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Caso “La Stampa”. Il prezzo di stare dalla parte giusta
Sabato sera. Cena. La Tv gira per conto suo. Arrivano le parole: “Ignobile, vile, grave, irresponsabile, anni di piombo”. Guardo le immagini: ragazzi entrano nella sede del quotidiano La Stampa e come si direbbe oggi in linguaggio antagonista “lo sanzionano”. Mi colpiscono i volti scoperti. Santa ingenuità. Con un governo di […] L'articolo Caso “La Stampa”. Il prezzo di stare dalla parte giusta su Contropiano.
Vogliamo parlare della stampa?
“E allora toh, vi aggiungo un altro buon motivo, per la fermata del Vernacoliere: c’è anche la crisi sempre più profonda della carta, a dettar la nuova legge dell’editoria. Quella dei giornali, soprattutto. Che quasi più nessuno legge, surclassati come sono dai social, coi telefonini a dettar legge ovunque, nuovi […] L'articolo Vogliamo parlare della stampa? su Contropiano.
Il declino dell’impero
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Come finì l’Impero Romano? Quali somiglianze presenta la fine di quell’impero con gli imperi attuali? Immaginiamo un tavolo da gioco di guerra per adolescenti. I pezzi delle corazzate, dei carri armati e delle truppe hanno un costo nel gioco stesso; ma la guerra, invisibilmente, ha molti altri costi; che non compaiono nel gioco, dato che — il gioco — è solo una simulazione e non la realtà stessa. Quanto più un impero si espande, tanto più diventa difficile mantenere i propri domini, per molte ragioni diverse. Dalle ragioni logistiche a quelle che, invisibili, operano solo nell’animo umano: dentro ogni soldato e ogni cittadino del territorio invaso. Quanto più passa il tempo, tanto più si sviluppano forze contrarie alla permanenza di quelle truppe in quel territorio e, allo stesso tempo, non esiste una dinamica, da parte della logistica dell’invasione, che possa rispondere e accompagnare lo sviluppo di quelle forze. Mentre il piano di invasione e occupazione rimane lo stesso dal giorno in cui è stato firmato su carta dal capo delle truppe d’invasione, i piani degli occupati, degli abitanti del territorio invaso, acquisiscono nuove idee, comprensioni, cambiano e cominciano a prendere forma attraverso il rifiuto dell’occupazione. Più passa il tempo, più l’occupazione diventa debole. La caduta dell’Impero Romano, così come quella di tutti gli altri imperi esistiti nella storia dell’umanità, presentano punti in comune che sono perenni nell’esistenza umana: non è possibile vivere di sola repressione. L’epoca di Diocleziano, se guardata con occhi attenti e meticolosi, può trasmettere due insegnamenti: uno … è che fu l’epoca dell’ultimo tentativo di reprimere il cristianesimo (che stava avanzando come religione tra il popolo, e la sua repressione si rivelò clamorosamente infruttuosa), e questo insegna che la fede del popolo è qualcosa di ineluttabile, qualcosa di intoccabile, e non è necessario metterla in discussione di fronte alla politica; e, due …, fu in quest’epoca che venne stabilita la misura politica della “Tetrarchia” da Diocleziano, il quale, prevedendo questi conflitti interni all’impero stesso, pensò che sarebbe stata una via d’uscita (poiché non vedeva via d’uscita ) suddividere l’impero in quattro, distribuendolo tra altri amministratori, ora, ugualmente divenuti imperatori. L’espansione dei domini porta con sé più guerre, e più guerre richiedono tasse; e le tasse portano alle crisi; oltre a quelli già esistenti, oltre all’economia: intrighi e lotte di potere. In qualsiasi momento, una risposta da parte del dominato può sfidare il potere costituito. Nel minimo momento di fragilità politica, economica o militare, oppure nel momento più opportuno. All’epoca esisteva il rischio di invasioni da parte dei popoli barbari vicini. I Germani. Oltre a tutto questo, il soldato stanco, nonostante combattere la guerra sia il suo sostentamento, non ha abbastanza pane per comprarselo, e anche lui, come la gente, è insoddisfatto di questo: ha bisogno di soldi. Ciò avveniva nell’Impero Romano, proprio come avviene oggi. I risultati elettorali negativi si verificano sempre in periodi di fallimento militare. Il presidente eletto, dopo anni di conflitto, è, molto generalmente, colui che promette il ritorno delle truppe. Non importa chi sia: anche se è un falsario. Qualcuno che, per mero opportunismo, fa il discorso più appropriato al momento. Il lupo travestito da pecora. La storia recente degli Stati Uniti (quando gli imperi assumono nuove forme, che non richiedono esattamente l’invio di truppe, ma il loro controllo a distanza, attraverso l’economia, presidenti fantoccio e forze di polizia locali), mostra gli stessi sintomi di declino che esistevano secoli e secoli fa. Il fallimento politico deriva dal fallimento militare. I soldati, delusi dalle promesse e sentendosi abbandonati dal governo, vedendo i loro colleghi uccisi, cominciano a riconsiderare le scelte fatte; anche i più stupidi, di fronte a sparatorie, bombe che esplodono all’improvviso, urla di gente insanguinata, un massacro terrificante, la morte sempre più vicina e l’ostilità popolare crescente, con espressioni di odio viscerale e di rabbia contro la loro presenza; Anche questi — i più stupidi, che hanno creduto a tutte le promesse fatte dalla leva, e quelli che si definiscono i più “patrioti” — cominciano a chiedersi se non starebbero meglio a casa, a mangiare torta di mele. Non ci sono soldi che possano sostenerlo. Non c’è più alcun sostegno tra la popolazione ingannata e impoverita. Il morale della truppa è a terra. I nuovi territori sono nuove fonti di risorse e materie prime. Ma….. Come continuare ad espandersi? L’impero si espande fino a raggiungere il declino. Le spese per le guerre hanno un costo. Gli oppositori politici, siano essi opportunisti o idealisti, tendono ad approfittare di questi momenti. Questi ultimi (per quanto privi di scrupoli, finanziati e beneficiari delle bugie raccontate al popolo) tendono ad avere un vantaggio rispetto a questi ultimi. Gli altri popoli, prima più deboli, ora si scoprono più forti. Pronti per un futuro tentativo più audace. Poi l’impero decadde.  -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il declino dell’impero proviene da Comune-info.
