Il modello Milano, oltre le inchieste

Jacobin Italia - Monday, July 28, 2025
Articolo di Alessandro Coppola

Le inchieste sulla  gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari, sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano. 

La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e culturali nel politicizzare questioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive. 

Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in campo.

Vincenti e perdenti del modello Milano

La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo. 

Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti, e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che programmaticamente ignora le dinamiche di mercato. Tuttavia, non si può non considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche vantaggio finanziario immediato. 

Nel concreto, i gruppi sociali vincenti di questo ciclo li troviamo fra i proprietari di abitazioni in zone in via di forte valorizzazione – perché le avevano comprate prima, o perchè le hanno ereditate – o perché disponevano di redditi elevati o patrimoni cospicui, che hanno permesso loro di acquistare immobili che realisticamente andranno continuamente apprezzandosi nel tempo. Con un prezzo medio delle compravendite realizzate in città ormai arrivato a 400.000 Euro (Dato Omi-Agenzia delle Entrate, 2025), il disporre di un patrimonio cospicuo ha fatto di Milano – in una misura senza precedenti – la città che meglio illustra la centralità crescente dei patrimoni nella riproduzione sociale, tendenza che come noto coinvolge i capitalismi di tutto il Nord Globale ma che in Italia diventa estrema per via della stagnazione dell’economia e della dinamica dei salari. 

Per restare a Milano oggi occorre essere parte dei ceti superiori oppure dei ceti medi patrimonializzati, ovvero i ceti medi che ereditano un alloggio oppure il capitale per acquistarlo: essere ceto medio dal punto di vista esclusivamente dei redditi o del capitale culturale non è più sufficiente per accedere alla proprietà. Tuttavia, e questo va sottolineato, la città proprietaria ha bisogno che vi siano popolazioni mobili per la sua stessa riproduzione e valorizzazione. E questa è la fonte principale del conflitto sociale, in gran parte implicito, fra rigidità del modello proprietario e l’altra dimensione essenziale del capitalismo urbano contemporaneo, ovvero la sua necessità strutturale sia di lavoro cognitivo sia di lavoro nei servizi a basso valore aggiunto. Lavoro che – considerate le sue condizioni di strutturale precarietà e i bassi redditi – vive invece prevalentemente in affitto. E anche, in quota consistente, non residente. 

La democrazia locale quindi, non solo a Milano, è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari, i quali sono prevalentemente in affitto (la base di legittimazione delle amministrazioni comunali a Milano corrisponde, fra forme di esclusione de jure e astensionismo di massa dei ceti popolari, a una frazione ampiamente minoritaria della città reale). In altre parole: tutti gli abitanti creano valore, solo una parte se ne appropria, e ancora meno decidono come governarne la creazione e distribuzione.  

La capitale morale della riproduzione di classe per via  immobiliare

Su Milano si sono riversate grandi masse di investimenti immobiliari, sempre di più organizzati nella forma di tecnologie finanziarie avanzate – fra le quali, i Real Estate Investment Trust (Reit), che raccolgono capitali di diversa provenienza – ma, non dimentichiamolo, anche di una quota crescente del risparmio nazionale delle famiglie di ceto medio-superiore italiane. L’arrivo di quote crescenti di giovani qualificati ha portato con sé gli investimenti immobiliari aggregati delle loro famiglie: in un paese particolarmente familista come l’italia il cosiddetto brain-drain significa anche capital-drain intergenerazionale, da territori periferici a territori centrali. Quindi, dal punto di vista dei meri benefici finanziari che discendono dalla remunerazione dei patrimoni immobiliari, il blocco sociale del ciclo immobiliare espansivo di Milano è molto ampio e trans-scalare perché unisce una forte base locale che potremmo definire nativa, a una quota ovviamente minoritaria ma significativa di ceti medio-superiori del resto del paese e infine una serie di attori finanziari e immobiliari di medie e grandi dimensioni. 

