“Oppio per Ovidio”. Ventidue donne contaminano “Le metamorfosi” e “Note del guanciale”Tawada è una scrittrice giapponese che vive in Germania e scrive in due lingue,
oscillando tra giapponese e tedesco. Già questa duplicità linguistica è la sua
prima forma di metamorfosi. La traduzione di Alessia Torre trae i contorni del
suo modo di abitare il mondo. E nel suo scrivere, la lingua stessa diventa
corpo: porosa, instabile, in continua trasformazione. Oppio per Ovidio nasce da
questo gesto radicale di attraversamento. Tawada prende due testi fondativi
della cultura letteraria – le Metamorfosi di Ovidio e le Note del guanciale di
Sei Shōnagon – e li fonde, li trasforma in qualcosa che non è più né mito né
diario, ma una forma ibrida, liquida, un campo di esperimenti linguistici e
sensoriali.
Le ventidue donne che abitano queste pagine non sono figure mitologiche nel
senso tradizionale: sono fantasmi di divinità reincarnate nel presente,
frammenti di corpi che si muovono fra Amburgo e l’altrove, donne che hanno perso
e ritrovato se stesse nella memoria del mito. Ciascuna di loro parla, sussurra,
si racconta attraverso il corpo, perché per Tawada non esiste pensiero che non
sia carnale. Ma il corpo, qui, non è una prigione: è uno strumento di
conoscenza. È attraverso il corpo che la parola si fa politica.
> Il femminismo di Tawada non urla: respira. È un femminismo di cura, di
> trasformazione condivisa, dove le donne non combattono contro il mondo, ma lo
> riforgiano attraverso la sensibilità.
In questo senso Oppio per Ovidio si avvicina profondamente al transfemminismo
contemporaneo, quello che rifiuta le identità rigide, le dicotomie di genere, le
forme machiste della ribellione e che invece rivendica il diritto alla
metamorfosi, alla fluidità, alla vulnerabilità come forza politica. Quando una
delle protagoniste dice che «Semele ha dato via le armi, ma doveva rimanere
fiera e sensibile, protestare con veemenza ed esporre tutti gli orifizi», la
frase non è solo un paradosso poetico: è un cambio di paradigma. L’arma diventa
la pelle, l’apertura, la disponibilità a sentire. La protesta, per Tawada, è
l’atto di mostrarsi, di non temere la permeabilità. È una forma di politica che
nasce dal corpo e non dalla violenza.
Nel mondo di Tawada le donne non cercano di diventare come gli uomini per
ottenere potere: lo riscrivono. Si fanno mediatrici di un altro modo di
conoscere, un sapere che passa per l’esperienza sensoriale e per la relazione,
non per l’imposizione. È un sapere circolare, erotico nel senso più ampio del
termine, dove eros non è desiderio sessuale ma tensione vitale, movimento verso
l’altro. In questo universo, la metamorfosi non è punizione, ma possibilità. Il
corpo che cambia non è un tradimento, ma una nuova grammatica dell’essere.
In più punti, le protagoniste mettono in scena un gesto che potremmo chiamare
autobattesimo: nominarsi da sole, scegliersi un nome, riconoscere il proprio
valore senza bisogno di legittimazione esterna. È un atto simbolico di
autonomia, ma anche una forma di resistenza linguistica. Dare un nome è sempre
un atto di potere; battezzarsi da sé significa sottrarre il proprio corpo al
dominio del linguaggio patriarcale. È un gesto che rimanda alla tradizione
mitica (pensiamo a Dafne, che si trasforma per non essere posseduta), ma qui il
mutamento non è fuga, è fondazione: una rinascita consapevole.
