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Pensare la politica al tempo di Gaza
I POPOLI E I SINGOLI NON UTILI A UN POTERE, LA CUI MATRICE È L’ECONOMIA DI MERCATO, POSSONO ESSERE ELIMINATI, CIOÈ SPOSTATI COME PACCHI OPPURE UCCISI. IL GENOCIDIO DI GAZA NE È LA MANIFESTAZIONE PIÙ FEROCE. MA GIÀ LA REPRESSIONE E L’INDIFFERENZA VERSO LE PERSONE CHE MIGRANO, SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI, HANNO PREPARATO NEGLI ULTIMI VENTI ANNI IL TERRENO VERSO IL SALTO ISRAELIANO NELL’ABISSO DI UN FUTURO CATASTROFICO. “DIRE CATASTROFICO, PERÒ, NON IMPLICA AGGIUNGERE ANCHE L’AGGETTIVO INEVITABILE: L’IMPEGNO, AD ESEMPIO, DI COLORO CHE SI RICONOSCONO INTORNO ALL’INCONTRO QUOTIDIANO CON I MIGRANTI DELLA ROTTA BALCANICA NELLA PIAZZA DELLA STAZIONE DI TRIESTE, “PIAZZA DEL MONDO”, VUOL PROPRIO ESSERE UN TENTATIVO DI INIZIARE UNA PRATICA MEDITATIVA DI COSTRUZIONE POLITICA DI RELAZIONI COMUNITARIE, NEL RIFIUTO DI OGNI FORMA DI DELEGA… SI TRATTA DI INIZIARE A COSTRUIRE RESISTENZA SOCIALE A PARTIRE DAL RAPPORTO CON L’ALTRO BASATO SULLA COSTRUZIONE DI FORME COMUNITARIE UNITE DALLA RECIPROCITÀ DELLA CURA… UN IMPEGNO CHE È POLITICO NELLA PRECISA MISURA IN CUI È DIVENTATO ORMAI, SIC ET SIMPLICITER, UN IMPEGNO PER LA VITA…” Trieste, “Piazza del mondo” (settembre 2025) -------------------------------------------------------------------------------- È oggi d’estrema evidenza la necessità di aprire cammini verso una dimensione comunitaria e collettiva della vita e non solo umana. Scrivo queste parole mentre cerco di compiere, a modo mio, questo cammino, anche se spesso mi viene il dubbio di segnar tracce sulla sabbia di fronte a un mare sempre più cupo… È in atto e ben visibile una distruzione della vita in quanto tale sotto la sferza del dominio assoluto del valore di scambio, nato nella Cultura europea fa XVI e XVII secolo per venir imposto ovunque. Il genocidio di Gaza ne è la manifestazione di fronte al mondo senza nessuna mediazione (e con troppo modeste forme di resistenza). Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha detto “La striscia è un Eldorado da spartire con gli Usa”. Si tratta di una frattura nella continuità storica mai avvenuta prima: l’eliminazione attuale e tendenziale di un intero popolo, giuridicamente chiamata genocidio1, viene eseguito di fronte al mondo intero. “Genocidio” è una parola ormai giornalisticamente banale. Primo Levi, nell’introduzione a I sommersi e i salvati, ricorda il “cinico ammonimento” dei militi SS: “E quando anche qualche prova dovesse rimanere [delle camere a gas], e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono talmente mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto”2. Quello che sta quotidianamente accadendo a Gaza dal 7 ottobre del 2023 proclama, invece, pubblicamente che le popolazioni e i singoli non utili a un potere, la cui matrice è l’economia di mercato, ovvero il capitalismo, possono essere eliminati: uccisi o spostati come pacchi inutili per essere abbandonati in qualche luogo remoto. Questa violenza radicale era in germe nella violenza originaria del nascente capitalismo in Europa, con la sottrazione dei beni di uso collettivo e la violenza contro tutti i gruppi sociali considerati improduttivi e, contemporaneamente, in forme ab origine largamente “genocidarie”, nella conquista europea del resto del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, questa consapevolezza si era attenuata e anche culturalmente rimossa, in quella fase storica che possiamo chiamare “socialdemocratica”, legata anche alla diffusione di dinamiche sociali di contestazione e di lotta. Oggi, senza più alcun velame giustificatorio, chi non è utile al sistema del potere economico può essere tolto di mezzo. Stiamo entrando in una nuova fase della storia del mondo, che indicherei come una sorta di atroce sintesi di vecchio e di nuovo. Vecchio: perché ultimo frutto velenoso dell’esasperazione della cultura dell’individualismo concorrenziale che porta alla lotta di tutti contro tutti; una società della concorrenza è una società concepita come lotta per vivere e sopravvivere, è una società che porta nelle sue viscere la solitudine e la guerra. Nuovo, perché è ormai scomparsa ogni