Dentro un regime: una reporter svela il SudanDENTRO UN REGIME: UNA REPORTER SVELA IL SUDAN
Il vestito azzurro ✏ Antonella Napoli
9 Settembre 2021/di Arianna Obinu
CATEGORIE: Libreria / Saggistica
Tempo di lettura: 6 minuti
*
Il vestito azzurro. Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista,
Antonella Napoli, People, 2021.
«È SOLAMENTE LA SORTE CHE CI FA NASCERE AL SICURO O IN PERICOLO.
E CHI È PIÙ FORTUNATO HA DELLE RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEGLI ALTRI.
SOPRATTUTTO QUANDO SEI UNA DONNA.»
[ANTONELLA NAPOLI]
Il giornalista inglese Robert Fisk, unico reporter occidentale ad aver
incontrato in ben tre occasioni Osama Bin Laden, in Cronache Mediorientali (Il
Saggiatore, 2006) ha descritto il Sudan come un Paese “con un’dentità debole,
esausta ed irrisolta” a causa dei sessant’anni di dominio anglo-egiziano, di una
parentesi nazionalista guidata da un religioso proclamatosi Mahdi*, di
quarant’anni di indipendenza segnata da guerre civili e golpe militari.
All’epoca della pubblicazione, l’analisi di Fisk non poteva prevedere che la
tirannia di Omar Al-Bashir inaugurata nel 1989 sarebbe durata fino all’aprile
del 2019, passando per un fatto epocale avvenuto nel 2011, ossia la divisione
del Sudan in due Stati.
Fino all’indipendenza del Sud Sudan, il Paese unito era stato il colosso
d’Africa per dimensioni, nonché crocevia tra mondo arabo e Africa tropicale.
Osservando una carta fisica, il Nord vi apparirà color giallo deserto, mentre il
Sud verde foresta. Le differenze tra i due blocchi sudanesi non si esauriscono
nelle caratteristiche del paesaggio: la parte settentrionale fu terra di
migrazioni arabe che diffusero l’islam tra le popolazioni animiste, la parte
meridionale fu terra di missione cristiana nel XIX secolo; la parte nord era la
sede del potere dell’etnia araba e dello sviluppo, il sud dei nuer e dei dinka
lasciato a se stesso, sebbene i giacimenti di petrolio si trovino nel suo
territorio; a nord il sistema scolastico era imperniato sull’arabo, a sud
sull’inglese poiché delegato ai comboniani.
Il potere centrale in Sudan non ha mai tollerato disallineamenti rispetto al
modello arabo-islamico propugnato con forza da Al-Bashir e dall’ideologo
islamico Al-Turabi. La sharì’a fu introdotta nel Paese nel 1983 e solo nel 2020
il nuovo governo sudanese ha scelto di abolire alcune pene derivanti
dall’applicazione letterale delle norme del diritto islamico: non più pena di
morte per chi lascia l’islam per abbracciare una nuova fede; non più pubbliche
frustate contro i consumatori di alcolici o le donne che indossavano i pantaloni
o abiti giudicati succinti.
La transizione democratica è tuttavia contrassegnata dalle violenze tra gruppi
etnici e tra compagini politiche contrapposte. Il vecchio despota che fine ha
fatto? La Corte Penale Internazionale (CPI) dal 2009 ha steso dei capi d’accusa
nei suoi confronti che fanno raccapricciare la pelle: genocidio, crimini di
guerra e contro l’umanità. Di agosto la notizia che il Sudan ha dato il via
libera all’estradizione di Al Bashir affinché subisca il processo nella sede
dell’Aja. All’epoca del primo mandato internazionale contro di lui, l’arroganza
del potere gli fece dire che la CPI non era che “una zanzara nell’orecchio di un
elefante”. Di fatto, continuò a viaggiare all’estero indisturbato, segno che la
sua presenza a capo del Sudan, non dispiaceva, nonostante tutto, alla comunità
internazionale.
Il Darfur, regione dell’ovest abitata dalle etnie fur, zaghawa e masalit, è
stato negli anni terreno di scontro e violenze inaudite. Oltre trecentomila
morti tra il 2003 e il 2009 secondo le Nazioni Unite. Due milioni gli sfollati
costretti a vivere in immensi campi profughi nella precarietà sanitaria ed
economica, nella promiscuità, senza protezione alcuna.
«UN RETICOLO DI QUADRATI IRREGOLARI DI CAPANNE, BARACCHE DI FANGO E LAMIERE
SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ. IMMENSE DISTESE NEL DESERTO, LONTANE DAGLI
INSEDIAMENTI URBANI, CHE SI ESTENDONO FINO AI CONFINI CON IL SUD SUDAN. GIÀ SOLO
L’IMPATTO VISIVO DELLA FOTO DEI CAMPI PROFUGHI IN DARFUR SULLA COPERTINA DEL
RAPPORTO ONU SUGGERISCE LA VASTITÀ DELL’EMERGENZA UMANITARIA IN CORSO NELLA
REGIONE OCCIDENTALE SUDANESE. EPPURE, NONOSTANTE RESTI TRA LE PIÙ GRAVI CRISI AL
MONDO, È ORMAI DIMENTICATA DA TUTTI. O QUASI.»