Il corpo, in Oppio per Ovidio, è anche luogo di conflitto. Cambia, si deforma,
si dissocia, a volte si rifiuta. Ma non c’è tragedia in questa mutazione: c’è
conoscenza. L’accettazione del corpo, la capacità di ascoltarlo e di lasciarlo
parlare, diventa un modo per accedere a un sapere che la cultura patriarcale ha
sempre disprezzato – il sapere sensoriale, intuitivo, instabile. «Il mio corpo
mi parla in una lingua che non ho ancora imparato», sembra dire ogni voce del
libro. E nel tentativo di tradurre quel linguaggio, Tawada costruisce una
poetica della trasformazione permanente.
A un certo punto, la scrittrice rovescia la prospettiva sulla lotta femminista.
Non c’è più la guerra contro il maschile, ma la creazione di uno spazio
condiviso. La protagonista che cita Semele rifiuta la forza distruttiva, sceglie
la forza della sensibilità. È qui che Oppio per Ovidio incontra il
transfemminismo: non come teoria accademica, ma come pratica quotidiana del
vivere. Il corpo diventa interfaccia politica, la differenza diventa linguaggio,
l’empatia diventa strumento di resistenza. La metamorfosi è, in fondo, un atto
transfemminista: la capacità di riscrivere continuamente se stesse, di sfidare
ogni categoria fissa, ogni narrazione imposta.
Ma il libro non parla solo di corpi. Parla anche di potere.
In diverse pagine, Tawada rappresenta lo Stato come una figura paterna:
autoritaria, distante, apparentemente protettiva. È l’immagine di un Padre-Stato
che regola e controlla, che concede libertà solo a condizione di poterle
revocare. A questa logica Tawada contrappone una visione radicalmente ecologica
e non gerarchica: invita a pensare lo Stato come la pioggia per i contadini. Non
bisogna, scrive, credere che la pioggia aiuti di proposito il contadino. La
pioggia cade, e basta. È un fenomeno naturale, non un dono. Allo stesso modo, le
istituzioni non sono entità benevole, ma sistemi da abitare con consapevolezza
critica.
Questa analogia spezza il legame paternalistico che regge la nostra idea di
potere. Se lo Stato non è padre ma clima, se la politica non è famiglia ma
ecosistema, allora il rapporto tra cittadino e autorità non può più essere
fondato sulla dipendenza, bensì sull’interdipendenza. Tawada suggerisce che la
libertà femminile non può esistere finché si rimane figli di uno Stato-padre.
Bisogna diventare contadine del proprio terreno, riconoscere che la pioggia non
è un premio ma una condizione: a volte cade, a volte no.
> È un modo di restituire al politico una dimensione di realtà, di togliere al
> potere la sua aura mistica e restituirlo al mondo fisico, ai corpi che lo
> vivono.
Allo stesso tempo, le protagoniste del libro riflettono costantemente sulla
coscienza. «È forse una scienza condivisa?», si chiedono. La domanda, che suona
come un gioco di parole, contiene una verità profonda: la coscienza non è un
bene privato, ma un territorio collettivo. Tawada mette in dubbio la concezione
occidentale della coscienza come proprietà individuale e la trasforma in un
processo relazionale. Le donne del libro sentono e pensano insieme, condividono
una sorta di percezione diffusa, come se la loro mente fosse un campo elettrico
in cui i pensieri circolano senza confini netti. È una visione profondamente
politica: la conoscenza nasce dal contatto, non dall’isolamento.
Questa idea di coscienza collettiva si riflette anche nella scrittura stessa.
Tawada adotta un punto di vista mobile, spesso in terza persona, ma attraversato
da un “io” intermittente. Molte delle protagoniste parlano di sé come se si
osservassero da fuori, un gesto che la psicologia cognitiva ha effettivamente
riscontrato come tipicamente femminile. In un esperimento noto, quando a uomini
e donne viene chiesto di «immaginare una mela», gli uomini tendono a
visualizzare solo la mela, mentre molte donne si immaginano se stesse che la
mangiano. L’immagine del sé è sempre presente, anche negli atti più semplici. È
la traccia di uno sguardo interiorizzato, costruito da secoli di abitudine a
essere viste.
