circola oggi in un’Italia attraversata dalle mobilitazioni contro il genocidio di Gaza, sfociate nelle piazze stracolme del 22 settembre e 3 ottobre: per quanto casuale possa sembrare (ma dalla prospettiva ecosistemica di Nunes il “caso” non esiste…), è un’ottima occasione per mettere a verifica la sua teoria. Prima di entrare nel cuore della proposta di Nunes, esemplificato dal titolo, conviene forse partire dalle ultime pagine, nelle quali è dichiarato l’orizzonte entro il quale va considerato il rapporto fra movimenti e organizzazione: il riscaldamento globale, e l’imprescindibile necessità di invertire il processo clmatico prima che diventi irreversibile. Partire dalla lotta al mutamento climatico, ossia a un evento epocale che prende le mosse dalla rivoluzione industriale, significa avere un approccio ecologico sia sul piano della prassi – allargare la potenza dei movimenti fino all’ampiezza necessaria per combattere questa lotta; sia sul piano teorico – elaborare una strategia ecologica nel metodo, e nell’episteme. In altri termini, l’ecologia diventa una modalità di enunciazione collettiva che tiene insieme le cose da fare e le parole per dirlo: concatenamenti collettivi di enunciazione, insomma. La proposta di Rodrigo Nunes sembra muoversi fra un assunto di sapore foucaultiano, e una proposta guattariana: si tratta di infatti di cambiare l’ordine del discorso sul rapporto partito-movimento, e di ottenere un effetto terapeutico che liberi i movimenti dalla doppia malinconia, esito delle sconfitte, a fasi alterne, tanto delle esperienze organizzate quanto di quelle spontanee, che porta a rifiutare l’approccio organizzativo in favore dello spontaneismo, e viceversa. Un doppio rifiuto che retroagisce, in un perverso feedback negativo, sulle macerie psichiche lasciate dai movimenti del passato. In realtà bisognerebbe riconoscere in questo doppio rifiuto preconcetto un doppio movimento simultaneo, un doppio vincolo – una schismogenesi simmetrica, afferma Nunes citando Bateson (un autore la cui epistemologia ha un ruolo ancor più importnate di quanto non sia dichiarato). Di fatto, sostiene Nunes, nessun movimento “spontaneo” è davvero privo di una struttura organizzativa; così come la presenza di un momento organizzativo non per necessità comporta l’affermazione di UN unico modello-ombrello sotto il quale forzare ogni ambito della prassi. Per Nunes la questione dell’organizzazione è imprescindibile nella lotta al riscaldamento globale: non è pensabile che un processo ecosistemico di questa ampiezza possa essere arrestato da una miriade di picocle azioni quotidiane o “locali”. Ma va modificata in modo radicale la grammatica tradizionale della questione organizzativa, che presuppone la domanda su quale sia la forma organizzativa più adatta a svolgere quella funzione-ombrello di cui si è detto. La grammatica ecologica proposta da Nunes parte dal presupposto che, secondo un approccio ecosistemico, non c’è mai una forma ideale, ma ci sono sempre una pluralità di forme a gradi. Non si tratta quindi di cercare una ecologia ottimale o perfetta, ma di chiedersi quale sia la potenzialità insita in una ecologia: non potestas, ma potentia. Questa nuova grammatica, che segue il ritmo dell’approccio ecologico, porta a orerare una risignificazione di alcuni termini chiave (Deleuze avrebbe forse detto parole-baule). La direzione politica deve funzionare come funzione distribuita: la leadership esiste nella misura in cui esiste una funzione di innovazione, cioè di novità all’interno dell’ecologia, e dura fino a quando questa funzione viene riconosciuta. Così come la funzione di avanguardia non è più quella di marciare avanti ai movimenti, ma diviene un evento contingente e sperimentale: un’iniziativa si muove attraverso le decisioni e le iniziative dei gruppi che compongono l’ecologia, ed chi in quel momento esercita tale funzione è un’avanguardia contingente. Nunes sostiene che il ruolo delle avanguardie quale si è dato in passato fosse legato a una visione deterministica della storia come processo; in alternativa a questa visione, propone una episteme aggiornata al livello dei sistemi scientifici contemporanei, secondo la quale ogni momento del sistema è già sempre organizzato – ma non in modo eteronomo, dall’esterno, bensì dall’interno. Questo approccio non comporta però una sorta di effetto-testimone di Geova, ovvero andare casa per casa a citofonare agli “organizzativisti” o agli “spontaneisti” duri e puri per spiegar loro un po’ di teorie scientifiche (sarà il caso di ricordare che, lasciando da parte Lenin e il suo rapporto con Mach, Stalin la meccanica quantistica la conosceva, e non è per accidente che ha stroncato il suo sviluppo nell’URSS). Piuttosto, si tratta di uscire dalle secche mentali che ci fanno categorizzare secondo la falsa opposizione fra spontaneo e organizzato la nostra comprensione del mondo. Un approccio volontaristico, certo: che comporta la necessità di camminere con i piedi nelle scarpe dei movimenti e delle mobilitazioni che si stanno dando, a livello globale, oggi. Resta, a chi scrive, una perplessità teorica. Nunes legge Spinoza (e una la sua lettura di Spinoza in chiave polemica verso Negri e Hardt, collocati fra gli “spontaneisti”) come portatore di una posizione che non afferma che “tutto dovrebbe essere autorganizzato – meno ancora che lo sarà, data la critica di Spinoza alle cause finali – ma riconoscere che ogni cosa lo è già“: il che, oltre a disincantare la natura come autorganizzazione, riconoscendo che non è “dalla nostra parte”, non essendo né buona né cattiva, porterebbe in luce un errore nello spinozismo negriano, che legge nella moltitudine una finalità immanente. È certo vero che per Spinoza ogni elemento del reale è in sé organizzato: la servitù della mente esprime un livello di potenza e di organizzazione, tanto quanto lo esprime la mente liberata. Ma non si può certo dire che per Spinoza le due condizioni siano equivalenti, né che il pensiero e la prassi della liberazione implicano una causa finale, cioè un teleologismo: è una potentia essendi, e potenza di essere ve ne è sempre. Se la moltitudine è sempre pensabile come all’altezza del compito di liberazione, non è per un qualche nascosto provvidenzialismo, ma per la sua composizione politica in quanto forza lavoro: per le potenzialità insite nel suo essere parte del processo produttivo – come, per fare un esempio, il rider che riesce a riprogramare il telefonino, strumento di asservimento al sistema distributivo just in time, per convocare una chat di rider insubordinati e organizzare uno sciopero per superare uno stato del sistema con uno nel quale i diritti dei lavoratori siano a un più avanzato livello. Tornando infine a Nunes: il suo è il libro, ossia una proposta, che parla di politica non in astratto, ma “con il soggetto dentro”, pur essendo al tempo stesso privo di soggetto, nella misura in cui non propone un modello ideale da imitare: nondimeno, la prassi cui il libro – e il suo autore stesso – chiamano è quella che assume l’orizzonte politico più ampio, cioè quello della rivoluzione, non come risposta possibile, ma come l’unica risposta che ha la possibilità di affrontare la questione climatica. Un movimento reale, in conclusione, che non può che proporsi come obiettivo la distruzione dello stato di cose esistente: camminando, come s’è detto, con i piedi nelle scarpe dei movimenti L'articolo “Né veritcale né orizzontale”: alcune note sulla proposta di Rodrigo Nunes proviene da EuroNomade.
