C’è chi dice no

Comune-info - Thursday, July 24, 2025
Il 22 luglio, un presidio di protesta ha bloccato il porto di Syros, in Grecia (foto unsplash.com), per impedire ai ricchi passeggeri israeliani di sbarcare dalla nave da crociera Mano Maritime. Uno striscione con la scritta Stop the genocide ha accolto la nave che è stata costretta a cambiare rotta

Avevamo creduto che un altro mondo fosse possibile. Un mondo fondato sulla pace, sulla giustizia, sulla dignità di ogni essere umano. Oggi, mentre le bombe continuano a cadere su Gaza e i corpi dei bambini vengono estratti dalle macerie, sentiamo risuonare dentro di noi l’urlo del quadro di Munch, quell’urlo muto che dovrebbe squarciare l’indifferenza, perforare le coscienze addormentate, attraversare le stanze blindate del potere. Eppure il mondo tace.

Vediamo le immagini, ascoltiamo i racconti, leggiamo i numeri che diventano nomi, i nomi che diventano volti, i volti che scompaiono. Dove sono finite le parole che fermano le mani assassine? Dove si nascondono gli uomini quando l’umanità viene calpestata?

Sentiamo le parole di chi uccide senza pietà, di chi li sostiene, di chi se ne vanta sui social come di una partita di calcio. Ma io scelgo di non cedere alla tentazione dell’odio. Non augurerò il male, non risponderò con la stessa violenza linguistica. Perché non voglio diventare il mostro che combatto. Voglio spezzare questa catena maledetta di crudeltà, coltivare invece la capacità di comprendere, di comunicare oltre le barriere dell’odio.

Che lo accettiamo o meno, siamo tutti interconnessi: quello che accade ai palestinesi accade anche a me, accade a tutti noi. La sofferenza di un bambino di Gaza ferisce l’umanità intera.

Oggi risuonano più che mai le parole di Ingeborg Bachmann: “La guerra non è mai finita per chi la porta dentro”. Quella ferita continua a sanguinare, si tramanda di generazione in generazione, ci scava l’anima. E ci chiama alla responsabilità.

Come possiamo credere a chi dice di difendere il popolo ucraino dall’invasione, se poi chiude gli occhi davanti al massacro del popolo palestinese? La giustizia non ammette eccezioni geografiche o religiose. O è universale, o è solo ipocrisia travestita da morale.

Ci arrendiamo troppo facilmente al linguaggio della guerra, della forza bruta, della vendetta che genera altra vendetta. Ma la guerra uccide l’anima prima dei corpi, avvelena il futuro, insegna ai bambini che l’odio è l’unica risposta possibile. Non è questo l’eredità che vogliamo lasciare.

Noi dobbiamo essere – e saremo – il linguaggio della pace. Della convivenza. Della giustizia senza compromessi. Dell’uguaglianza che non conosce confini. Se non riusciremo oggi, perché oggi prevale la logica della forza, faremo in modo che accada domani. Ma la pace rimarrà il nostro linguaggio. Sempre. Ogni giorno. In ogni confronto.

Impareremo parole nuove. Sceglieremo ogni termine con cura. Ogni giorno. Ogni ora. E non ci fermeremo mai.

C’è un segnale di speranza che illumina il buio: tra i riservisti israeliani la partecipazione al servizio militare è crollata. Si stima che oltre centomila persone abbiano rifiutato di rispondere alla chiamata alle armi. Non per viltà, ma per coraggio morale. Perché sanno che questa guerra ha oltrepassato ogni limite umano. C’è chi dice no, chi rifiuta di essere complice, chi sceglie la disobbedienza della coscienza.

Non siamo soli nella scelta della pace. L’alternativa vive e cresce, anche nel cuore di chi dovrebbe impugnare le armi.

La pace sarà il nostro linguaggio. Sempre. Ogni giorno. Ogni ora. Impareremo parole diverse. Le sceglieremo una per una, come chi cura un giardino. E non smetteremo mai.

Urliamo, ma non ci arrendiamo alla disperazione. Piangiamo, ma non lasciamo che le lacrime spegnano la speranza. Parliamo, anche quando la voce si spezza per l’emozione. Perché il silenzio, ora, sarebbe complicità. E la complicità è la morte della coscienza.

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