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Il diritto al rispetto della vita privata e familiare come fondamento della protezione speciale, anche dopo il d.l. 20/2023
I decreti del Tribunale di Roma qui raccolti offrono un quadro significativo del ruolo che la protezione speciale (art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008) continua a rivestire nell’ordinamento italiano, nonostante gli interventi legislativi volti a ridurne la portata. In tutti e tre i casi i giudici romani, pur escludendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, hanno valorizzato l’obbligo per l’Italia di rispettare i vincoli costituzionali e internazionali in materia di diritti umani, in particolare il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU e dall’art. 5, co. 6, T.U. immigrazione. I giudici ricostruiscono le vicende personali dei richiedenti, ne riconoscono la credibilità e accertano l’esistenza di un percorso di inserimento sociale e lavorativo in Italia sufficiente a far scattare il divieto di espulsione e quindi il diritto alla protezione speciale. Le decisioni si inseriscono in una giurisprudenza ormai consolidata che interpreta la protezione speciale come strumento di garanzia dei diritti fondamentali, capace quindi di sopravvivere alle restrizioni normative introdotte dal d.l. 20/2023, proprio in virtù del suo fondamento costituzionale e sovranazionale, riconoscendo la centralità del diritto al rispetto della vita privata e familiare previsto dall’art. 8 CEDU. Nello specifico, per i due richiedenti asilo tunisini è riconosciuta in ragione del percorso di integrazione in Italia (studio della lingua, iscrizione a corsi di formazione, inserimento lavorativo), ritenuto sufficiente a fondare il diritto al rispetto della vita privata e sociale ai sensi dell’art. 8 CEDU, e come valorizzazione del radicamento in Italia. Tribunale di Roma, decreto del 24 aprile 2025 Tribunale di Roma, decreto del 7 luglio 2025 Anche per il ricorrente del Senegal, viene riconosciuta grazie al concreto percorso di integrazione in Italia (contratti di lavoro regolari, autonomia abitativa, corso di lingua italiana), che renderebbe sproporzionata l’espulsione rispetto alla tutela della vita privata e familiare. Tribunale di Roma, decreto del 16 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Eugenio Francesco Caputo per la segnalazione. * Consulta altre decisioni relative al riconoscimento della protezione speciale
Il viaggio di Io capitano in Senegal
Dopo il grande successo di pubblico e critica, Io capitano sbarca in Senegal per un tour cinematografico itinerante. A bordo di un cine-pullman, il film ha toccato città e villaggi, coinvolgendo pubblico e attori in un intenso dibattito sull’emigrazione. Tra emozioni e testimonianze, il viaggio è diventato un documentario e un’occasione di riflessione e confronto. Sette David di Donatello e una candidatura all’Oscar, che avrebbe meritato di vincere: Io Capitano di Matteo Garrone è sbarcato anche in Africa, in Senegal, terra d’origine dei suoi protagonisti. Nell’aprile 2024, il film attraversato il Paese, facendo tappa a Pikine, Guédiawaye, Rufisque, Thiès, Mboro, Mérina, Dakar, Kolda, Sédhiou e Ziguinchor a bordo di un grande cine-pullman, un furgone equipaggiato con tutto il necessario per trasformare qualsiasi luogo in una sala cinematografica temporanea. Ad accompagnarlo film c’erano gli attori Seydou Sarr, Moustapha Fall e Amath Diallo, insieme al mediatore culturale Mamadou Kouassi, tecnici, fotografi, giornalisti e una troupe video. Anche il regista ha preso parte al viaggio, partecipando per una settimana alle proiezioni, che si sono svolte non solo la sera all’aperto, ma anche al mattino nei centri culturali. La carovana è stata organizzata dalla Fondazione Cinemovel, che porta il cinema dove non esiste più, o dove non c’è mai stato. «Arrivare in un villaggio sperduto, dove il pubblico non è abituato agli spettacoli cinematografici, montare uno schermo, tendere i tiranti, avviare un proiettore… sono tutti gesti sorprendenti per chi