copertura ideologica, ad esempio l’ideologia dei “diritti umani”, ma soprattutto perché il potere capillare intrinseco alle dinamiche economiche sta ormai palesemente distruggendo la vita intera, senza più contrasti efficaci, limiti o cautele. Ci sono qua e là resistenze, lotte e anche tentativi d’innovazione, ma al momento non in grado di contrastare veramente il processo distruttivo dell’equilibrio essenziale alla vita, così come la conosciamo, che appare sempre più inesorabile. L’intera natura – l’ambito del nascere per tutti i viventi – è coinvolta in un illimitato processo di mercificazione, ovvero di distruzione funzionale al capitalismo. Bisogna prendere atto che questa cultura, nel suo sviluppo incontrollato e che ormai appare incontrollabile, sta distruggendo le basi della vita. Occorre far risuonare nella sua profondità originaria una parola, resa banale, come “natura”: la vita è la temporalità del nascere, del crescere e del finire. Finisce un percorso di vita per dar seguito ad un altro: il nascere e il morire, l’iniziare e il finire, costituiscono due facce di una sola dinamica vitale e, nel caso umano, storica. Detto in termini più astratti, la vita si articola nel ciclo di riproduzione e produzione (produzione del necessario alla riproduzione, il nutrimento), ma è ormai storicamente lanciata verso la rottura dell’equilibrio fra queste due dinamiche fondanti. Siamo, infatti, catturati da un processo in cui la produzione si sta mangiando la riproduzione, perché il fine ultimo della riproduzione è diventato la produzione di oggetti che non sono necessari o anche utili alla riproduzione, al contrario, molto spesso nocivi, servono soltanto alla loro trasformazione in valore di scambio, in denaro, peraltro dissolto ormai in meccanismi finanziari. Potere allo stato puro, sganciato da ogni fine che non sia uno smisurato impulso ad invadere – a divorare – ogni anfratto vitale. Questa dinamica illimitata di potere ha oggi, nel genocidio pubblico di Gaza, la sua proclamazione, locale ma con valenza generale: non c’è più alcun limite a un potere che si manifesta come trasformazione della vita in merce, ossia in valore di scambio fine a sé stesso. È l’instaurazione di un illimitato dominio antropologico sulla vita – ma di cui responsabile è solo una piccola parte degli umani -, che sta mettendo in crisi l’equilibrio della vita stessa. Oggi noi non possiamo più avere un immaginario e quindi neanche delle rappresentazioni del futuro. Possiamo avere speranze e desideri per il futuro, senza però un rapporto con la dinamica storica effettiva e quindi con possibili alternative. Ciò significa che è avvenuta, per la prima volta nella storia, una rottura a livello mondiale della trasmissione fra le generazioni, una rottura della narrazione storica, cioè del senso stesso della vita, sociale e singolare: un genitore oggi non può prefigurare al figlio il mondo in cui vivrà da adulto. Oggi mettere al mondo un figlio è qualcosa di diverso da ieri: un bambino è gettato in un mondo, le cui dinamiche future ci sono ignote. In tal modo la vita storica tende a perdere senso: per quel che riguarda i singoli, sembra evaporare in un pulviscolo caotico di cunicoli individuali, di drammi di sopravvivenza, coinvolti e sconvolti da lotte mondiali di potere. È necessario allora, per ridare senso alla nostra vita e a quella dei nostri figli e delle generazioni future, scavare a fondo. Il compito antropologico, storico, politico di ridare senso alla vita deve partire dalla consapevolezza che la vita e la morte non sono contrapposte, come la cultura moderna dell’Occidente vuol imporre, ma sono complementari – altre culture dall’Occidente distrutte o recluse lo sapevano. Ciò significa fondare un orizzonte narrativo politico, quindi comunitario, nel quale accogliere il transito generazionale: la morte. È questo il fondamento di una vita storica comunitaria. Accogliere la finitezza di ogni singola vita come intrinseca portatrice di un messaggio del proprio transito vitale da lasciare agli altri, a chi resta e a chi nasce, vuol dire creare le condizioni della trasmissibilità fondamento della storia in quanto comunicazione fra le generazioni. Questo è il tratto, che si