Tawada traduce questa consapevolezza in una poetica dello sguardo. Le sue donne
sanno di essere osservate, ma decidono di deviare lo sguardo, di spezzarlo. «Si
impara il timore per il pubblico disprezzo», scrive, riconoscendo come la
cultura insegni alle donne a temere non l’errore, ma il giudizio. Di
conseguenza, si finisce per non vedere più il mondo per ciò che è, ma solo per
ciò che dovrebbe essere: «non vedi affatto l’albero in quanto albero, ma pensi
solo a come l’albero dovrebbe essere». In queste frasi si condensa una critica
sottile ma ferocemente lucida al modo in cui la società plasma la percezione
femminile.
Una delle voci del libro dichiara, con pacata determinazione, di non voler più
«dover sembrare bella», di non «dover più voler sembrare bella». È una negazione
doppia, quasi grammaticale, che si ribella tanto all’obbligo estetico quanto
all’obbligo di desiderare quell’obbligo. In un altro passaggio, un’altra donna
afferma: «non mi serve il tuo sguardo. Questa è la dichiarazione del velo
ambulante». L’immagine è potentissima: il velo non è qui simbolo di oppressione,
ma di libertà. È un gesto attivo di sottrazione, una scelta di invisibilità. Il
corpo, schermato dallo sguardo altrui, torna a essere proprio.
Da questo punto di vista, Oppio per Ovidio è anche una riflessione sulla agency
delle parole sul corpo. Tawada mostra come il linguaggio possa costruire o
distruggere identità, come ogni parola pronunciata sul corpo sia un atto di
potere. Ma il suo modo di reagire non è distruggere il linguaggio, bensì
reinventarlo. Le sue protagoniste inventano, smontano, rimontano parole, le
piegano, le ibridano. Il libro è pieno di giochi linguistici, di neologismi, di
frasi che si aprono su significati inattesi. È come se la lingua stessa fosse
sottoposta a una metamorfosi continua, proprio come i corpi che descrive.
> In questo senso, la scrittura di Tawada è anche un gesto politico: spezzare la
> lingua per farle dire altro, per renderla capace di contenere esperienze che
> la grammatica patriarcale aveva escluso. La parola diventa un atto di
> guarigione, un modo di restituire senso a ciò che era stato taciuto. L’atto
> linguistico è corporeo: ogni frase si muove come un muscolo, si tende, si
> ritrae, respira.
Contro la cultura della produttività, che misura il valore in termini di utilità
e rendimento, Tawada oppone un principio di spreco consapevole. “Posso sprecare
il mio tempo se voglio”, dice una delle voci. È una frase di apparente
leggerezza, ma è in realtà un’affermazione rivoluzionaria. Rivendicare il
diritto di sprecare tempo significa opporsi alla logica capitalista che pretende
di trasformare ogni gesto in prestazione, ogni minuto in profitto. In un mondo
che ci impone di essere sempre efficienti, la lentezza diventa atto politico, la
passività una forma di resistenza. Tawada riscrive così l’etica del lavoro e del
corpo: il corpo che non produce, che sogna, che si ferma, diventa un luogo di
libertà.
Verso la fine del libro, una delle protagoniste pronuncia quella che sembra
essere la dichiarazione di poetica di tutto il testo: «Voglio essere storta,
irregolare, eccessiva e frivola». È una frase che suona come un manifesto, una
celebrazione della dissonanza e dell’imperfezione. Essere “storta” significa
rifiutare la linearità del pensiero dominante; essere “irregolare” è rivendicare
la complessità dell’esperienza; essere “eccessiva” è sfidare il controllo, e
“frivola” è ribaltare il disprezzo maschile verso ciò che è associato al
femminile. In quattro aggettivi Tawada concentra la sua filosofia: la libertà è
deformità, la misura è schiavitù.
