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La Ocean Viking salva 37 naufraghi. La Guardia Costiera libica le intima di lasciare l’area
“Questa mattina la Ocean Viking ha ricevuto un allarme dall’aereo Seabird per una imbarcazione in difficoltà con 37 persone a bordo in acque internazionali nell’area di ricerca e soccorso libica. Dopo aver ricevuto l’ok a procedere dalle autorità di competenza, abbiamo salvato i naufraghi. Una nave della Guardia Costiera libica ci ha intimato di lasciare l’area. I sopravvissuti sono ora a bordo della nostra nave. La maggior parte di loro viene dal Sudan, dove c’è una gravissima crisi umanitaria in corso.” Lo riferisce SOS Mediterranee Italia su X.     Redazione Italia
Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed (Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano -ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale, la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina (Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale). Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste, ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”. Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan finito” dice laconicamente il mio amico per telefono. Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti a non finire. E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi. “Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non puoi abitare e non puoi andartene. Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese, brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il futuro. Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100 dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa). Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi. Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del Mar Rosso. Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire), avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo: molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno” ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”. Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha poca acqua lì alla foce); è un caldo secco. La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco: “Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”. Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”. La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad oltranza, come quel 25% di Al Fashir. Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ Francesca Cerocchi
Darfur: il 97% della popolazione senza acqua a sufficienza denuncia COOPI
«L’85% della popolazione sfollata a El Fasher (Sudan, Nord Darfur) non ha accesso a beni e servizi essenziali e nella città restano attive solo tre fonti di approvvigionamento idrico: ben il 97% della popolazione è al di sotto degli standard minimi di accesso all’acqua». A lanciare l’allarme è l’organizzazione umanitaria italiana COOPI – Cooperazione Internazionale, attiva in Sudan da oltre 20 anni. El Fasher – città già sotto assedio da quasi un anno e colpita da bombardamenti continui – in seguito all’attacco dello scorso aprile ai danni del campo per sfollati interni di Zamzam, ha subito un forte peggioramento della situazione umanitaria, con «migliaia di famiglie sfollate accampate in rifugi di fortuna o costrette a dormire all’aperto, senza accesso ad acqua pulita né a servizi igienici di base», spiega Ennio Miccoli, Direttore di COOPI Cooperazione Internazionale. «L’accesso umanitario e la capacità di risposta – aggiunge – sono estremamente limitati e ampiamente insufficienti a soddisfare i bisogni delle migliaia di persone recentemente sfollate, che si aggiungono ai 47.561 sfollati interni già presenti a El Fasher. Noi siamo presenti sul campo per supportare la popolazione civile, la più colpita dal conflitto, cercando di migliorare condizioni di vita