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La guerra organizza l’accumulazione del capitale
TUTTE LE GUERRE IN CORSO SONO ARTICOLAZIONI DELL’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE, A PRESCINDERE DAGLI STATI COINVOLTI. EPPURE UNA PARTE DELLA SINISTRA E ANCHE DEI MOVIMENTI SPESSO OPTA PER ALCUNE POTENZE CAPITALISTE (RUSSIA, CINA) O PER POTENZE CAPITALISTE CON SISTEMI STATALISTI TEOCRATICI (IRAN), RISPETTO AD ALTRE. “CREDO CHE QUESTA POLITICA SIA DANNOSA PER I MOVIMENTI E I POPOLI, POICHÉ DIVIDE E GERARCHIZZA, SCEGLIENDO VITTIME DIFENDIBILI MENTRE ALTRE VENGONO DIMENTICATE… – SCRIVE RAÚL ZIBECHI – CHE SENSO HA PER NOI CHE COMBATTIAMO PER UN MONDO NUOVO ESSERE ALLEATI DEL CAPITALISMO DI STATO?”. CI SONO CREPE IN QUESTO ORIZZONTE? “LA SPERANZA STA NEL VEDERE COME ALCUNE COMUNITÀ E ORGANIZZAZIONI TRACCIANO PERCORSI DIVERSI – AGGIUNGE ZIBECHI – IN PARTICOLARE, LA DETERMINAZIONE ZAPATISTA A PORRE FINE ALLE PIRAMIDI CI MOSTRA CHE, TRENTUNO ANNI DOPO LA RIVOLTA, CONTINUANO A PERCORRERE ALTRE STRADE, IMPARANDO DAI PROPRI ERRORI, CHE È L’UNICO MODO PER CRESCERE…” Nei giorni scorsi, il quartiere romano San Lorenzo ha ricordato il bombardamento del 19 luglio 1943. Scrive il collettivo Esc: “La memoria non è solo un esercizio sterile… Quest’anno abbiamo ricordato il 19 luglio con lo sguardo alla guerra di ieri, per interpretare e contrastare quelle di oggi… Abbiamo attraversato le strade del quartiere in una passeggiata resistente, abbiamo ascoltato le storie della Roma ribelle e popolare di Guido Farinelli e Rosa Mordenti…” -------------------------------------------------------------------------------- È vero che alcune grandi aziende traggono profitto dal genocidio palestinese, come riportato dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, Francesca Albanese. È inoltre emerso pochi giorni fa che il Pentagono ha destinato il 54% della sua spesa a società private tra il 2020 e il 2024, il che equivale alla sbalorditiva cifra di 2,1 trilioni di dollari per rimpinguare le casse di una manciata di grandi multinazionali della guerra, secondo il Quincy Institute for Responsible Statehood. Ma la realtà del capitale va ben oltre i profitti di poche aziende, al punto che oggi possiamo affermare che l’accumulazione di capitale non può essere sostenuta senza violenza, senza distruggere popoli, senza massacrare donne e bambini. Le guerre sono articolazioni dell’accumulazione di capitale, a prescindere dagli Stati nazionali coinvolti nei conflitti. La complessità della situazione attuale risiede nella sovrapposizione di vari tipi di guerre che tuttavia hanno obiettivi simili. Siamo di fronte a guerre tra Stati, come nel caso tra Russia e Ucraina, o, se preferite, tra NATO e Russia. Ci sono anche guerre aperte, sebbene non dichiarate, tra Stati e popoli, come nel caso tra Israele e il popolo palestinese. Ma abbondano anche altri tipi di guerre, come le “guerre alla droga”, come in Messico, o le guerre contro le gang, la povertà e persino i cambiamenti climatici. Sebbene ognuna abbia le sue particolarità, tutte mirano allo stesso obiettivo: attaccare e sfollare le popolazioni per facilitarne l’espropriazione. Ammetto che questo modo di analizzare la realtà possa trascurare alcune caratteristiche di queste guerre, ma credo sia necessario schierarsi fermamente dalla parte dei popoli che, ripetutamente, sono vittime dell’accumulazione capitalista e, quindi, delle guerre. Una parte della sinistra e anche i movimenti sociali stanno optando per alcune potenze capitaliste (Russia, Cina) rispetto ad altre (Stati Uniti, Unione Europea), con il pretesto di combattere il “nemico principale”. Questo li porta a stringere alleanze con coloro che si oppongono all’impero statunitense. Credo che questa politica sia dannosa per i movimenti e i popoli, poiché divide e gerarchizza, scegliendo vittime difendibili mentre altre vengono dimenticate. È sorprendente che il popolo palestinese venga difeso, una questione del tutto giusta, ma nessuno parla del popolo ucraino o russo, i cui figli stanno dando la vita per difendere interessi stranieri in una guerra per la quale non sono stati consultati. In un caso, si tratta del capitale occidentale sostenuto da Trump e dall’Unione Europea. Nell’altro, si tratta di un regime autoritario e capitalista, come quello guidato da Putin. Ancora più gravi, trovo i movimenti che difendono apertamente la Cina o l’Iran, come sta accadendo in diversi casi in America Latina. Non possiamo accettare che le guerre tra grandi stati siano guerre intercapitalistiche? Che senso ha per noi che combattiamo per un mondo nuovo essere alleati del capitalismo di stato? Perché questo è uno degli argomenti principali di coloro che sostengono che la Cina, o stati simili, siano diversi dall’Europa o dagli Stati Uniti perché è lo stato a dirigere l’economia. Molti sostengono che i lavoratori in Cina abbiano accesso all’assistenza sanitaria pubblica, all’alloggio e ad altri benefici sociali, creando così una differenza rispetto ai paesi centrali del capitalismo attuale, dove gran parte di questi servizi è privata. Mi dispiace dire che trovo questa argomentazione molto debole e che il capitalismo di Stato è capitalista tanto quanto la proprietà privata. Sembra evidente che lo Stato continui a dividere le acque tra i settori popolari e i movimenti. Non si comprende che lo Stato-nazione è mutato. L’uno per cento se ne è appropriato per trasformarlo in uno scudo per i propri interessi. Gli stati sociali che si sono espansi dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa non esistono più. La politica anti-immigrazione del vecchio continente è solo un esempio di questo brutale cambiamento. Quando vediamo la polizia in California usare auto senza targa e agenti in uniforme con i cappucci in testa per arrestare i migranti, dovremmo riflettere sulla direzione che stanno prendendo gli stati, che alcuni ancora difendono come leve di emancipazione collettiva. Capisco che la cultura politica, come tutte le culture, si evolve molto lentamente, quindi cambiare il modo di fare le cose non sarà facile. Molti gruppi e individui continuano a pensare e ad agire come se il capitalismo non fosse mutato e a ripetere ripetutamente che le cose sono sempre le stesse. La speranza sta nel vedere come alcune comunità e organizzazioni tracciano percorsi diversi. In particolare, la determinazione zapatista a porre fine alle piramidi ci mostra che, trentuno anni dopo la rivolta, continuano a percorrere altre strade, imparando dai propri errori, che è l’unico modo per crescere. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI SILVIA RIBEIRO: > L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra organizza l’accumulazione del capitale proviene da Comune-info.
Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente
ABBIAMO BISOGNO DI IMPARARE FORME CONCRETE DI RESISTENZA ALL’OLOCAUSTO CAPITALISTA CHE OGGI EMERGONO DENTRO, CONTRO E OLTRE IL SUO PERIMETRO ASFISSIANTE. “LA COLLABORAZIONE NEI COMPITI CHE FAVORISCONO LE OPPORTUNITÀ DELLA SUSSISTENZA COLLETTIVA, COME COLTIVARE LA TERRA O COSTRUIRE CASE, È UN PROCESSO CHE POTENZIALMENTE TRASFORMA LA NECESSITÀ IN ETICA… – SCRIVE STAVROS STAVRIDES – GLI SFORZI DELLA SOPRAVVIVENZA COLLETTIVA FANNO EMERGERE FORME DI CONVIVENZA BASATE SULLA MUTUA DIPENDENZA…”. I MODI ATTRAVERSO I QUALI IN TUTTO IL MONDO DONNE E UOMINI LOTTANO OGNI GIORNO PER SOPRAVVIVERE POSSONO CREARE DEI SENTIERI VERSO L’EMANCIPAZIONE COLLETTIVA, ANCHE SE NON SIAMO ABITUATI A CONSIDERARE QUESTA PROSPETTIVA Foto tratta dalla pag. fb del Movimento dos Trabalhadores Sem Terra (MST) -------------------------------------------------------------------------------- L’unico motivo per cui quelli che lottano contro il capitalismo e il patriarcato scrivono, parlano e agiscono è per dimostrare che la catastrofe attuale non è inevitabile. Inoltre, per esprimere con le parole e sperimentare con fatti che dimostrano che un altro mondo è possibile, hanno bisogno di imparare dalle concrete resistenze all’olocausto capitalista che oggi emergono dentro, contro e oltre il suo perimetro asfissiante. Ma che significa veramente imparare? Imitare, adattarsi a modelli basati su generalizzazioni affrettate, utilizzare diciture tecniche o etiche che cercano di afferrare il significato delle azioni degli altri? Forse possiamo partire dal fatto che i segnali della catastrofe sono tanto imminenti che la maggior parte della gente li attendono senza esitare, a meno che si realizzino cambiamenti radicali. Il problema è che, per molti, questa consapevolezza alimenta una specie di edonismo pessimista: “consumiamo tutto ciò che è possibile”, “sfruttiamo tutto ciò che possiamo”, consoliamoci guardando come altri già vivono in questa catastrofe con la speranza di poterle sfuggire”. È cruciale imparare da quelli che hanno già sperimentato una catastrofe nei loro mondi e sono sopravvissuti. Come riuscirono i popoli colonizzati a mantenersi vivi dal punto di vista culturale, etico e letterario? Come riescono gli afroamericani – quelli che siamo abituati a descrivere come i discendenti degli schiavi, come se questa descrizione già non implicasse una naturalizzazione di un’identità brutalmente forzata – a manifestare nella pratica la propria volontà di continuare a essere differenti e liberi per conferire forma al loro proprio mondo? Abbiamo la necessità di connettere le resistenze al capitalismo con le espressioni collettive di una volontà tenace di sopravvivere. In molti, casi, questa volontà collettiva viene sottovalutata: parliamo di “mera sopravvivenza”. Tuttavia, questi atti portano con sé i germogli di una inventiva collettiva, necessaria per qualsiasi sforzo di emancipazione. La collaborazione nei compiti che favoriscono le opportunità della sussistenza collettiva – come coltivare la terra, pescare o costruire case – è un processo che potenzialmente trasforma la necessità in etica. E le ricreazioni rituali della collaborazione possono trasformarla in una sorgente di valori sociali e principi fondamentali. Solo per fare un esempio: il Mutirão in Brasile (parola con radici nella lingua tupí guaraní) è un processo di comune aiuto che si è sviluppato nelle zone rurali e che si basa sul lavoro comunitario. Fu recuperato dai movimenti delle persone senza terra e senza casa (MST e MTST) come una forma di cooperazione nella lotta che produce nuovi modelli di vita collettiva. Non è un caso che il Mutirão venga ritualizzato anche nelle rappresentazioni mistiche del MST, che sono atti che celebrano il cooperativismo e il potere della Madre Terra. Le diverse rappresentazioni mistiche corroborano un’etica di condivisione e una relazione di cura con la terra (Stavrides, 2024). -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Luca Perino -------------------------------------------------------------------------------- Un’assemblea del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) -------------------------------------------------------------------------------- Nelle pratiche di condividere e della cooperazione, nelle quali la prima (condividere) è sia la condizione iniziale che il risultato della seconda, emerge una potenzialità di emancipazione: la creazione di relazioni sociali basate sulla fiducia e sul reciproco appoggio. Ma questa potenzialità deve essere realizzata, sviluppata e inventata attraverso la pratica. Possiamo usare il verbo “rendere comune (comunizar)” per descrivere i processi di cooperazione che comprendono diverse aree della vita sociale nelle quali si pone la questione dell’accesso equo e della distribuzione del potere, questione inevitabile oltre al come la ricerca della sopravvivenza collettiva affronti questa questione. Se la catastrofe smaschera le differenze spesso accuratamente nascoste, gli sforzi della sopravvivenza collettiva fanno emergere forme di convivenza basate sulla mutua dipendenza. Gli sforzi individuali, specialmente tra coloro che sono i più vulnerabili e ignorati (a meno che non li si consideri dall’esterno come inutili) si rivelano ogni volta più sterili. Gli sforzi della sopravvivenza devono adattarsi mediante tattiche collettive e le tattiche si sviluppano nella pratica. I modelli della pratica nascono nella intersezione delle traiettorie precostruite della riproduzione sociale. Forse in un contesto sociale gli atti si convertono unicamente in esempi delle regole predominanti? Magari possiamo riscoprire la potenzialità degli atti che apparentemente seguono le tipologie predominanti del comportamento se distinguiamo con attenzione tra il paradigma e il modello. Questa possibilità la suggerisce Giorgio Agamben: “… un paradigma implica un movimento che passa di singolarità in singolarità e, senza mai abbandonare la singolarità, trasforma ogni caso singolare in un esempio di una regola generale che non può mai enunciarsi a priori” (2009:22). Il modo dominante di una tale conoscenza è l’analogia e non necessariamente la generalizzazione. In altre parole, il paradigma non è semplicemente il mezzo per presentare e confermare una regola, bensì forse per iniziare una comparazione analogica. I monaci, dice Agamben, potrebbero prendere ad esempio la vita del fondatore dell’ordine al quale appartengono e vivere le proprie vite, uniche come la sua, in forma analoga. Non ci affretteremo a chiamare questa pratica imitazione: l’analogia presuppone la singolarità degli aspetti comparati. La base di una comparazione si costruisce senza che l’uno si integri nell’altro. La creazione di una regola di condotta monastica è, per Agamben, qualcosa di molto diverso dal paradigma della vita del fondatore dell’ordine. Il paradigma, come manifestazione di una regola, presuppone una peculiare sospensione della propria specificità del suo significato. La sua singolarità, in un certo senso, rimane tra parentesi (come quando utilizziamo la coniugazione del verbo “amare” per mostrare la regola della coniugazione di verbi simili). Un gesto paradossale, di fatto, perché si suppone che la regola si formi a partire da tutti i casi che contiene (tutti i verbi simili). E l’esempio è certamente uno di quelli. Agamben conclude: “Il caso paradigmatico si converte in ciò nel sospendere e, allo stesso tempo, nell’esprimere la sua appartenenza al gruppo, in modo che non sia mai possibile separare il suo modello dalla sua singolarità” (ibid. 31). Un modo per valutare l’importanza di questa osservazione è formularla in questa maniera: ogni regola contiene un insieme di singolarità (istanze) solo perché identifica un elemento comune per tutte. Pertanto, è un errore ridurre l’unicità dei casi a una regola. L’unicità si capisce perché è l’intersezione di differenti regole. Così, di fronte al falso dilemma per il quale “le azioni delle persone sono tutte uniche” e “le azioni sono plasmate sulla base di schemi dominanti”, possiamo rispondere: in ogni singola azione si intrecciano regole che plasmano le pratiche (sequenze di atti) nell’applicare determinati schemi. In questo senso, ogni azione è un esempio. -------------------------------------------------------------------------------- I bambini e le bambine del Palestine Youth Club di Shatila al Centro storico Lebowski di Firenze (luglio 2025): foto di Chiara Benelli (che ringraziamo) per Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- In maniera analoga, possiamo parlare del controesempio. Un atto differente o un insieme di pratiche differenti possono considerarsi controesempi se li paragoniamo a una norma alla quale si contrappongono. Non come un’eccezione: l’eccezione appartiene alla regola. Si trova all’interno di essa come un verbo “irregolare” appartiene alla coniugazione dei verbi che si assomigliano nel non seguirlo. Agamben ha ragione quando insiste nel dire che l’eccezione non sta al di fuori della regola, bensì ne è solo la sua sospensione. Per questo, le eccezioni rilevano gli elementi costitutivi della regola dalla quale si separa ogni eccezione particolare. Il detto popolare che recita che l’eccezione conferma la regola sembra rivelare più di quanto appare in un primo momento. Le imprese eccezionali possono essere (viste) come atti eroici che sfidano esplicitamente le norme imposte. Sono (atti) necessari e utili per esporre la norma alla quale si contrappongono. Tuttavia, la loro forza diminuisce quando si trovano limitati a un confronto specifico con una norma specifica. I controesempi forse possono evitare questo trabocchetto, dato che possono arrivare più in là di un confronto specifico con la norma specifica di cui servono come esempio. Come succede di solito con gli esempi, possiedono le caratteristiche unica della loro specificità. Pertanto, possono trasformarsi in incroci di possibili pratiche, invece che in punti di rottura di una norma specifica. Le pratiche quotidiane possono essere portatrici di controesempi. Non dovrebbero descriversi semplicemente come non eccezioni, affermazioni di regole dominanti o espressioni di sottomissione reticente ma accettata. Questa è una delle maniere di ribadire che la riproduzione sociale è un campo di battaglia, più che una condizione stabilita con forza. Per questo, le tattiche di sopravvivenza quotidiana, specialmente di coloro che sono esposti ai pericoli immediati della catastrofe generata dal capitalismo, possono creare dei sentieri verso l’emancipazione collettiva, anche se una tale prospettiva non è necessariamente integrata in queste tattiche. Non è necessario che atti divergenti o dissidenti siano coscientemente proiettati da quelli che li realizzano in qualità di controesempi. La loro forza risiede nel fatto che offrono le opportunità per sperimentare mondi sociali organizzati in modo diverso. In questi mondi, attraverso gli atti, ma anche grazie al loro significato, si sviluppano controesempi. Considerare questi atti come modelli di sforzi emancipatori risulta utile per costruire delle teorie di emancipazione sociale, però forse trascura qualcosa di molto importante: il ragionamento analogico che permette alla teoria di mettere a confronto una molteplicità di casi senza ridurli a una regola generale. In altre parole, l’emancipazione sociale viene esplorata da persone reali in circostanze specifiche, e pertanto può adottare forme differenti. Nel rispettare il carattere distintivo e particolare di ogni pratica realizzata, abbiamo quindi la necessità di considerare l’emancipazione sociale come il trionfo dell’inventiva collettiva. Solo gli artigiani capaci e dotati di inventiva possono emancipare sé stessi. -------------------------------------------------------------------------------- Stavros Stavrides è professore alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, si occupa di reti urbani di solidarietà e mutuo sostegno. Nell’archivio di Comune, altri suoi articoli sono leggibili qui. Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato Crítica Anticapitalista 3 – La Tormenta, la castástrofe… ¿Y ahora qué?) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. Traduzione di Massimo Zincone. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre la catastrofe: imparare da coloro che sopravvivono tenacemente proviene da Comune-info.