Francesca Albanese: “Il genocidio di Gaza. Un crimine collettivo”
di GIROLAMO DE MICHELE. scarica qui la versione in italiano del nuovo rapporto di Francesca Albanese (di Girolamo De Michele) qui la versione originale in inglese Lo scorso 16 ottobre Masha Gessen ha pubblicato sul New York Times un lungo intervento su Francesca Albanese, intitolato Her Optimism Has Won Her Some of the Most Powerful Enemies in the World. Si tratta, scrive Gessen, del “primo di una serie di articoli sui nuovi ed emergenti tentativi di mantenere la promessa di giustizia internazionale”, nel momento in cui le grandi potenze occidentali stanno operando per far sì che il diritto internazionale umanitario – che non hanno mai amato – resti a lettera morta. Masha Gessen, ebrea russa dissidente, profuga di fatto (in Russia è stata condannata in contumacia a 8 anni di prigione per aver diffuso “false notizie”), è un’editorialista di peso nella grande stampa statunitense, e non solo. È significativo che la sua inchiesta sullo stato critico del diritto e dei diritti nel mondo occidentale prenda l’avvio con un testo su Francesca Albanese. Ed è ancor più significativo il suo punto di vista, per l’autorevolezza sua e del giornale che la ospita, in confronto alle miserie degli organi di stampa italiani, ormai indistinguibili dai Bar Sport social, i cui frequentatori sono impegnati in una squallida campagna di linciaggio mediatico contro la Relatrice speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nella Palestina occupata da Israele. Campagna sulla quale non vale spendere parole – se non per ricordare che questo linciaggio mediatico è cresciuto in modo esponenziale da quando Albanese ha reso note le collusioni (e i profitti) di una cinquantina di grandi aziende globali con il genocidio in atto a Gaza. È in questo contesto che cade la pubblicazione del nuovo rapporto di Albanese Gaza genocide. A collective crime. Un rapporto il cui contenuto potrebbe essere sintetizzato parafrasando il celeberrimo (ancorché apocrifo) scambio di battute fra Picasso e un ufficiale nazista davanti a Guernica: – L’ha fatto lei questo rapporto immondo? – No: lo avete fatto voi. Il contenuto di questo settimo rapporto della Relatrice speciale ha infatti per oggetto il ruolo degli Stati terzi nel sostenere e supportare il genocidio attuato da Israele con il commercio di armi, che era già illegale, stante le norme vigenti, prima del 7 ottobre, e dovrebbe esserlo oggi a maggior ragione. Basti dire che si fatica a trovare qualche Stato con le mai pulite, e l’Italia non è certo fra questi pochi. Cosa si intende qui per “armi”? Non soltanto quelle fatte e finite: ma anche componenti, parti, segmenti della catena militare – ad esempio, i pezzi di ricambio degli aerei F-35. Nonché i prodotti dual-use, cioè quelli che formalmente non sono armi, ma che possono essere impiegati come tali. Per capire di quali violazioni si tratti basta leggere il paragrafo 6 del rapporto: > Il diritto internazionale impone a tutti gli Stati una serie di obblighi per > rispettare, prevenire e porre fine alle violazioni, ovunque si verifichino. > Nel contesto dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), i più rilevanti sono: > > > > (a) Tutti gli Stati hanno obblighi diretti nei confronti del popolo > palestinese, in particolare l’obbligo di rispettare il suo diritto > all’autodeterminazione e alla libertà dall’apartheid e dal genocidio, e nei > confronti dello Stato di Palestina, nel rispetto dei principi di non > interferenza, integrità territoriale, indipendenza politica e autodifesa. > > (b) Obblighi erga omnes derivanti dalla grave violazione di norme imperative – > l’obbligo di rispettare l’autodeterminazione del popolo, il divieto di > genocidio, segregazione razziale, apartheid e acquisizione territoriale > attraverso la forza da parte di Israele, tra cui: (i) un obbligo positivo di > porre fine, individualmente e in cooperazione, a qualsiasi situazione illegale > attraverso mezzi legali; e doveri negativi di non (ii) riconoscere come legale > la situazione derivante dalla loro violazione, o (iii) prestare aiuto o > assistenza per mantenere tale situazione. > > > (c) Obblighi di dovuta diligenza per prevenire specifiche violazioni del > diritto internazionale, compresi gli obblighi di: (i) prevenire il genocidio > (attivati quando si verifica un “rischio grave”); (ii) garantire il rispetto > del diritto internazionale umanitario (attivato quando le violazioni sono > “probabili o prevedibili”) e (iii) cooperare per prevenire crimini e attacchi > contro persone protette a livello internazionale. > > (d) Obblighi di astenersi dal prestare aiuto o assistenza, o partecipare > direttamente ad atti illeciti a livello internazionale di altri Stati, tra cui > aggressione, apartheid e genocidio. Tutto ciò, che costituirebbe jus cogens, è stato nascosto sotto il tappeto degli scambi commerciali, delle partnership, degli investimenti finanziari, all’interno di una cornice narrativa che era già predisposta prima del 7 ottobre, e che a partire da quella data è diventata luogo comune: > Dopo il 7 ottobre 2023, la maggior parte dei leader occidentali ha ripetuto > acriticamente le narrazioni israeliane, diffuse dai media statali e aziendali, > ripetendo affermazioni di cui è stata dimostrata la falsità, e cancellando le > distinzioni fondamentali fra combattenti e civili. Gli israeliani sono stati > descritti come “civili” e “ostaggi”, e i palestinesi come “terroristi di > Hamas”, obiettivi “legittimi” o “collaterali”, “scudi umani” o “prigionieri” > legalmente detenuti. Attingendo a una lunga storia di “selvaggi” a cui sono > state negate le protezioni del diritto internazionale, rilanciata dal discorso > sulla guerra al terrorismo, gli Stati occidentali hanno contribuito a > giustificare il genocidio contro i palestinesi (par. 20) Proprio alla luce di questa narrazione dominante acquista valore l’aver imposto quantomeno la dicibilità della parola “genocidio”, come risultato di una guerra all’omertà, attraverso una mobilitazione mondiale dell’opinione pubblica che è infine esplosa anche in Italia, Così come acquista valore l’episodio della Samud Flotilla, non sono come innesco o scintilla delle proteste del 22 settembre e del 3 ottobre, ma anche per il collegamento che si è creato fra i lavoratori dei porti di Genova e Livorno con i portuali si una lunga serie di Stati: Francia, Belgio, Marocco, Svezia, Spagna, Gibilterra, Cipro, Malta, Grecia, Creta e Stati Uniti. Questo rapporto, come i precedenti, dei quali continua l’opera, fornisce nuove armi – quelle della critica, beninteso – alla lotta contro il genocidio. E al tempo stesso riqualifica questa lotta: non si tratta, infatti, di semplice empatia (che prima o poi qualcuno dovrà spiegarci cosa c’è di male nel provarla), ma di una opposizione a un sistema globale che, ammantato di ordine geopolitico, esige da un intero popolo litri di sangue e libbre di carne – sarà il caso di ricordare che Shylock è un mercante, e che il dramma shakespeariano è prima di tutto una feroce critica alla mentalità mercantile, entro la quale scompare nei fatti la distinzione fra ebreo e cristiano, così come fra ciò che col denaro si può fare e ciò che non si potrebbe fare. Un sistema nel quale oggi Israele funge da laboratorio di sperimentazione, sulla cavia palestinese, di tecnologie belliche, spionistiche, di controllo; sperimentazioni – si veda il libro di Antony Loewenstein Laboratorio Palestina (citato nel rapporto) – che vengono poi, dopo essere state testate in guerra, trasferite ai partner occidentali: il caso Paragon ne è un esempio lampante. Concludendo, con le parole del rapporto: > Il genocidio di Gaza non è stato commesso da un solo Stato, ma come parte di > un sistema di complicità globale. Anche quando la violenza genocida è > diventata evidente, gli Stati, per lo più occidentali, hanno fornito, e > continuano a fornire, a Israele sostegno militare, diplomatico, economico e > ideologico, anche se Israele ha utilizzato come arma la carestia e gli aiuti > umanitari. Gli orrori degli ultimi due anni non sono un’aberrazione, ma il > culmine di una lunga storia di complicità (par. 67). Che questa complicità debba cessare è un compito che va assunto. Nella consapevolezza che la battaglia in corso riguarda per un verso aspetti “contingenti” – il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e la persistente violazione degli obblighi internazionali da parte degli Stati complici del genocidio – che non sono presenti nel cosiddetto “piano di pace” Trump; ma anche, che la portata di questa lotta è ancor più vasta: in questo momento difendere il diritto internazionale umanitario sotto attacco, così come lo sono i diritti umai alla base della Costituzione americana negli USA di Trump, è un compito non solo radicale, ma rivoluzionario. Perché questa battaglia attacca il cuore dell’alleanza fra la nuova destra suprematista e (neo)fascista, e il capitalismo veccchio (quello “produttivo”) e nuovo (quello delle piattaforme): alleanza che con i diritti umani è di fatto, oltre che di ragione, incompatibile. Diritti che non sono sgorgati dalla mente di un dio, o dal cielo delle idee, ma sono stati conquistati con le lotte dei subalterni contro lo sfruttamento capitalistico, coloniale, razziale, patriarcale. La posta in gioco è questa: non da un fiume a un mare, ma lungo ogni fiume, fino a ogni mare e ogni montagna, per ogni popolo, in ogni angolo della Terra. L'articolo Francesca Albanese: “Il genocidio di Gaza. Un crimine collettivo” proviene da EuroNomade.