molto critiche». Dal 2023 il Sudan è teatro di quella che è considerata la più grave crisi umanitaria al mondo, in cui più di 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case, diventando sfollate interne o rifugiandosi in Paesi confinanti come Ciad, Sud Sudan ed Egitto. La situazione è ulteriormente peggiorata proprio nell’aprile 2025 con l’attacco al campo sfollati di Zamzam, uno dei più grandi del Nord Darfur, che ha costretto oltre 500mila persone a fuggire in poche ore verso El Fasher. Attualmente nella città di El Fasher «la maggior parte dei punti d’acqua vicini è ormai inaccessibile a causa della violenza continua, e quelli ancora attivi sono sovrasfruttati e necessitano urgentemente di riparazioni. Nel frattempo, l’impennata dei prezzi del carburante ha ulteriormente compromesso il funzionamento dei sistemi di pompaggio dell’acqua», racconta un operatore COOPI presente a El Fasher. Inoltre, aggiunge, «le pessime condizioni igienico-sanitarie e il ricorso diffuso all’evacuazione in spazi aperti aumentano notevolmente il rischio di epidemie, come il colera o la diarrea acquosa acuta. A causa della grave carenza idrica, molte famiglie sono costrette a dare priorità all’acqua potabile rispetto all’igiene personale, con gravi rischi per la salute, soprattutto nei luoghi sovraffollati». In risposta a questa emergenza COOPI – Cooperazione Internazionale ha avviato un intervento umanitario d’urgenza dal titolo “Provision of Life Saving assistance for IDPs in emergency in El Fasher locality, North Darfur region”, con il sostegno del Sudan Humanitarian Fund di OCHA, garantendo il trasporto di acqua potabile, il monitoraggio della qualità dell’acqua, la distribuzione di contenitori e kit di emergenza e la costruzione di latrine, contribuendo a ridurre i rischi sanitari per la popolazione colpita e a garantire standard igienici di base. «Da aprile stiamo portando avanti i primi interventi di emergenza, con la distribuzione quotidiana di 70mila litri di acqua potabile per oltre 9mila sfollati, la consegna di due contenitori da 20 litri a 1.000 famiglie vulnerabili e la costruzione di 50 latrine d’emergenza nei nuovi campi informali sorti improvvisamente, ma si tratta solo di una prima risposta ai bisogni più urgenti. Le necessità della popolazione sono ancora enormi, il nostro impegno al fianco delle persone sfollate proseguirà quindi nel tempo», conclude Ennio Miccoli. Dal 2004, COOPI è attiva in Sudan e nel Nord Darfur per sostenere le comunità vulnerabili, attraverso un approccio multisettoriale volto a migliorare l’accesso a servizi essenziali come rifugi, sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza, acqua, igiene e riduzione del rischio di disastri. Dallo scoppio della guerra civile nell’aprile 2023, l’organizzazione ha intensificato i propri sforzi umanitari, ampliando la presenza sul territorio e rafforzando la risposta d’emergenza per far fronte ai bisogni urgenti delle popolazioni colpite. Negli ultimi vent’anni in particolare COOPI ha realizzato 129 progetti raggiungendo oltre 4 milioni di beneficiari. Attualmente COOPI è attiva in Sudan principalmente nei settori sicurezza alimentare, acqua e igiene e riduzione dei rischi e preparazione ai disastri. Redazione Italia
Ciad: MSF supporta le persone in fuga dal Sudan