In questo senso, Oppio per Ovidio è anche un testo profondamente politico,
benché non ideologico. Tawada non costruisce teorie: le fa vivere. Ogni voce del
libro è un piccolo esperimento di mondo, una micro-utopia in cui la sensibilità
si sostituisce alla forza, la metamorfosi all’identità, la parola al potere. La
sua scrittura è radicale proprio perché non si pone come manifesto teorico, ma
come esperienza incarnata di libertà.
L’intertestualità con Ovidio e Sei Shōnagon non è solo un omaggio letterario, ma
una riscrittura di genealogie. Tawada mette in dialogo due tradizioni
patriarcali – la mitologia classica e la letteratura di corte – e le sovverte
dall’interno. Se Ovidio raccontava metamorfosi imposte dagli dèi, Tawada
racconta metamorfosi scelte. Se Sei Shōnagon annotava il mondo da un cuscino,
Tawada lascia che le sue donne scrivano dai letti, dalle strade, dai sogni,
dalle ferite. Il guanciale non è più un oggetto domestico, ma uno spazio di
pensiero, un laboratorio poetico.
> Nel libro, la lingua è sempre duplice: si muove fra concretezza e astrazione,
> fra descrizione e riflessione. Tawada riesce a tenere insieme la materia del
> mondo – il corpo, il sangue, la pelle, l’odore – e l’idea, la teoria, la
> coscienza. È una scrittura che unisce filosofia e sensualità, che pensa
> attraverso i sensi. Le parole non spiegano: toccano.
La fluidità del testo è anche la sua forma politica. Tawada non costruisce una
trama, ma una costellazione di voci. Il suo modo di raccontare è anti-lineare,
antigerarchico: ogni donna ha lo stesso peso, ogni frammento di storia vale
quanto gli altri. È una scrittura democratica nel senso più profondo, perché
rifiuta la centralità, il punto di vista unico, la voce dominante. Il lettore è
chiamato a spostarsi continuamente, a cambiare prospettiva, a partecipare alla
metamorfosi.
E proprio questa esperienza di lettura – instabile, sensoriale, vertiginosa – è
ciò che rende Oppio per Ovidio un libro necessario. Tawada ci insegna che la
trasformazione non è un rischio, ma una forma di conoscenza. Che la fragilità
non è debolezza, ma possibilità di contatto. Che il linguaggio, se lo lasci
vivere, può ancora guarire.
Alla fine del viaggio, resta la sensazione di aver attraversato un sogno lucido,
in cui le parole si sono fatte corpo e il corpo si è fatto parola. Le ventidue
donne di Tawada non chiedono salvezza, non rivendicano diritti: semplicemente
esistono, si raccontano, si reinventano. Sono figure di un mondo che non conosce
più confini netti tra maschile e femminile, tra umano e divino, tra reale e
immaginario. Sono, in fondo, ciò che tutti potremmo diventare se accettassimo la
metamorfosi come destino.
Yoko Tawada ci consegna un’opera di rara intensità, che fonde poesia e politica,
linguaggio e corpo, Oriente e Occidente, mito e contemporaneità. Oppio per
Ovidio è un testo che rifiuta ogni definizione, un invito a pensare e a sentire
diversamente. In tempi in cui la parola “identità” è spesso usata per
delimitare, per chiudere, Tawada la restituisce al suo senso originario:
“identità” come processo, come relazione, come dialogo infinito tra ciò che
siamo e ciò che potremmo diventare.
Leggere questo libro significa accettare di perdersi, di non capire tutto, di
abbandonare il desiderio di chiarezza. È un atto di fiducia nel potere della
lingua di aprire spazi di libertà. Tawada non ci dà risposte: ci offre domande
che continuano a pulsare dentro di noi, come vene sotto la pelle.
Alla fine, la voce collettiva del libro sembra sussurrare una frase semplice e
rivoluzionaria: «posso sprecare il mio tempo se voglio». Ed è forse in questa
leggerezza che si nasconde la più grande forma di resistenza
Immagine di copertina da Wikicommons
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