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Sumud, ora e sempre
di AUGUSTO ILLUMINATI. Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale. Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir. La degenerazione profonda di Israele rispetto alle fasi precedenti del colonialismo sionista risulta dalla compattezza del voto parlamentare nel rigetto della soluzione “due popoli due Stati”, che cancella formalmente gli accordi di Oslo e di cui il permanente sostegno elettorale a una maggioranza di estrema destra è soltanto il coronamento. Inoltre, questa maggioranza parlamentare non fa che implementare il passaggio, sancito con atto costituzionale, di Israele da Stato ebraico e democratico (1948) a Stato ebraico (2018). A oggi i processi di radicalizzazione si intensificano, grazie anche allo sfacciato sostegno trumpiano, e si ha l’impressione che, nonostante il succedersi di importanti manifestazioni della società civile israeliana (che peraltro solo in forma minoritaria investono la condizione dei gazawi), tale deriva sia nel breve e medio periodo irreversibile e che si prospetti più una lenta emigrazione degli scontenti che uno scontro aperto fra tendenze. L’immediato futuro è fatto di finte trattative e stragi raddoppiate a Gaza, espropri e annessioni in Cisgiordania, stillicidio di attentati fai-da-te e rappresaglie in Israele, omicidi mirati all’interno e all’estero. PERCHÉ È UN PASSO DECISO IN AVANTI L’iniziativa della Sumud Flotilla allude per la prima volta, in questa fase, a un’interposizione o comunque a un coinvolgimento internazionale che sarebbe legittimo in caso di attacco piratesco israeliano in mare aperto ma anche lungo le coste di Gaza, che non è superficie acquatica israeliana de iure malgrado l’occupazione illegale de facto. Di ben altro che di tutela diplomatica o consolare si tratterebbe, qualora, come già è cominciato con il drone a Sidi Bou Said, le Idf tramutassero in azioni offensive le minacce di Ben Gvir contro i “terroristi” della Flotilla. La stessa Commissione Ue critica l’iniziativa umanitaria come escalation proprio perché teme di doversi far carico delle spropositate reazioni israeliane che smaschererebbero tutta la politica pilatesca di alcuni Stati e della Commissione del suo complesso. Adesso all’ordine del giorno è una tutela militare della libertà di navigazione nel Mediterraneo da parte degli Stati sovrani rivieraschi e di quelli cui appartengono gli equipaggi. Ma un compito primario spetta al c.d. “equipaggio di terra”, cioè alle forze che sostengono la Flotilla in mare e che hanno già minacciato (come i camalli di Genova) il blocco dei porti in caso di operazioni terroristiche di Israele – ciò vale tanto più per l’Italia, il cui governo, a differenza dalla Spagna, non ha preso nessuna iniziativa di boicottaggio o sanzione e dove quindi si è aperto un problema di supplenza dal basso. > Avremo anche noi nei prossimi giorni un bloquons tout! come in Francia, se la > situazione dovesse precipitare – e tutto lo lascia pensare. LE REAZIONI MEDIATICHE Il disastro di immagine di Israele è stato colto perfino dal suo complice-in-chief Donald Trump e viene ogni giorno amplificato su alcune fogne a cielo aperto della stampa italiana – “Il Foglio”, “Libero” “Il Tempo”, ”Il Riformista” – mentre sempre più circospette sono diventate le Tv nazionali e le pagine molinariane di “Repubblica” (per non parlare dei pensosi silenzi di Paolo Mieli e dei tormenti interiori di Adriano Sofri). La corporazione dei giornalisti ha sentito sulla schiena il brivido dei troppi reporter assassinati e quelli che si finanziano con le vendite e la pubblicità qualche conto se lo saranno pur fatto, visto l’orientamento dell’opinione pubblica. Una bella frotta di ipocriti e di umanisti a scoppio ritardato cerca di issarsi (a parole) sulle navi della Flotilla, ma siano i benvenuti, come ogni omaggio che il vizio concede alla virtù – meglio tardi che mai e ci siamo pure divertiti a vedere quanti, esitando a saltare, sono scivolati in acqua dalla sdrucciolevole banchina… In tenace obbrobrio sopravvive la Sinistra per Israele che abbraccia le ragioni imperscrutabili del colonialismo sionista deplorando al massimo gli eccessi di Netanyahu e Ben Gvir. Perfino in un’area un tempo sovversiva abbiamo anche noi, diciamolo di sfuggita, i nostri “ragazzi delle colline”, invero più miei coetanei che non ragazzi. Poveri coglioni da social che d’inverno scherzavano sul “gelicidio” a Gaza e d’estate invocano gli dei degli uragani per affondare i “croceristi” della Flotilla, ma anche più sofisticati ideologhi che si lanciano in prolisse disquisizioni sulla perfetta composizione di classe dei movimenti sovversivi – la sempiterna tentazione di insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Oppure c’è chi contesta per impotente populismo la stessa indignazione spontanea per i misfatti degli oppressori, come Luca Sofri sul “Il Post”, che se la prende con il movimento pur così significativo e mondiale scaturito dall’opuscolo Indignez-vous del remoto 2011, insensibile perfino al fatto che il suo estensore, il 93-enne pubblicista ebreo Stéphane Hessel, fosse il figlio reale della coppia resa mitica come Jules e Catherine nel film di Truffaut Jules et Jim… FLUTTUAZIONI PERIODICHE Una volta spiegati i motivi razionali per cui è cresciuta in tutto il mondo l’indignazione e la protesta attiva di massa contro il genocidio israeliano (e perché il termine stesso di “genocidio” sia stato sdoganato, lasciando a combattere nella giungla il solo Galli della Loggia), una volta riconosciuto l’immenso lavoro da formichine che tutte e tutti noi abbiamo fatto – scrivendo, dibattendo sino alla sfinimento con ogni tendenza italiana e palestinese, documentando i soprusi e le uccisioni “sproporzionate”, i massacri e le pratiche di apartheid e pulizia etnica, gestendo le faticose e frustranti manifestazioni che, a differenza delle grandi capitali estere, si allargavano dalle mille alle 10.000 persone (e facevano festa) –, messo in conto l’effetto amplificatore dell’arroganza sionista e dei filo-sionisti, il sostegno controproducente di Trump con la grottesca operazione Riviera di Gaza e la sostituzione stragista e inefficiente della Gaza Humanitarian Foundation alle espulse agenzie Onu, scontato tutto questo e il consenso alla causa palestinese alimentato nel mondo cattolico dai gesti profetici di papa Bergoglio, non ritrattati dal suo successore, resta una domanda: perché proprio ora, quasi tutto d’un colpo, è diventato arduo sul piano morale e mediatico non dirsi pro-Pal e non agitare la bandiera rosso-verde-nera? Con tutti gli opportunisti e gli istrioni al seguito, grazie comunque e ancora. > Una risposta del tutto razionale non c’è, però altre volte ho visto fenomeni > simili, ondate internazionali più o meno estese, più o meno legate a momenti > di crisi sociale ed espressive di interessi di classe. È successo nel 1960 simultaneamente in Italia, Turchia, Giappone e Corea del sud, si è ripetuto su scala planetaria nel 1966 nei campus statunitensi e subito dopo in tutta Europa e in Cina, con lunghi strascichi e rimbalzi negli anni ’70. Abbiamo poi (solo in Italia) il movimento chiamato della Pantera (1989-1990), l’ondata mondiale no global di fine millennio, con gli episodi salienti di Seattle e Genova, e, dopo la dura repressione, ancora una stagione di lotte fra il 2008 e il 2011, che si salda alla fine con gli Indignados, Occupy Wall Street e primavere arabe, e confluisce con una seconda stagione del movimento femminista. Un andamento carsico, di volta in volta con motivazioni precise, con innovazioni strumentali decisive (il ciclostile – angeli inclusi -, le radio libere, il fax, il primo embrionale uso di Internet, Indymedia, i social), successi e sconfitte, e tuttavia resta una zona d’ombra nel capire il quando e il perché, il rapporto fra esplosione e durata, fra cause spesso limitate ed effetti strepitosi, eterogeneità di motivazioni e legame molto fluido con la composizione di classe che risultava invece evidente fra il 1960 e il 1978. Di qui le farneticazioni sulla deriva woke e il rimpianto della limpida struttura classista delle insorgenze novecentesche. Mais où sont les neiges d’antan, ovvero ginocchia, fiato e ormoni di allora? L’unica spiegazione plausibile è un periodico ricambio di generazioni, che riaccendono le lotte cambiandone composizione di genere, aspirazioni e pratiche e smaltendone come scorie nostalgia e reducismo. Tuttavia la carsicità e l’incertezza sulle cause scatenanti non tolgono il fatto essenziale. Che queste fratture tumultuarie periodiche sono “occasioni” che vanno colte al volo e, per quanto possibile, gestite, sedimentate in soggettività temporanee. Il movimento non può suscitare a piacere le rotture congiunturali, ma si costituisce nella misura in cui riesce ad afferrarle e organizzarle, garantendone tenuta ed efficacia. Ebbene, l’ondata pro-Pal si presenta con questi caratteri di sorpresa e irruenza, accompagnandosi ad altre tematiche conflittuali non direttamente connesse con la lotta anti-imperialistica e anti-coloniale. Basti vedere l’ampiezza che ha preso la difesa dei centri sociali dopo la provocazione milanese sul Leoncavallo. E non dubito che altri episodi ci saranno, con l’imminente riapertura delle scuole e la crisi economica che scuote l’Europa e su cui al momento galleggia la nostra stagnazione. Tira un buon vento e disporre bene le vele è affar nostro! questo articoo è stato pubblicato su Dinamo Press il 10 settembre 2025 L'articolo Sumud, ora e sempre proviene da EuroNomade.
Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna
di GIROLAMO DE MICHELE. Il 10 agosto scorso il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti più noti delle corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato insieme ad altri cinque operatori dell’informazione. Al-Sharif sapeva di essere da tempo nel mirino dell’esercito di occupazione israeliano. Nondimeno, come molti suoi colleghi e colleghe – Anna Politkovskaya, Giancarlo Siani, Pippo Fava, Mauro De Mauro, Simone Camilli, Maria Grazia Cutuli, Daphne Caruana Galizia, Veronica Guerin, Peppino Impastato, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Mauro Rostagno – ha continuato fino all’ultimo la sua battaglia per la verità, con le armi di cui disponeva: una telecamera, un microfono, i suoi occhi e la sua voce. L’IDF dispone di droni in grado di colpire un singolo bersaglio: la ditta costruttrice Rafael Advanced Systems ha usato la ripresa di un assassinio mirato come spot pubblicitario (e Youtube non chiede la verifica della maggiore età per vederlo). Nondimeno, l’IDF ha scelto di colpire l’intero ufficio stampa di al Jazeera, situato in una tenda presso un ospedale. La strage di giornalisti è avvenuta al culmine di una sequenza che è difficile pensare dettata dal caso. Dapprima, 28 luglio, l’assassinio a sangue freddo dell’attivista Awdah Athaleen, che aveva partecipato al documentario vincitore del premio Oscar No Other Land. Il giorno dopo, il tentativo da parte di un colono armato di impedire il reportage alla squadra del TG3. Quel giorno Lucia Goracci ha dato una lezione di giornalismo svolgendo imperterrita il suo lavoro avendo davanti il colono armato su un pickup a motore accceso (qui, dal minuto 8:25). Ma l’amaro commento che ha consegnato al suo post – «a me vengono in mente le parole con cui Michele Santoro commentò la morte di Libero Grassi, che era stato ospite suo a Samarcanda: “mi ero illuso che illuminare la battaglia di Libero, gli avrebbe fatto uno scudo intorno”» – lasciava presagire il peggio. Infine, registrata l’indifferenza dei governi “democratici” e “occidentali” davanti alle violazioni della libertà di stampa, l’IDF ha svolto il compito assegnato con la strage di sei operatori dell’informazione. La mafia, facendo tesoro di un metodo praticato da Italo Balbo, ha più volte accompagnato esecuzioni “eccellenti” con la diffusione di dicerie, il più delle volte a sfondo sessuale, sulle vittime. Con pari, se non maggiore, indegnità morale lo Stato d’Israele ha giustificato la strage del 10 agosto con la pretesa militanza di al-Sharif nelle file di Hamas. Questa diceria è stata rigettata dalla BBC – «La BBC non può verificare in modo indipendente questi documenti e non ha visto prove del coinvolgimento di Sharif nella guerra attuale o del fatto che rimanga un membro attivo di Hamas» – e da Newsweek – «Newsweek non è stata in grado di verificare in modo indipendente i documenti e le fotografie forniti dalle IDF né il loro contenuto» –, oltreché dall’United Nations Office of the High Commission on Human Rights (OHCHR), dal Committee to Protect Journalists (CPJ), dalla Foreign Press Association e da Reporters Sans Frontières. Le accuse israeliane sono state definite baseless, infondate, e flimsy, inconsistenti. Peraltro, va tenuto presente che il diritto internazionale in operazioni di guerra divide la popolazione civile in due categorie: i combattenti impegnati in operazioni militari, e i non combattenti; solo i primi sono bersagli legittimi, non i secondi, men che meno i giornalisti impegnati nel lavoro di informazione. Quale che fosse il suo status, al-Sharif, in base alle norme di diritto internazionale non era un bersaglio lecito. La dichiarazione dell’IDF «Una tessera stampa non è uno scudo per terroristi» è una cinica dichiarazione di guerra al diritto internazionale e alla libertà di informazione. Ce la meniamo tanto con «l’unica democrazia in Medio Oriente»: ebbene, per essere una democrazia non basta mettersi il grembiulino del bravo cittadino e andare a depositare una scheda nell’urna ogni tot anni. Una democrazia rispetta il diritto internazionale, e se non lo rispetta non lo è. Le due cose non sono compatibili. Potrebbe bastare. Nondimeno, un fact-checking sull’assassinio di al-Sharif è istruttivo. Non tanto per “riabilitare” un combattente per la libertà della sua terra con le armi dell’informazione, quanto per mostrare le strategie della menzogna istituzionalizzata del governo e dell’esercito israeliani. E anche per sfatare qualcuna delle bufale che si generano da sé per disattenzione o distrazione. Non servirà a convincere i negazionisti – che probabilmente non sono arrivati fino a questo punto nel leggere, e sono già a commentare sui loro social–, ma aiuterà a forgiare nuove armi per una battaglia che sarà di lunga durata. DUE PREMESSE E UNA BIOGRAFIA (ANZI, SEI) In primo luogo, le fonti. Per questa inchiesta mi sono servito dei fact-checking di Snopes, il più noto sito del settore; inoltre, di articoli di fact-checking della BBC [1 – 2], di Newsweek, di Reporters Sans Frontières, e soprattutto del giornale israeliano +972 Magazine, che sta svolgendo, spesso in collegamento col quotidiano israeliano Haaretz, un formidabile lavoro di inchiesta sui crimini commessi dall’esercito israeliano. Una di queste inchieste di +972 – «”Legitimization Cell”: Israeli unit tasked with linking Gaza journalists to Hamas» – ha portato alla luce ciò che in molti pensavamo dovesse esistere: la creazione di una unità speciale dell’esercito incaricata di trovare collegamenti fra i giornalisti di Gaza e Hamas, costi quel che costi, anche attraverso «questionable claims» [affermazioni discutibili], per poter legittimare l’assassinio dei giornalisti. «L’obiettivo era semplicemente trovare il maggior numero possibile di materiali per sostenere l’impegno nell’hasbara», scrive +972. Hasbara significa «spiegazione»: nell’uso che stiamo esaminando, il termine è risemantizzato in «propaganda». Un esempio di queste affermazioni sospette è l’esplosione all’ospedale al-Ahli il 23 ottobre 2023, che ha causato centinaia di vittime. L’IDF l’ha attribuita al malfunzionamento di un razzo di Hamas, che avrebbe usato l’ospedale come base di lancio. Una successiva inchiesta indipendente del febbraio 2024 ha stabilito che l’esplosione filmata pochi secondi prima era stata causata dallo stesso Drone Interceptor che riprendeva la scena. Un secondo caso è l’assassinio del giornalista di al-Jazeera Hamza Al-Dahdouh, assieme all’operatore video Mustafa Thuraya a Khan Younis nel gennaio 2024. L’accusa di star effettuando riprese con un drone – cosa che a dire dell’IDF giustificava la loro esecuzione – è stata confutata da una successiva inchiesta del Washington Post. E ancora, la falsa accusa di essere un operativo di Hamas rivolta al giornalista Ismail al- Ghouls, uno dei più stretti collaboratori di al-Sharif, decapitato da un proiettile scagliato da un drone nel giugno 2024 – ma di questo parlerò più avanti. Vediamo adesso chi era Anas al-Sharif. Al contrario di ciò che si è letto, non era uno sconosciuto inopinatamente ingaggiato da al-Jazeera subito dopo il 7 ottobre 2023. Al-Sharif il mestiere di giornalista lo aveva nel sangue: aveva una laurea in comunicazione all’Università di al-Aqsa, e una specializzazione in radio e televisione. Dopo un apprendistato all’Al-Shamal Media Network, era stato assunto da al-Jazeera. Quest’ultima, sia detto una volta per tutte, è un’emittente televisiva internazionale, la cui professionalità non può essere misurata sulla base dei pizzini letti dai generali dell’IDF o dal governo israeliano. È un’emittente araba, dunque… Una critica del genere ha lo stesso valore dei titoli del Vernacoliere sui pisani – salvo che al Vernacoliere sanno di fare satira, non antropologia criminale della toscanità. Al tempo stesso, Al-Sharif era entrato a far parte della squadra dell’agenzia Reuters, partecipando alla copertura della guerra con la quale la Reuters ha vinto il Premio Pulitzer 2024 nella categoria