Vaccinazioni, 900 visite a settimana e 60.000 litri d’acqua al giorno 9 giugno 2025 – In Ciad, nei campi di transito di Tine e nei vicini campi per persone sfollate situati nell’est del paese, vicino al confine con il Sudan, Medici Senza Frontiere (MSF) sta intensificando la propria assistenza ai rifugiati sudanesi, in fuga dai crescenti attacchi e dalle violenze in Darfur settentrionale. Si stima che circa 40.000 persone, in gran parte provenienti da El Fasher e dai campi per sfollati interni circostanti, siano arrivate dalla fine di aprile a Tine, nella provincia di Wadi Fira. Queste persone estremamente vulnerabili si trovano ora a vivere in condizioni di grave sovraffollamento e con accesso limitato ai servizi essenziali. Molte persone sono malnutrite e soffrono di un forte stress psicologico a causa delle violenze subite in Darfur Settentrionale e durante il viaggio verso il Ciad. La stragrande maggioranza dei rifugiati sono donne e bambini provenienti da El Fasher e dal campo di Zamzam. Molti di loro hanno già sofferto la fame a causa dell’assedio delle Forze di Supporto Rapido (RSF) e dal momento che nel campo di Zamzam è in corso una carestia da mesi, come riportato dal Comitato di Revisione sulla Carestia (FRC). “Abbiamo camminato a lungo per arrivare fin qui. Abbiamo attraversato diversi villaggi per raggiungere Tine e fuggire dalla violenza e dai bombardamenti. Siamo qui da diversi giorni ma fatichiamo a trovare cibo e acqua. Indossiamo gli stessi vestiti da giorni” ha raccontato una ragazza rifugiata di 20 anni. Il campo di transito di Tine ospita attualmente oltre 18.000 persone, molte delle quali dormono a terra, sotto il sole cocente a 40°C, senza ripari e con accesso estremamente limitato a cibo e acqua, nonostante l’aiuto delle comunità ospitanti. MSF ha aumentato le proprie attività mediche e umanitarie nel campo di transito e al confine di Tine, per potenziare la disponibilità dei servizi di assistenza sanitaria primaria. Oltre agli screening nutrizionali e alle vaccinazioni al confine, nelle ultime settimane MSF ha effettuato oltre 900 visite a settimana nel presidio sanitario del campo di Tine. Qui, il tasso globale di malnutrizione tra i bambini sotto i 5 anni raggiunge il 29%, con un 9% di casi di malnutrizione grave. Le vaccinazioni di routine restano una priorità, ed è in corso una campagna di vaccinazione di massa, soprattutto dopo l’individuazione di casi di morbillo. Il presidio sanitario di MSF offre anche cure per le donne in gravidanza e per le sopravvissute a violenze sessuali. I team di MSF stanno organizzando il trasferimento dei pazienti più gravi verso gli ospedali e stanno costruendo 50 latrine d’emergenza. Inoltre, i team di MSF sono in azione per organizzare una nuova distribuzione di alimenti terapeutici e beni di prima necessità. MSF distribuisce attualmente 60.000 litri d’acqua al giorno, ma questa quantità copre solo la metà del fabbisogno attuale. “I rifugiati sudanesi arrivano esausti, molti sono malnutriti e necessitano di assistenza immediata. Chiediamo ai donatori, alle Nazioni Unite e alle altre organizzazioni umanitarie di aumentare la mobilitazione per fornire o potenziare il supporto in termini di alimentazione, alloggi, servizi igienico-sanitari e cure mediche, compreso il supporto per la salute mentale” afferma Claire San Filippo, coordinatrice delle emergenze di MSF in Sudan. “L’attuale risposta umanitaria è insufficiente e la prossima stagione delle piogge rischia di peggiorare ulteriormente le condizioni di vita, diffondere malattie e aggravare l’insicurezza alimentare e la mancanza di servizi igienici”. Nonostante i bisogni urgenti nel campo di transito di Tine e negli altri campi della provincia di Wadi Fira, MSF sta assistendo a una distribuzione molto limitata di aiuti, malgrado la solidarietà dimostrata dalla popolazione locale e dalle altre organizzazioni. La crisi finanziaria che colpisce l’intero settore umanitario è evidente anche nell’est del Ciad. Intanto, la guerra in Sudan continua senza sosta e sempre più persone cercano rifugio in Ciad. MSF è presente anche in altri campi per rifugiati nell’area di Wadi Fira, come il campo di Iridimi, dove vengono trasferiti i rifugiati dal campo di transito di Tine. Per contribuire a migliorare la difficile situazione nel campo di Iridimi, che ha raggiunto la massima capacità, MSF ha