Un genocidio
di FEDERICO RAHOLA. Succede che alcune parole si carichino di un valore assoluto, quasi sublime. E che in questo modo chiudano ogni discorso – period si dice ora in inglese. Forse è successo anche con la Shoah, l’olocausto,  i 6 milioni e più di ebrei (e i milioni di rom, slavi, omosessuali, comunisti, disabili), cancellati nel piano di sterminio nazifascista. Ma la storia non è finita ad Auschwitz. E anche affermarne l’unicità corre il rischio di perdere di vista qualcosa. Per esempio la sua singolarità, e cioè la sua collocazione (anche estrema) all’interno di una storia (anche di genocidi), e non al di fuori di essa: la razionalità di un piano di sterminio che ha chiamato in causa l’intera modernità occidentale (qualcuno direbbe civiltà, ma rispediamo al mittente), e quindi un’idea di stato e la sua organizzazione razionale, industriale e burocratica applicandola alla morte, all’annientamento di tutto ciò che ne ostacolava la “salute”. Proprio in nome di questa razionalità, che non assolve e ancora chiama in causa, è consigliabile tenersi lontano da toni eccezionalisti, da ogni aura o iperbole.  E forse anche abbandonare un singolare assoluto che come sempre abbaglia. Ad esempio, si può provare a ricorrere all’articolo indeterminato, oppure al plurale. Non si tratta qui di relativizzare nulla, nemmeno di optare per un politeismo dei valori. Piuttosto, di compiere una serie di esercizi per collocare e venire a capo di questa singolarità, ampliando lo sguardo. E cioè di dire “un genocidio” anziché il genocidio, e anche parlare al plurale di genocidi lasciando ad altri il compito di stabilire unicità e gerarchie, forse necessarie, e limitandosi a suggerire direzioni, trame. Dire che la Shoah è stata un genocidio non ne sminuisce il significato o scalfisce l’entità, e forse aiuta a capirne la singolarità: a ripercorrere una scia che parte dalla dominazione coloniale, comprende lo sterminio degli Herero in Namibia e, importando tecnologie già testate, arriva a lambire Auschwitz, se non altro come possibilità, come possibile, pensato, compiuto, e nei piani genocidari anche immediatamente cancellato. Perché, lo suggeriva Hannah Arendt, l’oblio dell’Olocausto fa parte dell’Olocausto. Anche la negazione del genocidio fa parte di un genocidio. Oggi assistiamo a un genocidio negato, come già accaduto nella storia recente, del secolo breve e della sua lunghissima coda, in Turchia, Cambogia, Ruanda, Bosnia, Birmania e Bangladesh, o anche in mare, nell’Oceano nero della tratta ieri, nel Mediterraneo attraversato da una moltitudine senza génos oggi. Ma qui la negazione non parte solo dagli autori, e ricade dappertutto. Nonostante sia stato riconosciuto dalle Nazioni unite, il genocidio in corso a Gaza, “un genocidio”, viene sistematicamente confutato, non detto, rimosso.  Su chiunque si azzardi a pronunciare quella parola e quell’articolo indeterminato, cade un’accusa “period”: antisemitismo. E si dovrebbe parlare dell’irricevibilità e dell’infamia di quell’accusa, oltre che della sua infondatezza. Si dovrebbe anche avere il coraggio, abbandonando iperboli e assoluti, di dire che il 7 ottobre 2023 è stato compiuto un massacro, un crimine atroce che però non è piovuto dal cielo né risulta incollocabile o incomprensibile. Enzo Traverso si è spinto a ricordare la rivolta nel ghetto di Varsavia; Micheal Hardt ha rintracciato la stessa disperata ferocia di una rivolta carceraria;  altre e altri, poi, suggerivano come, nei raid contro i coloni, i nativi nordamericani non si limitassero a uccidere ma razziassero e prendessero ostaggi più che fantomatici scalpi. Questo non vuol dire assolvere, non dovrebbe nemmeno essere necessario dirlo, ma provare a capire, a collocare. In tutti i casi citati, inoltre, è difficile recuperare qualcosa che possa richiamare una persecuzione, una matrice razziale. Ciò vale anche per quel raid, risposta estrema e mimetica a un rave organizzato in tragica buona fede a pochi chilometri di distanza da un confine di ferro e fuoco, e a pochi mesi di distanza da una marcia di protesta soppressa in un mare di sangue. L’antisemitismo non è chiave per capire e nemmeno leggere il 7 ottobre. Forse invece se ne possono rintracciare la matrice o il fantasma nel modo in cui Ben Gvir, Smotrich e Netanyahu pronunciano il significante Palestina e il nome dei suoi abitanti, human animals (e non è scrupolo antispecista) di un popolo senza stato, allo stato brado, come gli ebrei della diaspora ma concentrati in bantustan. Oppure nella sproporzione deliberata e negata di un massacro che si legge sterminio e viene riscritto come operazione di sicurezza, risposta “ponderata” all’entità di un atto di terrore comunque circoscritto e collocabile: proporzioni, misure, sicurezza.  La sicurezza di uno stato diventa spesso elemento di sproporzione: era così in Germania, nel 1933, quando per ragioni di sicurezza venne decretata la Schutzhaft, la sospensione a tempo indeterminato dell’ordinamento, permettendo un olocausto. Oggi rivediamo qualcosa di simile, la distruzione e le macerie, un genocidio in nome della sicurezza e della vendetta, dell’espansione coloniale e della difesa preventiva di uno stato e del suo “spazio vitale”. Qualcuno ha provato a toccare quel genocidio, per arrestarlo, interporsi, portare soccorso. Altri, sempre di più, si stanno mobilitando a distanza, anche contro la pax imperiale che si imporrà su quel deserto di macerie e contro il quadro politico internazionale che la asseconda e incentiva cancellando un genocidio. Perché il deserto che già celebrano come “pace”, nato sulle macerie di un genocidio negato, non può che prefigurare altre occupazioni, altri genocidi. Del resto è sempre stato così, si costruirà sulle macerie e anche con le macerie, anche quando contengono i resti di un genocidio negato e di vite cancellate. Le nostre esistenze intransigenti, boicottando e bloccando tutto, sono la forma di resistenza da offrire alla Palestina e alla sua (r)esistenza, anche senza proiettarci le proprie e sovrascriverci sopra. L'articolo Un genocidio proviene da EuroNomade.