La città è diventata il terreno principale della riproduzione di classe per via immobiliare dei ceti medio-superiori dell’intero paese. Considerato il tradizionale policentrismo di quest’ultimo –  Roma, fino alla crisi del 2008, esercitava una capacità attrattiva pari o superiore a quella di Milano – si tratta di un grande fatto sociale. Sebbene, in relazione a questi ultimi, si faccia molta retorica su Milano porta degli investimenti globali, il dato forse più importante degli ultimi vent’anni è in realtà la nazionalizzazione di Milano, e in particolare della sua borghesia. Alzando lo sguardo alla scala nazionale, si capisce bene chi siano i perdenti di questo processo: gli altri territori urbani che hanno iniziato a soffrire questa sovra-polarizzazione su Milano (circostanza che spiega una crescente insofferenza, anche al Nord, fra i pezzi di borghesia che decidono di non milanesizzarsi).

Non  c’è un’unica strada per governare le trasformazioni urbane 

Se questo è vero non bisogna però commettere l’errore di sottovalutare l’impatto che i medi e grandi attori del capitale finanziario e immobiliare hanno avuto sul cambiamento del modello di governo della città. 

La capacità di tale capitale di plasmare i processi sociali e organizzativi, a partire da quelli istituzionali, è stato forse il principale fattore di cambiamento della politica della città. Il capitale finanziario-immobiliare implica rapidità, tempestività, permanente capacità di adattamento, e più questo si fa tendenzialmente transnazionale – come effettivamente capitato a Milano negli ultimi anni – e più, naturalmente, è definito dalla sua mobilità, o ancora più precisamente, dalla propaganda della sua mobilità e dalla conseguente minaccia di andare altrove. Di fronte a esso, sebbene in un quadro assai costretto e con capacità d’azione assai limitata, chi controlla le amministrazioni locali può percorrere varie strade.

La prima è quella di lasciare che la logica di tale capitale sia fattore egemonico di governo sgombrando il campo da quasi qualsiasi mediazione, se non quelle rimovibili solo a condizione di un deciso e risolutivo cambiamento dell’ordine politico (è il motivo per cui le petro-monarchie costituiscono il contesto ideale per il grande capitale finanziario immobiliare).

La seconda al contrario è mobilitare le istituzioni locali per fare l’opposto di quanto la mobilità del capitale richiederebbe, ovvero rallentare, selezionare e diversificare. Che significa, essenzialmente, condizionarne e quindi contenderne l’egemonia: promuovendo discussioni pubbliche al fine di imporre criteri di selezione degli investimenti privati; istituendo contro-poteri istituzionali che possano contrastarne il monopolio dei processi di trasformazione urbana; imponendo forme di forte prelievo pubblico sul valore generato dalle trasformazioni urbanistiche per impiegarlo in investimenti che vadano in direzioni opposte a quelle che la sua logica di accumulazione invetiabilmente preferisce.

La terza e ultima strada consiste nell’impedire loro l’accesso, preservando il monopolio di attori immobiliari di vecchio tipo – quelli che potremmo definire palazzinari relativamente localizzati e non molto finanziarizzati – o percorrendo strade molto radicali, quali quelle del congelamento di qualsiasi attività edilizia. Questa terza strada può rivelarsi problematica, perché in quanto meramente difensiva può avere effetti distributivi paradossali: avere un sistema immobiliare dominato da palazzinari tradizionali, come è il caso di altre città italiane, non è garanzia di maggiore equità distributiva, e le politiche di decrescita attraverso il congelamento dell’attività edilizia – come dimostrano molti casi specie negli Usa – si sono spesso rivelate funzionali alle strategie di preservazione del valore immobiliare e dell’esclusività sociale di città e territori.