Breaking News Photography. La sua notorietà era costata la vita a suo padre Jamal, assassinato nel bombardamento della casa di al-Sharif nel campo profughi di Jabalia il 6 dicembre 2023, nel corso di una vasta offensiva dell’IDF contro le abitazioni delle famiglie dei giornalisti gazawi, fra il novembre e il dicembre 2023. Al-Sharif aveva una moglie e due figli. La sua visione politica coincideva col suo mestiere; in ogni caso, aveva più volte espresso critiche ad Hamas, definendo il lancio di missili «un comportamento sconsiderato sia sul piano morale che su quello dell’interesse nazionale» (3 aprile 2025), e chiedendo ad Hamas di accettare il cessate il fuoco anche al prezzo della liberazione di tutti gli ostaggi: nel dicembre 2024, con un vocale, e nel luglio 2025. Ultimo dettaglio: come testimoniato dal post del giornalista e anchorman Amit Segal, uno dei più importanti nomi della televisione israeliana, al-Sharif era stato arrestato durante il primo assedio e bombardamento dello Shifa Hospital, il 15 novembre 2023, interrogato, e poi rilasciato. Teniamo a mente questo evento. Piccola digressione: l’ospedale al-Shifa fu attaccato con la motivazione che nei suoi sotterranei ci sarebbe stato un centro di comando di Hamas. L’accusa di un uso improprio dell’ospedale, compresi i tunnel sottostanti – alcuni dei quali di costruzione israeliana – è stata smentita da Amnesty International, che operava ad al-Shifa dal 2015: > «Amnesty International non ha prove che indichino che l’ospedale al-Shifa sia > stato utilizzato per scopi diversi dal trattamento dei pazienti durante > l’attuale conflitto del 2023. Amnesty International non ha finora visto alcuna > prova credibile a sostegno dell’affermazione di Israele secondo cui al-Shifa > ospita un centro di comando militare; al tempo stesso, Israele ha > ripetutamente fallito nel produrre qualsiasi prova a sostegno di questa > affermazione, che ha messo in circolazione almeno dai tempi dell’Operazione > Piombo Fuso 2008-2009». Ulteriori smentite dalla stampa internazionale, uno per tutti il Guardian: > «Israele ha ripetutamene affermato che Hamas operava da un comando e centro di > controllo all’interno di tunnel vicini all’ospedale e sotto di esso, benché > gli elementi forniti sinora siano lungi dal provarlo». Ma ricordiamo anche gli altri cinque operatori dell’informazione uccisi il 10 agosto. Mohammed Qreiqeh, 33 anni e padre di due figli, copriva le operazioni militari nel nord. Sua madre era stata uccisa nel secondo bombardamento dell’ospedale di al-Shifa nel marzo 2024, suo fratello nel bombardamento di Gaza City nel marzo 2025. Il cameraman Ibrahim Zaher, 25 anni, veniva anche lui, come al-Sharif, dal campo profughi di Jabilia. Oltre che come giornalista, svolgeva attività di volontariato nei servizi sanitari. Anche Mohammed Noufal veniva da Jabilia. Aveva perso nei bombardamenti dei primi giorni la madre e un fratello. Il cameraman freelance Moamen Aliwa, laureato in ingegneria, svolgeva la sua attività di giornalista attraverso Instagram, come pure il freelance Mohammed al-Khaldi. Il suo ultimo video, una settimana prima del suo assassinio, mostrava una bambina di otto anni in pericolo di vita per l’inedia. Non esiste, neanche inventata, alcuna evidenza di un collegamento di questi giornalisti con Hamas. Come non ne esistevano per il giornalista Yasser Murtaja, assassinato da un cecchino dell’IDF il 6 aprile 2018. Il suo legame operativo con Hamas risultò essere il suo arresto e la sua detenzione nelle carceri di Gaza! L’inchiesta aperta dall’IDF sul caso è rimasta a lettera morta, come sempre accade. QUALI PROVE ESISTONO DI UNA RELAZIONE FRA AL-SHARIF E IL BRACCIO MILITARE DI HAMAS? L’IDF, tramite il suo account su X e il suo portavoce Avichai Adraee, ha sostenuto l’esistenza di documenti comprovanti la militanza operativa di al-Sharif nel braccio armato di Hamas. Adraee possiamo ignorarlo: il suo post ha come prova un suo post precedente nel quale, nell’ottobre 2024, lanciava le stesse accuse senza fornire prove del fatto che al-Sharif intendesse «fare carriera dentro Hamas» con la sua attività giornalistica. Ci si chiede come, invece, si faccia carriera dentro l’IDF – ma che te lo dico a fare? Le “prove” fornite, o fatte circolare, dall’IDF si dividono in tre sottocategorie: tre documenti provenienti «da un computer di Hamas nella striscia di Gaza»; un post di al-Sharif su Telegram del 7 ottobre 2023; alcune foto provenienti dal canale Telegram di al-Sharif. Andiamo per ordine. I TRE DOCUMENTI L’IDF non ha mai consentito ad alcuna verifica indipendente su questi pretesi documenti, non li ha mai mostrati in originale alla stampa, ha risposto negativamente a qualsivoglia richiesta di chiarimenti, non ha mai fornito indicazioni su questo preteso computer nel quale erano archiviati documenti concernenti gli affettivi di Hamas. Sempre in nome di quell’essere «l’unica democrazia del Medio Oriente». In democrazia vige la presunzione di non colpevolezza, è l’accusa a dover fornire le prove di eventuali crimini. «È così perché lo dico io» può valere nella Fattoria degli animali (ma Napoleon aveva più classe), non in una democrazia. Aggiungo che l’IDF avrebbe avuto tutto l’interesse a dimostrare l’autenticità di questi “documenti”: come minimo, avrebbe messo due testate informative importanti come al-Jazeera e Reuters in condizione di dover sospendere il loro rapporto con al-Sharif. Reporters sans Frontières ha interpellato due studiosi, esperti di storia di Hamas, come consulenti, su questi screenshot spacciati come prove: «Per quanto riguarda l’autenticità del documento, uno degli esperti ha dichiarato di non aver mai visto un elenco simile nella storia della sua ricerca su Hamas.» Andiamo però a vedere cosa dicono questi tre fogli. Il primo, datato 2023, è una lista di combattenti «suspended» e «unassigned», nel quale al-Sharif risulta essere stato ferito in un’esplosione, e per effetto delle ferite invalidanti sofferente di «udito estremamente debole nell’orecchio sinistro, vista debole, e costanti emicranie e mal di testa». Il secondo lo descrive come «group leader», e riporta la data del suo 17esimo compleanno come giorno del suo arruolamento (dal 2013 al 2017). Il terzo lo dichiara membro dell’unità Nukhba, la punta di diamante delle Brigate al-Qassam (una specie di Battaglione San Marco di Hamas). Ebbene, queste informazioni si contraddicono e sono incoerenti: il reclutamento in Hamas avviene non prima del conseguimento della maggiore età (18 anni) e due anni più tardi nel corpo d’elite Nukhba (come testimoniano gli esperti militari interpellati da RSF), e solo dopo anni di addestramento operativo, che al-Sharif non poteva avere, essendo stato – stando alle “fonti” – messo in disarmo per un’invalidità acquisita nel 2017. È un caso isolato? No: le stesse fonti registravano l’ingresso nell’unità Nukhba di Ismail al-Ghouls, giornalista amico di al-Sharif, nel 2010, quando al-Ghouls aveva 10 anni; salvo, in un altro documento, fornire la data del 2017 per il suo reclutamento in Hamas – contraddittoria con la prima, e comunque al di sotto dei 18 anni. Peraltro, nel marzo 2024 al-Ghouls era stato arrestato e interrogato: se esistevano prove della sua militanza in Hamas, perché era stato rilasciato? La stessa domanda, com’è ovvio, vale per al-Sharif. Resta che al-Sharif è stato un giornalista a tempo pieno. Lo diciamo con le parole del veterano della stampa statunitense Ryan Grim: > «L’idea che qualcuno si spacci per giornalista facendo reportage in diretta > tutto il giorno, tutti i giorni, per due anni di fila – ma in realtà sia > segretamente un terrorista (in quali momenti??) – è così stupida che dimostra > quanto potere Israele crede di avere. Il pretesto per assassinare un > giornalista noto a livello mondiale non deve nemmeno avere senso. Non importa > quel che dicono: possono uccidere con impunità e lo sanno». IL MESSAGGIO SU TELEGRAM Alla morte di al-Sharif è comparso un messaggio dal suo canale Telegram, nel quale il giornalista, alle 14.49 del 7 