“Oppio per Ovidio”. Ventidue donne contaminano “Le metamorfosi” e “Note del guanciale”
Tawada è una scrittrice giapponese che vive in Germania e scrive in due lingue, oscillando tra giapponese e tedesco. Già questa duplicità linguistica è la sua prima forma di metamorfosi. La traduzione di Alessia Torre trae i contorni del suo modo di abitare il mondo. E nel suo scrivere, la lingua stessa diventa corpo: porosa, instabile, in continua trasformazione. Oppio per Ovidio nasce da questo gesto radicale di attraversamento. Tawada prende due testi fondativi della cultura letteraria – le Metamorfosi di Ovidio e le Note del guanciale di Sei Shōnagon – e li fonde, li trasforma in qualcosa che non è più né mito né diario, ma una forma ibrida, liquida, un campo di esperimenti linguistici e sensoriali. Le ventidue donne che abitano queste pagine non sono figure mitologiche nel senso tradizionale: sono fantasmi di divinità reincarnate nel presente, frammenti di corpi che si muovono fra Amburgo e l’altrove, donne che hanno perso e ritrovato se stesse nella memoria del mito. Ciascuna di loro parla, sussurra, si racconta attraverso il corpo, perché per Tawada non esiste pensiero che non sia carnale. Ma il corpo, qui, non è una prigione: è uno strumento di conoscenza. È attraverso il corpo che la parola si fa politica. > Il femminismo di Tawada non urla: respira. È un femminismo di cura, di > trasformazione condivisa, dove le donne non combattono contro il mondo, ma lo > riforgiano attraverso la sensibilità. In questo senso  Oppio per Ovidio  si avvicina profondamente al  transfemminismo contemporaneo, quello che rifiuta le identità rigide, le dicotomie di genere, le forme machiste della ribellione e che invece rivendica il diritto alla metamorfosi, alla fluidità, alla vulnerabilità come forza politica. Quando una delle protagoniste dice che «Semele ha dato via le armi, ma doveva rimanere fiera e sensibile, protestare con veemenza ed esporre tutti gli orifizi», la frase non è solo un paradosso poetico: è un cambio di paradigma. L’arma diventa la pelle, l’apertura, la disponibilità a sentire. La protesta, per Tawada, è l’atto di mostrarsi, di non temere la permeabilità. È una forma di politica che nasce dal corpo e non dalla violenza. Nel mondo di Tawada le donne non cercano di diventare come gli uomini per ottenere potere: lo riscrivono. Si fanno mediatrici di un altro modo di conoscere, un sapere che passa per l’esperienza sensoriale e per la relazione, non per l’imposizione. È un sapere circolare, erotico nel senso più ampio del termine, dove eros non è desiderio sessuale ma tensione vitale, movimento verso l’altro. In questo universo, la metamorfosi non è punizione, ma possibilità. Il corpo che cambia non è un tradimento, ma una nuova grammatica dell’essere. In più punti, le protagoniste mettono in scena un gesto che potremmo chiamare autobattesimo: nominarsi da sole, scegliersi un nome, riconoscere il proprio valore senza bisogno di legittimazione esterna. È un atto simbolico di autonomia, ma anche una forma di resistenza linguistica. Dare un nome è sempre un atto di potere; battezzarsi da sé significa sottrarre il proprio corpo al dominio del linguaggio patriarcale. È un gesto che rimanda alla tradizione mitica (pensiamo a Dafne, che si trasforma per non essere posseduta), ma qui il mutamento non è fuga, è fondazione: una rinascita consapevole. Il corpo, in Oppio per Ovidio, è anche luogo di conflitto. Cambia, si deforma, si dissocia, a volte si rifiuta. Ma non c’è tragedia in questa mutazione: c’è conoscenza. L’accettazione del corpo, la capacità di ascoltarlo e di lasciarlo parlare, diventa un modo per accedere a un sapere che la cultura patriarcale ha sempre disprezzato – il sapere sensoriale, intuitivo, instabile. «Il mio corpo mi parla in una lingua che non ho ancora imparato», sembra dire ogni voce del libro. E nel tentativo di tradurre quel linguaggio, Tawada costruisce una poetica della trasformazione permanente. A un certo punto, la scrittrice rovescia la prospettiva sulla lotta femminista. Non c’è più la guerra contro il maschile, ma la creazione di uno spazio condiviso. La protagonista che cita Semele rifiuta la forza distruttiva, sceglie la forza della sensibilità. È qui che Oppio per Ovidio incontra il transfemminismo: non come teoria accademica, ma come pratica quotidiana del vivere. Il corpo diventa interfaccia politica, la differenza diventa linguaggio, l’empatia diventa strumento di resistenza. La metamorfosi è, in fondo, un atto transfemminista: la capacità di riscrivere continuamente se stesse, di sfidare ogni categoria fissa, ogni narrazione imposta. Ma il libro non parla solo di corpi. Parla anche di potere. In diverse pagine, Tawada rappresenta lo Stato come una figura paterna: autoritaria, distante, apparentemente protettiva. È l’immagine di un Padre-Stato che regola e controlla, che