La Milano da bere si è ubriacata di liberismo

Comune-info - Wednesday, July 23, 2025

C’è una lucida follia in questa storia. Non si tratta – come qualcuno dei nostri politici vorrebbe farci credere – del solito (“presunto”) conflitto tra politica e magistratura e nemmeno dell’ennesimo caso di corruzione di qualche compiacente amministratore pubblico da parte di un qualche imprenditore. Il caso Milano è molto di più, è un affare politico e insieme culturale, ovvero la mancanza di una politica per la città. Rimasto silente per molto tempo e, ora, pronto ad esplodere come una bomba a tempo. Qualunque sia l’esito della magistratura, esso ha già contaminato le amministrazioni comunali delle grandi città italiane che sono pronte ad emularlo. E questo è l’esito più grave del fenomeno che rischia di diffondersi in Italia.

Perché il cosiddetto “modello Milano” ha affascinato, e tutt’ora affascina, molte amministrazioni e trova un consenso (ingannevole) fra molti cittadini, persuasi che quel “successo” porterà benefici anche nelle proprie tasche. Perché i milanesi hanno davvero creduto che la città dello skyline e grattacieli fosse davvero una vera città moderna, mentre si trattava di un’enorme speculazione edilizia sotto la maschera della rigenerazione urbana. Già con il modello Expo si è iniziato a perdere il senso del bene comune, le conquiste di una disciplina – l’urbanistica – che aveva nel suo statuto riformista il compito di mitigare i conflitti tra il bene collettivo – il bene di quella classe operaia che aveva contribuito alla crescita della città – e i grandi proprietari dei suoli e, oggi, i detentori dei fondi immobiliari.

Dalla “Milano da bere”, degli anni Ottanta, di Berlusconi, e successivamente dalla “Milano bella da vivere” della Moratti – che simboleggiavano un’immagine di successo, vivacità, un desiderio di modernità e di intensa vita notturna, ma che, a ben vedere, si associava a superficialità, individualismo e persino malaffare – si transita alla “città che non si ferma” del sindaco Sala; così come a Roma una retorica simile è simboleggiata dallo slogan: “Roma si trasforma”, senza aggiungere in cosa.

È che le politiche iperliberiste affascinano anche, o soprattutto, a sinistraLe città, quale che sia il colore dell’amministrazione, sono costrette a entrare in concorrenza tra loro per accaparrarsi flussi di denaro, grandi eventi, masse di turisti sospinte da grandi firme di architettura, fondi di investimento, opere pubbliche, con il risultato che la “grande abbondanza” viene spartita tra pochi gruppi di professionisti a scapito delle classi più deboli (e anche del ceto medio) costretto a cercare casa sempre più lontano dal centro. È un capovolgimento di tutto quanto l’urbanistica aveva conquistato negli anni Settanta, dove essa era impugnata dagli abitanti per creare servizi, scuole, verde e un sempre più benessere civile conquistato con dure lotte operaie. La città, in quegli anni, era ancora un’occasione di riscatto e le persone accettavano anche di vivere ai suoi margini poiché, prima o dopo, ma sicuramente, anche loro avrebbero avuto accesso ai benefici e alle occasioni della città. Con gli anni Ottanta il ciclo di lotte urbane si è esaurito. Da allora è iniziato un rapido processo di deregolamentazione con la cancellazione progressiva di quasi tutte le norme, gli statuti disciplinari e i vincoli che negli anni precedenti impedivano o almeno ostacolavano la speculazione edilizia. Milano, in questo, è stata l’apripista che, con l’Expo del 2015 ci ha illusi che bisognava semplificare le procedure, scavalcare i processi pur di raggiungere il fine del “successo” della città.

Il “modello Milano” ha trovato consenso presso altre grandi città: Genova, Firenze, Roma. A riprova di questa gigantesca operazione di privatizzazione della città, sono state le recenti sfilate di moda, a Firenze (dove interi isolati sono stati privatizzati per giorni da Gucci), a Roma dove Dolce&Gabbana ha dato uno spettacolare kitsch occupando l’area di Castel Sant’Angelo, a Venezia dove si è celebrato il matrimonio di Bezos con l’occupazione totale di gran parte della città. A Roma, per restare in tema di disinvoltura urbanistica, è in corso la revisione delle norme tecniche del Piano regolatore generale il cui obiettivo è quello di semplificare le procedure urbanistiche, realizzare grandi opere destinate ai turisti e ai super milionari, abbandonando le immense periferie sempre più lontane e prive di servizi, cui sono stati assegnati pochi spiccioli (per fare cosa?).

Si stima che tra il 2014 e il 2018 Milano abbia attirato 15 miliardi di euro in investimenti immobiliari internazionali, più di qualsia si altra città europea. In questo modo essa è diventata la capitale indiscussa del liberismo internazionale attraverso architetture realizzate in vetro o, come il famoso Bosco verticale, che confliggono con il cambiamento climatico in corso. Se in passato si emigrava dal sud verso Milano per le occasioni di lavoro, oggi gli abitanti non riescono più a sopportare i costi della vita quotidiana, re-migrando verso territori esterni. I costi dell’abitazione sono cresciuti più del doppio della media nazionale, stessa cosa per gli affitti e i mutui per l’acquisto delle caseIl “modello Milano”, in una parola è sostenibile solo per i ricchi che qui continuano ad acquistare case, magari nell’affascinante (si fa per dire) centro di City Life, un vero non-luogo, dove il crollo parziale della gigantesca insegna “Generali” posta su uno dei tre grattacieli (il Dritto, Lo Storto e il Curvo) ha simboleggiato per molti l’inizio di una catastrofe, come nei libri di Ballard.

Ma non solo per questo il “modello” è insostenibile. In un recente articolo (La fisica, l’economia e i comportamenti umani, pubblicato su Volere la luna del 18 luglio), Angelo Tartaglia (professore emerito di Fisica) ci ricorda che «le leggi fisiche ci dicono che in un sistema produttivo con produzione in crescita (di beni o di servizi che inglobano risorse materiali ed energetiche) il volume di risorse primarie (materia ed energia) necessario per mantenere la produzione cresce più in fretta di quest’ultima» col risultato che «il costo del controllo e della gestione del sistema cresce più rapidamente del sistema stesso e dei vantaggi che se ne ricavano». In altri termini, l’eccesso di competizione tra le città porta sempre più a produrre architetture fantasmagoriche e infrastrutture per eventi che poi producono vantaggi (per pochi) inferiori al costo del loro controllo. Capita spesso di vedere grandi infrastrutture (stadi, piste da sci ecc) che, subito dopo il loro uso contingente (per esempio un evento) vengono di fatto abbandonate. E ancora: «ormai il metodo scientifico ha preso a evidenziare l’impossibilità dell’economia della crescita competitiva, ma nello stesso tempo la tecnologia, o meglio le tecnologie, ognuna concentrata su un campo molto specifico e limitato, si sviluppano e vengono celebrate fornendo gli strumenti per procedere al galoppo verso l’insostenibilità scientificamente dimostrata e verso un collasso globale». 

Una volta le città italiche competevano tra loro per la bontà delle loro merci e per l’accoglienza ai pellegrini: si costruivano xenodochie e poi hospitali, lungo le strade che conducevano alla città. L’Ospedale degli Innocenti fu progettato da Brunelleschi: un’opera d’arte che ancora ammiriamo stupefatti da tanta bellezza e anche una opera civile per i neonati abbandonati. Che miracolo non essere nati a Milano!

Tra gli ultimi libri di Enzo Scandurra Roma. O dell’insostenibile modernità (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui.

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