La Cina offre un’alternativa al “tecnofeudalesimo” occidentale
All’inizio del secolo, l’innovazione globale seguiva un copione occidentale. La Silicon Valley dominava il mondo nell’innovazione. L’Europa esportava standard e governance. L’Asia, invece, era relegata a ruolo di produttore, assemblatore e consumatore. Ma l’ordine globale dell’innovazione sta cambiando. Secondo l’ultimo Edelman Trust Barometer, la trasformazione riguarda non solo le capacità tecniche, […] L'articolo La Cina offre un’alternativa al “tecnofeudalesimo” occidentale su Contropiano.
Le Multinazionali Complici del Genocidio Palestinese: il rapporto di Francesca Albanese
Il rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite, Da un’economia di occupazione a un’economia di genocidio rivela come il settore privato globale sia diventato complice attivo del genocidio in corso. L’indagine, basata su oltre 200 comunicazioni e un … Leggi tutto L'articolo Le Multinazionali Complici del Genocidio Palestinese: il rapporto di Francesca Albanese sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La tormenta e la creazione di un altro mondo
LE RELAZIONI SOCIALI SONO OVUNQUE ORIENTATE DAL CAPITALISMO, CHE PERÒ È ENTRATO IN UNA CRISI ACCELERATA FAVORENDO UN’INTENSIFICAZIONE DELLA VIOLENZA DISTRUTTIVA, QUELLA CHE DA TEMPO GLI ZAPATISTI CHIAMANO TORMENTA, COME DIMOSTRANO LA GUERRA IN UCRAINA, IL GENOCIDIO IN PALESTINA O LE REPRESSIONE DEGLI SPOSTAMENTI MIGRATORI. “È QUINDI NECESSARIO CREARE UN ALTRO MONDO, GENERARE UN ALTRO MODO DI ORGANIZZARE LE RELAZIONI TRA LE PERSONE E CON LA NATURA. SAPPIAMO CHE NON BASTA OPPORSI AL CAPITALISMO, E SAPPIAMO ANCHE DA TEMPO CHE LA RIVOLUZIONE NON CONSISTE NEL PRENDERE IL POTERE STATALE – SCRIVE ALEJANDRO OLMO – DOBBIAMO CREARE UN ALTRO STILE DI VITA BASATO SUL RIFIUTO E LA NEGAZIONE DEL MONDO DEL CAPITALE…. CREARE UN ALTRO MONDO, ALTERNATIVO AL CAPITALISMO, A PARTIRE DA ORA, GENERARE BENI COMUNI IN OGNI LUOGO IN CUI VIVIAMO… CON AZIONI CHE POSSONO ESSERE MOLTO DIVERSE, DALL’AUTO-ORGANIZZAZIONE DI QUARTIERE PER TROVARE UNA SOLUZIONE A UN PROBLEMA LOCALE A UN’ASSEMBLEA IN CUI LE PERSONE SI RIUNISCONO PER DISCUTERE SU COME CAMBIARE IL MONDO. O, IN REALTÀ, FARE ENTRAMBE LE COSE…”. INSOMMA, I CAMBIAMENTI PROFONDI DELLA SOCIETÀ PASSANO PRIMA DI TUTTO DALLA CREAZIONE DI SPAZI/AZIONI NON GERARCHICI E AUTO-ORGANIZZATI CHE PROMUOVANO L’AIUTO RECIPROCO, LA SOLIDARIETÀ E L’AMICIZIA Roma, ottobre 2023, un’assemblea spontanea promossa dai cittadini di Quarticciolo. Tra palestra popolare, doposcuola, polo civico, bottega di quartiere… in questo pezzo di città, tra non poche difficoltà, hanno preso molto sul serio l’idea di creare beni comuni -------------------------------------------------------------------------------- Il modo nel quale ci relazioniamo tra noi stessi e con la natura è una forma mercificata e alienante imposta dal capitale al solo scopo di produrre plusvalore. Questa relazione è recentemente entrata in una crisi accelerata, e la “mancanza di controllo” del capitale in crisi genera, in risposta, un’intensificazione della violenza distruttiva che potrebbe persino portare all’estinzione parziale o totale della vita sul pianeta. La tempesta è l’epitome della crisi delle relazioni sociali capitaliste. Guerre come quella tra Russia, Ucraina e NATO, genocidi come quello di Gaza, la distruzione di interi territori per mercificare acqua e terra, gli spostamenti migratori in molte parti del mondo e la pandemia del 2020 sono alcune delle espressioni più eloquenti della tormenta. La tormenta contro cui gli zapatisti ci mettono in guardia da anni. È quindi necessario creare un altro mondo, generare un altro modo di organizzare le relazioni tra le persone e con la natura. Sappiamo che non basta opporsi al capitalismo, e sappiamo anche da tempo che la rivoluzione non consiste nel prendere il potere statale. Dobbiamo creare un altro stile di vita basato sul rifiuto e la negazione del mondo del capitale. La creazione di questo altro mondo implica necessariamente e inevitabilmente la rottura con il capitale, il lavoro e il denaro. Implica simultaneamente la creazione di crepe nei rapporti sociali capitalistici. Creare un altro mondo dall’interno della tormenta e contro di essa, “contro e oltre”, come dice John Holloway. Nel dicembre 2024, durante la “Prima Sessione degli Incontri di Resistenza e Ribellione”, gli zapatisti invitarono a riflettere su “La tormenta e il giorno dopo”. In quell’incontro, lo zapatismo ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di rigenerarsi, modificando la propria struttura organizzativa dopo aver capito che non funzionava per loro. Tuttavia, l’appello non era solo per spiegare questa riorganizzazione, ma per stabilire un dialogo con chi non è zapatista, con i “cittadini”, come chiamano noi che viviamo nelle città. Così come hanno descritto l’estensione del “noi” ai “fratelli e sorelle” (popoli indigeni non zapatisti), proposero anche di includere in quel “noi” i movimenti, i gruppi o gli individui ribelli che, in un modo o nell’altro, resistono alla tormenta in diverse aree geografiche (una seconda sessione di questi incontri è prevista per agosto 2025, a cui saranno invitati anche questi gruppi). In questa prima puntata del dialogo sono emersi due temi che, dal mio punto di vista, costituiscono una sfida e allo stesso tempo un contagio di entusiasmo e speranza ribelle: l’appello a creare un altro mondo, alternativo al capitalismo, a partire da ora, di fronte a una possibile catastrofe causata dalla tormenta, e, direttamente collegato a tale appello, la generazione di ciò che lo zapatismo chiama “I beni comuni”. Per creare un altro mondo, la sfida che propongono è di generare beni comuni in ogni luogo in cui viviamo. Gli zapatisti hanno spiegato che stanno creando beni comuni attraverso la condivisione della terra, che consiste essenzialmente nel lavorarla in comune e nel distribuire equamente tra tutti ciò che se ne ricava. Moisés commenta che, come hanno sentito durante il loro viaggio in Europa in una zona di Cipro, “la terra non appartiene a nessuno, appartiene a tutti”, e che la condivisione della terra rompe con il pensiero individualista della proprietà privata. Dopo aver spiegato questa idea e il processo che stanno intraprendendo, il comandante insorgente Marcos ha esortato coloro che vivono nelle città a generare beni comuni nella propria geografia e in base ad essa. Se pensiamo alle città, quindi, la cosa ovvia che salta subito all’occhio è che non c’è terra da condividere e da cui ricavare cibo, e quindi nessuna terra su cui stabilire legami per un bene comune attorno ad essa. Ma il problema fondamentale è che nelle città (o nelle campagne industrializzate) i legami tra le persone sono più fortemente intersecati dal lavoro, salariato o non retribuito. Il lavoro astratto, che impone il tempo di produzione ed è la grande forza coesiva dei rapporti sociali capitalistici, si presenta a noi come un freno, un ostacolo “invisibile” a qualsiasi ribellione. Almeno nella mia esperienza, insieme a quella di altri compagni, dalla rivolta del 2001 in Argentina fino a oggi, la cosa più difficile è sempre rompere con l’alienazione del lavoro, poiché non è possibile smettere di lavorare da un giorno all’altro e disattivare la sottomissione che genera. Di fronte a questo problema, la sfida è quindi generare azioni che promuovano un’altra comunanza come asse centrale. Forse dovremmo puntare a creare spazi di coesistenza da cui generare queste azioni mentre cerchiamo di liberarci dal lavoro. Spazi di lotta che promuovano relazioni diverse, demercificando i legami, causando a loro volta crepe nelle relazioni sociali prevalenti. E questo implica una lotta per rompere con il lavoro astratto. Queste azioni possono essere molto