Per questa ragione, quando forze progressiste hanno ottenuto il controllo di amministrazioni locali, hanno solitamente battuto la seconda strada, diversificando il campo degli attori immobiliari in direzione del rafforzamento di attori pubblici e cooperativi, e contrastando i comportamenti speculativi sul mercato attraverso nuove regolazioni. E, attraverso tutto questo, rendendo visibili all’opinione urbana i processi dell’economia immobiliare e quindi i processi di pianificazione, al fine di renderli contendibili. Come si vede, sono queste strategie eminentemente politiche in quanto istituenti, nel senso che intendono modificare il campo degli attori e trasformare gli istituti e le logiche attraverso le quali si realizzano le trasformazioni urbane. Sono quindi strategie che affermano anche un determinato modello di governo, contestualmente a un diverso modello di accumulazione. In altri tempi, questo tipo di strategia sarebbe stata definita riformista, ma oggi sarebbe definita – specie in Italia – con pseudo-concetti quali ideologica o massimalista, circostanza che dà la misura di come si sia ristretto il campo delle opzioni politiche percepite come politicamente accettabili. Mentre, a essere definito riformista, è bizzarramente la scelta della passività politica di fronte al dispiegarsi delle logiche del capitale, piccolo, medio e grande che sia.

Il post-Expo. Modelli di accumulazione e modelli di governo

A Milano, il significato del post-Expo – spesso presentato quale spartiacque delle magnifiche e progressive sorti del ciclo immobiliare ascendente – risiede piuttosto nel suo costituire la giuntura critica nella quale si è risolutamente scartata l’ipotesi di un modello di governo riformista (nell’accezione che ne ho dato sopra). 

In quel frangente critico, la città – e la classe dirigente che la governava – poteva prendere strade diverse, e scelse quella che più chiaramente riconosceva l’egemonia del capitale finanziario e immobiliare vedendovi il principale fattore di sviluppo e governo della città. Ma tale egemonia aveva necessità di un modello di governo sempre più verticale e sempre più latamente tecnocratico, e facente leva da una parte su network sempre più sofisticati di attori privati, e dall’altra su una crescente tecnicizzazione degli stessi esecutivi politici. Tecnicizzazione che ha raggiunto il suo apice nel corso di questo mandato consiliare, ma che era stata già avviata in modo deciso con l’elezione di Giuseppe Sala (a suo modo un «tecnico». Questo avveniva peraltro in un contesto nel quale negli anni precedenti l’enfasi francamente liberista sul mercato e la sussidiarietà, espressione di una destra molto coesa e culturalmente attrezzata quale quella lombarda degli anni Novanta e Duemila, aveva già devoluto quote crescenti di decisioni e politiche ad attori economici professionalmente assistiti. 

In questo quadro, il salto di scala – sia nazionalizzazione sia internazionalizzazione – del capitale coinvolto in operazioni immobiliari a Milano ha condotto alla formazione di attori e network con capacità organizzative e competenze largamente superiori a quelle degli attori pubblici che, nel frattempo, né si rafforzavano né si innovavano. La massa enorme di investimenti arrivata a Milano, nel solco delle politiche di sostanziale dumping promosse sia a livello cittadino sia regionale, ha così largamente ecceduto la capacità dell’amministrazione comunale di trattarli. Ed è parso naturale che una parte crescente di questi fosse devoluta – attraverso l’espansione e diversificazione di strumenti di partenariato pubblico-privato – a dei meccanismi di pressoché totale esternalizzazione e automazione decisionale, che hanno contribuito all’ulteriore svuotamente dei poteri delle istituzioni locali. 

Tale svuotamento ha contribuito a indebolire la legittimità e necessità di attori collettivi, a partire dai partiti: se gli oggetti che dovrebbe trattare, avendo devoluto una quota crescente di decisioni all’esterno, si assottigliano e restringono, la politica non dispone più di una funzione chiara e in particolare della sua funzione «istituente». Il sempre più largo ricorso a funzionari o professionisti senza partito nelle amministrazioni, circostanza apparentemente paradossale in presenza di un partito di maggioranza reputato forte e radicato (a Milano), è stata una manifestazione potente di queste evoluzioni. Inserendo tecnici, professionisti ed esperti di ogni tipo – che, diversamente dalla retorica che li disincarna, sono assai incarnati in legittimi sistemi di potere – gli esecutivi politici acquisiscono non solo degli individui competenti ma anche dei network di relazione e il capitale politico che ne deriva, che come evidente non deriva dall’attività politica ma da altri tipi di attività. 