concede libertà solo a condizione di poterle revocare. A questa logica Tawada contrappone una visione radicalmente ecologica e non gerarchica: invita a pensare lo Stato come la pioggia per i contadini. Non bisogna, scrive, credere che la pioggia aiuti di proposito il contadino. La pioggia cade, e basta. È un fenomeno naturale, non un dono. Allo stesso modo, le istituzioni non sono entità benevole, ma sistemi da abitare con consapevolezza critica. Questa analogia spezza il legame paternalistico che regge la nostra idea di potere. Se lo Stato non è padre ma clima, se la politica non è famiglia ma ecosistema, allora il rapporto tra cittadino e autorità non può più essere fondato sulla dipendenza, bensì sull’interdipendenza. Tawada suggerisce che la libertà femminile non può esistere finché si rimane figli di uno Stato-padre. Bisogna diventare contadine del proprio terreno, riconoscere che la pioggia non è un premio ma una condizione: a volte cade, a volte no. > È un modo di restituire al politico una dimensione di realtà, di togliere al > potere la sua aura mistica e restituirlo al mondo fisico, ai corpi che lo > vivono. Allo stesso tempo, le protagoniste del libro riflettono costantemente sulla coscienza. «È forse una scienza condivisa?», si chiedono. La domanda, che suona come un gioco di parole, contiene una verità profonda: la coscienza non è un bene privato, ma un territorio collettivo. Tawada mette in dubbio la concezione occidentale della coscienza come proprietà individuale e la trasforma in un processo relazionale. Le donne del libro sentono e pensano insieme, condividono una sorta di percezione diffusa, come se la loro mente fosse un campo elettrico in cui i pensieri circolano senza confini netti. È una visione profondamente politica: la conoscenza nasce dal contatto, non dall’isolamento. Questa idea di coscienza collettiva si riflette anche nella scrittura stessa. Tawada adotta un punto di vista mobile, spesso in terza persona, ma attraversato da un “io” intermittente. Molte delle protagoniste parlano di sé come se si osservassero da fuori, un gesto che la psicologia cognitiva ha effettivamente riscontrato come tipicamente femminile. In un esperimento noto, quando a uomini e donne viene chiesto di «immaginare una mela», gli uomini tendono a visualizzare solo la mela, mentre molte donne si immaginano se stesse che la mangiano. L’immagine del sé è sempre presente, anche negli atti più semplici. È la traccia di uno sguardo interiorizzato, costruito da secoli di abitudine a essere viste. Tawada traduce questa consapevolezza in una poetica dello sguardo. Le sue donne sanno di essere osservate, ma decidono di deviare lo sguardo, di spezzarlo. «Si impara il timore per il pubblico disprezzo», scrive, riconoscendo come la cultura insegni alle donne a temere non l’errore, ma il giudizio. Di conseguenza, si finisce per non vedere più il mondo per ciò che è, ma solo per ciò che dovrebbe essere: «non vedi affatto l’albero in quanto albero, ma pensi solo a come l’albero dovrebbe essere». In queste frasi si condensa una critica sottile ma ferocemente lucida al modo in cui la società plasma la percezione femminile. Una delle voci del libro dichiara, con pacata determinazione, di non voler più «dover sembrare bella», di non «dover più voler sembrare bella». È una negazione doppia, quasi grammaticale, che si ribella tanto all’obbligo estetico quanto all’obbligo di desiderare quell’obbligo. In un altro passaggio, un’altra donna afferma: «non mi serve il tuo sguardo. Questa è la dichiarazione del velo ambulante». L’immagine è potentissima: il velo non è qui simbolo di oppressione, ma di libertà. È un gesto attivo di sottrazione, una scelta di invisibilità. Il corpo, schermato dallo sguardo altrui, torna a essere proprio. Da questo punto di vista, Oppio per Ovidio è anche una riflessione sulla agency delle parole sul corpo. Tawada mostra come il linguaggio possa costruire o distruggere identità, come ogni parola pronunciata sul corpo sia un atto di potere. Ma il suo modo di reagire non è distruggere il linguaggio, bensì reinventarlo. Le sue protagoniste inventano, smontano, rimontano parole, le piegano, le ibridano. Il libro è pieno di giochi linguistici, di neologismi, di frasi che si aprono su significati inattesi. È come se la lingua stessa fosse sottoposta a una metamorfosi continua, proprio come i corpi che descrive. > In questo senso, la scrittura di Tawada è anche un gesto politico: spezzare la > lingua per farle dire altro, per renderla capace di contenere esperienze che > la grammatica patriarcale aveva escluso. La parola diventa un atto di > guarigione, un modo di restituire senso a ciò che era stato taciuto. L’atto > linguistico è corporeo: ogni frase si muove come un muscolo, si tende, si > ritrae, respira. Contro la cultura della produttività, che misura il valore in termini di utilità e rendimento, Tawada