recentemente iniziato a supportare il centro sanitario locale, concentrandosi sulla continuità delle cure primarie e vaccinazioni, rafforzando la sorveglianza epidemiologica, la gestione dei flussi di pazienti e i trasferimenti, e migliorando le condizioni igienico-sanitarie. MSF gestisce inoltre cliniche mobili lungo il confine con il Sudan, anche nelle zone di Kulbus e Birak. La situazione umanitaria al confine tra Ciad e Sudan ha nuovamente raggiunto un punto critico, con oltre 70.000 nuovi rifugiati arrivati in Ciad da aprile 2025. Il paese ospita già oltre 1 milione di rifugiati, inclusi più di 800.000 sudanesi fuggiti dal conflitto iniziato oltre 2 anni fa. Medecins sans Frontieres
RADIO AFRICA: I (TANTI) IMPERIALISMI CHE COLPISCONO IL CONTINENTE E LE “TRACCE COLONIALI” DELLA REPRESSIONE ANTILIBICA A USTICA
Radio Africa: nuova puntata, lunedì 26 maggio 2025, per l’approfondimento quindicinale dedicato all’Africa sulle frequenze di Radio Onda d’Urto, dentro la Cassetta degli Attrezzi. In questi 30 minuti ci occupiamo di: * Imperialism(i): le tante mani sull’Africa. Il punto della situazione sulle influenze e le intromissioni di Usa, Russia, Cina e paesi del Golfo (Emirati Arabi in testa) tra Sudafrica, Burkina Faso (e l’intera fascia subsahariana), Sudan con Cornelia Toelgyes, vicedirettrice di www.africa-express.info  * Tracce coloniali: il viaggio a Ustica di un folto gruppo di realtà della società civile italiana, per rendere omaggio agli oppositori libici alla colonizzazione italiana deportati nelle piccole isole. Pochi giorni fa la visita al cosiddetto “Cimitero degli arabi” per ricordare una storia, ancora oggi sconosciuta, iniziata nel 1911 quando, dopo la sconfitta di Shara Shatt, in Libia, l’occupante italiano rispose con una “caccia all’arabo” e l’esecuzione sommaria di migliaia di persone. Altre, forse 4000, furono frettolosamente imbarcate senza processo per Favignana, le Tremiti, Gaeta e soprattutto Ustica. Le deportazioni continuarono negli anni seguenti, senza soluzione di continuità tra l’Italia “liberale” e quella fascista, fino ad almeno il 1934.  La puntata di Radio Africa, su Radio Onda d’Urto, andata in onda lunedì 26 maggio 2025 alle ore 18.45 (in replica martedì 27 maggio, alle ore 6.30) con Cornelia Toelgyes, vicedirettrice di www.africa-express.info e con  Fabio Alberti fondatore e presidente onorario di Un ponte per tra le realtà organizzatrici dell’appuntamento di Ustica, tenutosi pochi giorni fa. Ascolta o scarica
Guerra civile in Sudan: catastrofe umanitaria e rischio di frammentazione del paese
La guerra civile in Sudan era iniziata il 15 aprile 2023 con l’esplosione dei combattimenti, a Khartoum e in buona parte del paese, fra le Forze Armate Sudanesi (Saf) di Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido (Sdf) … Leggi tutto L'articolo Guerra civile in Sudan: catastrofe umanitaria e rischio di frammentazione del paese sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Sudan: civili intrappolati, bambini a rischio per le violenze nel Darfur
Dichiarazione del Rappresentante dell’UNICEF in Sudan Sheldon Yett 3 maggio 2025 – “Con l’intensificarsi dei combattimenti in Darfur (Sudan), i bambini stanno sopportando il peso di una catastrofe umanitaria sempre più grave. Nelle ultime tre settimane, migliaia di bambini e famiglie sono stati costretti a fuggire dalle loro case – molti per la seconda o terza volta – alla ricerca di un senso di sicurezza sfuggente. L’escalation dei combattimenti dall’11 aprile ha provocato centinaia di morti e un esodo di massa di civili da Al Fasher e dai campi di Abu Shouk e Zamzam. Circa 150.000 persone hanno cercato rifugio ad Al Fasher, ammassandosi in edifici incompiuti, scuole o riparandosi sotto gli alberi – ma ancora esposti ai continui bombardamenti e senza accesso ad acqua sicura, cibo