diverse, dall’auto-organizzazione di quartiere per trovare una soluzione a un problema locale a un’assemblea in cui le persone si riuniscono per discutere su come cambiare il mondo. O, in realtà, fare entrambe le cose, collegando problemi e bisogni particolari a quelli più generali che sono, solo apparentemente, meno immediati. È quindi necessario generare, sulla base di lotte particolari, idee generali o universali su come cambiare il mondo. Ricordiamo la metafora zapatista dell’idra capitalista, che si presenta con molte teste. Se ne tagliamo una, ne crescono diverse nuove, quindi la nostra lotta deve distruggere l’idra, piuttosto che le teste. In ogni caso, questi spazi devono essere spazi di dibattito continuo, dove si generano azioni autodeterminate. Spazi/azioni non gerarchici e auto-organizzati che promuovano l’aiuto reciproco, la solidarietà e l’amicizia. Naturalmente, queste sono idee molto generali, e la sfida è come unirci e metterle in pratica. Interpreto i “beni comuni” che gli zapatisti ci propongono non come qualcosa che già esiste e che deve essere scoperto, ma come qualcosa da creare. Partendo dalla negazione, dalla lotta che si ribella al dominio del capitale, dobbiamo creare questo altro mondo. Penso a questi beni comuni più che altro come a un movimento, a una comunizzazione che va oltre il lavoro astratto che costantemente ci contiene e ci determina. Una comunizzazione che implicherebbe la possibilità di autodeterminazione, di liberare la nostra ricchezza, le nostre capacità di creare vita, attualmente alienate nella produzione di merci. Implicherebbe anche la rottura con il tempo del denaro, aprendo la strada a un tempo di creazione. La generazione di spazi/esperienze diversi, di nuovi modi di organizzarsi e relazionarsi, in luoghi diversi, contribuirà probabilmente a mettere in crisi le forme identitarie proprie del capitale. E perché no, pensare a una o più reti di beni comuni diversi che costituiscano la base per la creazione di quest’altro mondo, che vada oltre il mondo capitalista. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sul numero 3 della Revista Crítica Anticapitalista (intitolato La tormenta, la castastrofe y ahora que) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La tormenta e la creazione di un altro mondo proviene da Comune-info.
Il bisogno indotto della guerra
Analizzare i modi attraverso cui l’industria automobilistica, e in Italia dire auto nel XX secolo è dire FIAT, si è imposta a partire dagli inizi del ‘900 è emblematico rispetto alle modalità di affermazione del sistema capitalista. Il paesaggio modellato con le infrastrutture necessarie allo sviluppo del settore (strade, autostrade, ecc.), solidi legami col potere politico (meglio se di destra ma con capacità di adattarsi ai differenti schemi politici), attività di lobbying, creazione del bisogno in modo tale da renderlo insopprimibile, l’affermazione di una immagine di modernità in contrasto con la mobilità del passato basata su treni e tramvie. Spostiamo ora l’attenzione sull’ambito trainante dell’economia capitalista del XXI secolo: l’industria delle armi. Il complesso militare-industriale è legato a filo doppio a un’economia di guerra. E’ tutto sommato l’applicazione del modello consumista, la guerra è la situazione in cui le armi si usano e si consumano incentivando sempre più massicce produzioni. Pensiamo che l’impulso al sistema industriale delle armi sia data da un fatto ineluttabile, ovvero la presenza dei conflitti armati in giro per il mondo, conflitti dovuti al nazionalismo, conflitti religiosi, etnici, politici. In realtà occorre invertire il nesso causale. Le guerre ci sono poiché indotte dal sistema industriale militare. In una logica capitalista che guarda al profitto e all’accumulo di dividendi al di là di qualsiasi valutazione etica è nella natura delle cose favorire situazioni di instabilità che portino poi a conflitti armati. Non è poi così difficile farlo per il potentissimo sistema industriale di produzione di armi. Gli addentellati con la politica sono evidenti, le possibilità di giocare a tutto campo sugli scenari mondiali sconfinate. E’ quanto è avvenuto solo per fare un esempio di drammatica attualità in Ucraina. Tendiamo a vedere solo ciò che è palese ma chi ha favorito l’instabilità e la drammatica apertura di conflitti armati è chi può fornire a dismisura armamenti guadagnando somme che si misurano nell’ordine delle migliaia di miliardi. E dove sperimentare al meglio i nuovi sistemi d’arma se non sul campo…di battaglia. Le vittime civili e militari e la distruzione di beni materiali come test di innovativi “prodotti”. E non ci sono solo missili, artiglieria pesante, armi convenzionali. Già hanno fatto irruzione da qualche anno i droni che permettono di far strage senza rischio alcuno. Ma ora la nuova frontiera è fatta di iper-tech, intelligenza artificiale, armi cyber, big data, e questo lo avevano detto ad esempio Taiani e Crosetto. Avevano invitato a tener conto del fatto che attrezzarsi per la difesa non significava solo missili e cannoni ma appunto un bel po’ di innovazioni immateriali. Ah, ora stiamo meglio! Il complesso militare-industriale influenza le politiche di investimento dei governi e la stessa percezione dei bisogni e dei rischi della popolazione. Interviene a tutto campo. E’ capace di far passare la “pubblicità” di una Russia che sta per attaccarci e da cui occorre difenderci investendo 800 miliardi in armi, indicendo quindi nella popolazione un bisogno che è percepito come reale anche se ciò è solo negli interessi economici di qualcuno. Ma fa breccia e la fa persino tra le forze progressiste che non si sottraggono alle sirene del riarmo. E’ in grado grazie al legame a doppio filo con gli eserciti di azioni pervasive anche a livello educativo. Sono diventate normali oramai le “lezioni” dei militari nelle scuole, le visite didattiche alle forze armate e via dicendo. E fanno passare l’imprescindibile difesa del Paese per difesa dei confini (minacciati in realtà solo dai poveri cristi che arrivano da sud e da est) mentre la vera difesa dovrebbe essere a favore della salute, della scuola, dell’ambiente. Naturalmente più soldi per le armi significa meno investimenti in sanità, scuola, ambiente , lavoro. Ma tutto sommato un popolo meno sano, più povero, più depresso, meno istruito, che viva in un ambiente degradato, si manipola meglio. Sarebbe sbagliato però pensare di invertire la rotta considerando il sistema industriale militare come un problema a sé. Creazione del bisogno, interconnessione del sistema economico con quello politico, attività lobbistica, consumismo, sono pilastri del sistema capitalista per cui è quello che va rovesciato. L’obiettivo non può che essere il comunismo. Non ovviamente quello burocratico e autoritario di sovietica memoria. Ma piuttosto il comunismo dei beni comuni, della decrescita e del marxismo ecologista teorizzato dal filosofo Sito Kohei. In ballo questa volta non ci sono solo le sorti del proletariato ma la sopravvivenza stessa dell’umanità. Giuseppe Paschetto
Abitare un pianeta al collasso