guarda, che subito li accoglie con entusiasmo, perché sente che sta per accadere qualcosa di speciale», racconta Nello Ferrieri, cofondatore della Cinemovel Foundation. «E così è stato anche per il tour senegalese di Io capitano». Un viaggio straordinario, documentato dagli scatti di Andrea Fiumana e dal film Allacciate le cinture di Tommaso Marighi, presentato in anteprima al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano (21-30 marzo) prima dell’uscita nelle sale. Il documentario alterna riprese “camera car” lungo le strade del Senegal a spettacolari inquadrature dall’alto, che mostrano il pullman in viaggio tra villaggi dai colori vivaci, bambini che giocano, strade rosse d’argilla, baobab e campi di basket trasformati in cinema a cielo aperto. L’arrivo della carovana è un evento. Un uomo col megafono, a bordo di un furgone, percorre villaggi e periferie annunciando ripetutamente il film, l’ora e il luogo della proiezione, sottolineando con orgoglio che i protagonisti sono giovani senegalesi. La gente accorre. I bambini portano le sedie, ma non bastano mai: chi resta in piedi, chi si arrampica su un muro o sul pullman. Poi si monta il telone bianco e inizia la magia.Ma lo spettacolo più emozionante è nei volti del pubblico: occhi spalancati, risate, lacrime. La scena del film in cui Seydou è seguito dalla donna volante, morta nel deserto, scatena ilarità per la sua incredibilità, ma per il resto dominano stupore e dolore. Molte donne si coprono il volto durante le sequenze più dure, un boato da stadio accompagna sempre il finale, quando Seydou urla: «Io, capitano!». Dibattiti appassionati Dopo la proiezione, Mamadou Kouassi – la cui esperienza ha ispirato parte della sceneggiatura – guida il dibattito insieme a Seydou e Moustapha. Gli spettatori intervengono – in lingua wolof o in francese – per commentare il film e discutere sui temi legati alla migrazione. Un uomo racconta di aver tentato la traversata dieci volte, senza mai riuscirvi. Un altro dice che il fratello aveva già messo da parte i soldi per partire, ma dopo aver visto il film ha deciso di rinunciare. Una ragazza velata critica l’impazienza dei giovani («Oggi vogliono tutto, subito»), un’altra accusa le donne di spingere i fidanzati a emigrare per cercare denaro per il matrimonio. Una madre interviene con fermezza: «I figli vanno seguiti ed educati! Guai se mio figlio se ne andasse senza il mio consenso». Tutti concordano sulle responsabilità della politica: mancano corsi di formazione, chi vuole avviare un’attività non trova sostegno, i giovani disoccupati passano le giornate dormendo o bevendo tè. Molti vorrebbero studiare all’estero o anche solo viaggiare, ma ottenere un visto è quasi impossibile. E allora si parte illegalmente. Il pubblico chiede che il film venga proiettato in tutta l’Africa, per sensibilizzare chi rischia la vita inseguendo un’illusione alimentata dai media, che mostrano solo la bellezza e la ricchezza dell’Occidente. «I toubab (i bianchi) entrano da noi senza problemi, noi non possiamo andare da loro legalmente», protesta qualcuno. C’è amarezza, un senso di impotenza. A Thiès, sua città natale, Seydou Sarr cammina orgoglioso tra la folla che lo riconosce. Le ragazzine indossano magliette col suo nome. Lui sorride, irresistibile, e racconta di aver provato tante volte a gridare «Io, capitano!» davanti allo specchio, ma senza riuscirci. Quel grido finale, dice, è stato un momento magico, irripetibile. Lo si vede cantare con Moustapha nel pullman, suonare il tamburo prima della proiezione, ma soprattutto brillare nelle risposte ai dibattiti.«Questo film deve essere visto sia dagli africani che dai bianchi», dice Seydou. «Per noi, perché dobbiamo capire il pericolo di partire. Per loro, perché vedono solo le barche con i superstiti, ma non sanno cosa c’è dietro. Se vedranno questo film, capiranno la nostra sofferenza. E forse ci aiuteranno». Il documentario Allacciate le cinture nei prossimi mesi girerà anche l’Italia. Non resta che seguirlo.     Africa Rivista
Verso un rinascimento umanista africano?