può chiamare “ontologico”, alla base della dimensione comunitaria della vita, che l’umano potrebbe e dovrebbe esaltare, mentre ha finito con l’esaltare un’altra dimensione, che pur nella vita esiste: la predazione. Il capitalismo, accentuando al massimo il fenomeno predatorio contenuto in natura entro limiti certi, ha finito con il contrapporre la morte al contesto della vita e della storia. Ha annullato la funzione culturale della morte: il passaggio del testimone nel tempo della narrazione storica, il passaggio comunicativo fra le generazioni. Ha reso la morte soverchiante e distruttiva per il tramite di una illimitata espansione dell’umana capacità di agire, divenuta predazione della vita stessa. Ha modificato, in tal modo, le basi stesse della vita, riducendola a materiale da predazione: consumare la vita invece di alimentarla: una dinamica tendenzialmente suicida. Questo è accaduto nel contesto di una complessa dinamica storica di rimozione dell’angoscia propria della condizione umana: l’angoscia per la morte che abita ogni vivente umano e la cui elaborazione è stata il fondamento di tutte le culture: dalle prime mitologie alle religioni più complesse. Rimozione è il contrario di elaborazione. Sembra opportuno un rapidissimo cenno storico. Questo percorso storico di rimozione è sorto in Europa, principalmente, nei meandri della corrente calvinista della Riforma del cristianesimo agli inizi di ciò che chiamiamo “epoca moderna” (XVI-XVII secolo). Sommariamente: sotto la spinta iniziale del bisogno di capire il misterioso disegno divino sulla condizione umana – chi sarà salvato e chi perduto3 – il calvinismo poneva il senso e lo scopo della vita nell’affermazione sociale, intesa ormai in termini individuali e non comunitari, che si veniva rapidamente identificando con il successo sociale, cioè in definitiva economico, sciolto infine da ogni connotazione religiosa. La vita e l’opera di Benjamin Franklin, il cui volto appare esemplarmente sulla banconota da cento dollari, offre una narrazione perfettamente adeguata di questo fondamentale passaggio storico nell’affermazione di una vita operosa tutta dedita, con incrollabile serenità, all’”onesto guadagno”. Nel 1787 scrive: “Più vivo, più colgo prove convincenti di questa verità, ovvero che è Dio a governare le umane faccende”; ma per il tramite del denaro quale controllo e misura del tempo4: “il tempo è denaro”, “il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”. In Franklin, infatti, si può leggere con grande chiarezza il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana: il denaro usurpando e sterilizzando la misteriosa e drammatica fecondità della vita, riducendola alla misura quantitativa, produce un ordine astratto ma rassicurante e una garanzia di controllo del futuro che trova nella “Rivoluzione“ americana l’esempio più caratteristico5. Lo ribadisce molto bene un’ulteriore considerazione dei nostri giorni: “La Banca Mondiale ha fatto sua la teoria dell’economista peruviano Hernan de Soto secondo cui solo il denaro è produttivo, mentre la terra in sé è sterile e se utilizzata per la sussistenza è causa di povertà…”6. Il denaro viene visto come garanzia di vita e, almeno, sopravvivenza. Ma oggi possiamo capire che è vero esattamente il contrario. L’atteggiamento di sereno distacco di Franklin non è alternativo alla violenza più estrema. Ne possiamo trovare un esempio estremamente significativo un secolo prima, proprio nel pieno di quella rivoluzione calvinista in Inghilterra, che è alla base di questa dinamica storica, nell’invasione dell’Irlanda da parte del New Modern Army guidato da Cromwell. La violenza estrema, giunta fino al genocidio, e la serena operosità di ogni giorno sono perfettamente complementari, come il fascismo e la socialdemocrazia, dinamiche diverse ma che perseguono lo stesso scopo7. Oggi, nella fase di violento neoliberismo che sta imperversando senza più alcun limite, possiamo ben dire che, abbandonato ogni tipo di giustificazione, il mero potere del valore di scambio indica pienamente il valore, ovvero il grado di potere, di un individuo o di un gruppo. Importante, però, è cercar di comprendere le origini di un fenomeno storico che oggi sembra