Milano: architettura e urbanistica nella crisi della democrazia

EuroNomade - Monday, August 11, 2025

di MARCO ASSENNATO.

Il caso Milano potrebbe essere occasione preziosa per aprire un dibattito sull’avvenire delle grandi aree metropolitane e, più in generale, potrebbe funzionare come esperimento mentale per immaginare innovative configurazioni del nesso tra sviluppo tecnologico, saperi specialistici e strategie politiche. Perché ciò accada, come è stato ampiamente notato, pare fondamentale tuttavia sgomberare il campo da falsi dibattiti, primo fra tutti quello che oppone gli alfieri del garantismo agli appassionati del tintinnar di manette. Sappiamo già, del resto, che il ginepraio polemico attorno alle scelte della Procura verrà ridimensionato da condanne certe per il conflitto di interessi e i vergognosi passaggi di danaro (diretti o indiretti) che coinvolgono alcuni protagonisti di questa vicenda; mentre ridotte saranno le responsabilità di chi si presenta come tecnico latore di consigli informati, poiché – giusto o sbagliato che sia – la familiarità, la commistione e la frequentazione tra esperti, amministratori e operatori economici non configura, di per sé, reato perseguibile dalla legge. E neppure lo è la scelta, tutta politica, di permettere il mancato pagamento di quote importanti degli oneri di urbanizzazione. Come sappiamo benissimo, altresì, che quanto avanza del discorso pubblico sulla cosiddetta cementificazione, sulla opportunità (o meno) delle torri e dei grattacieli, o su scelte stilistiche (alla moda o tradizionali), verrà presto rubricato, come merita, nella sezione “specchietti per le allodole” (o per gli allocchi) della memoria collettiva.

A me pare che vi siano invece due livelli di fondamentale importanza in questa vicenda. Il primo, sul quale hanno già scritto – e benissimo – Ida Dominijanni, Rossella Marchini (su Dinamopress1 ), Alessandro Coppola (su Jacobin2 ) e Roberto D’Agostino (su il manifesto3 ), Elena Granata (su archphoto) ed al quale Effimera dedica un copioso dossier4 , riguarda la crisi dell’urbanistica. Il secondo, più raro nei commenti, concerne direttamente le pratiche architettoniche. Entrambe queste crisi, si badi bene, sono perfettamente generalizzabili a tutte le grandi aree metropolitane del globo e incrociano questioni decisive di ordine politico e democratico.

Crisi dell’urbanistica

Com’è ovvio lo spazio urbano, la metropoli, la città possono essere studiati, analizzati, compresi da diversi punti di vista e diverse possono essere le discipline implicate nella gestione e nella trasformazione dell’abitare umano associato. L’urbanistica è una disciplina specifica – una tra le tante – che ha una sua storia, peraltro assai recente, che non va confusa nel calderone indistinto e à la page, degli urban studies. Insomma non tutte le politiche urbane, né tutti i discorsi sulla città, sono (o richiedono) urbanistica. Credo valga ancora, a questo proposito, la lezione di Manfredo Tafuri5, secondo il quale l’urbanistica è, essenzialmente, una tecnica per la regolazione (e la limitazione) della speculazione edilizia e fondiaria. Non a caso essa nasce insieme alle teorie liberali conseguenti allo sviluppo capitalistico europeo di fine ottocento, successivo alla grande crisi del 1870 e all’avvio dell’industrializzazione tedesca. Sviluppo industriale e organizzazione produttiva della città necessitavano di liberare i terreni da vincoli feudali, da posizioni di rendita o vantaggi speculativi che potevano agire da freno allo sviluppo o minacciavano di deformarne le dinamiche.

In tal senso la storia della cultura urbanistica moderna segue (e spesso anticipa e promuove) ideologicamente i grandi principi liberali delle teorie del libero mercato perfetto (dei suoli), si riconfigura dentro i grandi squilibri di inizio del novecento e trova poi la sua forma matura, come pianificazione urbana e territoriale già prima della grande crisi del ’29 e delle teorie anticicliche di Lord Keynes. La posta in gioco della città pianificata – liberale e socialdemocratica, in Europa e USA, o comunista negli esperimenti sovietici del post ’17 – è tutta interna allo sviluppo della modernizzazione capitalistica, seppure essa vi si muove a differenti gradienti di critica. Dacché sarebbe stata una modernizzazione impossibile se non integrava stato e mercato, mettendo in equilibrio (ovvero facendo funzionare insieme) conflitti sociali e interessi privati.

