La Milano da bere si è ubriacata di liberismo--------------------------------------------------------------------------------
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C’è una lucida follia in questa storia. Non si tratta – come qualcuno dei nostri
politici vorrebbe farci credere – del solito (“presunto”) conflitto tra politica
e magistratura e nemmeno dell’ennesimo caso di corruzione di qualche compiacente
amministratore pubblico da parte di un qualche imprenditore. Il caso Milano è
molto di più, è un affare politico e insieme culturale, ovvero la mancanza di
una politica per la città. Rimasto silente per molto tempo e, ora, pronto ad
esplodere come una bomba a tempo. Qualunque sia l’esito della magistratura, esso
ha già contaminato le amministrazioni comunali delle grandi città italiane che
sono pronte ad emularlo. E questo è l’esito più grave del fenomeno che rischia
di diffondersi in Italia.
Perché il cosiddetto “modello Milano” ha affascinato, e tutt’ora affascina,
molte amministrazioni e trova un consenso (ingannevole) fra molti cittadini,
persuasi che quel “successo” porterà benefici anche nelle proprie tasche.
Perché i milanesi hanno davvero creduto che la città dello skyline e grattacieli
fosse davvero una vera città moderna, mentre si trattava di un’enorme
speculazione edilizia sotto la maschera della rigenerazione urbana. Già con il
modello Expo si è iniziato a perdere il senso del bene comune, le conquiste di
una disciplina – l’urbanistica – che aveva nel suo statuto riformista il compito
di mitigare i conflitti tra il bene collettivo – il bene di quella classe
operaia che aveva contribuito alla crescita della città – e i grandi proprietari
dei suoli e, oggi, i detentori dei fondi immobiliari.
Dalla “Milano da bere”, degli anni Ottanta, di Berlusconi, e successivamente
dalla “Milano bella da vivere” della Moratti – che simboleggiavano un’immagine
di successo, vivacità, un desiderio di modernità e di intensa vita notturna, ma
che, a ben vedere, si associava a superficialità, individualismo e persino
malaffare – si transita alla “città che non si ferma” del sindaco Sala; così
come a Roma una retorica simile è simboleggiata dallo slogan: “Roma si
trasforma”, senza aggiungere in cosa.
È che le politiche iperliberiste affascinano anche, o soprattutto, a
sinistra. Le città, quale che sia il colore dell’amministrazione, sono costrette
a entrare in concorrenza tra loro per accaparrarsi flussi di denaro, grandi
eventi, masse di turisti sospinte da grandi firme di architettura, fondi di
investimento, opere pubbliche, con il risultato che la “grande abbondanza” viene
spartita tra pochi gruppi di professionisti a scapito delle classi più deboli (e
anche del ceto medio) costretto a cercare casa sempre più lontano dal
centro. È un capovolgimento di tutto quanto l’urbanistica aveva conquistato
negli anni Settanta, dove essa era impugnata dagli abitanti per creare servizi,
scuole, verde e un sempre più benessere civile conquistato con dure lotte
operaie. La città, in quegli anni, era ancora un’occasione di riscatto e le
persone accettavano anche di vivere ai suoi margini poiché, prima o dopo, ma
sicuramente, anche loro avrebbero avuto accesso ai benefici e alle occasioni
della città. Con gli anni Ottanta il ciclo di lotte urbane si è esaurito. Da
allora è iniziato un rapido processo di deregolamentazione con la cancellazione
progressiva di quasi tutte le norme, gli statuti disciplinari e i vincoli che
negli anni precedenti impedivano o almeno ostacolavano la speculazione edilizia.
Milano, in questo, è stata l’apripista che, con l’Expo del 2015 ci ha illusi che
bisognava semplificare le procedure, scavalcare i processi pur di raggiungere il
fine del “successo” della città.