Nella microfisica degli interessi questi network e capitali diventano forze potenti, molto difficili da scalfire, specie se la politica le cede il posto e se nel resto della società vi sono pochi attori e processi che ne contendano il potere. Il dato forse più rilevante nelle vicende di Milano è la scomparsa degli attori politici organizzati e della loro capacità di intervenire in modo strutturato, organizzando l’opinione e la società da una parte e dando una forma accettabile agli interessi dall’altra, nel disegno delle politiche della città. A essersi manifestata è una forma di autopoiesi della società civile, nella versione liberista che abbiamo imparato a conoscere. 

La partecipazione debole  

Questo processo, combinato con la crescente complessificazione e oscurità dei meccanismi e degli strumenti delle politiche pubbliche, contribuiscono peraltro a  una progressiva alienazione dell’opinione pubblica – e di certi ceti e gruppi sociali in particolare – dalle scelte urbane. Tutto questo può accadere mentre le stesse amministrazioni, anche a causa dell’indebolimento degli attori politici tradizionali, investono su politiche partecipative di cui tuttavia fanno un uso molto selettivo e strategico. Amministrazioni che possiamo considerare progressiste o municipaliste promuoveranno meccanismi di partecipazione proprio sulle poste in gioco più rilevanti, e nelle quali la riproduzione del potere dei network esistenti è particolarmente potente. Governi urbani che progressisti invece non lo sono, viceversa, apriranno questi canali su poste in gioco di minore rilevanza per l’economia politica delle città e per le quali i citati network sono scarsamente rilevanti e strutturati e quindi politicamente non molto contesi. In questa diarchia, in fondo, sta la natura insorgente o non insorgente del governo urbano, che per l’appunto risiede nell’aprire o viceversa chiudere campi e network degli attori urbani. 

A Milano, nonostante il cambio politico del 2011 fosse stato espressione di una significativa mobilitazione popolare, è stata scelta la seconda strada, con politiche latamente partecipative che hanno riguardato non la posta in gioco principale (l’urbanistica, il modello di sviluppo e di accumulazione della città) bensì oggetti meno rilevanti (ad esempio, alcuni spazi pubblici) e che hanno coinvolto prevalentemente i ceti medi e superiori.  All’origine delle inchieste, oltre a mobilitazioni di comitati territoriali, vi sono state anche forme di mobilitazione di singoli proprietari che hanno visto negli interventi di densificazione edilizia una minaccia per il godimento dei loro diritti di proprietà e della qualità della vità in conflitto con i diritti di proprietà di chi sarebbe andato a vivere in quegli interventi. Certo, ci sono stati gli studenti con il loro accampamento per il diritto all’abitare, nonché l’emergere di nuovi attori e mobilitazioni sulla casa che non hanno precedenti recenti, tuttavia il campo degli attori in campo appare piuttosto limitato. Quindi, la domanda fondamentale che occorre farsi è quali siano i gruppi sociali e gli interessi di cui, in negativo, si nota l’assenza in tutta la questione Milano. E non sono i cittadini, genericamente intesi. Sono soprattutto alcuni gruppi sociali – i nuovi ceti popolari, nella loro varietà e articolazione – i cui livelli di partecipazione al governo urbano sono giunti a Milano al punto più basso dal 1945 a oggi. Non è sempre stato così, e non è un destino. Ma per fare in modo che non lo sia serve un lavoro sociale e politico di grande cura e di lungo periodo. E da cui dipende la possibilità che il governo delle città assuma caratteri insorgenti e non quelli tecnocratici. Il tema dell’abitare e del governo dei processi urbani in generale rappresenta un terreno di mobilitazione e partecipazione molto difficile a cui tuttavia va riconosciuto, oggi più che mai, inevitabile centralità.

*Alessandro Coppola insegna pianificazione e politiche urbane presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.

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