
La tormenta e la creazione di un altro mondo
Comune-info - Friday, June 13, 2025Le relazioni sociali sono ovunque orientate dal capitalismo, che però è entrato in una crisi accelerata favorendo un’intensificazione della violenza distruttiva, quella che da tempo gli zapatisti chiamano tormenta, come dimostrano la guerra in Ucraina, il genocidio in Palestina o le repressione degli spostamenti migratori. “È quindi necessario creare un altro mondo, generare un altro modo di organizzare le relazioni tra le persone e con la natura. Sappiamo che non basta opporsi al capitalismo, e sappiamo anche da tempo che la rivoluzione non consiste nel prendere il potere statale – scrive Alejandro Olmo – Dobbiamo creare un altro stile di vita basato sul rifiuto e la negazione del mondo del capitale…. Creare un altro mondo, alternativo al capitalismo, a partire da ora, generare beni comuni in ogni luogo in cui viviamo… con azioni che possono essere molto diverse, dall’auto-organizzazione di quartiere per trovare una soluzione a un problema locale a un’assemblea in cui le persone si riuniscono per discutere su come cambiare il mondo. O, in realtà, fare entrambe le cose…”. Insomma, i cambiamenti profondi della società passano prima di tutto dalla creazione di spazi/azioni non gerarchici e auto-organizzati che promuovano l’aiuto reciproco, la solidarietà e l’amicizia

Il modo nel quale ci relazioniamo tra noi stessi e con la natura è una forma mercificata e alienante imposta dal capitale al solo scopo di produrre plusvalore. Questa relazione è recentemente entrata in una crisi accelerata, e la “mancanza di controllo” del capitale in crisi genera, in risposta, un’intensificazione della violenza distruttiva che potrebbe persino portare all’estinzione parziale o totale della vita sul pianeta.
La tempesta è l’epitome della crisi delle relazioni sociali capitaliste.
Guerre come quella tra Russia, Ucraina e NATO, genocidi come quello di Gaza, la distruzione di interi territori per mercificare acqua e terra, gli spostamenti migratori in molte parti del mondo e la pandemia del 2020 sono alcune delle espressioni più eloquenti della tormenta. La tormenta contro cui gli zapatisti ci mettono in guardia da anni.
È quindi necessario creare un altro mondo, generare un altro modo di organizzare le relazioni tra le persone e con la natura. Sappiamo che non basta opporsi al capitalismo, e sappiamo anche da tempo che la rivoluzione non consiste nel prendere il potere statale. Dobbiamo creare un altro stile di vita basato sul rifiuto e la negazione del mondo del capitale. La creazione di questo altro mondo implica necessariamente e inevitabilmente la rottura con il capitale, il lavoro e il denaro. Implica simultaneamente la creazione di crepe nei rapporti sociali capitalistici. Creare un altro mondo dall’interno della tormenta e contro di essa, “contro e oltre”, come dice John Holloway.
Nel dicembre 2024, durante la “Prima Sessione degli Incontri di Resistenza e Ribellione”, gli zapatisti invitarono a riflettere su “La tormenta e il giorno dopo”. In quell’incontro, lo zapatismo ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di rigenerarsi, modificando la propria struttura organizzativa dopo aver capito che non funzionava per loro. Tuttavia, l’appello non era solo per spiegare questa riorganizzazione, ma per stabilire un dialogo con chi non è zapatista, con i “cittadini”, come chiamano noi che viviamo nelle città. Così come hanno descritto l’estensione del “noi” ai “fratelli e sorelle” (popoli indigeni non zapatisti), proposero anche di includere in quel “noi” i movimenti, i gruppi o gli individui ribelli che, in un modo o nell’altro, resistono alla tormenta in diverse aree geografiche (una seconda sessione di questi incontri è prevista per agosto 2025, a cui saranno invitati anche questi gruppi). In questa prima puntata del dialogo sono emersi due temi che, dal mio punto di vista, costituiscono una sfida e allo stesso tempo un contagio di entusiasmo e speranza ribelle: l’appello a creare un altro mondo, alternativo al capitalismo, a partire da ora, di fronte a una possibile catastrofe causata dalla tormenta, e, direttamente collegato a tale appello, la generazione di ciò che lo zapatismo chiama “I beni comuni”.