o assistenza sanitaria. Tawila ha accolto altre 180.000 persone, portando il numero totale di sfollati in città a più di 300.000 e mettendo ulteriormente a dura prova i già fragili servizi e sistemi di supporto. Siamo incredibilmente preoccupati per la situazione del numero imprecisato di civili che rimangono intrappolati a Zamzam – senza i mezzi per andarsene o impediti con la forza dai gruppi armati. Per coloro che sono fuggiti, le condizioni rimangono terribili. Ad Al Fasher, i continui combattimenti hanno gravemente limitato i movimenti e interrotto le operazioni umanitarie. Gli ospedali funzionano a malapena, si prevede che le forniture mediche si esauriranno nel giro di poche settimane e si registra una crescente carenza di acqua e di carburante per i generatori. I focolai di malattie prevenibili sono in aumento. A Tawila sono stati segnalati più di 800 casi sospetti di morbillo, mentre i servizi nutrizionali critici sono stati sospesi in seguito agli attacchi alle strutture di Zamzam. Nonostante l’insicurezza e le difficoltà di accesso, l’UNICEF continua a lavorare per i bambini del Darfur. Ad aprile, le nostre squadre sono riuscite a far arrivare a Tawila, Zaleingei e Jebel Marra cinque camion che trasportavano forniture salvavita per la salute, la nutrizione e acqua/igiene, a sostegno di quasi 250.000 sfollati interni. Ma l’entità del bisogno è molto più grande e l’accesso rimane pericolosamente limitato. A Tawila, ad esempio, sebbene i partner dell’UNICEF siano presenti sul campo, i servizi non riescono a soddisfare la domanda eccessiva e vi è l’urgente necessità di ampliare il raggio d’azione mobile per la salute e la nutrizione. Ogni giorno senza assistenza e protezione mette in pericolo altre vite. I bambini devono essere protetti, ovunque si trovino. Gli aiuti umanitari devono arrivare a loro senza ritardi, ostruzioni o altri impedimenti. I bambini sono a corto di cibo, di medicine e di tempo. L’UNICEF chiede con urgenza al Governo e a tutte le parti in conflitto di facilitare un accesso umanitario rapido, sicuro e senza ostacoli, al di là delle linee di conflitto, e di garantire corridoi umanitari sicuri per facilitare la consegna degli aiuti e il movimento della popolazione. Il diritto internazionale umanitario e dei diritti umani deve essere rispettato. I civili e gli oggetti civili devono essere protetti. E soprattutto, i combattimenti devono cessare. Questo è il modo migliore per proteggere i bambini e ripristinare la speranza”.  Trovate qui foto e video della crisi in Sudan UNICEF WeShare – Search Result UNICEF
Dentro un regime: una reporter svela il Sudan
DENTRO UN REGIME: UNA REPORTER SVELA IL SUDAN Il vestito azzurro ✏ Antonella Napoli 9 Settembre 2021/di Arianna Obinu CATEGORIE: Libreria  / Saggistica Tempo di lettura: 6 minuti * Il vestito azzurro. Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista, Antonella Napoli, People, 2021. «È SOLAMENTE LA SORTE CHE CI FA NASCERE AL SICURO O IN PERICOLO. E CHI È PIÙ FORTUNATO HA DELLE RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEGLI ALTRI. SOPRATTUTTO QUANDO SEI UNA DONNA.» [ANTONELLA NAPOLI] Il giornalista inglese Robert Fisk, unico reporter occidentale ad aver incontrato in ben tre occasioni Osama Bin Laden, in Cronache Mediorientali (Il Saggiatore, 2006) ha descritto il Sudan come un Paese “con un’dentità debole, esausta ed irrisolta” a causa dei sessant’anni di dominio anglo-egiziano, di una parentesi nazionalista guidata da un religioso proclamatosi Mahdi*, di quarant’anni di indipendenza segnata da guerre civili e golpe militari. All’epoca della pubblicazione, l’analisi di Fisk non poteva prevedere che la tirannia di Omar Al-Bashir inaugurata nel 1989 sarebbe durata fino all’aprile del 2019, passando per un fatto epocale avvenuto nel 2011, ossia la divisione del Sudan in due