ottobre, avrebbe esultato per ed elogiato «gli eroi» che dopo nove ore – ma in realtà sono otto… – stavano ancora «scorrazzando e catturando» israeliani. Questo messaggio, di per sé, non dimostrerebbe alcunché rispetto alle attività di al-Sharif: al più, è l’espressione di uno stato d’animo, criticabile o meno. Ma il messaggio è stato messo in forte sospetto, perché non figura nella cronologia, e perché è incoerente con la sequenza dei messaggi che al-Sharif lanciava dalla sua pagina social. David Puente ha rintracciato nella Wayback Machine un salvataggio di questo messaggio datato 27 novembre 2023. Attenzione: Puente non ha dimostrato che il messaggio è autentico, cioè proveniente dal dispositivo di al-Sharif: ha dimostrato che questo messaggio è stato salvato cinquanta giorni dopo. La precisazione è importante, perché, come si è scoperto con il caso del software spia Graphite di produzione israeliana installato – ancora non sappiamo ad opera di chi – nei telefonini degli esponenti di Mediterranea Luca Casarini, Beppe Caccia, don Mattia Ferrari e del giornalista di Fanpage Francesco Cancellato, l’esercito israeliano possiede un software in grado di introdursi nel sistema operativo e agire in proprio, inviando messaggi dalle pagine social degli utenti a loro insaputa, oltre che di attivare la telecamera. Va aggiunto che due settimane prima di quel salvataggio del 27 novembre al-Sharif e il suo telefonino erano in mano militare israeliana, come abbiamo visto. Per di più, quando al-Sharif avrebbe messaggiato, quel che si sapeva dell’attacco del 7 ottobre non sembrava motivo di eccessivo entusiasmo. In quel momento – si veda la prima pagina di Le Monde alle ore 15 – le notizie parlavano di 70 vittime israeliane, e già 198 palestinesi per la rappresaglia immediata, e di rapimenti ancora non si aveva notizia. Ma facciamo un esperimento mentale: ipotizziamo che il messaggio sia autentico, che sia stato davvero lanciato da al-Sharif, e che questi lo abbia poi maldestramente cancellato. Dico maldestramente, perché non è vero che nulla si cancella dalla rete: se uno sa come fare – e al-Sharif aveva una laurea e una specializzazione nell’uso dei media – un file scompare per davvero. Provate a cercare in rete il famoso “file dblab” contenente i nomi degli atleti partecipi alla “cura Conconi”, che pure per qualche tempo è stato presente in rete… Abbiamo dunque un militante entusiasta e parecchio preveggente, che però attende ben 8 ore – ma sbaglia a leggere l’ora e ne dichiara 9 – prima di lanciare un unico messaggio, che a quanto pare nessuno si fila, a dispetto di una certa notorietà come mediattivista del suo autore. A metà novembre, poi, al-Sharif è fermato e interrogato, ma i suoi inquisitori non si accorgono di questo messaggio – che però, il 27 novembre 2023, viene rilanciato su una pagina web, ed è per questo che il Web Archive lo “cattura”. Nei 17 mesi successivi al-Sharif diventa sempre più popolare, ma il suo messaggio viene rilanciato solo altre due volte: lo screenshot di David Puente mostra infatti che al 6 aprile 2025 ci sono solo tre salvataggi. Fate voi… I SELFIE CON SINWAR Nella pagina Telegram di al-Sharif ci sono alcune sue foto del 2021 con dirigenti di Hamas, fra i quali Yahya Sinwar. Almeno due di queste foto sono come minimo sospette, ma non mi impelagherò in questa discussione: diciamo che sono tutte autentiche. Il fatto è che farsi un selfie con un dirigente di Hamas, soprattutto con il suo dirigente Sinwar, era cosa tutt’altro che rara. Molti giornalisti più noti e importanti di al-Sharif lo hanno fatto. Ne cito una: la cronista di guerra freelance Francesca Borri, che alla morte di Sinwar ha scritto un post rielaborando la sua intervista al dirigente di Hamas del 2018, corredando il testo con la sua foto accanto al capo di Hamas – senza che, com’è giusto peraltro, alcuno abbia eccepito alcunché su questa foto. Le ragioni sono banali, a conoscere il contesto. In primo luogo, Sinwar è oggi il feroce pianificatore del pogrom del 7 ottobre, incarnazione del Male Assoluto o giù di lì, ma nel 2021 era il dirigente di Hamas col quale Israele credeva di aver più o meno raggiunto una sorta di tacito accordo di non belligeranza reciproca. In secondo luogo, a Gaza, dove prima del 7 ottobre il tasso di disoccupazione sfiorava il 50%, con una punta del 70% fra i giovani laureati, l’informazione era una delle poche merci che potevano essere prodotte e avevano un mercato internazionale, e quella di reporter forse l’unica strada professionale percorribile. Al-Sharif, lo abbiamo visto, era arrivato prima dei trent’anni alla Reuters, altri all’Associated Press o ad altre grandi agenzie. Il che implicava una forte concorrenza e la necessità di garantire la veridicità del prodotto, fosse un’intervista o un reportage. Il selfie alla fine dell’evento era una sorta di certificazione di autenticità, e non a caso tutte le foto in questione sono scattate in luoghi pubblici. LA FOTO DEL SOLDATO MORTO C’è un post del 26 ottobre 2023 in cui, sotto la foto di un soldato israeliano morto – non «un israeliano»: un soldato israeliano – al-Sharif ha o avrebbe scritto: «Ogni volta che ti senti giù di morale, ricordati che li abbiamo colpiti in testa nei loro siti militari». Sempre ricordando che un mese dopo il telefonino del giornalista era nelle mani dell’IDF – posto che l’IDF abbia avuto bisogno del device per entrare nella sua pagina Telegram –, anche in questo caso assumiamo il post come autentico. Cosa ci racconta questo testo combinato con questa foto? Che, mentre l’aviazione israeliana martellava Gaza e l’esercito preparava l’invasione, al-Sharif, con un linguaggio crudo, diceva a se stesso e ai suoi lettori che i nemici non sono invincibili. La durezza del messaggio può disgustare i delicati stomaci europeo-occidentali? Probabile: ma l’economia morale dei sottomessi e degli sfruttati non si misura con le categorie morali degli sfruttatori e degli oppressori. Resta che, accettabile o meno questo sfogo di rabbia, foss’anche di odio, esso attesta null’altro che questo: che qualcuno ha provato un sentimento di rabbia e di odio, motivato soggettivamente da una storia di oppressione, sfruttamento, miseria, colonizzazione. Un sentimento, o un’emozione. Non un fatto, un evento, un’azione. Se ogni singolo post dei vostri social fosse convertito in prova di un’azione delittuosa, dove andremmo a finire? L’omofobo che si augurava che l’ISIS colpisse gli intellettuali omosessuali europei dovrebbe per questo essere inquisito come membro della rete di fiancheggiamento del terrorismo islamico? Gli stronzi che fecero battute all’indomani della strage in discoteca a Corinaldo, sulla giusta punizione capitata a chi ascolta la musica trap dovrebbero essere indagati come possibile complici dell’evasione di uno dei membri della banda del peperoncino responsabile del panico che causò la strage? Uno dei più noti giornalisti uccisi dalla mafia aveva militato in gioventù nella X Mas. Ci fossero stati i telefonini, avremmo forse trovato qualche suo discutibile post commemorativo del 28 aprile, e di sicuro Luciano Liggio ci avrebbe sguazzato. Giusto per capire a quale livello ci si colloca quando si identifica un post con una vita e un essere umano, e si emettono sentenze. POSTILLA LOCALE (ANZI, NO): AL-SHARIF, BASSANI E I FUCILATI DEL 15 NOVEMBRE 1943 È successa, a Ferrara, una tempesta in un bicchier d’acqua. Alla morte di al-Sharif, alcuni membri di un collettivo, palestinesi e italiani, ragazze e ragazzi, hanno apposto la foto del giornalista accanto alle lapidi che commemorano le vittime delle fucilazioni del 15 novembre 1943, immortalate dai testi di Giorgio Bassani e Piero Calamandrei, e dal film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43. Il film di Vancini sull’eccidio del Castello di Ferrara, tratto dal racconto di Bassani Una notte del ’43, è su Raiplay. Apriti cielo! Leso antifascismo, lesa bassanianità. Calamandrei non pervenuto, pazienza. I giovani in questione si erano già fatti notare per alcune azioni “eclatanti” (siamo in provincia, ci si emoziona per un nonnulla): una contestazione in consiglio comunale, un manichino raffigurante Netanyahu impiccato (come Eichmann: genocida per genocida) e un paio di fumogeni accesi durante le manifestazioni. Insomma, non è volato un sasso, non è stato infranto un vetro, non s’è fatto male nessuno, tranne il sottoscritto, che è riuscito a scottarsi la mano con la cera in una fiaccolata, ma vabbé. Però al bon ton di tanti questi gesti paiono eccessivi: alcuni, fieramente colonialisti nella propria prigione mentale, pretendono di insegnare l’educazione occidentale ai barbari del sud del Mediterraneo; altri, afflitti dalla sindrome del colonnello Buendía, dall’alto delle loro 32 rivoluzioni perdute ritengono di dover spiegare ai palestinesi come si deve comportare un palestinese. Nel frattempo gli studiosi di Bassani tacciono, impegnati in ben altre contese: divisi in due schiere fieramente avverse, stanno da anni disputando se il capolavoro di Bassani sia Il giardino dei Finzi Contini o Dietro la porta. Roba seria, nella città in cui gli eredi del fascista Carlo Aretusi detto «Sciagura» sono al governo. Non è mio costume dire ad altri quel che è giusto fare o non fare, mi limito a due osservazioni bassaniane. ■ Nelle Cinque storie ferraresi, oltre alla narrazione della notte del ’43, c’è la storia di un rompicoglioni, Geo Jotz, tornato a Ferrara dai lager, unico sopravvissuto, che si aggira per la città con fare molesto, disturbando con la sua condotta, il suo abbigliamento, il suo dire una città che vorrebbe finalmente trovare pace e, magari, dimenticare. Nel suo piccolo, un velato omaggio a La peste di Camus, così come Una notte del ’43 è un omaggio a La fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya. Ecco: quelle ragazze e ragazzi che rompono i coglioni e disturbano la quiete pubblica fanno proprio ciò che faceva Geo Jotz. ■ Nel racconto sulle fucilazioni del 15 novembre 1943 non ci sono solo i fucilati. C’è il già citato fascista Aretusi, personaggio tutt’altro che immaginario, che non ha le spalle al muro, ma che il muro dei fucilati lo guarda di fronte; e c’è il farmacista Pino Barilari, che guarda la scena dall’alto della sua finestra senza intervenire, per viltà. Alcuni di quei fucilati – e in senso lato tutti – si battevano contro un governo illegittimo, fascista e colonialista. Proprio come Anas al-Sharif, che ha combattuto con le armi della verità contro un governo illegittimo, colonialista e fascista. Lo avevano già detto Primo Levi, Hannah Arendt, Albert Einstein che Menahem Begin, le sue pratiche e il partito che alla fine fondò, il Likud, erano fascisti, come fascista era il suo maestro Ze’ev Jabotinski e, oggi, il suo allievo Netanyahu. Dunque l’effigie di Anas al-Sharif sta bene con le spalle al muro e lo sguardo rivolto a chi passa dal corso. C’è da chiedersi, piuttosto, chi sia oggi al posto di Carlo Aretusi, e chi di Pino Barilari. questo testo è stato pubblicato su Giap il 20 agosto 2025 L'articolo Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna proviene da EuroNomade.
Milano: architettura e urbanistica nella crisi della democrazia
di MARCO ASSENNATO. Il caso Milano potrebbe essere occasione preziosa per aprire un dibattito sull’avvenire delle grandi aree metropolitane e, più in generale, potrebbe funzionare come esperimento mentale per immaginare innovative configurazioni del nesso tra sviluppo tecnologico, saperi specialistici e strategie politiche. Perché ciò accada, come è stato ampiamente notato, pare fondamentale tuttavia sgomberare il campo da falsi dibattiti, primo fra tutti quello che oppone gli alfieri del garantismo agli appassionati del tintinnar di manette. Sappiamo già, del resto, che il ginepraio polemico attorno alle scelte della Procura verrà ridimensionato da condanne certe per il conflitto di interessi e i vergognosi passaggi di danaro (diretti o indiretti) che coinvolgono alcuni protagonisti di questa vicenda; mentre ridotte saranno le responsabilità di chi si presenta come tecnico latore di consigli informati, poiché – giusto o sbagliato che sia – la familiarità, la commistione e la frequentazione tra esperti, amministratori e operatori economici non configura, di per sé, reato perseguibile dalla legge. E neppure lo è la scelta, tutta politica, di permettere il mancato pagamento di quote importanti degli oneri di urbanizzazione. Come sappiamo benissimo, altresì, che quanto avanza del discorso pubblico sulla cosiddetta cementificazione, sulla opportunità (o meno) delle torri e dei grattacieli, o su scelte stilistiche (alla moda o tradizionali), verrà presto rubricato, come merita, nella sezione “specchietti per le allodole” (o per gli allocchi) della memoria collettiva. A me pare che vi siano invece due livelli di fondamentale importanza in questa vicenda. Il primo, sul quale hanno già scritto – e benissimo – Ida Dominijanni, Rossella Marchini (su Dinamopress1 ), Alessandro Coppola (su Jacobin2 ) e Roberto D’Agostino (su il manifesto3 ), Elena Granata (su archphoto) ed al quale Effimera dedica un copioso dossier4 , riguarda la crisi dell’urbanistica. Il secondo, più raro nei commenti, concerne direttamente le pratiche architettoniche. Entrambe queste crisi, si badi bene, sono perfettamente generalizzabili a tutte le grandi aree metropolitane del globo e incrociano questioni decisive di ordine politico e democratico. Crisi dell’urbanistica Com’è ovvio lo spazio urbano, la metropoli, la città possono essere studiati, analizzati, compresi da diversi punti di vista e diverse possono essere le discipline implicate nella gestione e nella trasformazione dell’abitare umano associato. L’urbanistica è una disciplina specifica – una tra le tante – che ha una sua storia, peraltro assai recente, che non va confusa nel calderone indistinto e à la page, degli urban studies. Insomma non tutte le politiche urbane, né tutti i discorsi sulla città, sono (o richiedono) urbanistica. Credo valga ancora, a questo proposito, la lezione di Manfredo Tafuri5, secondo il quale l’urbanistica è, essenzialmente, una tecnica per la regolazione (e la limitazione) della speculazione edilizia e fondiaria. Non a caso essa nasce insieme alle teorie liberali conseguenti allo sviluppo capitalistico europeo di fine ottocento, successivo alla grande crisi del 1870 e all’avvio dell’industrializzazione tedesca. Sviluppo industriale e organizzazione produttiva della città necessitavano di liberare i terreni da vincoli feudali, da posizioni di rendita o vantaggi speculativi che potevano agire da freno allo sviluppo o minacciavano di deformarne le dinamiche. In tal senso la storia della cultura urbanistica moderna segue (e spesso anticipa e promuove) ideologicamente i grandi principi liberali delle teorie del libero mercato perfetto (dei suoli), si riconfigura dentro i grandi squilibri di inizio del novecento e trova poi la sua forma matura, come pianificazione urbana e territoriale già prima della grande crisi del ’29 e delle teorie anticicliche di Lord Keynes. La posta in gioco della città pianificata – liberale e socialdemocratica, in Europa e USA, o comunista negli esperimenti sovietici del post ’17 – è tutta interna allo sviluppo della modernizzazione capitalistica, seppure essa vi si muove a differenti gradienti di critica. Dacché sarebbe stata una modernizzazione impossibile se non integrava stato e mercato, mettendo in equilibrio (ovvero facendo funzionare insieme) conflitti sociali e interessi privati. Hanno ragione, in tal senso, Dominijanni, Marchini, Coppola, Granata e D’Agostino, nel sottolineare il carattere generalmente “progressista” della cultura urbanistica, che può senza tema di smentita essere definita, come scriveva Giulio Carlo Argan in un testo seminale di fine degli anni ’50, «un capitolo della cultura riformistica europea»6 . Ora il caso Milano mostra all’attenzione pubblica ciò che sappiamo da almeno mezzo secolo: ovvero il completo smarrimento dell’urbanistica di fronte a dinamiche del capitale che di riformista non hanno più nulla