Le donne sono state crudelmente stuprate, con quel che significa in queste
culture in cui la vittima è doppiamente vittima: prima lo stupro e poi
l’abbandono dei familiari o l’uccisione. Laddove l’onore del gruppo dipende
dalla condotta sessuale delle sue donne, e laddove detta condotta è lecita
unicamente all’interno del patto matrimoniale, non si soccorrono le vittime di
stupro, non c’è pietas per loro, solo lo sdegno e l’urgenza di dissociarsi dalla
prova vivente dell’accaduto, in pratica dalla vittima.
I sudanesi affrontano la loro storia sanguinosa senza che la loro causa assurga
agli onori della cronaca. Eppure durante le rivolte del 2019, una giornalista
italiana era lì, pronta a testimoniare con i propri occhi quel che avveniva
nella capitale Khartoum ed in altre zone periferiche come il Darfur.
Si chiama Antonella Napoli e al pari di Robert Fisk afferma di avere il dovere
di raccontare la verità, perché nessuno abbia a dire che non sapeva. Nel suo
libro Il vestito azzurro (People, 2021) veniamo a sapere. Scopriamo un regime
razzista e onnipotente e assistiamo ai suoi ultimi istanti di vita. Scopriamo il
sangue freddo di una giornalista fermata dai Servizi di sicurezza sudanesi
mentre faceva delle riprese nei giorni delle rivolte contro Al Bashir. Leggiamo
storie al femminile raccolte nei campi profughi da cui trapela grande tenerezza
e dignità. Vestiamo i panni di una reporter intelligente, empatica e rispettosa
delle persone che incontra al punto da non rendere il suo inquietante fermo
protagonista delle pagine che scorriamo.
Al centro dei suoi pensieri ci sono i colleghi sudanesi, le donne sudanesi, i
profughi, le vittime di interminabili guerre intestine e tutte le persone
coraggiose che, dal dicembre 2018, hanno creduto di poter cambiare qualcosa nel
Paese scrivendo nuove pagine di una storia finalmente democratica.
«HO SEMPRE SCRITTO, FOTOGRAFATO, FATTO RIPRESE CHE DOCUMENTASSERO IN MODO
INEQUIVOCABILE CIÒ CHE STAVO VIVENDO […]. NON POTREI E NON SAPREI FARE ALTRO.
PERCHÉ QUESTO MESTIERE NON È UN LAVORO, È UNA PASSIONE CHE DIVENTA DOVERE. A
TRENTADUE ANNI DAI MIEI PRIMI PASSI NEL GIORNALISMO, SO CHE QUESTO NON POTRÀ MAI
CAMBIARE. ILLUMINARE LE PERIFERIE DEL MONDO È STATA, È E RESTA UNA PRIORITÀ.
SEMPRE. ANCHE DOPO LE MINACCE DEI FRATELLI MUSULMANI […].»
Protagonista è volutamente il popolo sudanese in rivolta. Protagoniste sono le
donne, scese in piazza come gli altri, e che grazie alla fine della tirannide
possono ora sperare in un futuro diverso, senza più infibulazioni, fustigazioni,
umiliazioni e ingiuste condanne a morte.
Donne come Meriam, Alaa, Amina, Kalima, Hiba «che resteranno l’immagine migliore
della battaglia per la libertà e la giustizia che si è compiuta nel Paese».✎
*Il Mahdì (in ar. “il guidato” sottinteso da Allah) nell’islam è una figura che
comparirà alla fine del mondo e istituirà la giustizia in terra.
Il libro è stato presentato il 3 settembre a Udine, in un evento organizzato da
Time for Africa e Borgo Stazione Udine. Qui ritrovate il dialogo fra l’autrice e
Arianna Obinu.
INCIPIT
«Quando il 15 maggio del 2014 in Sudan un giudice pronunciava la sentenza che
condannava a morte Meriam Ishag Ibrahim per apostasia, in una Khartoum più
ostile che mai verso chiunque si opponesse alle violazioni dei diritti umani e
alle repressioni delle libertà, o chi come me le raccontava, non pensavo che
sarei diventata un bersaglio per il regime guidato da Omar Hassan al-Bashir.
Il Presidente sudanese, al potere da trent’anni, aveva pendente su di sé un
mandato di arresto della Corte penale internazionale per genocidio, crimini di
guerra e crimini contro l’umanità.
Chiunque ne scrivesse, o parlasse del governo in chiave critica, diventata un
“nemico del Sudan”.
Cinque anni dopo, mentre raccontavo un’altra storia, quella che avrebbe cambiato
per sempre il Paese – e la mia vita -, venivo privata della libertà per diverse
ore. Avevo rischiato di subire lo stesso trattamento riservato alla protagonista
della vicenda che nel 2014 avevo contribuito a far conoscere al mondo.»
Tags: Antonella Napoli, evidenza, giornalismo, Italia, italiano, Khartoum,
People Pub, Sudan
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