Stati. Fino all’indipendenza del Sud Sudan, il Paese unito era stato il colosso d’Africa per dimensioni, nonché crocevia tra mondo arabo e Africa tropicale. Osservando una carta fisica, il Nord vi apparirà color giallo deserto, mentre il Sud verde foresta. Le differenze tra i due blocchi sudanesi non si esauriscono nelle caratteristiche del paesaggio: la parte settentrionale fu terra di migrazioni arabe che diffusero l’islam tra le popolazioni animiste, la parte meridionale fu terra di missione cristiana nel XIX secolo; la parte nord era la sede del potere dell’etnia araba e dello sviluppo, il sud dei nuer e dei dinka lasciato a se stesso, sebbene i giacimenti di petrolio si trovino nel suo territorio; a nord il sistema scolastico era imperniato sull’arabo, a sud sull’inglese poiché delegato ai comboniani. Il potere centrale in Sudan non ha mai tollerato disallineamenti rispetto al modello arabo-islamico propugnato con forza da Al-Bashir e dall’ideologo islamico Al-Turabi. La sharì’a fu introdotta nel Paese nel 1983 e solo nel 2020 il nuovo governo sudanese ha scelto di abolire alcune pene derivanti dall’applicazione letterale delle norme del diritto islamico: non più pena di morte per chi lascia l’islam per abbracciare una nuova fede; non più pubbliche frustate contro i consumatori di alcolici o le donne che indossavano i pantaloni o abiti giudicati succinti. La transizione democratica è tuttavia contrassegnata dalle violenze tra gruppi etnici e tra compagini politiche contrapposte. Il vecchio despota che fine ha fatto? La Corte Penale Internazionale (CPI) dal 2009 ha steso dei capi d’accusa nei suoi confronti che fanno raccapricciare la pelle: genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Di agosto la notizia che il Sudan ha dato il via libera all’estradizione di Al Bashir affinché subisca il processo nella sede dell’Aja. All’epoca del primo mandato internazionale contro di lui, l’arroganza del potere gli fece dire che la CPI non era che “una zanzara nell’orecchio di un elefante”. Di fatto, continuò a viaggiare all’estero indisturbato, segno che la sua presenza a capo del Sudan, non dispiaceva, nonostante tutto, alla comunità internazionale. Il Darfur, regione dell’ovest abitata dalle etnie fur, zaghawa e masalit, è stato negli anni terreno di scontro e violenze inaudite. Oltre trecentomila morti tra il 2003 e il 2009 secondo le Nazioni Unite. Due milioni gli sfollati costretti a vivere in immensi campi profughi nella precarietà sanitaria ed economica, nella promiscuità, senza protezione alcuna. «UN RETICOLO DI QUADRATI IRREGOLARI DI CAPANNE, BARACCHE DI FANGO E LAMIERE SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ. IMMENSE DISTESE NEL DESERTO, LONTANE DAGLI INSEDIAMENTI URBANI, CHE SI ESTENDONO FINO AI CONFINI CON IL SUD SUDAN. GIÀ SOLO L’IMPATTO VISIVO DELLA FOTO DEI CAMPI PROFUGHI IN DARFUR SULLA COPERTINA DEL RAPPORTO ONU SUGGERISCE LA VASTITÀ DELL’EMERGENZA UMANITARIA IN CORSO NELLA REGIONE OCCIDENTALE SUDANESE. EPPURE, NONOSTANTE RESTI TRA LE PIÙ GRAVI CRISI AL MONDO, È ORMAI DIMENTICATA DA TUTTI. O QUASI.» Le donne sono state crudelmente stuprate, con quel che significa in queste culture in cui la vittima è doppiamente vittima: prima lo stupro e poi l’abbandono dei familiari o l’uccisione. Laddove l’onore del gruppo dipende dalla condotta sessuale delle sue donne, e laddove detta condotta è lecita unicamente all’interno del patto matrimoniale, non si soccorrono le vittime di stupro, non c’è pietas per loro, solo lo sdegno e l’urgenza di dissociarsi dalla prova vivente dell’accaduto, in pratica dalla vittima. I sudanesi affrontano la loro storia sanguinosa senza che la loro causa assurga agli onori della cronaca. Eppure durante le rivolte del 2019, una giornalista italiana era lì, pronta a testimoniare con i propri occhi quel che avveniva