I Settanta sovversivi o il futuro anteriore del nostro presente
di FRANCESCO FESTA. C’è un tempo che ritma il passo della lettura del libro di Michael Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte (Derive Approdi, 2025, pp. 309), ed è quello del futuro anteriore, o come ebbe a dire Ernest Bloch, del «ricordo del futuro». L’idea che il passato non sia mai compiuto, ma contenga potenzialità ancora vive in attesa di essere realizzate. Walter Benjamin parla dell’«affiorare di una potenzialità che attende ancora di essere realizzata»: ciò che è accaduto non si esaurisce nel fatto storico, ma continua a vibrare nei corpi e nei movimenti sociali. Bloch aggiunge che «ciò che è accaduto è sempre accaduto solo a metà»: ogni evento storico è incompiuto, ogni rivoluzione conserva parte della propria energia utopica, pronta a riemergere in altri tempi e luoghi. Il passato, in questa prospettiva, si presenta come un archivio sempre aperto. E il libro restituisce proprio l’idea di una memoria viva che connette passato e presente, e viceversa, in un rinvio continuo dove la ripetizione aggiunge nuovi elementi o una nuova composizione spostando rapporti sociali in un campo di forze mai definito. Gli anni Settanta diventano così anticipazione del presente. E appaiono come uno spartiacque fra un prima, legato al lungo dopoguerra – “l’età dell’oro” del capitalismo, dal 1943 al 1973: piena occupazione, welfare state, operaio massa, fordismo e keynesismo – e un dopo, con la frammentazione dei cicli produttivi, la riconfigurazione dei rapporti di produzione e della composizione sociale – l’emergere di nuove soggettività sociali, l’operaio sociale, la fabbrica diffusa e il post-fordismo. Proprio in tale iato affiorano elementi che troveranno materializzazione nei decenni a venire. Sono anni che anticipano anche e soprattutto le pratiche dei movimenti sociali, icasticamente raffigurati nell’ultima pagina del libro nell’immagine della «staffetta» e del «testimone» (p. 273) fra gli anni Settanta e noi. Certo, i Settanta sono stati anche gli anni della nascita del neoliberismo, con le dittature dei Chicago boys e gli esperimenti di “neoliberismo autoritario”; ma Hardt di tutto ciò fa qualche cenno, poiché la sua attenzione è verso la storia dei «movimenti progressisti e rivoluzionari», osservati con metodi assolutamente innovativi. Fin dalle prime pagine, il libro produce un senso di sprovincializzazione o di straniamento sottraendo l’attenzione a letture storiche cui siamo assuefatti che relegano, ad esempio, gli anni Settanta al seguito del Sessantotto italiano; mentre apre a una prospettiva globale, dove le lotte di diversi continenti si connettono in una trama transnazionale di esperienze globali. Il sottotitolo, La globalizzazione delle lotte è precipuo nell’enucleare lo spirito internazionalista del libro, infatti, uno dei metodi di osservazione dei movimenti è quello della «connessione internazionale, genealogica e trasversale» – di cui parleremo più avanti. Un altro approccio molto convincente nella lettura dei movimenti è l’aver archiviato le letture propriamente storiciste: per cui la storia venga misurata in base alle vittorie o alle sconfitte. Hardt piuttosto si interroga su quali visioni, pratiche e teorie innovativi siano emersi nelle situazioni di lotta. Un esempio fra i tanti è il racconto del movimento autogestionario in Portogallo nel 1975, dopo la Rivoluzione dei Garofani, con centinaia di fabbriche e gestite dai lavoratori (circa 895), case e terre occupate. Il coordinamento di questo movimento era la “Comune di Lisbona”, in cui riecheggiava lo spirito della Comune di Parigi. Hardt osserva come il valore di quella rivoluzione risieda non tanto nel successo o nel fallimento ma nella capacità di immaginare una democrazia e una proprietà diverse dal socialismo di Stato, una democrazia del comune. «Il processo rivoluzionario – scrive Hardt – può anche essere valutato non in base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali, che possono essere riassunte nel fatto che ha dato origine a un percorso rivoluzionario alternativo per due aspetti, rispetto alla democrazia e alla proprietà, entrambi in contrasto con i principi consolidati del socialismo di Stato esistenti» (p. 92). Sono le potenzialità trasformative, più che i loro esiti, cui vale la pena di guardare, il che è anche un invito prezioso a valutare le scelte nelle situazioni di lotta: il fallimento è la deflagrazione di una scelta, la sconfitta invece è un passo intermedio, un insegnamento. Così le esperienze autogestionarie portoghesi si connettono ad altre situazioni autogestionarie, come l’esempio del 1974 – citato nel libro – dell’esperienza della Lip, la fabbrica di orologi nella regione francese del Jura; e va da sé, il collegarle alle fábricas recuperadas argentine degli anni Duemila o all’esperienza italiana della Gkn di Campi Bisenzio. L’uso del metodo genealogico, trasversale e internazionale intreccia, invece, le vicende dei movimenti in diversi continenti con echi e rimandi continui: è come una trama complessiva e invisibile che riconnette i movimenti oltre il tempo e lo spazio, restituendo una visione d’insieme delle connessioni e delle risonanze. «Indagare queste connessioni internazionali, trasversali e genealogiche – osserva Hardt – è un metodo potente per lo studio dei movimenti sociali e politici. Ogni singola lotta offre una prospettiva leggermente diversa da cui osservare le aspirazioni comuni […] I molteplici punti di vista e le connessioni tra i movimenti mettono a fuoco concetti che risuonano con le problematiche della nostra situazione politica contemporanea» (p. 264). Emerge così una lettura multipiano e trasversale, in cui si intrecciano protagonisti differenti e movimenti internazionali tra loro eterogenei. L’«altro movimento operaio» in America ed Europa; le lotte anticoloniali che attraversano l’Africa — dal Mozambico all’Angola, fino alla Guinea-Bissau —; i movimenti per la democrazia radicale e il potere popolare in Portogallo, Corea del Sud e Giappone; le lotte del movimento di liberazione omosessuale tra Nord America ed Europa; la teologia della liberazione di ispirazione cristiana dell’America Latina; l’esperienza dei rivoluzionari marxisti-sciiti in Iran; gli operai cileni che rivendicano l’autonomia dal processo di statalizzazione della produzione nel Cile di Allende; i movimenti dell’autonomia dal comando del capitale sul lavoro vivo; le lotte di donne e migranti contro le strutture patriarcali e razziali del capitalismo; i primi movimenti ecologisti e antimilitaristi sorti in opposizione alla minaccia nucleare. Questa molteplicità è accomunata dal carattere “sovversivo”, che si manifesta nel tentativo di «smantellare e rovesciare le strutture sociali di dominio» costruendo, allo stesso tempo, «le basi per la liberazione» (p. 6). Sovversione e liberazione, secondo Hardt, procedono di pari passo. Pars destruens e pars costruens, due variabili comunicanti. La critica diviene tanto decostruzione negativa quanto costruzione affermativa di mondi alternativi e confliggenti rispetto all’esistente. E questa azione sottrattiva e costruttiva è riconoscibile in tanti