Hanno ragione, in tal senso, Dominijanni, Marchini, Coppola, Granata e D’Agostino, nel sottolineare il carattere generalmente “progressista” della cultura urbanistica, che può senza tema di smentita essere definita, come scriveva Giulio Carlo Argan in un testo seminale di fine degli anni ’50, «un capitolo della cultura riformistica europea»6 . Ora il caso Milano mostra all’attenzione pubblica ciò che sappiamo da almeno mezzo secolo: ovvero il completo smarrimento dell’urbanistica di fronte a dinamiche del capitale che di riformista non hanno più nulla e che si configurano, oggettivamente, come contraddittorie rispetto a qualsiasi forma di partecipazione, conflitto e decisione democratica. Qui dovremmo aprire il dibattito e chiederci con spirito del tutto disincantato: quale politica possiede la forza per sottrarre al connubio patologico tra amministrazione pubblica, fondi finanziari speculativi, attori immobiliari e expertise tecnocratica, la trasformazione delle grandi aree metropolitane e dei nostri territori? Basta, come ha suggerito Cristina Tajani sul Corriere del 31 luglio, far ricorso a strumenti di due diligence che permettano a Comuni e Municipi di scegliere attori finanziari «non fortemente speculativi» e disponibili ad agire su «prospettive meno redditizie a breve termine ma di lunga durata»7 ? O, ancora, sono sufficienti le pur ragionevoli e necessarie modifiche delle scelte sulla fiscalità, la sospensione dei regimi d’eccezione post-Expo su cui in molti ragionano, a proposito di Milano?

A me pare che per evitare qui un dibattito altrettanto sterile che quelli oggi prevalenti sulla stampa italiana, occorra domandarsi quale soggettività politica, quale livello istituzionale, insomma chi può (chi ha sufficientemente forza per) «rallentare, selezionare e diversificare» (come invita a fare Alessandro Coppola) «la mobilità del capitale» e la sua riproduzione urbana? Possiamo limitarci a redarguire i gestori degli enti locali – il Comune e i suoi Municipi – per la loro mancanza di coraggio e ricordare agli amministratori il loro dovere di difesa dei pubblici diritti contro i privati interessi? O non è forse necessario chiedersi perché mai ciò non accada praticamente più? Ed avviare una ricerca, difficile, rigorosa ma possibile attorno a contropoteri efficaci e realistici rispetto alla delirante dinamica del capitale contemporaneo e delle sue politiche.

La questione urbana, come ci hanno insegnato Henri Lefebvre, Manuel Castells e David Harvey, si dipana dentro alla generale contesa sulle forme della produzione, della circolazione e del consumo. Essa insomma intreccia le dinamiche della riproduzione sociale (il diritto all’abitare, alla salute, all’ambiente, al consumo etc.) e della funzione produttiva dello spazio. Quando diciamo crisi dell’urbanistica allora dobbiamo leggere: crisi del diritto, crisi della politica. Ma non basta fare appello a un generico Rechtswollen, e neppure temo sia sufficiente individuare, come è stato già egregiamente fatto, i gruppi sociali vincenti (finanza, ceti proprietari alti, ceti medi patrimonializzati) e chi perde (precariato cognitivo e migrante) nella città della rendita, e delle «tecnologie finanziarie avanzate», per uscire dalla miseria8 . Occorre piuttosto individuare i livelli istituzionali corretti (con tutta probabilità multiscalari), interrogare i movimenti di soggettivazione, i conflitti esistenti, pensare la politica oltre il privato e il pubblico, per costruire un progetto comune contro la metropoli dei Reit (Real Estate Investment Trust) e dei loro servitori.