ormai privo di ogni capacità di autocontrollo. In tale contesto, di cui ho sommariamente accennato la matrice storica, l’impegno con il nuovo fenomeno migratorio, nato e sviluppato da circa un ventennio, è un punto fondamentale d’azione e d’osservazione. Dato che chi scrive è un cittadino europeo, mi riferisco soprattutto al comportamento degli Stati europei e “occidentali” in cui, – sotto l’affaticata egemonia degli Usa -, appaiono senza veli l’indifferenza per la vita e la supremazia indiscutibile del valore di scambio8, accompagnati dalla fine di tutto ciò che si raccoglieva storicamente sotto l’etichetta “diritto”. L’indifferenza per le decine di migliaia di morti migranti in Mediterraneo, e anche nei Balcani, il cinico ma tradizionale uso politico del razzismo – e, in particolare ricadendo in casa nostra, la complicità dell’attuale governo, con le bande criminali libiche, esemplificato dal “caso Almasri” – sono stati un passaggio fondamentale verso il salto israeliano nell’abisso di un futuro che si preannuncia catastrofico. Questi morti indifferenti sono un esercizio della libertà di uccidere il cui culmine “osceno” – ma di un fuori scena sbattuto brutalmente in scena – si manifesta quotidianamente a Gaza: Israele è l’avanguardia sperimentatrice di un capitalismo ormai pienamente epidemico. Dire “catastrofico”, però, non implica aggiungere anche l’aggettivo “inevitabile”: l’impegno, ad esempio, di coloro che si riconoscono intorno all’incontro quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della stazione di Trieste – la “Piazza del Mondo” – vuol proprio essere un tentativo di iniziare una pratica meditativa di costruzione politica di relazioni comunitarie, nel rifiuto di ogni forma di delega a qualsivoglia pretesa di rappresentanza. Si tratta di iniziare a costruire resistenza sociale a partire dal rapporto con l’altro basato sulla costruzione di forme comunitarie unite dalla reciprocità della cura, prevedendo in futuro anche possibili nuove forme di lotta: è necessario essere consapevoli che siamo ormai in una nuova diffusa forma di Terza guerra mondiale, che non è esagerato chiamare guerra contro la vita. Il nostro compito oggi, concreto e quotidiano, sta nel raccogliere il messaggio inciso dalla violenza delle frontiere sui corpi umiliati e offesi dei migranti, corpi memori delle violenze genocide di secoli di colonialismo, ma che ci indicano anche un futuro di devastazione dell’equilibrio vitale. Ciò implica il coinvolgimento in un impegno che è politico nella precisa misura in cui è diventato ormai, sic et simpliciter, un impegno per la vita. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Ho qualche remora a usare il termine “genocidio”, nato in ambito giuridico e fortemente segnato da questa origine in termini di potere. 2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Opere Complete, vol. II, Einaudi 2016, p. 1147. 3 Questa è la lettura di Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905. 4 D. Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia, Garzanti, Milano 2024, p. 110. 5 Un articolo di Francesco Raparelli, sul “Manifesto” del 13 marzo 2025, p. 15, intitolato “Musk innovatore nel solco della storia Usa”, tenta un collegamento storico fra una figura come quella di Elon Musk e la storia statunitense di cui Franklin è figura esemplare, proprio in riferimento al testo di Sassoon. 6 Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre corte, Verona 2018, p.28. LEGGI ANCHE: > Le insurrezioni delle donne 7 È necessario però ricordare che all’epoca di Cromwell sorsero anche i Levellers e altri movimenti di contestazione radicale e di scelte comunitarie. federici8 Da notare il lucido conciso articolo di Chiara Mattei ‘Austerità, militarismo, censura: Trump ci mostra il loro legame’ sul “Fatto quotidiano” del 18 agosto, p. 12 -------------------------------------------------------------------------------- Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi è da anni impegnato con i migranti della cosiddetta rotta balcanica a Trieste. Il suo ultimo libro è Per un comunismo della cura (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pensare la politica al tempo di Gaza proviene da Comune-info.