oppone un principio di spreco consapevole. “Posso sprecare il mio tempo se voglio”, dice una delle voci. È una frase di apparente leggerezza, ma è in realtà un’affermazione rivoluzionaria. Rivendicare il diritto di sprecare tempo significa opporsi alla logica capitalista che pretende di trasformare ogni gesto in prestazione, ogni minuto in profitto. In un mondo che ci impone di essere sempre efficienti, la lentezza diventa atto politico, la passività una forma di resistenza. Tawada riscrive così l’etica del lavoro e del corpo: il corpo che non produce, che sogna, che si ferma, diventa un luogo di libertà. Verso la fine del libro, una delle protagoniste pronuncia quella che sembra essere la dichiarazione di poetica di tutto il testo: «Voglio essere storta, irregolare, eccessiva e frivola». È una frase che suona come un manifesto, una celebrazione della dissonanza e dell’imperfezione. Essere “storta” significa rifiutare la linearità del pensiero dominante; essere “irregolare” è rivendicare la complessità dell’esperienza; essere “eccessiva” è sfidare il controllo, e “frivola” è ribaltare il disprezzo maschile verso ciò che è associato al femminile. In quattro aggettivi Tawada concentra la sua filosofia: la libertà è deformità, la misura è schiavitù. In questo senso, Oppio per Ovidio è anche un testo profondamente politico, benché non ideologico. Tawada non costruisce teorie: le fa vivere. Ogni voce del libro è un piccolo esperimento di mondo, una micro-utopia in cui la sensibilità si sostituisce alla forza, la metamorfosi all’identità, la parola al potere. La sua scrittura è radicale proprio perché non si pone come manifesto teorico, ma come esperienza incarnata di libertà. L’intertestualità con Ovidio e Sei Shōnagon non è solo un omaggio letterario, ma una riscrittura di genealogie. Tawada mette in dialogo due tradizioni patriarcali – la mitologia classica e la letteratura di corte – e le sovverte dall’interno. Se Ovidio raccontava metamorfosi imposte dagli dèi, Tawada racconta metamorfosi scelte. Se Sei Shōnagon annotava il mondo da un cuscino, Tawada lascia che le sue donne scrivano dai letti, dalle strade, dai sogni, dalle ferite. Il guanciale non è più un oggetto domestico, ma uno spazio di pensiero, un laboratorio poetico. > Nel libro, la lingua è sempre duplice: si muove fra concretezza e astrazione, > fra descrizione e riflessione. Tawada riesce a tenere insieme la materia del > mondo – il corpo, il sangue, la pelle, l’odore – e l’idea, la teoria, la > coscienza. È una scrittura che unisce filosofia e sensualità, che pensa > attraverso i sensi. Le parole non spiegano: toccano. La fluidità del testo è anche la sua forma politica. Tawada non costruisce una trama, ma una costellazione di voci. Il suo modo di raccontare è anti-lineare, antigerarchico: ogni donna ha lo stesso peso, ogni frammento di storia vale quanto gli altri. È una scrittura democratica nel senso più profondo, perché rifiuta la centralità, il punto di vista unico, la voce dominante. Il lettore è chiamato a spostarsi continuamente, a cambiare prospettiva, a partecipare alla metamorfosi. E proprio questa esperienza di lettura – instabile, sensoriale, vertiginosa – è ciò che rende Oppio per Ovidio un libro necessario. Tawada ci insegna che la trasformazione non è un rischio, ma una forma di conoscenza. Che la fragilità non è debolezza, ma possibilità di contatto. Che il linguaggio, se lo lasci vivere, può ancora guarire. Alla fine del viaggio, resta la sensazione di aver attraversato un sogno lucido, in cui le parole si sono fatte corpo e il corpo si è fatto parola. Le ventidue donne di Tawada non chiedono salvezza, non rivendicano diritti: semplicemente esistono, si raccontano, si reinventano. Sono figure di un mondo che non conosce più confini netti tra maschile e femminile, tra umano e divino, tra reale e immaginario. Sono, in fondo, ciò che tutti potremmo diventare se accettassimo la metamorfosi come destino. Yoko Tawada ci consegna un’opera di rara intensità, che fonde poesia e politica, linguaggio e corpo, Oriente e Occidente, mito e contemporaneità. Oppio per Ovidio è un testo che rifiuta ogni definizione, un invito a pensare e a sentire diversamente. In tempi in cui la parola “identità” è spesso usata per delimitare, per chiudere, Tawada la restituisce al suo senso originario: “identità” come processo, come relazione, come dialogo infinito tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. Leggere questo libro significa accettare di perdersi, di non capire tutto, di abbandonare il desiderio di chiarezza. È un atto di fiducia nel potere della lingua di aprire spazi di libertà. Tawada non ci dà risposte: ci offre domande che continuano a pulsare dentro di noi, come vene sotto la pelle. Alla fine, la voce collettiva del libro sembra sussurrare una frase semplice e rivoluzionaria: «posso sprecare il mio tempo se voglio». Ed è forse in questa leggerezza che si nasconde la più grande forma di resistenza Immagine di copertina da Wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo “Oppio per Ovidio”. Ventidue donne contaminano “Le metamorfosi” e “Note del guanciale” proviene da DINAMOpress.