Parafrasando il titolo del bellissimo padiglione Austria della (per il resto assai volgare) Biennale di Architettura di Venezia 2025, occorre immaginare una nuova Agency for Better Living: uno spazio di negoziazione collettiva tra attivisti, movimenti per la casa, conflitti urbani diffusi, forme di sindacalizzazione delle grandi reti logistiche, amministrazioni pubbliche, architetti e urbanisti capace di darsi una strategia politica. In altri termini, mi pare che nessuna politica pubblica illuminata, top-down, nessuna nuova pianificazione, nessun appello riformistico, può reggere le sfide contemporanee, senza incontrare e lasciarsi attraversare dal corpo vivo delle moltitudini precarie, del lavoro cognitivo e migrante, dall’accumulo di esperienze bottom-up dei tanti spazi occupati, delle pratiche di riuso e solidarietà collettiva, di biodiversità urbana, di lotta antirazzista, che pure sono necessarie alla vita della metropoli biopolitica contemporanea. Ma ciò non può avvenire irenicamente. Voglio dire che non si tratta qui di un generico appello ad attivare forme di democrazia locale9 . La partecipazione civica, si sa, è sempre attraversata da segmenti di classe, frontiere proprietarie, enclosures e dispositivi di bando. Si tratta di fare irrompere la potenza democratica, la mésentente come la chiama Jacques Rancière10 , nel dibattito, di piegare e iscrivere la riflessione urbanistica all’interno dei conflitti che attraversano gli spazi metropolitani: così riscrivere la tecnica urbanistica con la politica e attrezzare il discorso politico di tecniche adeguate.

Crisi dell’architettura?

Qui, sono d’accordo con D’Agostino, incontriamo il secondo aspetto fondamentale della questione Milano: accanto alla crisi dell’urbanistica, la trasformazione neoliberale del fare architettura. Questo aspetto è praticamente escluso dalla discussione, se si fa eccezione per alcune considerazioni preziose di Emanuele Piccardo e Paolo Brescia. Eppure non è questione da specialisti quello dell’implicazione degli architetti, del loro argomentare oltre che del loro concretissimo operare, in questa brutta vicenda. E non è neppure una variabile, esterna al nostro discorso e tutto sommato marginale, quella dell’architettura.

Questo è quanto non solo gli architetti implicati nell’affaire meneghino ma la grande maggioranza dei grandi nomi del mercato architettonico internazionale, vorrebbe far credere : c’è la politica; c’è una urbanistica sguarnita, di fronte ai veri stakeholders metropolitani, che sono i grandi asset finanziari; e poi c’è l’architetto che prova, come può e in questo contesto, a fare il suo mestiere. Politica, urbanistica, architettura: ciò è falsa coscienza. Sporca, stupida, incolta falsa coscienza. La serie logica corretta, in atti, per capire quanto accade sotto ai nostri occhi, non è : politica, urbanistica e architettura. Ma quest’altra : politica, architettura, urbanistica. L’architettura sta nel mezzo, come sapere, tecnica capace di tradurre in progetto, scelte politiche dentro allo spazio pubblico. Almeno ciò vale per tutta l’architettura seria, diciamo a partire dalla seconda rivoluzione industriale e di lì in avanti – insomma per tutta l’architettura cosiddetta contemporanea. La grande differenza tra architettura moderna (diciamo dal Rinascimento in avanti, per circa quattro secoli) e contemporanea sta tutta qui.

La prima è disegno e costruzione di oggetti, che possono anche avere efficacia su scala urbana ma esistono tutto sommato in contraddizione con il costruito preesistente. Così nella Firenze del ‘400 il classico mangia la città gotica, poi le deformazioni manieriste dei comuni del centro Italia e il teatro barocco della Roma dei Papi, spiazzano il rigore classico prima di diffondersi nel nord Europa dando forma, indirettamente, alle nostre città storiche. Mentre la seconda, l’architettura contemporanea, è indissociabile dal tessuto metropolitano: l’architetto (almeno se fa buona architettura) non è un disegnatore di oggetti, ma un progettista il cui lavoro serve a tradurre materialmente l’organizzazione dello spazio urbano, le forme della produzione edilizia e le sue necessarie funzioni. Perciò la storia dell’architettura contemporanea non può in alcun modo essere dissociata da quella, sopra appena tratteggiata, dell’urbanistica. Che poi i grandi progetti del novecento avessero anche qualità plastiche o estetiche va letto come conseguenza e non come obiettivo primo della ricerca architettonica. 

