
Un altro domani in Turchia
Pressenza - Saturday, July 19, 2025Solo la storia dirà se è stata una follia o un coraggioso cambio di paradigma, più grande della speranza e di ciò che talvolta la mente immagina durante la notte. La paura di un nuovo tradimento da parte del potere è dietro l’angolo, ma il movimento di liberazione curdo, dal 27 febbraio a oggi, ha proseguito senza sosta. E se la guerra è tornata a essere il mantra del capitalismo globale – tra conflitti tra Stati, guerre per il territorio o la cosiddetta “guerra alla droga” – il PKK, cambiando la sua forma di lotta, rompe anche con il paradigma bellicista.
È un passo tutt’altro che facile o garantito, un passo che mette paura, apre spazi critici, paure, giudizi da parte di chi preferisce ripetere un presente già sconfitto piuttosto che rischiare per un futuro incerto. Il movimento curdo e il neozapatismo dell’EZLN sono oggi le uniche narrazioni politiche capaci di sfidare il futuro, rompendo con le logiche del Novecento e con la comodità, staccandosi dai blocchi e avendo il coraggioso impulso di cambiare rotta senza perdere di vista l’obiettivo: un mondo diverso, possibile per tutti. Confondono, rischiano e così sopravvivono, si rinnovano e danno ossigeno alle resistenze mondiali.
Il loro gesto – lontano dall’essere mera simbologia – di bruciare le armi invece che consegnarle al governo segna un punto di non ritorno.
Consegnarle sarebbe stato un atto di resa; bruciarle, invece, rappresenta un rifiuto radicale della logica della guerra e della violenza. È un messaggio fortissimo rivolto a Erdoğan e al governo: “non ci fidiamo, vi sfidiamo” e, per la prima volta nella storia, un presidente ha dovuto riconoscere le violenze subite dal popolo curdo.
Dietro il sorriso di Erdoğan si delinea già il prossimo passo per canalizzare e controllare questa transizione: “Il primo atto sarà costituire una commissione parlamentare per seguire questo processo”, cercando di far rientrare nel percorso istituzionale ciò che nasce piuttosto come una rottura dal basso.
Per la prima volta dal 1999, Öcalan è tornato a parlare in video: “La lotta armata ha raggiunto il suo scopo: con il riconoscimento dell’identità curda, è finita. Ora dobbiamo iniziare un nuovo capitolo e adottare un linguaggio basato sulla ragione e sulla buona volontà… Questo rappresenta una transizione volontaria da una fase di conflitto armato a una di politica democratica e di diritto”.
Dal sud-est della Turchia emergono nuove reti mutualistiche, esperienze di autogoverno e pratiche comunitarie, che ricuciono una società lacerata da decenni di guerra e repressione. Le cronache parlano di assemblee spontanee, reti femminili per progetti di educazione e cura, autorità locali che, nonostante minacce di arresto, discutono apertamente di transizione postbellica.
“Il nostro obiettivo non è solo deporre le armi, ma costruire una società democratica, libera e giusta. Siamo determinate e determinati a portare questa lotta in ogni villaggio, città e quartiere, con la partecipazione di donne, giovani e di tutte le persone che credono che la libertà non abbia bisogno di un fucile per esistere”, hanno spiegato Carcel e Ozan, militanti storici del movimento, in un’intervista ad ANF.
Naturalmente, la repressione non cessa: la destra turca, insieme alle strutture militari e giudiziarie, continua ad attaccare oppositrici e oppositori, autorità locali, giornalisti e chiunque osi parlare di autonomia. Tuttavia, la fiamma delle armi tolte dalle mani alle potenze repressive rimuove il grande pretesto del terrorismo – la stessa macchina che la NATO e gli alleati hanno tollerato – e ora questa deve confrontarsi con la luce del fuoco.
Da un lato, resta la sfida politica di costruire giorno dopo giorno un’alternativa che non riproduca vecchie gerarchie interne, antiche logiche di potere o scorciatoie armate. Se resisterà alla repressione e ai tradimenti e se potrà diventare un esempio per altre lotte nel Mediterraneo e in Medio Oriente, lo dirà la storia. Dall’altro, il movimento curdo che abbandona le armi ma non il conflitto sociale per un domani differente, ora deve pensare a come far tornare alla vita civile e all’azione politica chi era nella clandestinità del PKK.
“Sappiamo che lasciare le armi non significa abbandonare la lotta: è un ulteriore passo per radicarci ancora di più nelle strade, nei villaggi e nelle città, con un’organizzazione popolare che nessun esercito potrà disarmare”, hanno dichiarato unità del PKK ad ANF.
Chi desidera pace, diritti umani e rispetto per i popoli in Turchia non ha più una bandiera da sventolare, ma un falò acceso da alimentare con la forza di chi non si arrende.
Fonte: https://www.jornada.com.mx/2025/07/15/opinion/010a1pol?utm_source=chatgpt.com “Un
mañana distinto en Turquía – La Jornada”