IL 2024 È STATO L’ANNO PIÙ CALDO MAI REGISTRATO. E COME POTREBBE ESSERE DIVERSAMENTE SE IL CONSUMO DI CARBONE E PETROLIO CONTINUA AD AUMENTARE? INVECE DI METTERE IN DISCUSSIONE I MOTIVI CHE SONO ALLA BASE DELLA CRISI ECOLOGICA, I GRANDI POTERI ECONOMICI HANNO SCELTO VARI MODI DI “ADATTARE” I LORO BUSINESS ALLE DIVERSE CONDIZIONI AMBIENTALI: IL CASO PIÙ SPETTACOLARE È LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA CAPITALE DELL’INDONESIA, NUSANTARA, CHE DOVREBBE SOSTITUIRE JAKARTA (28 MILIONI DI ABITANTI), ORAMAI SPROFONDATA SOTTO IL PESO DEI SUOI GRATTACIELI E SOMMERSA DALL’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DEI MARI. IL PROBLEMA RESTA IL COMPORTAMENTO SEMPRE PIÙ PREDATORI DEGLI UMANI, A CUI CORRISPONDE UN POTERE COLONIALE SULLE SOCIETÀ. “DIFFICILE IMMAGINARE UNA RELAZIONE ARMONIOSA E SIMBIOTICA MULTISPECIE DELLE COMUNITÀ UMANE ALL’INTERNO DEI PROPRI ECOSISTEMI DI RIFERIMENTO – SCRIVE PAOLO CACCIARI – CHE NON SI REGGA SU RELAZIONI TRA GLI INDIVIDUI DELLA PROPRIA SPECIE BASATE SULLA CONVIVENZA PACIFICA E SOLIDALE, SULLA CONDIVISIONE E LA COOPERAZIONE, SULL’EQUITÀ SOCIALE, SU PACE E GIUSTIZIA…” Studenti e studentesse della scuola primaria e secondaria dell’IC di Civate (LC), insieme ai loro genitori, durante un’iniziativa della cooperativa Liberi sogni. Dal 31 maggio al 2 giugno, Liberi sogni promuove Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare -------------------------------------------------------------------------------- Il convegno “Abitare la Terra” promosso dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Roma (curatori: Daniela Gualdi e Flavio Trinca) il 29 aprile 2025 presso la Casa dell’Architettura si è aperto ponendo una domanda: “Avrebbe potuto andare diversamente?”. Certamente! È da più di mezzo secolo (dalla istituzione della prima giornata mondiale della Terra, dalla pubblicazione del Rapporto del Club di Roma su I limiti della crescita, dalla prima conferenza dell’Onu di Stoccolma sull’ambiente, dalla costituzione dei pannel scientifici sul riscaldamento globale e sulla biodiversità… per arrivare, in questo secolo, all’Accordo di Parigi e agli Obiettivi dello sviluppo sostenibile) che sappiamo con dettagliata precisione dove ci avrebbe portato il “business as usual” e cosa si sarebbe dovuto fare per evitarlo. Ora, quindi, la domanda giusta da porci è un’altra: potrà andare diversamente? Adattarsi? Sul numero di novembre del 2024 di Limes, dedicato alle questioni climatiche, Lucio Caracciolo scrive: «La battaglia per la decarbonizzazione è persa». I dati gli danno ragione: il 2024 si conferma l’anno più caldo mai registrato, così come il contenuto di anidride carbonica d’origine antropica in atmosfera (a gennaio la Noaa ha registrato il record di 426,03 parti per milione). E come potrebbe essere diversamente se il consumo di carbone e petrolio continua ad aumentare? L’obiettivo del contenimento dell’aumento di 1,5°C entro il 2050 è già stato superato. Il più recente rapporto dell’Ipcc (AR6) prevede che se la temperatura dovesse arrivare a +2°C si verificherebbero dei tipping point (punti di non ritorno) quali: la fusione della calotta glaciale della Groenlandia con un innalzamento del livello medio marino di 6-7 metri; la fusione di una porzione della calotta glaciale dell’Antartide con effetti improvvisi non prevedibili; un indebolimento della corrente oceanica meridionale atlantica (AMOC) con un raffreddamento del clima nel Nord Europa; lo scongelamento del permafrost artico; un collasso dei sistemi corallini tropicali; lo stress da calore e da incendi delle foreste amazzoniche e boreali. Tutti eventi stranoti e inoppugnabili a fronte dei quali Caracciolo dice che non ci rimane che «ecoadattarci». Un realismo che appare come una resa – non si sa quanto cinica o fatalistica – all’inazione, all’«inattivismo» dei governi (concetto usato dal climatologo Michael Mann nel libro La nuova guerra del clima, Edizioni Ambiente, 2021). Questo è infatti ciò che sta avvenendo. Piuttosto di mettere in discussione i motivi che sono alla base della crisi ecologica, i poteri economici che determinano la sorte della civilizzazione hanno scelto vari modi di “adattare” i loro business alle diverse condizioni ambientali. È ciò che Noemi Klain chiamava «il capitalismo dei disastri», ovvero: approfittare delle distruzioni invece di prevenirle. Il più delle volte si tratta di interventi eclatanti, faraonici progettati in chiave “tecno-modernista”, la cui funzione fondamentale è mobilitare molti soldi. Vediamo alcuni casi tipici pensati nel tentativo di rispondere alla sfida del surriscaldamento del pianeta. Essi spaziano dall’approccio immobiliarista, a quello geo-ingegneristico a quello fantascientifico hollywoodiano. Il caso più spettacolare è certamente la costruzione della nuova capitale dell’Indonesia, battezzata Nusantara, che dovrà sostituire Jakarta, oramai sprofondata sotto il peso dei suoi grattacieli (subsidenza) e sommersa dall’innalzamento del livello dei mari (eustatismo). Definisco questa una soluzione di «translazione delle contraddizioni» – per usare una categoria di Kohei Saito -: se un territorio diventa inabitabile lo si abbandona e se ne colonizza (distrugge) un altro. Inutile dire che non tutti gli attuali 28 milioni di abitanti di Jakarta troveranno posto nelle nuove abitazioni che il governo sta cercando di far costruire alle società immobiliari di tutto il mondo offrendo loro terreni e facilitazioni – ma con scarso successo, sembra. Zone di sacrificio e popolazioni di scarto fanno parte del corredo dell’approccio immobiliarista. Il secondo caso è quello della laguna di Venezia. Non potendo spostare altrove la città storica di Venezia, gli ingegneri idraulici hanno pensato di isolarla dal resto del pianeta contornandola con impegnative opere di contenimento delle acque. Al centro del sistema vi sono quattro teorie di barriere mobili, Mose (Moduli elettromeccanici a spinta di sollevamento) che separano il mare dalla laguna in caso di maree superiori ad 1 metro e 20 centimetri sul livello medio del mare. Un’impresa costata più di dieci miliardi di euro tra opere a mare e “complementari” e un costo di manutenzione previsto di un milione e mezzo di euro all’anno. Un’opera, ovviamente, non replicabile per la difesa delle altre zone costiere meno famose dove l’ingressione marina dell’Adriatico lungo il fiume Po raggiungerà la periferia di Milano (vedi le cartine di Pievani e Varotto nel Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, Aboca 2021). Peccato che con le tendenze attuali nemmeno il Mose riuscirà ad impedire le “acque alte” di Venezia. Con 50 centimetri di aumento del livello del mare le ore di chiusura del Mose possono raggiungere le 4.500 ore all’anno (più o meno sei mesi!). Ma le ultime stime dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Cnr prevedono un aumento del livello medio del mare di 3 metri a fine secolo (leggi Multi-Temporal Relative Sea Level Rise Scenarios up to 2150 for the Venice Lagoon (Italy), Published 26 February 2025). La terza tipologia di sistemi di “difesa” dai cambiamenti geo-bio-fisici in atto è sicuramente la più fantasiosa perché inverte radicalmente l’approccio al problema: invece di pensare a come adattare la vita degli esseri umani ai mutamenti, si propone di cambiare il modo di funzionare del sistema naturale terrestre. Qui il tecno-ottimismo si spinge oltre il confine della realtà conosciuta e sperimentata. La geoingegneria, un po’ come la bioingegneria, si propone di manipolare il corso dell’evoluzione della vita. Si compie così il sogno prometeico dell’uomo che si crede (gioca a fare) dio. Nel caso specifico del surriscaldamento climatico la scommessa è quella di modificare la irradiazione solare (SRM, gestione della radiazione solare) per ridurre il calore intrappolato nell’atmosfera. I progetti di geoingegneria variano dall’immissione nella stratosfera di aerosol con biossido di zolfo, allo sbiancamento delle nubi spruzzando particelle di sale marino, alla collocazione nello spazio di spechi riflettenti, alla fertilizzazione degli oceani per aumentare la cattura della CO2… e altro ancora. Gli allarmi scientifici ed etici lanciati da più parti nel tentativo di bloccare le sperimentazioni in questo campo (vedi il portale nogeoingegneria.com), sembrano destinati a rimanere voci nel deserto considerando che grandi università come la University of Pennsylvania e Harvard e “magnati” come Bill Gate e Elon Musk, venerati e