nella capitale Khartoum ed in altre zone periferiche come il Darfur. Si chiama Antonella Napoli e al pari di Robert Fisk afferma di avere il dovere di raccontare la verità, perché nessuno abbia a dire che non sapeva. Nel suo libro Il vestito azzurro (People, 2021) veniamo a sapere. Scopriamo un regime razzista e onnipotente e assistiamo ai suoi ultimi istanti di vita. Scopriamo il sangue freddo di una giornalista fermata dai Servizi di sicurezza sudanesi mentre faceva delle riprese nei giorni delle rivolte contro Al Bashir. Leggiamo storie al femminile raccolte nei campi profughi da cui trapela grande tenerezza e dignità. Vestiamo i panni di una reporter intelligente, empatica e rispettosa delle persone che incontra al punto da non rendere il suo inquietante fermo protagonista delle pagine che scorriamo. Al centro dei suoi pensieri ci sono i colleghi sudanesi, le donne sudanesi, i profughi, le vittime di interminabili guerre intestine e tutte le persone coraggiose che, dal dicembre 2018, hanno creduto di poter cambiare qualcosa nel Paese scrivendo nuove pagine di una storia finalmente democratica. «HO SEMPRE SCRITTO, FOTOGRAFATO, FATTO RIPRESE CHE DOCUMENTASSERO IN MODO INEQUIVOCABILE CIÒ CHE STAVO VIVENDO […]. NON POTREI E NON SAPREI FARE ALTRO. PERCHÉ QUESTO MESTIERE NON È UN LAVORO, È UNA PASSIONE CHE DIVENTA DOVERE. A TRENTADUE ANNI DAI MIEI PRIMI PASSI NEL GIORNALISMO, SO CHE QUESTO NON POTRÀ MAI CAMBIARE. ILLUMINARE LE PERIFERIE DEL MONDO È STATA, È E RESTA UNA PRIORITÀ. SEMPRE. ANCHE DOPO LE MINACCE DEI FRATELLI MUSULMANI […].» Protagonista è volutamente il popolo sudanese in rivolta. Protagoniste sono le donne, scese in piazza come gli altri, e che grazie alla fine della tirannide possono ora sperare in un futuro diverso, senza più infibulazioni, fustigazioni, umiliazioni e ingiuste condanne a morte. Donne come Meriam, Alaa, Amina, Kalima, Hiba «che resteranno l’immagine migliore della battaglia per la libertà e la giustizia che si è compiuta nel Paese».✎ *Il Mahdì (in ar. “il guidato” sottinteso da Allah) nell’islam è una figura che comparirà alla fine del mondo e istituirà la giustizia in terra. Il libro è stato presentato il 3 settembre a Udine, in un evento organizzato da Time for Africa e Borgo Stazione Udine. Qui ritrovate il dialogo fra l’autrice e Arianna Obinu. INCIPIT «Quando il 15 maggio del 2014 in Sudan un giudice pronunciava la sentenza che condannava a morte Meriam Ishag Ibrahim per apostasia, in una Khartoum più ostile che mai verso chiunque si opponesse alle violazioni dei diritti umani e alle repressioni delle libertà, o chi come me le raccontava, non pensavo che sarei diventata un bersaglio per il regime guidato da Omar Hassan al-Bashir. Il Presidente sudanese, al potere da trent’anni, aveva pendente su di sé un mandato di arresto della Corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Chiunque ne scrivesse, o parlasse del governo in chiave critica, diventata un “nemico del Sudan”. Cinque anni dopo, mentre raccontavo un’altra storia, quella che avrebbe cambiato per sempre il Paese – e la mia vita -, venivo privata della libertà per diverse ore. Avevo rischiato di subire lo stesso trattamento riservato alla protagonista della vicenda che nel 2014 avevo contribuito a far conoscere al mondo.» Tags: Antonella Napoli, evidenza, giornalismo, Italia, italiano, Khartoum, People Pub, Sudan CORRELATI RISCOPRENDO LA FALCE D’ORO TRA CAMPI STELLATI. IL LIBRO DELLA LUNA, DI FATOUMATA KÉBÉ 26 Settembre 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/09/Fatoumata-Kebe_Il-libro-della-luna_slider2.jpg 844 1500 Adele Akinyi Manassero https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Adele Akinyi Manassero2021-09-26 11:17:212021-09-26 11:30:21Riscoprendo la falce d’oro tra campi stellati. 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