Per creare un altro mondo, la sfida che propongono è di generare beni comuni in ogni luogo in cui viviamo.
Gli zapatisti hanno spiegato che stanno creando beni comuni attraverso la condivisione della terra, che consiste essenzialmente nel lavorarla in comune e nel distribuire equamente tra tutti ciò che se ne ricava. Moisés commenta che, come hanno sentito durante il loro viaggio in Europa in una zona di Cipro, “la terra non appartiene a nessuno, appartiene a tutti”, e che la condivisione della terra rompe con il pensiero individualista della proprietà privata. Dopo aver spiegato questa idea e il processo che stanno intraprendendo, il comandante insorgente Marcos ha esortato coloro che vivono nelle città a generare beni comuni nella propria geografia e in base ad essa.
Se pensiamo alle città, quindi, la cosa ovvia che salta subito all’occhio è che non c’è terra da condividere e da cui ricavare cibo, e quindi nessuna terra su cui stabilire legami per un bene comune attorno ad essa. Ma il problema fondamentale è che nelle città (o nelle campagne industrializzate) i legami tra le persone sono più fortemente intersecati dal lavoro, salariato o non retribuito. Il lavoro astratto, che impone il tempo di produzione ed è la grande forza coesiva dei rapporti sociali capitalistici, si presenta a noi come un freno, un ostacolo “invisibile” a qualsiasi ribellione. Almeno nella mia esperienza, insieme a quella di altri compagni, dalla rivolta del 2001 in Argentina fino a oggi, la cosa più difficile è sempre rompere con l’alienazione del lavoro, poiché non è possibile smettere di lavorare da un giorno all’altro e disattivare la sottomissione che genera. Di fronte a questo problema, la sfida è quindi generare azioni che promuovano un’altra comunanza come asse centrale. Forse dovremmo puntare a creare spazi di coesistenza da cui generare queste azioni mentre cerchiamo di liberarci dal lavoro. Spazi di lotta che promuovano relazioni diverse, demercificando i legami, causando a loro volta crepe nelle relazioni sociali prevalenti. E questo implica una lotta per rompere con il lavoro astratto.
Queste azioni possono essere molto diverse, dall’auto-organizzazione di quartiere per trovare una soluzione a un problema locale a un’assemblea in cui le persone si riuniscono per discutere su come cambiare il mondo. O, in realtà, fare entrambe le cose, collegando problemi e bisogni particolari a quelli più generali che sono, solo apparentemente, meno immediati. È quindi necessario generare, sulla base di lotte particolari, idee generali o universali su come cambiare il mondo. Ricordiamo la metafora zapatista dell’idra capitalista, che si presenta con molte teste. Se ne tagliamo una, ne crescono diverse nuove, quindi la nostra lotta deve distruggere l’idra, piuttosto che le teste.
In ogni caso, questi spazi devono essere spazi di dibattito continuo, dove si generano azioni autodeterminate. Spazi/azioni non gerarchici e auto-organizzati che promuovano l’aiuto reciproco, la solidarietà e l’amicizia. Naturalmente, queste sono idee molto generali, e la sfida è come unirci e metterle in pratica.
Interpreto i “beni comuni” che gli zapatisti ci propongono non come qualcosa che già esiste e che deve essere scoperto, ma come qualcosa da creare. Partendo dalla negazione, dalla lotta che si ribella al dominio del capitale, dobbiamo creare questo altro mondo. Penso a questi beni comuni più che altro come a un movimento, a una comunizzazione che va oltre il lavoro astratto che costantemente ci contiene e ci determina. Una comunizzazione che implicherebbe la possibilità di autodeterminazione, di liberare la nostra ricchezza, le nostre capacità di creare vita, attualmente alienate nella produzione di merci. Implicherebbe anche la rottura con il tempo del denaro, aprendo la strada a un tempo di creazione.
La generazione di spazi/esperienze diversi, di nuovi modi di organizzarsi e relazionarsi, in luoghi diversi, contribuirà probabilmente a mettere in crisi le forme identitarie proprie del capitale. E perché no, pensare a una o più reti di beni comuni diversi che costituiscano la base per la creazione di quest’altro mondo, che vada oltre il mondo capitalista.
Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato La tormenta, la castastrofe y ahora que) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune.
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