L’ossessione del potere
-------------------------------------------------------------------------------- Una vignetta di Mauro Biani pubblicata su Azione nonviolenta -------------------------------------------------------------------------------- È sempre stato per me un mistero degno delle più approfondite e mai definitive analisi quello dell’attaccamento al potere e della brutalità che questo attaccamento può esprimere. Non passa giorno che la violenza, nelle sue manifestazioni militari, mediatiche, culturali o di ordine pubblico, sia giustificata in modo impeccabile pur di servire quei governi o gruppi di potere che la applicano. Lo fa il primo ministro israeliano e la sua compagine ministeriale, che pur di non sciogliere il governo hanno dichiarato una guerra senza fine ai Palestinesi, lo fanno i governi di ex-Paesi socialisti come la Russia o la Bielorussia, in cui i dissidenti muoiono stranamente in carcere, lo fa l’Amministrazione statunitense sempre più propensa a usare le forze armate anche entro i propri confini; lo fanno i mezzi di informazione italiani quando derubricano le folle che scendono in piazza contro ogni genocidio come gruppi di facinorosi, come se il comportamento aggressivo di uno valesse per quello degli altri novantanove pacifici dimostranti. E lo fanno i regimi arabi, che gridano allo scandalo sionista mentre reprimono ogni dissenso interno. È di questi ultimi giorni la notizia di come dei post sui social media possano portarti alla gogna. Ismail Iskandarani, caro amico di Alessandria d’Egitto, ricercatore specializzato in sociologia politica e movimenti islamici, dopo aver passato almeno sette anni in carcere con l’accusa mai provata di appartenere ai Fratelli musulmani, venne liberato esattamente due anni e nove mesi fa. Ismail è stato arrestato di nuovo il 25 settembre, con l’accusa di aver pubblicato materiale destabilizzante, per la precisione diciassette post su Facebook in cui esprimeva discretamente la sua opinione, rispondendo a discussioni sull’uso di mezzi repressivi in assenza di processi giusti, sull’accesso delle donne alla carriera giuridica, o sulle politiche di gentrificazione urbana che colpiscono le fasce più deboli. In Tunisia, invece, il primo ottobre, un cittadino tunisino è stato condannato a morte per aver portato offesa al presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia attraverso una pagina Facebook critica nei confronti del potere. Saber Chouchane, in carcere dal gennaio del 2024, aveva un conto Facebook intitolato “Kaies il poveraccio” in riferimento al presidente Kaies Said, conto sul quale Choucane pubblicava critiche al potere, appelli a manifestare o a liberare i detenuti politici, nonché caricature del capo dello Stato e dei responsabili governativi. L’assurdità della condanna alla pena capitale, le cui esecuzioni sono sospese in Tunisia dal 1991, ha colto di sorpresa tutti, al punto che lo stesso avvocato del condannato non si poteva spiegare le motivazioni giuridiche a sostegno della condanna quando ha letto la sentenza. Quella terribile ossessione del potere, che solo i meccanismi di contrappeso della democrazia e lo spettro del conflitto armato nel corso della Storia hanno saputo contenere, ha radici lontane, e trova la sua base nel sostegno popolare imbevuto di ideologia. Lo scrittore Elias Canetti vi dedicò un’opera enciclopedica, che intitolò Massa e potere (1960), in cui spiegava che l’accentramento del potere si alimenta del sentimento di massa e si esprime attraverso la cultura della sopravvivenza. Il “candidato accentratore” vincerà la sua sfida quando saprà raccogliere le persone attorno a un presunto senso di persecuzione: si tratta di una particolare suscettibilità, eccitabilità nei confronti di nemici designati come tali una volta per tutte, e le cui intenzioni sono interpretate come risultato di un proposito preconcetto di distruggere, apertamente o subdolamente, la massa in questione. La “massa” si sente assediata, e questo sentimento di assedio, da parte sia di nemici esterni che di soggetti sleali tra le proprie fila, è la spinta che la rafforza o la divide. Ebbene, la paura del disgregamento, che sempre vive in essa, rende possibile orientarla verso qualunque meta. Qui sta il ruolo della direzione: la massa esiste fin quando la sua meta non è stata raggiunta, e perché una massa possa durare, la meta deve essere spostata più in là. Secondo Canetti, in una massa domina l’illusione dell’eguaglianza, che può esprimersi nell’identità etno-nazionale, nel culto di un passato perduto, o nella minacciosa presenza di un nemico esterno o