Intendiamoci: è vero che già Leon Battista Alberti pensava la città come una casa e la casa come una città. Ma la necessità di limitare o combattere gli effetti nefasti della rendita e della speculazione, la ricerca della migliore qualità per l’abitare di grandi masse, la riflessione sulla necessità di liberare suolo, garantire un equilibrio tra verde pubblico e ambiente costruito, la lotta contro la densità e la congestione urbana, la ricerca paziente, di tipo tecnico-costruttivo per innovare la produzione edilizia a grande scala sono tutte interne alla grande cultura architettonica contemporanea, a partire dai primi decenni del novecento . La innervano e ne costituiscono la ragion d’essere profonda. Come anche le latenze e le inesorabili contraddizioni tra progetto e grandi linee dei conflitti di classe.  Non a caso, persino quando si dice composizione o progettazione, è impossibile evitare di ragionare di tipologia, produzione in serie e distribuzione, usi e riorganizzazione civile alle diverse scale – come si diceva: dal cucchiaio all’insieme antropogeografico. Senza questa premessa non si capisce nulla di architettura contemporanea! Ciò vale anche a dispetto di quanto vanno blaterando a destra e a manca alcuni professionisti che possono vantare, a loro merito, una buona affermazione sul mercato della costruzione.

L’argomento potrebbe anche dimostrarsi per paradosso. Cos’è stata la sbornia postmoderna, con il suo pagliaccesco correlato corteo di archi-star, se non un ripiegamento disperato della cultura architettonica nel disegno di oggetti, come risposta impotente al declino dell’urbanistica avviatosi a partire dalla metà degli anni ’70, ovvero in piena crisi dello Stato-Piano? L’architettura sta in mezzo, presa, strozzata, tra politica e urbanistica, non fuori da questa tenaglia. Altrimenti essa è inutile, quando non osceno, maquillage: alberelli appesi su balconi per 26 piani; contorsioni biomorfe per balbettare incestuosamente con l’algoritmo; muscolosi cavi d’acciaio per nascondere l’abisso di analfabetismo tecnico e costruttivo in cui sta precipitando una antica disciplina, sconvolta da una rivoluzione digitale della quale non riesce manco a cogliere la direzione di massima. Neppure migliorano le cose, quando l’architettura si chiude in sterili formalismi o quando si riduce ad Arcadia: l’autoreferenzialità va a braccetto con moralistici ritorni a passati immaginari, autarchie localistiche, identitari appelli al genius loci da svendere sul mercato al miglior offerente.

Ma architettura non è nulla di tutto ciò! Pensiero della tecnica, sapere civile, servizio pubblico – da tradursi in forma, certo! Ma forma funzionale a una costruzione intelligente, ad una colta e rispettosa trasformazione dell’ambiente umano. Perciò l’architettura contemporanea nasce e si sviluppa, come l’urbanistica, contro la speculazione, la rendita, l’abuso del territorio comune. Non esiste nessun serio progetto di architettura la cui forma sia indifferente o autonoma dalla sua estensione civica e civile di massa. In altri termini: nessun architetto contemporaneo può pensare il progetto accanto o indipendentemente dal contesto politico e urbano (e quindi dai soggetti cui esso e rivolto, nella loro concreta composizione di classe), come fosse un orpello eventualmente disponibile, un surplus di qualità che qualche finanziatore illuminato o qualche amministratore amico, possono, indifferentemente, scegliere di far costruire o meno. Ha ragione Paolo Brescia, quando afferma che, nella vicenda milanese, «l’errore di fondo sta nel misurare il rapporto tra interesse privato e interesse pubblico in termini quantitativi (…). Se, invece, impostassimo il ragionamento in termini qualitativi, la vera domanda sarebbe: come una data operazione immobiliare contribuisce al “fare città”? Posta in questi termini, la discussione tra architetti, costruttori e amministratori si sposta sul campo dell’architettura urbana, invertendo il rapporto tra figura e sfondo, dove la figura che sta davanti è l’urbanità e lo sfondo che sta dietro è l’edificio»11 .