Note sul nuovo corso della rivoluzione popolare in Senegal. Decostruire e ricostruire sono due filoni difficilmente separabili nel contesto politico senegalese e due armi formidabili per la rinascita. È questa la posta in gioco se vogliamo soddisfare le richieste sociali di un popolo ferito dal governo più tortuoso della nostra storia. A differenza delle altre elezioni, segnate dal “degagismo” (degager, cacciare via, N.d.T.) , quelle del 2024 portano il segno di un voto emotivo e reattivo contro un sistema di predazione e monopolizzazione. Questo riflette la posizione radicale anti-sistema che i giovani hanno assimilato grazie al loro impegno incrollabile. Il discorso anti-sistema è stato il dividendo della vittoria. Questo dividendo ha un prezzo se vogliamo ottenere una rottura sistemica con il sistema all’altezza delle aspettative delle masse. Questa scelta “anti…” implica la decostruzione del modello neocoloniale dominante. Si sta generando un nuovo immaginario socio-politico disinibito, al quale le nuove autorità si stanno dedicando per realizzare le aspirazioni del popolo a un autentico progresso sociale. È un’opportunità per decostruire e generare un nuovo modello. Con Diomaye e Sonko ora al potere, tutte le loro azioni saranno esaminate per la materialità della loro postura mediatica anti-sistema e delle rotture. Devono affrontare le avversità del vecchio regime, l’imperialismo delle istituzioni di Bretton Wood e le lobby multidimensionali che stanno corrompendo la nostra società, il “Deep State” che deve essere smantellato, la radice del sistema neocoloniale che non può essere riformato. Tutti i simboli del disincanto politico si stanno cristallizzando per alimentare la speranza di una rottura sistemica. Il progetto, che è un mito fondante di nuove speranze, giustifica la sedimentazione dei segni dell’annunciata rottura con il passato. Ci sono segnali positivi dopo un anno di governo del PASTEF? Sì, senza dubbio (ci torneremo più avanti). Tuttavia, c’è una vera e propria vigilanza da parte dei cittadini e della gente, che protegge il processo di cambiamento e i suoi principali leader, che sono stati liberamente scelti dal popolo. Quindi la rottura fondamentale sta più nel contenuto delle politiche pubbliche e non nella cosmesi di modelli e principi tecnocratici. Ci sono segnali di una timida iper-presidenza, come sembra affermare l’attuale Opposizione? In ogni caso, la necessità di introdurre metodi di gestione socio-politico-economica orizzontali, molto più in linea con l’emergere della “nuova sensibilità” di cui parla Silo, pensatore e fondatore del Movimento Umanista Universalista, è a nostro avviso l’unica risposta seria. La rottura simbolica deve permeare tutti i segmenti del nostro corpo sociale e giustificare una mobilitazione sociale volontaria intorno alla sepoltura delle vecchie modalità dello Stato neocoloniale. È urgente orientarsi verso il rinascimento africano tanto caro a Cheikh Anta Diop. N'diaga Diallo
Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal
SIPIKAT E ASSASSINI: QUANDO IL POLAR FA TAPPA IN SENEGAL Vita a spirale ✏ Abasse Ndione 19 Settembre 2021/di Eleonora Salvatore CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo Tempo di lettura: 6 minuti * Vita a spirale, Abasse Ndione, e/o Edizioni, 2011, traduzione dal francese di Barbara Ferri. Vita a spirale, romanzo polar del senegalese Abasse Ndione, ha conosciuto un notevole successo sin dalla sua prima pubblicazione a cura delle Nouvelles Éditions Africaines du Sénégal nel 1984, anno in cui il maliano Modibo Sounkalo Keïta riceveva il Grand prix littéraire dell’Afrique Noire per L’Archer bassari, archetipo del romanzo polar africano in lingua francese. LA FORTUNA DEL ROMANZO POLAR Il genere polar, che cuce le strategie narrative proprie del romanzo poliziesco su personaggi che sono incarnazione ed espressione della cultura delle classi popolari, nella galassia letteraria dell’Africa francofona, è stato spesso considerato uno scarto di “sotto-letteratura”, tacciato dall’intelligentia africana di essere un “passatempo borghese”, come ha scritto Fanny Brasleret. In realtà il largo successo di pubblico che ha baciato questa costellazione così particolare nell’ambito dei generi narrativi, è legato a molteplici fattori. In primis il mutato contesto politico di produzione della letteratura stessa. Dal ritiro francese dal Senegal