Gaza brucia – di Gennaro Avallone
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l'esercito di [...]
Dove siamo?
-------------------------------------------------------------------------------- Migliaia di persone sono in fuga in questi giorni da Gaza (Ph pixabay.com) -------------------------------------------------------------------------------- All’inferno. Ogni discorso che non parta da questa consapevolezza, siamo all’inferno, è semplicemente privo di fondamento. I gironi in cui ci troviamo non sono disposti verticalmente, ma disseminati nel mondo. Ovunque gli uomini si associano, producono inferno. I gironi e le bolge sono dappertutto intorno a noi, che riconosciamo, come nei caprichos di Goya, i mostri e i diavoli che li governano. Cosa possiamo fare in quest’inferno? Non tanto o non solo, come diceva Italo, custodire una parcella di bene, quello che nell’inferno non è inferno (riferimento alla citazione “Riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” provenente dal libro Le città invisibili di Italo Calvino, amico fraterno di Agamben, ndr). Poiché è stata anch’essa, tutta o in parte, contaminata – in ogni caso no te escaparas. Piuttosto fermati, taci, osserva, e, al giusto momento, parla, spezza la cortina di menzogne su cui riposa l’inferno. Perché lo stesso inferno è una menzogna, la menzogna delle menzogne che impedisce il varco al non inferno, al lietamente, semplicemente, anarchicamente esistente. Al mai stato che l’inferno ogni volta ricopre col suo stato, come se non ci fosse altra possibilità al di fuori delle bolge e i gironi in cui ti hanno già sempre necessariamente iscritto. Sii tu il punto, la soglia in cui lo stato viene meno, in cui sorgivamente sbuca il possibile, la sola vera realtà. Il pensiero non consiste nel realizzare il possibile, come i demoni ti invitano a fare, ma nel rendere possibile il reale, nel trovare una via di uscita dall’ineluttabilità dei fatti che l’ideologia dominante cerca di imporre in ogni ambito – e innanzitutto nella politica. Mentre nell’infernale vocio intorno a te tutti cercano di realizzare diabolicamente, tecnicamente a qualsiasi costo il possibile, per te ogni stato, ogni cosa, ogni filo d’erba, se li percepisci nella loro verità, diventano nuovamente, silenziosamente, lucidamente possibili. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra i i libri più importanti di Giorgio Agamben: Homo Sacer. Edizione integrale 1995-2015, (Quodlibet) e L’uomo senza contenuto (Quodlibet). Il suo ultimo libro invece è Amicizie (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dove siamo? proviene da Comune-info.
“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Immagine in evidenza: Jathan Sadowski, credits: Jathan Sadowski Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa caduta dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle  dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.  CHI È JATHAN SADOWSKI Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione. L’ERA DEL CAPITALISMO TECNOLOGICO Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali. Il secondo presupposto vuole le tecnologie come forma di legislazione che crei regole, definisca diritti, stabilisca cosa è consentito e – a monte – delinei il tipo di società in cui viviamo. Con un impatto anche sul mondo fisico. I magazzini automatizzati sono ambienti costruiti per i robot e non per l’uomo, le strade su cui viaggiano le automobili a guida autonoma sono pensate per quel tipo di veicolo e, ancora, qualsiasi tecnologia futura avrà bisogno di un ambiente fisico adeguato e inedito. Per definire il capitalismo tecnologico, Sadowski fa riferimento a un’idea ampia che si sofferma sugli algoritmi discriminatori, sulle piattaforme che trattano i dati degli utenti, anche i più sensibili, e sulle Big Tech che stipulano ricchi contratti con corpi militari. Tutto ciò porta in superficie le connessioni tra tecnologia e potere, così come mette in risalto la natura politica e le ricadute economico-sociali delle tecnologie. Ciò che andrebbe osservato, e questo è un punto centrale nella narrazione di Sadowski, è il contesto