movimenti degli anni Settanta e successivamente. A tal proposito, vien da ricordare l’esperienza dei movimenti dei disoccupati e dei precari a Napoli, dopo il colera del 1973 e nei decenni a seguire. La rivendicazione di quei movimenti si traduceva, da una parte, in sottrazione dal potere delle clientele e dei partiti, e altresì in sottrazione dal recupero delle logiche del collocamento sotto il controllo dei sindacati; e dall’altra parte, nell’affermazione dell’accesso al lavoro e al reddito attraverso le “liste di lotta”; dunque era la partecipazione diretta, nella lotta e non delegata alle strutture dello Stato-piano, che poteva garantire il diritto al lavoro e al reddito. Negli anni Ottanta, la rivendicazione si differenziò in «né con lo Stato, né con la camorra», ma con le liste di lotta per l’accesso al reddito. Hardt inoltre smonta alcuni miti ormai inconfutabili nel dibattito pubblico ed entrati a pieno titolo nei libri di storia. Fra questi vi è la dialettica tra Sessanta e Settanta. Il Sessantotto è l’anno da ammirare, cui rinviare la riflessione quando si evoca la rivoluzione; mentre il Settantasette è l’anno da dimenticare e bandire. L’uno, il decennio dei sogni, l’altro della polvere (da sparo). In realtà, per Hardt, gli anni Settanta sono il tentativo di concretizzare le teorie solamente ipotizzate nel decennio precedente. Purtroppo l’attenzione psicopatologica alla lotta armata, ogni qualvolta si parli di quel decennio, oscura la ricchezza di esperienze collettive, sociali e culturali che hanno animato quegli anni. Gli anni Settanta sono stati veramente un laboratorio di sperimentazioni sociali. E del resto la storiografia del “Secolo breve” ha consumato pagine e pagine per fissare la contrapposizione fra comunismo versus capitalismo, dove il comunismo ha avuto una e solo una applicazione: quella di Stato. Invece I Settanta sovversivi ci mostra come siano esistite forme alternative tanto al capitalismo quanto al comunismo di Stato: forme di democrazia rivoluzionaria in cui la partecipazione diretta si è tradotta concretamente nel governo della proprietà. Un altro mito del Novecento smontato nel libro è il mito della crisi economica degli anni Settanta (crisi petrolifera, finanziaria e economico-sociale). In realtà la crisi è stata la risposta del capitale all’insubordinazione operaia e all’autonomia dal comando del capitale sul lavoro vivo. Da quella ristrutturazione della fabbrica e dell’accumulazione fordista sono emersi una pluralità di soggetti che hanno segnato il passaggio dalla classe unitaria all’eterogeneità. In questa eterogeneità viene individuata la chiave per leggere i mutamenti della composizione di classe e così della politica contemporanea: non più un unico soggetto rivoluzionario, ma una molteplicità di istanze che si articolano e si rafforzano reciprocamente. Le lotte antirazziste si intrecciano con quelle femministe, queer ed ecologiste; le battaglie anticapitaliste con i diritti civili. È la pratica dell’intersezione delle lotte che costruisce un terreno comune senza annullare le differenze. Questa pratica emerge e si diffonde grazie alle lotte dei movimenti femministi e alle pratiche emancipative dei movimenti omosessuali. Fra le tante conseguenze dell’esplosione della classe nell’eterogeneità vi è la fine dell’unità della sinistra, e da quel momento in poi la ricerca della sua ricomposizione, senza soluzione di continuità. Al contrario Hardt non ne parla negativamente o come una fine, anzi, vi intravede una ricchezza: gli esiti sono le possibilità di articolazione delle molteplici istanze che vanno emergendo dall’eterogeneità di classe, il che è un metodo organizzativo proposto nelle ultime pagine del libro. All’altezza dell’eterogeneità sociale Hardt avanza l’ipotesi dell’uso dell’«articolazione strategica della molteplicità»: la sfida è di organizzare l’eterogeneità senza cercare un’unità artificiale, ma tenendo insieme e potenziando le differenti istanze, dove l’una non predomina sull’altra, o meglio l’una trae forza articolandosi con le altre. Per spiegare questa forma organizzativa nel libro si individuano quattro concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia rivoluzionaria e liberazione. L’autonomia è l’indipendenza dei movimenti da partiti e Stato; la molteplicità è la nuova soggettività collettiva, orizzontale e composita; la democrazia rivoluzionaria è la capacità di inventare nuove istituzioni e forme di cooperazione; la liberazione è un processo quotidiano di trasformazione dei rapporti sociali e personali. Da qui discendono alcune riflessioni, come una sorta di assiomi. Il primo è che i movimenti sono sempre eccedenti rispetto alla democrazia rappresentativa, alle istituzioni borghesi e alle formule elettorali. Costretti in contenitori elettorali, i movimenti perdono la propria potenza, e in realtà non corrispondono alla potenza che invece esprimono nelle mobilitazioni. Due esempi su tutti. Nell’anno 2001 ci sono state manifestazioni moltitudinarie del movimento no global, ciò nondimeno in Italia siamo transitati dal governo D’Alema, nelle giornate di marzo a Napoli, al governo Berlusconi, nel luglio genovese. Così come le mobilitazioni contro il genocidio a Gaza delle ultime settimane non trovano spazio nelle forme di rappresentanza, né tantomeno nei partiti di sinistra. Un altro assioma è che i movimenti depotenziano i partiti che vogliano investire su di essi o mettersi alla testa degli stessi per altri scopi, mentre quei partiti possono fungere da cinghie di trasmissione fra le istituzioni e le parti sociali, in virtù della fruibilità delle risorse, degli strumenti e delle informazioni. Un ultimo assioma è che il conflitto e il consenso sono le variabili e gli strumenti di misurazione dell’intelligenza collettiva dei movimenti, tanto le pratiche incontrano il consenso nella società civile, tanto moltiplicano la partecipazione, articolano le istanze delle parti in lotta e perseguono gli obiettivi dell’eterogeneità sociale. Hardt non fa mistero di un obiettivo de I Settanta sovversivi: discutere alcune questioni per riaprire un’opzione di pensiero e pratica potenzialmente rivoluzionari, i cui semi sono stati gettati proprio negli anni Settanta. Anche se il rompicapo è sempre lo stesso: l’organizzazione. Un rompicapo introdotto da due domande. C’è la domanda che ci portiamo dietro dai Settanta: qual è la nostra parte? E a questa Hardt risponde proponendo di arricchire la molteplicità tramite il metodo dell’articolazione strategica. In effetti le lotte contro il genocidio a Gaza dovrebbero giocoforza connettersi a quelle in difesa dei diritti sociali, lavorativi, di genere, ecc. così come, le lotte contro lo stato di guerra articolarsi con le lotte sul welfare, il salario, ecc. E non in ultimo, l’altra domanda è relativa a un dato tangibile nelle ultime settimane: i movimenti sono in grado di costruire “egemonia” – in termini gramsciani – nella società, ma come possono mantenere aperte opzioni costituenti, costruendo istituzioni del comune, dentro e contro la democrazia rappresentazione e liberale? L'articolo I Settanta sovversivi o il futuro anteriore del nostro presente proviene da EuroNomade.