alla pubblicazione de La vie en spiral, infatti, sono trascorsi appena ventiquattro anni. La letteratura senegalese attraversa questa congiuntura storica interrogandosi su nuovi temi: l’atmosfera politica del post-indipendenza e il ruolo della religione in una società che si scopre meno secolarizzata del previsto eppure animata dalle controculture giovanili che picconano perfino i totem della fede. Altro fattore importante fu l’avvento di una letteratura di massa che parla la stessa lingua dei suoi lettori e che è allo stesso tempo immersione e radicamento in una società chiamata a fare i conti con la corruzione, l’incremento del tasso di criminalità e lo sfaldamento dei valori comunitari. In ultimo, una certa plasticità del genere polar a incrociare registri linguistici differenti – il francese amministrativo dell’autorità e del potere, e il wolof popolare non di rado declinato secondo uno slang criminale  – e a farsi interprete di un bisogno di comprensione del reale non intercettato dalle altre forme del romanzo. UNA TRAMA ROCAMBOLESCA Le pagine iniziali dell’opera si aprono col racconto ironico della sconfitta dei Gaïndé, i giocatori della nazionale di calcio del Senegal, impegnati nella partita di ritorno contro la selezione ivoriana nel girone di qualificazione alla fase finale della XIII Coppa d’Africa delle Nazioni. In un hotel di Abidjan, alcuni degli astri della nazionale senegalese, la sera stessa del loro arrivo nella capitale ivoriana, sono scoperti a fumare yamba e messi in prigione. La notizia dell’arresto riecheggia sdegnosamente nel Paese della teranga: esercito, polizia e guardia costiera ricevono l’ordine di radere al suolo i campi di canapa, nella striscia di terra compresa tra Géjawaay e Saint-Louis, e sgominare le reti di produzione e commercializzazione del “tabacco dei geni”. Due sono gli elementi interessanti che emergono da questa particolare ambientazione. Il primo è il riferimento, da “prosa del reale”, alla XIII Coppa d’Africa effettivamente disputata in Libia e vinta dalla nazionale ghanese nel 1982, anno in cui nelle radio senegalesi spopolerà Omar Pene con la sua band, la Super Diamono, per la canzone Jaraaf dedicata all’omonimo club di calcio di Dakar. Il secondo elemento è strettamente intrecciato al primo. La costruzione di un racconto calcistico che apre il romanzo aiuta a stabilire una “connessione sentimentale” tra l’autore ed il suo pubblico di lettori. Il calcio, “la felicità degli uomini semplici”, per riprendere il fortunato titolo della raccolta di storie brevi composte da narratori africani e curata dal congolese Alain Mabanckou per la casa editrice 66thand2nd, diventa un rito letterario per la gioventù del continente. Sullo sfondo di questa caccia alla streghe contro i sipikat, gli spacciatori, e i fumatori di yamba, scorrono la vita e la morte di un gruppo di giovani amici del villaggio di Sambey Karang fustigato dalla calura e dall’assenza di piogge che vengono propiziate con una cerimonia espiatoria e l’immolazione di un toro perché «A SAMBEY KARANG, LE TRADIZIONI ANIMISTE ERANO ANCORA SALDE, MALGRADO L’ISLAMIZZAZIONE TOTALE.» Amuyaakar Ndooy, narratore interno e protagonista principale del romanzo, Laay Goté, Yaba Xanca, Bukari e Badara sono soliti fumare spinelli e s’ingegnano per sopperire all’interruzione della filiera dell’erba proibita. Provano prima con lo xompaay, la pianta degli spiriti maligni, ma finiscono in ospedale in preda a febbri deliranti e convulsioni. Una volta guariti dall’intossicazione da stramonio entrano in contatto con Ameth Ndaw, allievo della Scuola Ufficiali dell’Esercito che procura loro lo yamba ormai introvabile. Dopo un mese e mezzo di astinenza, i cinque amici rollano canne nel loro rifugio segreto, un blockhaus immerso nella boscaglia di Amsondeng. Mentre nell’edificio l’odore della carne grigliata si mescola con quello resinoso dell’erba bruciata, Amuyaakar Ndooy matura il proposito di diventare sipikat acquistando lo yamba direttamente dagli stessi contadini della Casamance da cui si rifornisce l’allievo ufficiale. Coi cervelli arrostiti dai fumi, «LA CONVERSAZIONE SI FECE RICCA, BRILLANTE, CONTRADDITTORIA: LA VITA INCERTA E LA MORTE ANCORA PIÙ INCERTA, LA LETTERATURA, I COLPI DI STATO, LE RELIGIONI RIVELATE, LA DEMOCRAZIA TRASFORMATA IN CORRENTE DI PENSIERO, BOB MARLEY, LA PROSTITUZIONE, I MARABUTTI, GLI INTERVENTI STRANIERI IN