e che si configurano, oggettivamente, come contraddittorie rispetto a qualsiasi forma di partecipazione, conflitto e decisione democratica. Qui dovremmo aprire il dibattito e chiederci con spirito del tutto disincantato: quale politica possiede la forza per sottrarre al connubio patologico tra amministrazione pubblica, fondi finanziari speculativi, attori immobiliari e expertise tecnocratica, la trasformazione delle grandi aree metropolitane e dei nostri territori? Basta, come ha suggerito Cristina Tajani sul Corriere del 31 luglio, far ricorso a strumenti di due diligence che permettano a Comuni e Municipi di scegliere attori finanziari «non fortemente speculativi» e disponibili ad agire su «prospettive meno redditizie a breve termine ma di lunga durata»7 ? O, ancora, sono sufficienti le pur ragionevoli e necessarie modifiche delle scelte sulla fiscalità, la sospensione dei regimi d’eccezione post-Expo su cui in molti ragionano, a proposito di Milano? A me pare che per evitare qui un dibattito altrettanto sterile che quelli oggi prevalenti sulla stampa italiana, occorra domandarsi quale soggettività politica, quale livello istituzionale, insomma chi può (chi ha sufficientemente forza per) «rallentare, selezionare e diversificare» (come invita a fare Alessandro Coppola) «la mobilità del capitale» e la sua riproduzione urbana? Possiamo limitarci a redarguire i gestori degli enti locali – il Comune e i suoi Municipi – per la loro mancanza di coraggio e ricordare agli amministratori il loro dovere di difesa dei pubblici diritti contro i privati interessi? O non è forse necessario chiedersi perché mai ciò non accada praticamente più? Ed avviare una ricerca, difficile, rigorosa ma possibile attorno a contropoteri efficaci e realistici rispetto alla delirante dinamica del capitale contemporaneo e delle sue politiche. La questione urbana, come ci hanno insegnato Henri Lefebvre, Manuel Castells e David Harvey, si dipana dentro alla generale contesa sulle forme della produzione, della circolazione e del consumo. Essa insomma intreccia le dinamiche della riproduzione sociale (il diritto all’abitare, alla salute, all’ambiente, al consumo etc.) e della funzione produttiva dello spazio. Quando diciamo crisi dell’urbanistica allora dobbiamo leggere: crisi del diritto, crisi della politica. Ma non basta fare appello a un generico Rechtswollen, e neppure temo sia sufficiente individuare, come è stato già egregiamente fatto, i gruppi sociali vincenti (finanza, ceti proprietari alti, ceti medi patrimonializzati) e chi perde (precariato cognitivo e migrante) nella città della rendita, e delle «tecnologie finanziarie avanzate», per uscire dalla miseria8 . Occorre piuttosto individuare i livelli istituzionali corretti (con tutta probabilità multiscalari), interrogare i movimenti di soggettivazione, i conflitti esistenti, pensare la politica oltre il privato e il pubblico, per costruire un progetto comune contro la metropoli dei Reit (Real Estate Investment Trust) e dei loro servitori. Parafrasando il titolo del bellissimo padiglione Austria della (per il resto assai volgare) Biennale di Architettura di Venezia 2025, occorre immaginare una nuova Agency for Better Living: uno spazio di negoziazione collettiva tra attivisti, movimenti per la casa, conflitti urbani diffusi, forme di sindacalizzazione delle grandi reti logistiche, amministrazioni pubbliche, architetti e urbanisti capace di darsi una strategia politica. In altri termini, mi pare che nessuna politica pubblica illuminata, top-down, nessuna nuova pianificazione, nessun appello riformistico, può reggere le sfide contemporanee, senza incontrare e lasciarsi attraversare dal corpo vivo delle moltitudini precarie, del lavoro cognitivo e migrante, dall’accumulo di esperienze bottom-up dei tanti spazi occupati, delle pratiche di riuso e solidarietà collettiva, di biodiversità urbana, di lotta antirazzista, che pure sono necessarie alla vita della metropoli biopolitica contemporanea. Ma ciò non può avvenire irenicamente. Voglio dire che non si tratta qui di un generico appello ad attivare forme di democrazia locale9 . La partecipazione civica, si sa, è sempre attraversata da segmenti di classe, frontiere proprietarie, enclosures e dispositivi di bando. Si tratta di fare irrompere la potenza democratica, la mésentente come la chiama Jacques Rancière10 , nel dibattito, di piegare e iscrivere la riflessione urbanistica all’interno dei conflitti che attraversano gli spazi metropolitani: così riscrivere la tecnica urbanistica con la politica e attrezzare il discorso politico di tecniche adeguate. Crisi dell’architettura? Qui, sono d’accordo con D’Agostino, incontriamo il secondo aspetto fondamentale della questione Milano: accanto alla crisi dell’urbanistica, la trasformazione neoliberale del fare architettura. Questo aspetto è praticamente escluso dalla discussione, se si fa eccezione per alcune considerazioni preziose di Emanuele Piccardo e Paolo Brescia. Eppure non è questione da specialisti quello dell’implicazione degli architetti, del loro argomentare oltre che del loro concretissimo operare, in questa brutta vicenda. E non è neppure una variabile, esterna al nostro discorso e tutto sommato marginale, quella dell’architettura. Questo è quanto non solo gli architetti implicati nell’affaire meneghino ma la grande maggioranza dei grandi nomi del mercato architettonico internazionale, vorrebbe far credere : c’è la politica; c’è una urbanistica sguarnita, di fronte ai veri stakeholders metropolitani, che sono i grandi asset finanziari; e poi c’è l’architetto che prova, come può e in questo contesto, a fare il suo mestiere. Politica, urbanistica, architettura: ciò è falsa coscienza. Sporca, stupida, incolta falsa coscienza. La serie logica corretta, in atti, per capire quanto accade sotto ai nostri occhi, non è : politica, urbanistica e architettura. Ma quest’altra : politica, architettura, urbanistica. L’architettura sta nel mezzo, come sapere, tecnica capace di tradurre in progetto, scelte politiche dentro allo spazio pubblico. Almeno ciò vale per tutta l’architettura seria, diciamo a partire dalla seconda rivoluzione industriale e di lì in avanti – insomma per tutta l’architettura cosiddetta contemporanea. La grande differenza tra architettura moderna (diciamo dal Rinascimento in avanti, per circa quattro secoli) e contemporanea sta tutta qui. La prima è disegno e costruzione di oggetti, che possono anche avere efficacia su scala urbana ma esistono tutto sommato in contraddizione con il costruito preesistente. Così nella Firenze del ‘400 il classico mangia la città gotica, poi le deformazioni manieriste dei comuni del centro Italia e il teatro barocco della Roma dei Papi, spiazzano il rigore classico prima di diffondersi nel nord Europa dando forma, indirettamente, alle nostre città storiche. Mentre la seconda, l’architettura contemporanea, è indissociabile dal tessuto metropolitano: l’architetto (almeno se fa buona architettura) non è un disegnatore di oggetti, ma un progettista il cui lavoro serve a tradurre materialmente l’organizzazione dello spazio urbano, le forme della produzione edilizia e le sue necessarie funzioni. Perciò la storia dell’architettura contemporanea non può in alcun modo essere dissociata da quella, sopra appena tratteggiata, dell’urbanistica. Che poi i grandi progetti del novecento avessero anche qualità plastiche o estetiche va letto come conseguenza e non come obiettivo primo della ricerca architettonica.  Intendiamoci: è vero che già Leon Battista Alberti pensava la città come una casa e la casa come una città. Ma la necessità di limitare o combattere gli effetti nefasti della rendita e della speculazione, la ricerca della migliore qualità per l’abitare di grandi masse, la riflessione sulla necessità di liberare suolo, garantire un equilibrio tra verde pubblico e ambiente costruito, la lotta contro la densità e la congestione urbana, la ricerca paziente, di tipo tecnico-costruttivo per innovare la produzione edilizia a grande scala sono tutte interne alla grande cultura architettonica contemporanea, a partire dai primi decenni del novecento . La innervano e ne costituiscono la ragion d’essere profonda. Come anche le latenze e le inesorabili contraddizioni tra progetto e grandi linee dei conflitti di classe.  