L’educazione all’ombra del potere
di JUDITH REVEL*. Ogni epoca ha le sue tensioni e le sue fragilità. Per renderne visibile il tracciato sotterraneo, spesso occorre un rivelatore. Tra i sottili indicatori dello spirito del tempo, il rapporto con l’educazione – e più generalmente con tutta la serie di figure e temi che la questione immediatamente evoca: l’infanzia, la pedagogia, l’autorità, la disciplina, i valori, il metodo, il livello, la valutazione, le classifiche – è senza dubbio uno dei più efficaci. Oggi, nel mondo incerto in cui viviamo, è proprio sulla questione dell’educazione che sembrano cristallizzarsi molte delle angosce che costituiscono il nostro quotidiano. Da un lato, il fantasma di bambini sempre più distanti, indifferenti o forse solo diversi, essenzializzati in base alla loro data di nascita (“Millennials”, “Gen Z”…), percepiti a seconda dei casi come immaturi, demotivati, apatici, egoisti, psicologicamente fragili, violenti; dall’altro, adulti tanto più tesi quanto ossessionati dalla genitorialità perfetta, e che investono sui propri figli come se si trattasse di far fruttare fin dalla prima infanzia il capitale che ogni bambino rappresenta. Lezioni private, corsi di lingua, tutor privati, accompagnamento personalizzato, coaching, calcolo del potenziale intellettuale: oggi esiste un intero mercato che accompagna questa strana ricerca della performance genitoriale, condizione primaria della performance infantile a cui è assolutamente necessario aspirare. E poi ci sono i luoghi – e le persone – dediti professionalmente all’insegnamento. Il sistema educativo, al contrario di tutto questo, è costantemente ridotto a tre ossessioni negative: la scuola fallisce in tutte le sue missioni e costa troppo; il livello sta calando; l’autorità non esiste più. Se è necessario ricordarlo, è perché questo fenomeno, che si accentua di anno in anno, dice in realtà due cose. La prima è che il nostro mondo è in crisi e che non lo comprendiamo più. Esigiamo quindi dai nostri figli che siano ciò che crediamo, noi, di non essere abbastanza (o ciò che ci viene chiesto sempre di più): competitivi, agguerriti, concorrenziali, in nome di un individualismo che fa dell’affermazione economica personale il mantra di ogni vita riuscita. La seconda è che ci stiamo allontanando molto rapidamente da tutto quello che la riflessione sull’educazione aveva portato con sé, in particolare in due momenti fondamentali della storia della nostra cultura occidentale: da un lato, la tematizzazione della paideia nel pensiero greco (e le riprese umanistiche che ne avrebbe ricevuto molto più tardi) e, dall’altro, la riflessione moderna sui legami intimi tra educazione ed emancipazione. Due semplici esempi, tra i tanti possibili, separati da quasi venticinque secoli: Le leggi di Platone e Il maestro ignorante di Jacques Rancière. Se lo scopo di ogni legislazione è la virtù nella sua interezza, ci ricorda Platone, allora l’apprendimento della temperanza ne è la condizione fondamentale. Il libro VII delle Leggi ne descrive in dettaglio i principi. Ma ciò che Platone chiama la realizzazione di “tutta la bellezza e tutta l’eccellenza possibili” (788c) non è concepito a partire dall’obbligo della performance. È pensata invece a partire dall’idea, così estranea al nostro mondo e agli attuali discorsi nostalgici di una certa autorità perduta, dell’armonia, cioè della misura e del ritmo, sia per il corpo che per l’anima. Gli esercizi ginnici, come quelli ispirati dalle Muse, diventano quindi contemporaneamente mezzi e fini politici, perché si tratta di imparare “ad odiare ciò che bisogna odiare e ad amare ciò che bisogna amare” (653c). Ora, il ritmo e l’armonia sono direttamente – e non solo metaforicamente – le condizioni di possibilità non solo della crescita dell’individuo, ma dell’insieme corale che egli costituirà con gli altri: un coro che non richiede uniformità ma l’armonizzazione e la complementarità delle differenze. Impariamo quindi da Platone: l’educazione è, fin dalla più tenera età, formazione del cittadino; ma, proprio perché si tratta della polis, non può essere ridotta a una prospettiva individualista. Si tratta di contribuire alla città giusta, al bene comune. Costruire se stessi significa costruirsi con gli altri: la paideia diventa qui Bildung, il modo di soggettivazione non attribuisce ruoli né impone uniformità, ma lascia per così dire “aperta” la possibilità di scambi, la forma delle relazioni e l’incrocio delle voci. All’inizio del XIX secolo, Joseph Jacotot, al quale Rancière dedicherà il bellissimo Le maître ignorant (Il maestro ignorante), stabilisce precisamente un metodo educativo che rifiuti per principio l’assegnazione dei ruoli, a cominciare da quelli dell’insegnante (colui che sa) e dell’allievo (colui che apprende). Il progetto universale di emancipazione delle intelligenze del “metodo Jacotot”, costruito interamente contro il mito pedagogico secondo cui è sempre necessario un maestro che sappia, cerca invece di mettere in pratica un assioma radicale di uguaglianza nel rapporto di insegnamento. Relazione: anche in questo caso occorre essere più di uno per crescere, ma questo incrocio di voci non significa necessariamente una loro gerarchizzazione. Elogio del comune che si costituisce insieme. Nel 1975 Foucault pubblica Sorvegliare e punire. Una frase farà molto discutere. Scrive Foucault: “L’Illuminismo, che ha scoperto le libertà, ha anche inventato le discipline”. Il paradosso, che è alla base della nascita della prigione così come la conosciamo ancora oggi, è anche – almeno secondo l’ipotesi di Foucault – alla base della reinvenzione moderna di altre istituzioni. Tra queste, insieme all’ospedale, alla caserma, alla fabbrica: la scuola. La scuola: luogo di affermazione del progetto emancipatorio dell’Illuminismo, ma anche luogo di imposizione delle discipline, quello strano falso amico concettuale a cui Foucault dà una definizione molto precisa, e più che mai attuale: “un metodo che permette il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicura il costante assoggettamento delle sue forze e impone loro un rapporto di docilità-utilità”. Le discipline creano l’individuo produttore. Chiediamoci dunque: cosa abbiamo fatto dell’altro volto dell’Illuminismo, quando lo abbiamo dimenticato a favore del culto delle prestazioni produttive? *Questo testo è un’anticipazione dell’intervento che Judith Revel terrà a Sassuolo sabato 20 settembre nell’ambito de Festival Filosofia dedicata quest’anno al concetto di “Paideia”. È stato pubblicato sul manifesto il 18 settembre 2025 L'articolo L’educazione all’ombra del potere proviene da EuroNomade.
Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio
di GIROLAMO DE MICHELE. A proposito di: Francesca Albanese, FROM ECONOMY OF OCCUPATION TO ECONOMY OF GENOCIDE. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 [scaricabile qui ] Where’s your Daddy? è un videogioco nel quale un bambino cerca di uccidersi in casa recuperando uno fra le decine di oggetti potenzialmente letali – il flaccone di candeggina, una posata da infilare nella presa elettrica –, e un padre cerca di impedirglielo. Citando un bravo comico, una specie intelligente capace di concepire un prodotto del genere merita l’estinzione. Ma c’è di peggio: un programmatore ha scelto questo nome per un sistema di intelligenza artificiale che insegna ai droni israeliani a individuare ed eliminare esseri umani che, dopo il bombardamento di un luogo abitato, escono dal rifugio per cercare i superstiti. Where’s your Daddy? interviene in seconda battuta dopo Gospel, un sistema di intelligenza artificiale che stima il numero di vittime collaterali nel colpire un target in cui è ritenuto essere un potenziale obiettivo: un militare riceve l’informazione, e dà l’ok al drone, sapendo quante vittime civili saranno colpite. Con le parole di uno di questi [qui]: > Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa > a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un > dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. > Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo > esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa. Lo sviluppo di sistema di intelligenza artificiale in israele è reso possibile dalla partnership con Palantir Technologies [proprio così, Palantír: leggere Tolkien da piccolo non necessariamente farà di te un essere umano capace di distinguere il bene dal male], azienda statunitense specializzata nell’analisi dei Big Data; e dall’accesso alle proprie tecnologie cloud e di intelligenza artificiale concesso al governo israeliano da Microsoft, Alphabet [cioè Google] e Amazon. Come per Shylock, il sangue umano vale nella misura in cui può essere trasfigurato in una merce messa a valore; e infatti crescono i profitti di queste aziende, e crescono gli investitori dei propri capitali in questo settore: Blackrock è il secondo maggiore investitore istituzionale in Palantir (8,6%), Microsoft (7,8%), Amazon (6,6%), Alphabet (6,6%) e IBM (8,6%), e il terzo maggiore in Lockheed Martin (7,2%) e Caterpillar (7,5%). Blackrock ricorda qualcosa? È la società di investimenti dalla quale proviene Friedrich Merz, il cancelliere tedesco che ha di recente dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti”. Credo possa bastare per dare un’idea del contenuto dell’ultimo rapporto redatto da Francesca Albanese in qualità di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, From economy of occupation to economy of genocide: quanto ho sintetizzato proviene dai paragrafi 41, 42, 75, solo tre dei 99 complessivi. Di questo Rapporto, scaricabile qui, ne ha fatto un’ottima sintesi Chris Hedges, già Premio Pulitzer, per molti anni inviato del New York Times sugli scenari di guerra, in particolare in Medio Oriente, che sulla sua newsletter segue da tempo il genocidio in corso a Gaza, e ha dato alle stampe un libro, Un genocidio annunciato, al tempo stesso imprescindibile e già superato dalla tragicità degli eventi. Francesca Albanese ha costruito un database che cataloga oltre 1000 aziende o entità economiche che, a diverso titolo, collaborano all’attuazione del genocidio in corso a Gaza; nel rapporto ne sono nominate 48, fra cui Palantir Technologies Inc., Lockheed Martin, Alphabet Inc., Amazon, International Business Machine Corporation (IBM), Caterpillar Inc., Microsoft Corporation e Massachusetts Institue of Technology (MIT), insieme a banche e società finanziarie come Blackrock e Vanguard. Ma anche l’italiana Leonardo, Hyundai, Volvo, HP, Booking Holding Inc., Airbnb Inc., Allianz, Axa, Paribas, Barclay, BNP. Un esempio del ruolo di banche e assicurazioni nel par. 74: > In quanto principale fonte di finanziamento del bilancio dello Stato > israeliano, i titoli del Tesoro hanno svolto un ruolo cruciale nel finanziare > l’attacco in corso a Gaza. Dal 2022 al 2024, il bilancio militare israeliano > è cresciuto dal 4,2% all’8,3% del PIL, portando il bilancio pubblico a un > deficit del 6,8%. Israele ha finanziato questo bilancio in forte espansione > aumentando le proprie emissioni obbligazionarie, tra cui 8 miliardi di dollari > a marzo 2024 e 5 miliardi di dollari a febbraio 2025, insieme alle emissioni > sul mercato interno del nuovo shekel. Alcune delle più grandi banche del > mondo, tra cui BNP Paribas e Barclays sono intervenute per rafforzare la > fiducia del mercato sottoscrivendo questi titoli del Tesoro nazionali e > internazionali, consentendo a Israele di contenere il premio sul tasso di > interesse, nonostante un declassamento del merito creditizio. Le società di > gestione patrimoniale, tra cui Blackrock (68 milioni di dollari), Vanguard > (546 milioni di dollari) e la sussidiaria di gestione patrimoniale di Allianz, > PIMCO (960 milioni di dollari), erano tra gli almeno 400 investitori > provenienti da 36 paesi che li hanno acquistati. Nel frattempo, la Development > Corporation for Israel (ovvero Israel Bonds) fornisce un servizio di > sollecitazione di obbligazioni per il governo di Israele per privati cittadini > stranieri e altri investitori. La Development Corporation for Israel ha > triplicato le sue vendite annuali di obbligazioni per convogliare quasi 5 > miliardi di dollari in Israele da ottobre 2023, offrendo al contempo agli > investitori la possibilità di inviare il rendimento degli investimenti > obbligazionari a organizzazioni di beneficenza che sostengono l’esercito > israeliano e le colonie. Mentre le principali piattaforme di viaggio online traggono profitto dall’occupazione vendendo un turismo che sostiene le colonie, esclude i palestinesi, promuove le narrazioni dei coloni e legittima l’annessione, attraverso la pubblicazione di proprietà e camere d’albergo nelle colonie israeliane, comprese le proprietà israeliane di Gerusalemme est (parr. 69-70). Lo scopo del Rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio è molteplice. In primo luogo, con una dotta appendice giuridica che si richiama alla legislazione internazionale esistente sui crimini internazioniali e il genocidio, sostenere che la compartecipazione economica consapevole da parte di queste aziende e società viola lo jus cogens e le norme internazionali, e dovrebbe quindi essere sanzionata per la sua complicità giuridica con i crimini in atto (par. 18). Ma soprattutto, Francesca Albanese interviene sulla rimozione linguistica e politica del ruolo della finanza internazionale, cioè del capitale, nella guerra in atto: ruolo che viene nascosto, rimosso – per chi ha passioni o vezzi lacaniane si può senz’altro parlare di forclusione – dalle narrazioni che, facendo iniziare il conflitto dalle “atrocità commesse dall’ottobre 2023” (par. 18), e giustificandolo come una guerra fra religioni – quando non fra “razze” – ignorano l’ombra lunga del capitale che si estende da anni sull’intera regione compresa fra il Giordano e il Mediterraneo: il “monopolio di Israele sul 61% della Cisgiordania ricca di risorse (Area C)” fa sì che l’economia israeliana sottragga a quella palestinese “almeno il 35% del suo PIL” (par. 24), e consenta di convogliare sui territori facenti parte dello Stato israeliano, o da questi controllati con l’occupazione militare e coloniale, gli interessi di alcuni fra quei “conglomerati aziendali [che] superano il prodotto interno lordo (PIL) di interi Stati sovrani”, “talvolta esercitando più potere – politico, economico e discorsivo – degli Stati stessi” (par. 12). Come ha detto Albanese in