Il grappolo di sgraziati oggetti che hanno rigenerato (sic.) settori importanti di Milano, dall’Expo in avanti, e il grumo di demenziali progetti che si apprestano a continuare il mercimonio del territorio comune della metropoli meneghina sono in fondo anch’essi espressione diretta, esatta e corretta di una politica. Proprio nella misura in cui incarnano la totale assenza (o la definitiva crisi) della cultura urbanistica e architettonica. I personaggi che li hanno firmati o ne portano la responsabilità, in tal senso, fanno bene a rivendicare il loro operato. Solo dovrebbero sapere che si tratta di una cattiva politica e di una pessima architettura, tanto impotente quanto roboante. Mentre sarebbe urgente che i settori più avanzati (ci sono e anche in Italia) della professione, dell’accademia e delle università, come anche le studentesse e gli studenti che affollano le aule delle tante facoltà di architettura tornassero a spezzare le matite (o chiudere i computer), per dare avvio a una nuova stagione di lotte, ripensare il fare progetto per la metropoli di domani. Di questo, la crisi milanese, può diventare una occasione importante. Non partiamo da zero. Una lunga storia preme alle nostre spalle e chiede di essere riscattata12 .

Cade quest’anno il ventennale della scomparsa di Giancarlo De Carlo. Sarebbe forse utile rileggere i suoi scritti, meditare le sue parole. In un celebre libro-intervista egli affermava : «Noi credevamo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le aspettative degli individui e dei gruppi sociali, coi ritmi arcani della natura. Negavamo che lo scopo dell’architettura fosse di produrre oggetti e sostenevamo che il suo compito fondamentale fosse di accendere processi di trasformazione dell’ambiente fisico, capaci di contribuire al miglioramento della condizione umana»13 . Reliquia desiderantur.

* Questo testo è stato pubblicato su archphoto. La foto è di Gregory Smirnov su Unsplash

Note

1. https://www.dinamopress.it/news/milano-un-sistema-di-governo/

2.  https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/

3.  https://ilmanifesto.it/milano-e-le-altre-la-deriva-dellurbanistica

4.  https://effimera.org/

5. Si veda in tal senso M. Tafuri, Progetto e Utopia, Laterza, Roma, 1974, ma poi anche tutte le pubblicazioni sulla pianificazione socialdemocratica, liberale e sovietica elaborate a IUAV tra anni Settanta e primi anni Ottanta.

6.  Cf. G. C. Argan, Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano, 1965.

7. Su questi aspetti concordo con quanto afferma Elena Granata, cf. https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-elena-granata/

8.  Si veda ancora Coppola in https://jacobinitalia.it/il-modello-milano-oltre-le-inchieste/ e anche https://www.sciencespo.fr/ecole-urbaine/sites/sciencespo.fr.ecole-urbaine/files/Rapporthousinghopofin.pdf

9.Ha ragione, su questo, Alessandro Coppola quando, su Jacobin avverte che nella metropoli neoliberale «la democrazia locale è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari».

10. Cf. J. Rancière, La Mésentente. Politique et démocratie, Paris, Galilée, 1996.

11. Emanuele Piccardo. Intervista a Paolo Brescia, https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-intervista-a-paolo-brescia-obr/

12. Si veda, per restare a Milano, quanto scrive Emanuele Piccardo: «Eppure Milano entra di diritto nella modernità con i maestri italiani del razionalismo che orientano il dibattito architettonico su Casabella e Domus. Il geniale Giò Ponti, grande intellettuale poliedrico dall’editoria all’architettura e al design, una figura unica nel panorama italiano a cui molti si sono ispirati ma senza un minimo avvicinamento culturale. Troppo distante, troppo bravo nel progettare grattacieli e case popolari, troppo bravo a innescare la vivacità nei giovani Carlo Pagani e Lina Bo dalle pagine di Lo Stile e tra i primi a occuparsi di architettura radicale. Anche altri come BBPR, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Luigi Figini e Gino Pollini, Franco Albini, Vico Magistretti contribuirono a rendere Milano moderna, seguiti da una serie di professionisti di alto livello come Roberto Menghi, Arrigo Arrighetti, Asnago e Vender, Luigi Caccia Dominioni, Angelo Mangiarotti». https://www.archphoto.it/emanuele-piccardo-milano-e-larchitettura-che-non-ce/

13. Cf. F. Bunčuga, Conversazioni con Giancarlo De Carlo. Architettura e libertà, elèuthera, Milano, 2000

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