Non a caso, persino quando si dice composizione o progettazione, è impossibile evitare di ragionare di tipologia, produzione in serie e distribuzione, usi e riorganizzazione civile alle diverse scale – come si diceva: dal cucchiaio all’insieme antropogeografico. Senza questa premessa non si capisce nulla di architettura contemporanea! Ciò vale anche a dispetto di quanto vanno blaterando a destra e a manca alcuni professionisti che possono vantare, a loro merito, una buona affermazione sul mercato della costruzione. L’argomento potrebbe anche dimostrarsi per paradosso. Cos’è stata la sbornia postmoderna, con il suo pagliaccesco correlato corteo di archi-star, se non un ripiegamento disperato della cultura architettonica nel disegno di oggetti, come risposta impotente al declino dell’urbanistica avviatosi a partire dalla metà degli anni ’70, ovvero in piena crisi dello Stato-Piano? L’architettura sta in mezzo, presa, strozzata, tra politica e urbanistica, non fuori da questa tenaglia. Altrimenti essa è inutile, quando non osceno, maquillage: alberelli appesi su balconi per 26 piani; contorsioni biomorfe per balbettare incestuosamente con l’algoritmo; muscolosi cavi d’acciaio per nascondere l’abisso di analfabetismo tecnico e costruttivo in cui sta precipitando una antica disciplina, sconvolta da una rivoluzione digitale della quale non riesce manco a cogliere la direzione di massima. Neppure migliorano le cose, quando l’architettura si chiude in sterili formalismi o quando si riduce ad Arcadia: l’autoreferenzialità va a braccetto con moralistici ritorni a passati immaginari, autarchie localistiche, identitari appelli al genius loci da svendere sul mercato al miglior offerente. Ma architettura non è nulla di tutto ciò! Pensiero della tecnica, sapere civile, servizio pubblico – da tradursi in forma, certo! Ma forma funzionale a una costruzione intelligente, ad una colta e rispettosa trasformazione dell’ambiente umano. Perciò l’architettura contemporanea nasce e si sviluppa, come l’urbanistica, contro la speculazione, la rendita, l’abuso del territorio comune. Non esiste nessun serio progetto di architettura la cui forma sia indifferente o autonoma dalla sua estensione civica e civile di massa. In altri termini: nessun architetto contemporaneo può pensare il progetto accanto o indipendentemente dal contesto politico e urbano (e quindi dai soggetti cui esso e rivolto, nella loro concreta composizione di classe), come fosse un orpello eventualmente disponibile, un surplus di qualità che qualche finanziatore illuminato o qualche amministratore amico, possono, indifferentemente, scegliere di far costruire o meno. Ha ragione Paolo Brescia, quando afferma che, nella vicenda milanese, «l’errore di fondo sta nel misurare il rapporto tra interesse privato e interesse pubblico in termini quantitativi (…). Se, invece, impostassimo il ragionamento in termini qualitativi, la vera domanda sarebbe: come una data operazione immobiliare contribuisce al “fare città”? Posta in questi termini, la discussione tra architetti, costruttori e amministratori si sposta sul campo dell’architettura urbana, invertendo il rapporto tra figura e sfondo, dove la figura che sta davanti è l’urbanità e lo sfondo che sta dietro è l’edificio»11 . Il grappolo di sgraziati oggetti che hanno rigenerato (sic.) settori importanti di Milano, dall’Expo in avanti, e il grumo di demenziali progetti che si apprestano a continuare il mercimonio del territorio comune della metropoli meneghina sono in fondo anch’essi espressione diretta, esatta e corretta di una politica. Proprio nella misura in cui incarnano la totale assenza (o la definitiva crisi) della cultura urbanistica e architettonica. I personaggi che li hanno firmati o ne portano la responsabilità, in tal senso, fanno bene a rivendicare il loro operato. Solo dovrebbero sapere che si tratta di una cattiva politica e di una pessima architettura, tanto impotente quanto roboante. Mentre sarebbe urgente che i settori più avanzati (ci sono e anche in Italia) della professione, dell’accademia e delle università, come anche le studentesse e gli studenti che affollano le aule delle tante facoltà di architettura tornassero a spezzare le matite (o chiudere i computer), per dare avvio a una nuova stagione di lotte, ripensare il fare progetto per la metropoli di domani. Di questo, la crisi milanese, può diventare una occasione importante. Non partiamo da zero. Una lunga storia preme alle nostre spalle e chiede di essere riscattata12 . Cade quest’anno il ventennale della scomparsa di Giancarlo De Carlo. Sarebbe forse utile rileggere i suoi scritti, meditare le sue parole. In un celebre libro-intervista egli affermava : «Noi credevamo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le aspettative degli individui e dei gruppi sociali, coi ritmi arcani della natura. Negavamo che lo scopo dell’architettura fosse di produrre oggetti e sostenevamo che il suo compito fondamentale fosse di accendere processi di trasformazione dell’ambiente fisico, capaci di contribuire al miglioramento della condizione umana»13 . Reliquia desiderantur. * Questo testo è stato pubblicato su archphoto. La foto è di Gregory Smirnov su Unsplash Note 1. https://www.dinamopress.it/news/milano-un-sistema-di-governo/ 2.  https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/ 3.  https://ilmanifesto.it/milano-e-le-altre-la-deriva-dellurbanistica 4.  https://effimera.org/ 5. Si veda in tal senso M. Tafuri, Progetto e Utopia, Laterza, Roma, 1974, ma poi anche tutte le pubblicazioni sulla pianificazione socialdemocratica, liberale e sovietica elaborate a IUAV tra anni Settanta e primi anni Ottanta. 6.  Cf. G. C. Argan, Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano, 1965. 7. Su questi aspetti concordo con quanto afferma Elena Granata, cf. https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-elena-granata/ 8.  Si veda ancora Coppola in https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/ e anche https://www.sciencespo.fr/ecole-urbaine/sites/sciencespo.fr.ecole-urbaine/files/Rapporthousinghopofin.pdf 9.Ha ragione, su questo, Alessandro Coppola quando, su Jacobin avverte che nella metropoli neoliberale «la democrazia locale è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari». 10. Cf. J. Rancière, La Mésentente. Politique et démocratie, Paris, Galilée, 1996. 11. Emanuele Piccardo. Intervista a Paolo Brescia, https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-paolo-brescia-obr/ 12. Si veda, per restare a Milano, quanto scrive Emanuele Piccardo: «Eppure Milano entra di diritto nella modernità con i maestri italiani del razionalismo che orientano il dibattito architettonico su Casabella e Domus. Il geniale Giò Ponti, grande intellettuale poliedrico dall’editoria all’architettura e al design, una figura unica nel panorama italiano a cui molti si sono ispirati ma senza un minimo avvicinamento culturale. Troppo distante, troppo bravo nel progettare grattacieli e case popolari, troppo bravo a innescare la vivacità nei giovani Carlo Pagani e Lina Bo dalle pagine di Lo Stile e tra i primi a occuparsi di architettura radicale. Anche altri come BBPR, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Luigi Figini e Gino Pollini, Franco Albini, Vico Magistretti contribuirono a rendere Milano moderna, seguiti da una serie di professionisti di alto livello come Roberto Menghi, Arrigo Arrighetti, Asnago e Vender, Luigi Caccia Dominioni, Angelo Mangiarotti». https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-milano-e-larchitettura-che-non-ce/ 13. Cf. F. Bunčuga, Conversazioni con Giancarlo De Carlo. Architettura e libertà, elèuthera, Milano, 2000 L'articolo Milano: architettura e urbanistica nella crisi della democrazia proviene da EuroNomade.