Il “modello Milano” ha trovato consenso presso altre grandi città: Genova,
Firenze, Roma. A riprova di questa gigantesca operazione di privatizzazione
della città, sono state le recenti sfilate di moda, a Firenze (dove interi
isolati sono stati privatizzati per giorni da Gucci), a Roma dove Dolce&Gabbana
ha dato uno spettacolare kitsch occupando l’area di Castel Sant’Angelo, a
Venezia dove si è celebrato il matrimonio di Bezos con l’occupazione totale di
gran parte della città. A Roma, per restare in tema di disinvoltura urbanistica,
è in corso la revisione delle norme tecniche del Piano regolatore generale il
cui obiettivo è quello di semplificare le procedure urbanistiche, realizzare
grandi opere destinate ai turisti e ai super milionari, abbandonando le immense
periferie sempre più lontane e prive di servizi, cui sono stati assegnati pochi
spiccioli (per fare cosa?).
Si stima che tra il 2014 e il 2018 Milano abbia attirato 15 miliardi di euro in
investimenti immobiliari internazionali, più di qualsia si altra città
europea. In questo modo essa è diventata la capitale indiscussa del liberismo
internazionale attraverso architetture realizzate in vetro o, come il famoso
Bosco verticale, che confliggono con il cambiamento climatico in corso. Se in
passato si emigrava dal sud verso Milano per le occasioni di lavoro, oggi gli
abitanti non riescono più a sopportare i costi della vita quotidiana,
re-migrando verso territori esterni. I costi dell’abitazione sono cresciuti più
del doppio della media nazionale, stessa cosa per gli affitti e i mutui per
l’acquisto delle case. Il “modello Milano”, in una parola è sostenibile solo per
i ricchi che qui continuano ad acquistare case, magari nell’affascinante (si fa
per dire) centro di City Life, un vero non-luogo, dove il crollo parziale della
gigantesca insegna “Generali” posta su uno dei tre grattacieli (il Dritto,
Lo Storto e il Curvo) ha simboleggiato per molti l’inizio di una catastrofe,
come nei libri di Ballard.
Ma non solo per questo il “modello” è insostenibile. In un recente articolo (La
fisica, l’economia e i comportamenti umani, pubblicato su Volere la luna del 18
luglio), Angelo Tartaglia (professore emerito di Fisica) ci ricorda che «le
leggi fisiche ci dicono che in un sistema produttivo con produzione in crescita
(di beni o di servizi che inglobano risorse materiali ed energetiche) il volume
di risorse primarie (materia ed energia) necessario per mantenere la produzione
cresce più in fretta di quest’ultima» col risultato che «il costo del controllo
e della gestione del sistema cresce più rapidamente del sistema stesso e dei
vantaggi che se ne ricavano». In altri termini, l’eccesso di competizione tra le
città porta sempre più a produrre architetture fantasmagoriche e infrastrutture
per eventi che poi producono vantaggi (per pochi) inferiori al costo del loro
controllo. Capita spesso di vedere grandi infrastrutture (stadi, piste da sci
ecc) che, subito dopo il loro uso contingente (per esempio un evento) vengono di
fatto abbandonate. E ancora: «ormai il metodo scientifico ha preso a evidenziare
l’impossibilità dell’economia della crescita competitiva, ma nello stesso tempo
la tecnologia, o meglio le tecnologie, ognuna concentrata su un campo molto
specifico e limitato, si sviluppano e vengono celebrate fornendo gli strumenti
per procedere al galoppo verso l’insostenibilità scientificamente dimostrata e
verso un collasso globale».
Una volta le città italiche competevano tra loro per la bontà delle loro merci e
per l’accoglienza ai pellegrini: si costruivano xenodochie e poi hospitali,
lungo le strade che conducevano alla città. L’Ospedale degli Innocenti fu
progettato da Brunelleschi: un’opera d’arte che ancora ammiriamo stupefatti da
tanta bellezza e anche una opera civile per i neonati abbandonati. Che miracolo
non essere nati a Milano!
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Tra gli ultimi libri di Enzo Scandurra Roma. O dell’insostenibile modernità
(DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui.
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> La Dubai padana
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