estraneo. Questa illusione fa in modo che l’alterità del mondo esterno diventi ancora più evidente a chi sta nella massa, e dunque costituisca una minaccia alla sopravvivenza della massa stessa, perché mostra alternative allo stato di uniformità. Ecco quindi che la massa diventa distruttiva; per garantire la propria sopravvivenza, vuole distruggere l’altro, e si affida a chi dà più garanzie di sopravvivenza, tenendo lontano il pericolo dal proprio corpo. Ecco che subentra il “candidato accentratore”, paladino della violenza legittima, garante della sopravvivenza di quella che Canetti chiama appunto la “massa”. Oggi, questo termine è caduto in disuso, ma facendo le dovute proporzioni, lo potremmo sostituire con “partito”, o “nazione”, o ancora “complesso di interessi” (che sovente viene travestito utilizzando il termine di “economia”), e ci accorgeremmo che le dinamiche non sono tanto cambiate rispetto a quelle che descriveva lo scrittore bulgaro. E come garantirà la sopravvivenza di quelle entità, potremmo dunque chiederci? Beh, uccidendo: manu militari, oppure cristallizzando privilegi o coercizioni che degradano la dignità umana. Gli uccisori restano sempre tra i potenti, l’istante del sopravvivere è l’istante della potenza. Che cosa racconta Plutarco di Giulio Cesare? Che superò tutti i condottieri perché abbatté le più numerose moltitudini di nemici. È l’enorme numero di vittime che fece la sua grandezza, sosteneva il biografo. Sono questi presunti eroi a dirigere le masse e farne uno strumento di potere. Vedete, i sistemi totalitari constano di strutture di potere elementari, e la loro forza si misura in violenza. Tutto questo vi potrà apparire fantascienza, o letteratura ottocentesca, ma il diritto di decidere sulla vita e sulla morte è lo strumento più sicuro per la conservazione del potere, e viene legittimato o addirittura esaltato dalla “massa”, dal “partito”, dalla “nazione” o da un “complesso di interessi” perché è anche garanzia della propria sopravvivenza*. Questa pratica non ha mai cessato di esistere, e tuttora si manifesta, apertamente o velatamente, dietro le personalità di numerosi autocrati o “candidati accentratori”. E una delle cose più tragiche, secondo Canetti, è che i potenti sono prigionieri di quella che potremmo definire la “angoscia del comando”, un’angoscia di cui non possono liberarsi perché l’esercizio del comando sta sovente nelle loro sole mani. Come è possibile, ci potremmo chiedere, che migliaia di persone possano seguire potenti che sono prigionieri delle loro paranoie o fazioni che esercitano un controllo quasi assoluto sulle persone? Canetti viene ancora in nostro aiuto: ogni comando porta con sé un’originaria “minaccia di morte”. I sistemi autoritari si basano sulla legge del più forte e le inversioni di tendenza sono così difficili perché l’esecuzione di un ordine è fondamentalmente ancorata al modello comportamentale degli esseri umani. Il comando, ricordate, è più antico del linguaggio! Anche il comando, però, ha il suo tallone d’Achille. Ecco allora che subentra il ruolo del “traditore”, di colui che infrange le regole e mette a rischio la propria vita per scombussolare la catena del comando. Sono traditori i disertori, sono traditori i critici dell’ideologia patriottica, come sono traditori quelli che non rispettano le consegne alle frontiere, oppure che dialogano con il nemico dichiarato. Alexander Langer aveva coniato il termine di “traditori della compattezza etnica”, persone capaci di “autocritica verso la propria comunità”, senza diventare “transfughi” perché rimangono radicati nel luogo da cui si allontanano. Estendendone il significato langeriano, sarà solamente tradendo che si potranno incrinare i meccanismi dell’ossessione del potere. Il “candidato accentratore”, il “sopravvissuto ultimo” non avrà nessuna remora nel mandare a morire i suoi uomini, i suoi sudditi, i suoi concittadini per non soffocare nell’angoscia del comando. Sarà in quegli attimi che i più coraggiosi tra loro dovranno isolarlo e rimuoverlo, neutralizzando il meccanismo del comando. Traditori sono i Refuzenics, traditori sono i dissidenti dell’Est europeo, traditori sono gli studenti che accampano nei campus statunitensi, traditori sono i passeggeri della Flotilla, traditori sono Ismail e Saber, arrestati per utilizzare Facebook in modo intelligente, traditori sono quelli che danno un tetto a apolidi e immigrati irregolari, e più traditori che mai sono i Palestinesi, simbolo di quello che il potere più di tutto detesta: il diritto all’autodeterminazione. -------------------------------------------------------------------------------- *A questa questione, ho dedicato un capitolo intero della mia ultima opera, Prima dell’apocalisse. I codici della sopravvivenza, Castelvecchi, 2025 -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ossessione del potere proviene da Comune-info.