celebrati come “visionari”, stanno spendendo miliardi in ricerche di geoingegneria spaziale. Con Tramp è sicuro che otterranno le autorizzazioni necessarie. Infine, vi è un quarto approccio all’“adattamento”, molto più pragmatico e casereccio, alla portata anche dei governi meno ambiziosi, come il nostro: la decretazione dell’obbligo di stipula di una polizza assicurativa a copertura dei danni provocati da eventi estremi metereologici e conseguenti “calamità naturali”. Si chiamano Cat Nat: “polizze catastrofiche”. Come dire: ognuno si arrangi da sé, evitando di andare a chiedere rimborsi dallo Stato. L’economista Luigino Bruni chiama questa strategia «ipertrofia assicurativa», cioè, la privatizzazione dei rischi che le persone incorrono (come sta già avvenendo in sanità con lo smantellamento del welfare) vivendo in una società sempre più fragile, squilibrata, ammalorata. Inutile dire che per le società finanziarie si apre un colossale flusso di denaro da gestire a loro piacimento. Da tempo circolano nei mercati finanziari titoli e obbligazioni dette Cat Bond (Catastrophe Bond) e loro derivati con cui si può scommettere (tanto al rialzo, quanto al ribasso) sull’eventualità che si verifichino determinati eventi catastrofici (per un inquadramento della questione vedi di Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, Ombre corte, 2019). Od opporsi? Se queste sono le strategie di adattamento ai mutamenti climatici che tecnocrati e finanzieri ci propongono, conviene allora pensare a soluzioni alternative, meno rischiose e meno costose: rispettare i cicli e i tempi biologici dei sistemi naturali; fare in modo che la natura riacquisti la capacità di rigenerarsi; lasciare che la natura si riprenda gli spazi necessari alla evoluzione della biodiversità (varietà e numerosità delle specie viventi) e ricolonizzi gli habitat attaccati dagli interventi antropici: boschi e foreste, zone umide e corsi d’acqua, barriere coralline e fondali marini, praterie e savane. È la strada indicata dal biologo Edward Wilson nel libro Half-Earth: Our Planet’s Fight for Life, (Wilson, Edward O., Metà della Terra: salvare il futuro della vita, Codice, 2016) in cui propone che metà della superficie terrestre venga designata come riserva naturale priva di presenze umane. Si potrà obiettare che si tratta di un approccio meramente difensivo, conservazionista, forse inefficace di fronte agli effetti ubiquitari delle aggressioni antropiche in atto; pensiamo alle radiazioni nucleari, alle microplastiche, ai composti chimici artificiali non metabolizzabili, alle polveri sottili inalabili… prima ancora che al biossido di carbonio, ma certo non sarebbe inutile come segnale di “Alt!” e di inversione di tendenza. Gli ecosistemi non sono “risorse”, “capitali” e “servizi” utili all’economia di mercato monetizzata (per un’analisi dettagliata vedi: Quaderni della decrescita, parte monografia “Capitale naturale”. L’assalto finale, a cura di Paolo Cacciari e Aldo Femia). Il regolamento europeo Nature Restoration Law (agosto 2024) va in una giusta direzione. L’obiettivo è coprire almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’UE entro il 2030 con misure di ripristino della natura, estendendo poi tali sforzi a tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. Ogni iniziativa volta a denunciare e fermare il “consumo di suolo” è una precondizione per iniziare un’opera di risanamento dei processi vitali. Le ferite non si curano se prima non si ferma l’emorragia. Inoltre, anche i rimedi e le tecniche da usare per il risanamento degli ecosistemi possono essere di tipo passivo, spontaneo, “basati sulla natura”, piuttosto che di tipo ingegneristico. È quanto sostengono molti naturalisti ed ecologi, vedi, da ultimo, Roberto Danovaro, Restaurare la natura. Come affrontare la più grande sfida del secolo, Edizioni Ambiente, 2025. Decisamente interessante uno studio di qualche tempo fa, ma poco diffuso, del Fondo Monetario internazionale sugli effetti benefici delle balene: «Una strategia sorprendentemente semplice e sostanzialmente “no-tech” per catturare più carbonio dall’atmosfera: aumentare le popolazioni globali di balene» (link Imf). I biologi marini hanno infatti scoperto che il movimento nell’acqua e il metabolismo delle balene accresce il fitoplancton e di conseguenza la fissazione della CO2 negli oceani. Sembra che le balene oggi assorbano il 40% della CO2 prodotta nel pianeta (come 1.700 miliardi di alberi, pari a quattro foreste amazzoniche). Anche questa, però, può essere una strada rischiosa se gestita in un’ottica mercantile, con strumenti contabili (“partita doppia”; inquinare/disinquinare) e da agenti economici che hanno finalità di lucro. La natura come asset finanziario, cui attribuire un prezzo per poter scambiare in appositi mercati servirà solo a fornire nuove occasioni di business alle imprese, ad avviare nuovi cicli di accumulazione di capitali da investire in nuove attività economiche profittevoli. La giostra prelievi-produzione-consumo-scarti continuerà a girare sempre più velocemente. Quanto tutto ciò possa migliorare la salute del sistema Terra è davvero difficile da immaginare. Adrienne Buller, ricercatrice presso il think tank inglese Common wealth, in Quanto vale una balena. Le illusioni del capitalismo verde (add, 2024), dimostra l’inganno della “crescita verde”, poiché la natura non può essere ridotta e trattata come un bene economico. Dichiarazione di dipendenza dalla natura I sistemi vitali naturali, nella fisiologia terrestre, sono costituiti da flussi di energia e di materia che interagiscono rispondendo a leggi della biologia, della fisica e della termodinamica; rispettano vincoli biologici e condizioni fisiche; si evolvono su diversi livelli trofici e catene alimentari. Nella rete della vita tutto è legato da interconnessioni infinite, dinamiche, interdipendenti. Gli stessi “regimi naturali” classificati da Linneo in sfere distinte – litosfera, vegetali, animali – sono attraversati da flussi e relazioni complesse. Il “pensiero sistemico” di Odum (E. P. Odum e Gary W. Barrett, Fondamenti di Ecologia, nuova edizione Piccin-Nuova Libraria, 2006) dovrebbe guidare anche i nostri comportamenti sociali, economici e politici. Per non dimenticare l’abc della vita vale la pena ricordare che gli animali – noi con loro – inspirano ossigeno ed espirano anidride carbonica, mentre le piante fanno il contrario. Questo delicato, infinitesimale equilibrio nel bilancio metabolico del carbonio (cosa sono 400 parti per milione di Co2 in atmosfera!) fa la differenza tra la Terra e tutti gli altri pianeti fin qui conosciuti. La specie umana ha via via maggiormente interferito con le dinamiche spontanee dei cicli vitali terrestri. Grazie al crescente ricorso a energia e materiali “esterni” (esosomatici) gli esseri umani hanno assunto comportamenti sempre più predatori, parassitari, distruttivi delle basi biologiche ecosistemiche che supportano ogni tipo di organizzazione sociale. Fino al punto da pensarsi al vertice della piramide evolutiva e ritenersi legittimati a sottomettere e dominare ogni ente “inferiore”. Certo è che la cultura occidentale di derivazione ebraica ha contribuito non poco a un antropocentrismo estremo: «Dio disse loro: riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Genesi, 1-28). Queste terribili parole equivalgono a una dichiarazione di guerra del genere umano alla natura. La modernità occidentale eurocentrica si è quindi spinta fino a concepire l’umanità bianca, maschile, benestante come entità separata dalla «natura bruta» – per dirla con Francis Bacone. Corpo e spirito, sentimenti e razionalità, natura e cultura si sono separati seguendo una logica binaria oppositiva in cui i secondi valori hanno preso il sopravvento. Nella sua Ecopedagogia, la