una intervista a Chris Hedges [l’integrale in coda al testo], > Il genocidio a Gaza non si è fermato perché è redditizio, è redditizio per > troppe persone. È un business. Ci sono entità aziendali, anche di stati > amici della Palestina, che per decenni hanno fatto affari e tratto profitti > dall’economia dell’occupazione. Israele ha sempre sfruttato la terra, le > risorse e la vita dei palestinesi. I profitti sono continuati e persino > aumentati mentre l’economia dell’occupazione si trasformava in un’economia di > genocidio. Inoltre, ha detto Albanese, i palestinesi hanno fornito “campi di addestramento sconfinati per testare le tecnologie, le armi e le tecniche di sorveglianza che ora vengono utilizzate contro le persone ovunque, dal Sud al Nord del mondo”: basta citare lo spyware Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO, progettato per operazioni segrete e sorveglianza degli smartphone, che “è stato utilizzata contro gli attivisti palestinesi e autorizzata a livello globale per prendere di mira leader, giornalisti e difensori dei diritti umani” (par. 37). Una “diplomazia dello spyware” cara ai governanti italiani, a partire dal governo Conte-Salvini (quando fu avviata, per candida ammissione di Giuseppe Conte, la sorveglianza illegale delle comunicazioni di Luca Casarini) per estendersi in seguito (aspettiamo di sapere ad opera di chi) ad altri militanti di Mediterranea, giornalisti “impiccioni”, e chissà quanti altri. Fuori dall’Italia, Pegasus aveva già fatto il suo lavoro sul telefonino della moglie del giornalista saudita Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita di Istambul il 2 ottobre 2018. Ma c’è un salto qualitativo evidente nel passaggio dallo Stato-laboratorio di tecnologie militari, e dell’intersezione di queste con l’analitica dei big data, quale fino a ieri poteva essere considerato Israele, e la messa a profitto della guerra all’interno di un vero e proprio ecosistema finanziarizzato senza il quale il processo genocidiario in atto non sarebbe stato possibile: la manifestazione evidente di un regime di guerra permanente, nella quale la macchina bellico-finanziaria sperimenta tecniche di valorizzazione e profitto, e al tempo stesso di redifinizione del ruolo dello Stato attraverso un disegno globale di ridimensionamento degli organismi politici e giuridici sovranazionali, e in definitiva di cancellazione dei limiti segnati dal diritto internazionale umanitario. Il Rapporto Albanese, ancor più dei precedenti, va quindi preso a modello per elaborare strategie di opposizione al genocidio: a partire, in attesa della pubblicazione dell’intero database, dalle 48 aziende elencate, per le quali vanno attuate pratiche di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzione. L'articolo Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio proviene da EuroNomade.
Identità oltre i confini nella società-mondo
di SANDRO CHIGNOLA. Gli ultimi decenni hanno reso necessario un significativo salto di scala nella ricerca sulle dimensioni globali della politica. Trasformazioni irrecuperabili, che hanno investito istituzioni, soggetti e poteri coinvolti negli spazi di produzione e di circolazione del mercato mondiale, costringono a un nuovo posizionamento teorico e politico. Il recente volume di Maurizio Ricciardi, La politica dello Stato globale. Democrazia, migrazioni e neoliberalismo nella società-mondo, primo contributo della nuova collana «Transnazionale» presso l’editore Meltemi (pp. 184, euro 16), affronta questa sfida. Quella di Ricciardi è una storia costituzionale dello Stato globale. Questo è definito come la forma politica metastabile che, reagendo ai movimenti transnazionali di capitali e di persone, si trova a fare i conti con i limiti della propria sovranità ma a dover contemporaneamente attivare il proprio intervento per legittimare e per implementare le misure delle istituzioni tecniche e sovranazionali che quei movimenti, di capitali e di persone, governano. Di fronte alla piattaformizzazione dell’economia globale e alla composizione di classe contemporanea, rispetto alla quale i migranti hanno un ruolo decisivo, lo Stato non può più essere inteso secondo la sua forma tradizionale – ordine sovrano inscritto su un territorio -, ma il ruolo che continua a svolgere – controllo dei confini, disciplinamento dell’azione collettiva e messa a terra dei protocolli neoliberali, esclusione integrativa del lavoro migrante – non può essere ritenuto, come era potuto apparire nelle fasi espansive della globalizzazione, destituito a favore di altre forme e apparati di regolazione. Fare una storia costituzionale dello Stato globale implica perciò una ridefinizione dello Stato all’altezza delle trasformazioni che lo investono, ma significa anche problematizzare lo statuto del riferimento costituzionale in esse coinvolto. Costituzione non è intesa qui come la forma dell’istituirsi del rapporto societario nel corpo collettivo della cittadinanza nazionale, ma – e questo viene indagato nell’ordine del discorso neoliberale che segna il punto di soglia genetico dello Stato globale – come allineamento all’ordine economico competitivo che esso è chiamato a formare e a garantire come sistema indicizzato alla differenza, alla negoziazione e alla salvaguardia dei piani di impresa individuali. Una sorta di autocostituzionalizzazione di ordini globali (apparentemente) senza Stato, per usare l’espressione di Günther Teubner, il cui senso è l’organizzazione normativa di transazioni frammentarie e permanentemente a rischio di frizione tra soggetti, interessi e strutture parziali. Questo implica uno spazio di massima tensione all’interno di quella che Ricciardi chiama la «costellazione costituzionale», una tensione che risignifica i contenuti di altri concetti chiave della Forma-Stato moderna. Democrazia, cittadinanza e uguaglianza, per citarne solo alcuni, sono radicalmente modificati dai processi di decostituzionalizzazione e di destatalizzazione resi operativi dalla prassi neoliberale, sia in relazione al ruolo che assolvono nel paradigma politico moderno, sia in relazione a quello che possono svolgere in relazione alle pratiche politiche che vi fanno riferimento. Anche il lessico dei «diritti», attraverso cui sono tradotte le eterogenee aspettative di tutela da parte dello Stato, tende a presentarsi come rivendicazione di un’unità sociale ormai inesistente, in forza dell’avanzato lavoro di destrutturazione che l’ha investita, e come indicatore della crisi che attraversa il concetto di cittadinanza: migranti, poveri e rifugiati, che non possono far valere giuridicamente i propri diritti, li rivendicano come limite al materiale dominio cui sono sottomessi, rendendo evidenti le linee di frattura e di scissione attraverso le quali si riproduce un ordine differenziale e gerarchico. Lo Stato si è fatto globale – in quanto denazionalizzato del popolo e desovranizzato dagli apparati e dai dispositivi di potere che ne hanno sottratto e ridefinito le competenze – e questo implica che esso si trova a svolgere un ruolo inedito, all’incrocio tra precari equilibri postcoloniali e postcostituzionali, nel sistema di relazioni che lo sovrascrivono, in risposta a sfide (le migrazioni; il capitalismo di piattaforma, con le sue conseguenze in relazione al cristallizzarsi di blocchi monopolistici che fondono imprenditoria privata e immediato potere politico; il deformarsi dei quadri della democrazia formale in autocratura o liberalismo autoritario) che non possono essere processate dagli schemi o dagli apparati che ne garantiscono la tradizionale operatività e che impattano lo Stato modificandone significato e compiti. questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 14 giugno 2025 L'articolo Identità oltre i confini nella società-mondo proviene da EuroNomade.