Identikit dell’idiota
Premessa Nella polis greca, ἰδιώτης (idiòtes) voleva dire “uomo privato”, nel senso che badava ai propri interessi privati, disinteressandosi del bene comune, sacrificando la cosa pubblica al benessere individuale. Era il contrario dell’uomo pubblico, che rivestiva cariche politiche e per questo era ritenuto colto, capace ed esperto. Per estensione, in […] L'articolo Identikit dell’idiota su Contropiano.
NEPAL: INTERVISTA DA KATMANDU CON NAVYO ELLER, “MAI VISTA UNA RIVOLUZIONE COSì VELOCE, NETTA E SENZA COMPROMESSI”
È tornata la calma nel paese himalayano dopo le durissime quanto rapide proteste della scorsa settimana a Katmandu e in molti altri centri del Nepal. Il nuovo governo di transizione, votato dal popolo in rivolta e guidato da Sushila Karki, prima donna premier nella storia del paese, dovrà organizzare le elezioni tra sei mesi. Ieri la nazione era in lutto per i morti durante le recenti manifestazioni, nel frattempo le scuole hanno riaperto e tutto sembra tornato alla normalità. Decine di migliaia di giovani erano scesi in piazza l’8 settembre nella capitale e in tutto il paese, per manifestare contro la corruzione e l’arroganza del potere. Alla decisione di bloccare temporaneamente i social network, sono scoppiati pesanti disordini: dati alle fiamme uffici e ministeri, il Parlamento, il palazzo del Governo, quello della Corte Suprema, le case del ministro degli interni e dell’ex premier. La repressione della polizia è stata violentissima, ha provocato decine di morti e centinaia di feriti, spingendo ampie fette della popolazione ad unirsi agli agitatori della protesta, la GenZ, giovanissimi tra i 15 e i 20 anni. In meno di due giorni, dato anche l’assenza di interventi da parte dell’esercito, il governo in carica si è dimesso. Navyo Eller, cittadino italiano da oltre trent’anni in Nepal, ha dichiarato ai nostri microfoni di “non aver mai visto una rivoluzione così veloce, netta e senza compromesso”. Ascolta o scarica
You have no idea
SOLTANTO NEL 2024 LE SPARATORIE DI MASSA NEGLI USA SONO STATE 503, LE STRAGI 30 E I MORTI PER ARMA DA FUOCO 16.725. EPPURE ADESSO RACCONTANO CHE SI TRATTA DI UN OMICIDIO POLITICO. “NON HAI IDEA DI CIÒ CHE HAI SCATENATO” HA DETTO LA MOGLIE DI KIRK, RIVOLGENDOSI AL RESPONSABILE DELL’OMICIDIO. CIÒ CHE ACCADE NEGLI USA È UN COLLASSO PSICO-POLITICO DI CARATTERE SUICIDARIO. MA IL VERO PROBLEMA, SCRIVE BIFO, È CHE ORA QUEL SUICIDE BY COP SI STA PROIETTANDO SU SCALA MONDIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statuntense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom enforcement (ICE) è stato trasformata in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo You have no idea proviene da Comune-info.