storica Bruna Bianchi riporta uno splendido passo della sociologa pacifista quacchera Elise Boulding: «Noi viviamo in un guscio, uno scudo tecnologico che ci isola non solo dai capricci del vento, dal clima, dalla temperatura, ma dai ritmi dell’ecosistema. In una bella e ordinata città, chi sa quando le api escono per il miele? Quando la luna è piena? Quando viene il tempo di danzare e piedi nudi? Chi sta piangendo da solo nella notte? Chi non riesce a dormire per la fame? Noi ci muoviamo nella vita senza conoscere queste cose». (Bruna Bianchi, Ecopedagogia. Il senso della meraviglia nella riflessione femminile, Marotta & Cafiero, 2021). Sottolineo una curiosità, forse non banale: Elise, in realtà nasce Biorn-Hansen a Oslo, Norvegia (1920 – 2010) e sposa negli Stati Uniti Kenneth Boulding (1910–1993), economista inglese, anch’egli quacchero, pioniere dell’ecologia economica, noto a tutti gli ambientalisti per aver dissacrato il modello economico della crescita, definito del “cowboy”, contrapposto a quello dell’astronauta che orbita nello spazio in una navicella dalle risorse limitate. A fronte della crisi ecosistemica, multifattoriale e multidimensionale in atto sarebbe necessario che quella parte del genere umano che ha superato ogni limite di sicurezza nella capacità di carico dei sistemi naturali (accumulando un debito ecologico e intaccando il “patrimonio” non rinnovabile) – diciamo, per essere meno generici, quel 10% della popolazione mondiale che usa l’80% delle risorse della Terra – prendesse coscienza dei danni irreversibili che sta provocando nei confronti della stragrande maggioranza degli individui della propria specie e della natura in generale. Come bene dimostrano le famose rappresentazioni grafiche del gruppo di ricerca dell’ecologo svedese Johan Rockström (Planetary Boundaries – defining a safe operating space for humanity, Rockström, et al. 2009. “A Safe Operating Space for Humanity”. Nature 461 (7263): 472–75) e dell’economista Kate Raworth (Doughnut Economics, University of Oxford; L’Economia Della Ciambella, Edizioni Ambiente, 2020), gli squilibri ecologici e quelli sociali sono due facce della stessa medaglia. A un uso predatorio delle “risorse naturali” corrisponde un potere coloniale sulle società ancestrali, e viceversa. La base ecologica e la base ordinamentale sociale degli insediamenti umani procedono in parallelo, coerentemente. Difficile immaginare una relazione armoniosa e simbiotica multispecie delle comunità umane all’interno dei propri ecosistemi di riferimento che non si regga su relazioni tra gli individui della propria specie basate sulla convivenza pacifica e solidale, sulla condivisione e la cooperazione, sull’equità sociale, su pace e giustizia. Una biforcazione di fronte a noi Sarebbe quindi necessario che gli esseri umani prendessero coscienza della loro condizione di internalità nel macrorganismo vivente del Sistema Terra, di Gaia, di Pachamama, di Madre Terra, del creato, della biosfera… a dir si voglia, riconoscendo e rispettando le “connessioni ecologiche” planetarie. Questa è, in buona sostanza, la sfida di civiltà che sta dinnanzi a tutti coloro che desiderano sinceramente invertire la rotta del sistema socioeconomico dominante: produrre beni e servizi utili al benessere di tutte le persone mantenendo in equilibrio i cicli naturali. In altri termini «integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà» (Onu, Sustainable Development Goals, Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, Goal n.15.9, 2015). Dove per “integrare”, si dovrebbe intendere ricollocare l’economia in una scala di valori che abbia al centro la biorigenerazione come scelta strategica vincolante. Ed è qui – come abbiamo visto – che le strade si biforcano. Da una parte gli ecomodernisti, i tecno-ottimisti, i fautori dello “sviluppo sostenibile”, della green economy e del capitalismo “green” che pensano sia possibile “riassettare” il sistema economico di mercato introducendo dosi ponderate di regolamentazioni orientate alla sostenibilità (tipo criteri ESG per le imprese, tassonomie verdi per gli investimenti, compensazioni dei danni ambientali, pianificazione territoriale, fino alla introduzione nei Consigli di amministrazione delle società di capitale di codici di comportamento etici – proposta dell’Economy of Francesco), dall’altra parte c’è chi pensa che solo una cambiamento profondo del paradigma della crescita economica potrà evitare una catastrofe ecologica e sociale senza pari. Su questo secondo versante si sono posizionati i movimenti ecologisti e sociali più radicali, muovendo però sempre in formazioni ben separate, se non persino contrapposte. I “verdi” e i “rossi” si sono storicamente trovati d’accordo nell’individuare le cause della crisi della società occidentale nel neoliberismo economico e nella globalizzazione selvaggia, ma non nelle responsabilità politiche dei rappresentanti delle diverse classi sociali. Tutti e due considerano che la tendenza ad aumentare costantemente il valore dei beni e dei servizi, nel minor tempo possibile, conduce inevitabilmente al sovrasfruttamento selle risorse naturali e del lavoro umano. La spinta al profitto e alla accumulazione delle imprese capitaliste alimenta una crescita infinita delle merci immesse sul mercato. Le innovazioni tecnologiche, se da un lato riescono a migliorare l’efficienza anche energetica e materiale dei singoli cicli produttivi, d’altra parte, a scala macroeconomica, moltiplicano le possibilità produttive oltre ogni limite (Paradosso di Jevons). Ha scritto un padre dell’ecosocialismo, Bellamy Foster: «Il capitalismo è rimasto essenzialmente (se non di più) quello che era fin dall’inizio: un enorme motore per l’incessante accumulazione di capitale, mosso dalla spinta competitiva di individui e gruppi che cercano il proprio interesse personale sotto forma di guadagno privato» (John Bellamy Foster Capitalism in the Anthropocene: Ecological Ruin or Ecological Revolution, Monthly Review Press, Agosto 2022). Del resto, già Friedrich Engels, nel 1882, avvertiva, con straordinaria preveggenza: «Non aduliamoci troppo per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnazione; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze» (F. Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, 1967). Fin qui le critiche che accumunano sia i movimenti ecologisti sia quelli sociali di ispirazione marxista. Dove invece si sono distinti e separati – anche tra le componenti al loro interno – è sulla linea da seguire per cambiare lo stato delle cose (per un approfondimento vedi la monografia dei Quaderni della decrescita, “Decrescita e marxismo. Dialogo possibile e necessario”). Per i “verdi” il mutamento deve avvenire a partire dalla modifica dei valori etici-ideali e dei comportamenti individuali delle persone sensibilizzate alle sorti del pianeta; per i “rossi”, invece, sono le strutture istituzionali di potere, a partire dagli assetti proprietari, quelle che possono far cambiare i modi di produzione storicamente determinati. Ma le verifiche della storia ci hanno consegnato due sconfitte parallele: l’immaginario delle persone è stato colonizzato dal benessere hollywoodiano, tanto che nemmeno la “socializzazione dei mezzi di produzione” (dove è stata intentata) è riuscita a scalzare lo “spirito del capitalismo” (per scomodare Max Weber). Fin troppo facile, guardando il modello di sviluppo economico della Cina comunista di oggi, constatare che non è la struttura del sistema di potere statale quello che fa la differenza dall’Occidente liberale. Così come non sono le libertà formali di scelta delle persone individualmente considerate (le “preferenze”, come le chiamano gli economisti) quelle che possono liberarle le società dal giogo produttivista e consumista. Il