Pratiche internazionaliste per un (nuovo) diritto globale
di GISO AMENDOLA. Il diritto internazionale è sempre stato una terra ambigua, non a caso s’è sempre portato dietro una discussione secolare sulla sua stessa esistenza. Predica l’eguaglianza strutturale e formale degli stati e poi ne legittima in mille modi la gerarchia tra tati egemoni e canaglie. Mira alla repubblica mondiale contro la sovranità statale e intanto incorona lo stato sovrano come unico soggetto sulla scena, riducendo tutte le soggettività non-sovrane a “pirateria” o giù di lì. Reclama come propria fondazione l’universalismo e si costituisce esattamente come specchio del colonialismo, e resta sempre attraversato dalla colonia come suo momento costitutivo. Carl Schmitt, che con il suo Nomos della Terra elevò un ideologico inno al diritto internazionale moderno, celebrandolo addirittura come una sorta di monumento inimitabile di tutta la razionalità occidentale, paradossalmente fu anche uno dei più grandi e chiari disvelatori del nesso costitutivo tra la creazione giuridica occidentale e la colonia: il mondo degli stati ha prodotto l’idea di un ordinamento fondato sull’uguaglianza formale tra loro, proprio nel momento in cui proclamava il resto del mondo terra di conquista, fuori da ogni regola giuridica che non fosse quella dell’appropriazione. Più che di promesse non mantenute, o di tradimenti, si dovrebbe quindi parlare di una tensione originaria che anima il diritto internazionale, e che non farà che approfondirsi, riproducendosi continuamente. Da un lato, il diritto internazionale è irrimediabilmente legato ai rapporti di forza, che sacralizza e riproduce in nome del principio di effettività, parola magica da sempre per l’ordine internazionale: è l’obbedienza che si ottiene nei fatti, a decidere, in ultima analisi, ogni questione. Dall’altro lato, contiene lo slancio progettuale a dare una regola anche agli stati, ad affermare l’inesistenza di poteri assoluti, a rompere con lo stesso principio di sovranità per affermare una regola al di là dei rapporti di pura forza. Indistricabilmente diviso tra apologia (dell’esistente) e utopia (del progetto), come nel titolo di uno dei libri di un maestro degli studi critici sul diritto internazionale, Martti Koskenniemi. Questa tensione costitutiva ha prodotto una critica del diritto internazionale altrettanto ambivalente. La prima faccia della critica è quella dei cinici: l’umanità è una menzogna, e la forza è l’unica ultima istanza, l’unica legge delle relazioni internazionali. Oggi vediamo questa critica completamente dispiegata: al ritiro dalle istituzioni sovranazionali, Trump fa seguire l’irrisione delle regole globali, neanche più il finto ossequio. Israele da anni oscilla tra l’ostinata ignoranza del diritto internazionale, e tentativi di utilizzarlo per legittimare l’azione criminale, evocando il diritto a una difesa sempre più preventiva e infrangendo ogni misura di proporzionalità. Dei due lati del diritto internazionale, qui è decisamente quello apologetico che ormai occupa tutto il campo. Dall’altro lato, però, c’è una critica opposta, che guarda alle tensioni del diritto internazionale per aprire una breccia nella logica strettamente “realistica” dell’efficacia e della sovranità. È la critica che decostruisce il nucleo coloniale, e con esso la logica di potenza che attraversa le istituzioni internazionali, per ritrovare l’ingiunzione a rompere la logica degli stati (e oggi diremmo ancor più dei blocchi), per risvegliare la tensione verso l’oltre dello stato sovrano, che è il lato “utopico” del diritto internazionale. Jacques Derrida, nell’ultima parte della sua opera (da Spettri di Marx a Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!), ha affermato questo lato non cinico, tutt’altro che semplicemente “realistico”, della critica alle istituzioni internazionali: con grande forza, Derrida insisteva sul fatto che l’esercizio decostruttivo della critica avrebbe incontrato il nucleo “indecostruibile” di una promessa, di una lotta per la giustizia globale oltre la logica dei blocchi, della violenza degli stati come unica e ultima ratio. Oggi, non è difficile scorgere nell’azione di Francesca Albanese il segno di questo nucleo indecostruibile, che, proprio mentre la crisi delle istituzioni internazionali si fa, dal lato della loro efficacia, irrimediabile, ne rilancia la funzione ora non solo di orizzonte etico, ma anche di arma politica. Così Albanese si muove sempre in una tensione aperta tra la radicalità nel denunciare la matrice coloniale dell’oppressione e nel decifrare la logica sistemica del genocidio, e un’uguale radicalità nel richiamare sempre la funzione giuridica dei suoi atti, nel rivendicare il ruolo delle istituzioni sovranazionali e i loro doveri di intervento. Non è un caso che, nella vergognosa campagna mediale che hanno tentato di orchestrare contro di lei, i servi delle amministrazioni israeliane e statunitensi insistono continuamente sui toni “ambigui” dei suoi rapporti, che sarebbero oscillanti tra il dovere della “neutralità” scientifica del diritto, e la militanza postcoloniale o decoloniale. Non sanno, questi sciacalli, che in realtà centrano esattamente quella relazione tra critica al portato coloniale e uso del diritto internazionale, che sta tracciando la strada per un ruolo del tutto inedito della giustizia internazionale. Nel grande sostegno popolare a Francesca Albanese, in questo momento, risuona anche questo suo essersi collocata con coraggio – da militante e, in tensione mai risolvibile, da giurista – esattamente nel punto in cui la solidarietà alla lotta palestinese e la denuncia del genocidio si saldano alla spinta internazionalistica per una giustizia globale e per nuove istituzioni transnazionali per la pace e i diritti, oltre ogni sguardo cinico sulla crisi del diritto internazionale. È lo stesso nuovo uso decoloniale della giustizia internazionale che ha animato, per esempio, il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia del Sudafrica sulla natura genocidiaria dell’azione israeliana. Nella stessa direzione vanno nuovi esperimenti di coalizione internazionale come il “gruppo dell’Aja”, che qualche giorno fa si è riunito a Bogotà, con la presenza e l’intervento significativo della stessa Albanese: una coalizione che dà voce a quel “resto” del mondo che proprio la matrice coloniale del diritto internazionale vorrebbe ridurre al silenzio, e che invece ha scelto anche le istituzioni internazionali come terreno di lotta, pur dentro la crisi dell’ordine globale. È evidentemente una strada durissima, nel regime di guerra feroce che attraversa il mondo: ma si intravede la possibilità di un’alleanza tra i movimenti sociali, come quello di solidarietà con la Palestina, e istituzioni internazionali, vecchie e nuove, che, fallite nella loro storia di “apologete” dell’ordine occidentale, trovano oggi una nuova possibilità politica come strumenti di chi, attraversando i confini, vuole costruire una nuova stagione di lotte internazionaliste per la pace e la giustizia globale. questo testo, versione ampliata di un post pubblicato sul profilo Facebook dell’autore, è stato pubblicato sul sito del Centro per la Riforma dello Stato (CRS) L'articolo Pratiche internazionaliste per un (nuovo) diritto globale proviene da EuroNomade.