Si può essere persone orrende in tanti modi diversi
Il linguicismo, ovvero il sistema oppressivo del linguaggio ritenuto norma, permea le nostre vite con declinazioni coloniali, antimeridionali, sessiste, classiste, queerfobiche. Il breve saggio di Rosalba Nodari, è un altro gioiello della collana bookblock+  di Eris Edizioni, una collana di saggistica breve e tascabile per aprire fratture generative nello sguardo normato. Nell’ultima edizione di San Remo c’era Geolier, orgoglio campano, con una canzone in napoletano. Molte persone sono insorte, chi chiedendo i sottotitoli, chi defininendolo inascoltabile per la bruttezza del dialetto, chi facendo ricorso al regolamento di fascista derivazione che in via di principio richiedeva solo brani in italiano. Lo stesso trattamento, come ricorda Nodari, non è stato riservato a Van Des Sfroos che con Yanez cantava in bergamasco, con il plauso del leghista Luca Zaia. Si potevano leggere commenti anti-meridionalisti persino nelle stories e chat di persone politicizzate senza che suscitassero un compatto sconcerno. Io stesso passavo invisibile nella mia appartenenza campana, spesso lodato per non avere un’inflessione marcata: «non si capisce da dove vieni», mi hanno ripetuto per farmi un complimento. Questo è stato probabilmente dovuto ad anni di pulizia linguistica, dalla scuola all’accademia, dagli ambienti di lavoro alle interazioni sociali. > Dissociarsi dal dialetto, dalla sua inflessione, significa ancora oggi avere > più possibilità di accedere al capitalismo culturale e sociale in termini di > opportunità di studio, di lavoro e di una maggiore accettazione sociale. > Questo è ancor più vero per chi ha come lingua madre una lingua non europea e > non bianca. «Non si capisce» – dicono e, come risponde Marìa Galindo (in Femminismo Bastardo, tradotto da Roberta Granelli, Mimesis edizioni)_ «Sì, è vero, non ci capiamo perché tu non vuoi capirmi». Galindo parla della mistura linguistica e del linguicismo coloniale a cui sono sottoposte le persone migranti o con un background culturale che non sia quello statunitense ed europeo bianco. Nel suo saggio Nodari, dopo aver trattato in modo illuminante di linguicismo e scuola, parla del linguicismo coloniale prevalentemente in ambito europeo, a partire dalla proposta di legge presentata nel 2022, in Francia, dal deputato di origini catalane Euzet per combattere la cosiddetta glottofobia, ossia la discriminazione subìta da una persona per il suo accento. Riprendendo la riflessione di @seconda_generazione_ita titolata Imitare e deridere gli accenti stranieri rafforza il razzismo, la xenofobia e il classismo, Nodari riflette su come dietro determinati gusti si celi qualcosa di molto più profondo: «la discriminazione linguistica può agire lungo gli assi della discriminazione tout court. Se, attraverso la lingua possiamo comunicare la nostra razza, il nostro genere, la nostra età, la discriminazione linguistica non sarà un caso di linguicismo e basta, bensì un elemento per veicolare il razzismo, il sessismo, l’ageismo». Nel suo saggio, Nodari attraversa alcuni dei sistemi di potere tirati dai fili invisibili, ma tangibili, del linguicismo concentrando il pezzo centrale sul sessismo. Parte da Alma Sabatini e dal suo Per un uso non sessista della una lingua italiana per riprendere il vocal fry reso evidente nel dibattito pubblico dall’allora deposizione di Paris Hilton. «Si tratta di una modalità di fonazione socialmente associata a una femminilità frivola. Un modo di parlare da sanzionare, poiché le donne con questo tono di voce verrebbero percepite come meno competenti, meno istruite, meno affidabili, meno occupabili». > La linguistica e le norme sociali del linguaggio hanno creato regole e studi > per cercare di vestire di prestigio e attendibilità scientifica a pregiudizi e > discriminazioni, come lo studio della Lingua delle donne di Lakoff, dove il > maggiore utilizzo di vezzeggiativi, ad esempio, viene ricondotta > all’intrinseca natura femminile (e servile) delle donne; studio che ha trovato > un largo seguito di illuminati pensatori. In un libro breve – come tutta la collana Bookblock di Eris edizioni – Nodari innesta semi di riflessioni profonde, supportate da una chiara bibliografia, risorse di approfondimento e fonti che scompaginano il capitalismo culturale, come post di Instagram e riferimenti alla cultura pop. Una scrittura accessibile e sempre affilata conduce alle conclusioni tra le più belle personalmente lette. Un libro che apre a più domande di quante se ne avessero in partenza, e che fa venire voglia di proseguire le riflessioni e gli studi di Rodari soprattutto in ambito queer e trans dove il linguicismo è particolarmente violento. Un libro da leggere, consultare, prestare e condividere per accendere le cene di famiglia, le pause caffè al lavoro e anche le assemblee. La lingua è potere, il linguicismo la sua manifestazione oppressiva. Sta a noi trasformare le relazioni di potere del linguaggio a partire da una consapevolezza che Linguicismo e potere innesca e propaga. Come miceli di funghi, che condizionano tutto e governano il pianeta. Che ne abbiamo coscienza oppure no. L’immagine di copertina è di emdot via Flickr L'articolo Si può essere persone orrende in tanti modi diversi proviene da DINAMOpress.
La risposta giusta – di Effimera
La giornata di manifestazioni che ha attraversato Milano il 6 settembre 2025, in risposta allo sgombero del centro sociale Leoncavallo, è stata un avvenimento di grande valore che ha spezzato, almeno per un attimo, la narrazione negativa che ci circonda da ogni lato con i suoi corollari di impotenza e di paura. A nostro [...]