AFRICA, I RAPPORTI SESSUALI, L’APARTHEID.» Se lo yamba scioglie e libera parole impronunciabili, è altrettanto vero che accelera, per Amuyaakar Ndooy, il turbinio di sogni imprenditoriali nel mondo del crimine. Amuyaakar Ndooy, tassista abusivo, sceglie il rischioso mestiere del sipikat per mero calcolo economico. L’elemento hippy ed anticonformista del libero uso di cannabis si intreccia con una sorta di connotato yuppie di un giovane uomo che rompe le regole del villaggio di nascita per avventurarsi nel mondo scintillante e conturbante della città e costruire una carriera professionale nell’imbuto di un vortice criminoso che gli frutterà cospicui guadagni e una vita matrimoniale in cui ci sarà spazio per più di una moglie, ma che gli costerà la perdita degli amici. Dai campi di canapa della Casamance fino ai locali alla moda di Dakar, Amuyaakar Ndooy incontrerà un universo popolato da poliziotti e giudici corrotti, faccendieri bianchi misteriosi e contadini custodi di un sapere magico e al tempo stesso intriso di razionalità. RELIGIONE E MAGIA La piccola comunità di Sambey Karang non vede di buon occhio il consumo di cannabis ritenuto contrario ai precetti della religione islamica. Gli anziani convocano una riunione nel corso del quale Bukari prende la parola sferzandoli con una sequela di invettive: «VOI ANZIANI VI PREOCCUPATE SOLTANTO DEL VOSTRO ROSARIO E DELLA VOSTRA PELLE DI PECORA.» Nell’ammonimento pronunciato da Bukari si cela una profonda insoddisfazione nei confronti del posto che la religione è venuta ad occupare in una società che imbriglia qualsiasi possibilità di autodeterminazione in nome di un’adesione totale, a tratti ipocrita, alla fede musulmana. Non è in discussione l’Islam ma l’uso che se ne fa per prescrivere comportamenti sociali che nessuno rispetta sino in fondo. La costanza della presenza dell’elemento magico è tipico di questo polar. La carriera di sipikat di Amuyaakar Ndooy, infatti, prende avvio con la consegna allo stesso di un talismano da parte di Fa Kébuté, marabutto amico di Jombiku, il primo contadino che aiuta Ndooy a sfondare come procacciatore di yamba di altissima qualità. Il bracciale che riceve in dono è un gri-gri di cuoio che prima di essere bracciale era stato un serpente nero bicefalo. Il segreto di questa vita a spirale è tutto qui: nel precario equilibrio tra due spiriti, entrambi a forma di serpente, uno buono e l’altro malvagio.✎ INCIPIT «Il DC 10 della compagnia Air Afrique che riportava i Gaïndé s’immobilizzò in fondo alla pista. Bigé Pay, il commissario tecnico, lanciò un’occhiata dall’oblò e vide che ad aspettare c’erano i membri della Federazione nazionale calcio e alcuni giornalisti. In tutto una dozzina di persone. “L’accoglienza non è proprio la stessa di quattro giorni fa” disse, voltandosi verso i giocatori e i dirigenti della squadra seduti dietro di lui. Si sganciò la cintura di sicurezza e si alzò, un sorriso beffardo sulle labbra. “Avanti, ragazzi, si scende. Dovremo spiegare al popolo perché abbiamo perso la battaglia!”». Tags: Abasse Ndione, afro-polar, calcio, Casamance, Edizioni E/O, evidenza, francese, polar, Senegal CORRELATI SIPIKAT E ASSASSINI: QUANDO IL POLAR FA TAPPA IN SENEGAL 19 Settembre 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/09/Abasse-Ndione_Vita-a-spirale-slider.jpg 1152 2048 Eleonora Salvatore https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Eleonora Salvatore2021-09-19 16:53:502021-09-19 16:53:50Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal TRA YEMANJÀ E AGUDA. IL GRANDE AZZURRO, AYESHA HARRUNA ATTAH 25 Aprile 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/04/Ayesha-Harruna-Attah-Il-grande-azzurro_slider2.jpg 844 1500 Maria Antonietta Maggio https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Maria Antonietta Maggio2021-04-25 09:12:492021-07-19 10:18:07Tra Yemanjà e aguda. Il grande azzurro, Ayesha Harruna Attah 20 CITTÀ AFRICANE TRA VIAGGI E FOTOGRAFIA. A STRANGER’S POSE, EMMANUEL IDUMA 12 Novembre 2019 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2019/10/AStrangersPose_banner.jpg 1440 2560 Veronica Sgobio https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Veronica Sgobio2019-11-12 21:15:362021-07-19 15:52:5720 città africane tra viaggi e fotografia. A Stranger’s Pose, Emmanuel Iduma L'articolo Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal proviene da Afrologist.