comunismo della decrescita Finalmente una novità si è recentemente affacciata sulla scena politica internazionale: il “comunismo della decrescita”, il cui “manifesto” è stato proposto da un giovane giapponese, storico del pensiero economico, Kohei Saito (Saitō Kōhei) nel libro Il capitale nell’Antropocene, Mondadori, 2024. Qui alcune istanze meno note e fino a oggi poco valorizzate del pensiero marxiano e quelle ambientaliste più radicali (l’idea di una società orientata alla decrescita dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, distributivi e di consumo) si intrecciano e provano a chiudere il cerchio di un progetto di “buona vita”. Saito, recuperando un Marx aperto al comunitarismo dei “commons” (gestione condivisa dei beni comuni intesi come mezzi di produzione, risorse naturali e lavoro umano) e a un ecologismo integrale (inteso come “integrato” anche al sistema sociale), compie un’operazione politica di indubbio interesse sia teorico che pratico-politico. Provo a sintetizzare al massimo il pensiero di Saito in quattro passaggi: i) il capitalismo è accrescimento indefinito del valore di scambio delle merci e accumulazione di capitali; ii) il comunismo ribalta gli scopi della produzione, il suo obiettivo è soddisfare i bisogni autentici delle persone; iii) umanità e natura sono collegate dal lavoro come medium; quindi, la trasformazione ha come scopo il contenuto e le modalità del lavo inteso come attività di presa in cura dei beni comuni; iv) l’azione politica-pratica per la sostenibilità ecologica e l’eguaglianza si integrano e si completano a vicenda. Il risultato sarà un nuovo patto sociale all’insegna della cooperazione tra produttori e l’unione empatica e amorevole con la natura. Si prospetta un nuovo ordine bio-culturale, biopolitico, socio-biocentrico, bio-umanista… che comunque supera la concezione della natura utilitaristica (propria anche delle correnti ecosocialiste), patrimonialista (propria del diritto liberale), antropocentrica (propria dell’universalismo giudaico-cristiano e illuminista). Il quadro istituzione-giuridico dentro cui si iscrive questa rivoluzione è molto vicino all’idea delle comunità territoriali confederate (vedi l’ecofilosofo Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1989;) capaci di autogestirsi democraticamente, gestire i propri bisogni e desideri e pianificare l’utilizzo delle risorse naturali in ambiti neomunicipali e bio-regionali. -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Cacciari ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Abitare un pianeta al collasso proviene da Comune-info.
Violenza nel mondo del lavoro – INFORTUNI E FEMMINICIDI
Perché accostare morti sul lavoro e femminicidi? Oltre ad essere fenomeni tristemente sempre più emergenti, sono fenomeni che vedono implicati rapporti di debolezza e subalternità. Si muore a casa per mano di chi ti sta accanto. Ma in genere un femminicidio, lesbicidio, transcidio è sempre l’ultimo di una sequenza di atti, l’esito della sottomissione psicologica ed economica della donna, l’episodio terminale di ripetute sopraffazioni fisiche attestate spesso da regolari denunce che non producono effetti. Troppo spesso una donna che lascia o minaccia di farlo è percepita dall’uomo come una proprietà, da uccidere prima di perderne il controllo e di accettarne l’autonomia. Intorno alle vittime, l’esiguità dei servizi sociali territoriali esistenti, e dei Centri Antiviolenza (CAV) che non riescono a rispondere a tutte le richieste di supporto e protezione a causa dei pochi finanziamenti disponibili. Ci sono lavoratrici o lavoratori che muoiono svolgendo mansioni la cui contropartita sarà un salario spesso non adeguato e dignitoso, magari manovrando macchinari o misurandosi con processi produttivi i cui “ingranaggi” e dispositivi di sicurezza non funzionano o funzionano male. Si muore di lavoro per l’inadeguatezza o la totale mancanza delle misure di sicurezza, per lo “stato di necessità” che rende disposti a tutto pur di avere un reddito. La causa delle morti sul lavoro, o meglio degli omicidi sul lavoro è la cultura capitalista che considera il diritto alla salute e alla vita come un ostacolo al profitto, sempre di più indifferente rispetto a quelle vite, le vite di operai che continuano a essere sottoposte alla roulette russa del destino e del lavoro precario. Non solo una cabala di numeri (3 omicidi sul lavoro al giorno, ogni 3 giorni una donna uccisa) ma la necessità di sovvertire questa società che accomuna femminicidi e omicidi sul lavoro con un radicale cambio culturale. Numeri che ottengono visibilità quando sono casi eclatanti come è successo il 17 febbraio scorso a Firenze, o come quando a dicembre 2007 alla ThyssenKrupp di Torino morirono 8 operai . Nei femminicidi la donna uccisa ha una visibilità diversa se si tratta di una donna bianca, sposata e incinta, molto meno se è una persona LGBTQIA+ e se è sex-worker! E dietro a ogni persona vittima degli omicidi sul posto di lavoro causati da mancata sicurezza, dietro a ogni donna uccisa perché ha detto “no” ci sono affetti, progetti mancati, altre vite distrutte, figli rimasti orfani di cui pochi si fanno carico. Violenza economica che vede la connessione tra un lavoro produttivo fatto di bassi salari, lavoro intermittente, precario, sfruttato, sottopagato e povero, e un lavoro di cura gratuito che pesa, per oltre il 75%, sulle donne. Violenza economica sono i ricatti nell’accesso e per il mantenimento del posto di lavoro, il part time involontario, il disconoscimento delle norme sulla maternità (congedi, allattamento), il ricatto di turnazioni che rendono inconciliabile la funzione genitoriale e di cura, fino alle molestie sessuali vere e proprie che, una volta portate allo scoperto, sfociano in vero e proprio mobbing ai danni di chi denuncia. Problemi per avere congedi, permessi, e lo smartworking considerato una facilitazione per le lavoratrici che devono lavorare due volte a casa, usando le proprie utenze e facendo anche la casalinga Nei posti di lavoro pubblici e privati discriminazioni, molestie e ricatti contro le donne e violenza di genere avvengono quotidianamente e non dimentichiamoci che le molestie valgono anche se sei apprendista, precaria. Va denunciato e preteso che sia lui a lasciare il posto di lavoro. Gli uomini, in genere, occupano posti più importanti. Le donne sono più numerose nei lavori ad orario ridotto. Vi sono altre differenze dovute al genere nelle condizioni di lavoro che si ripercuotono anche sulla sicurezza e salute sul lavoro. Per esempio, si trovano più donne in attività precarie e mal retribuite, il che si ripercuote sulle loro condizioni di lavoro e sui rischi a cui sono esposte. In Italia l’esercito è schierato nelle principali città, mezzi da guerra presidiano musei e strade del centro delle grandi città, ai grandi eventi le persone vengono perquisite per fare prevenzione verso eventuali atti di terrorismo. Incutere la paura del delinquente comune o del migrante questo è quello che quotidianamente i media e il governo/ i vari governi ci propinano. I vari Governi e il Parlamento non varano alcuna legge speciale, non inviano eserciti di ispettori nelle officine, nei cantieri, nelle ditte manifatturiere e non “arringano” la popolazione sulla difesa della vita di chi lavora. Non vengono incrementati i finanziamenti ai CAV per i percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Vengono invece incrementate le spese per le armi e per le guerre. D’altronde questa società si basa sullo sfruttamento, anche fino alla morte, per avere profitto. ABORTIAMO IL PATRIARCATO E IL CAPITALISMO #8marzo #lottomarzo #scioperoperché NUDM Livorno Share Post Share L'articolo Violenza nel mondo del lavoro – INFORTUNI E FEMMINICIDI proviene da Osservatorio nazionale NUDM.