nel quale alcune innovazioni vengono incentivate e altre scartate. Il ruolo dei venture capitalist nell’innovazione capitalista I venture capitalist, investitori privati che finanziano imprese in cambio di quote societarie, definiscono l’innovazione in base a ciò che si adatta ai rispettivi portafogli di investimento e allineano il progresso ai loro obiettivi di profitto. Un modello – critica l’autore – sostenuto da sussidi governativi e agevolazioni fiscali e incentrato sull’ipercrescita (hypergrowth), selezionando startup e tecnologie che possono scalare e dominare il mercato esponenzialmente in breve tempo. Per Sadowski la Silicon Valley siede al tavolo della roulette, decide su quale numero si fermerà la pallina e decide quanto scommettere. Può capitare che la mano non sia vincente ma – sul lungo periodo e sulla quantità di mani giocate – il saldo per i venture capitalist è sempre positivo.   Anche quando il mercato crolla, i venture capitalist al vertice sono in gran parte immuni dai rischi e ottengono comunque profitti significativi. Questo processo crea un “realismo dell’innovazione”, al cui interno il venture capital sembra l’unica via praticabile per sostenere l’innovazione. Dati come capitale e la politica della datificazione L’autore sostiene che le metafore popolari quali “i dati sono il nuovo petrolio” oscurano la vera natura dei dati, che non sono una risorsa naturale, ma sono sempre manufatti. Le aziende inquadrano i dati come una risorsa preziosa, disponibile universalmente e soggetta alle dinamiche di mercato, ma ciò vale solo per quelle imprese che possiedono le tecnologie speciali per scoprirli, estrarli, elaborarli e capitalizzarli. I dati sono una forma di capitale essenziale per la produzione, estrazione e circolazione del valore nei sistemi digitali. Questo spinge le aziende a creare e catturare quanti più dati possibile, da tutte le fonti e con ogni mezzo.  Le acquisizioni aziendali, come l’acquisto di DoubleClick da parte di Google, LinkedIn da parte di Microsoft, WhatsApp da parte di Facebook (ora Meta, ndr) e OneMedical da parte di Amazon, sono spesso fusioni di dati. Una smania per la datificazione che trasforma le persone in dati. Ciò trova conferma, secondo l’autore, per esempio nella ricerca sulla visione artificiale che tende a categorizzare gli esseri umani al pari di oggetti da rilevare, identificare e tracciare, spogliandoli così del loro contesto sociale e della loro umanità. Un’astrazione che fa cadere eventuali resistenze etiche in chi implementa tecnologie di sorveglianza e giustifica – seppure indirettamente – la creazione di oligopoli che trovano forma nelle Big Tech, organizzazioni che fondano le rispettive potenze sui dati, sulla capacità computazionale e sul loro peso geopolitico che le mette in condizione di presentare le tecnologie prodotte al pari di asset strategici nazionali. Il ruolo dei “meccanici” e dei “luddisti” Per il professor Sadowski le parole “mechanic” e “luddite” sono da intendere in un contesto critico. Entrambi, in senso metaforico, incarnano un modo di vivere il capitalismo tecnologico. I “mechanic”, i meccanici, sono le persone che coltivano curiosità su come il mondo funziona, mentre i “luddite” (i luddisti) hanno posizioni più consapevoli delle funzioni intrinseche della tecnologia.  Il termine luddista prende origine dal movimento nato nel Regno Unito durante i primi anni del 1800 che, preoccupato dagli impatti dei macchinari industriali sul lavoro degli artigiani, ha ingaggiato una lotta contro le fabbriche, accusandole di peggiorare le condizioni di vita.  Tanto all’epoca quanto oggi, i luddisti non sono refrattari alle tecnologie in quanto tali ma alle loro implicazioni. Il luddismo odierno è un movimento molto più complesso di quello che, nel XIX secolo, il governo britannico ha represso con la violenza e con leggi ad hoc. In sintesi, il meccanico comprende come funziona un sistema, mentre il luddista sa perché è stato costruito, a quali scopi serve e quando dovrebbe essere smantellato o distrutto. Entrambi i modelli, sostiene Sadowski, sono cruciali per una critica puntuale del tecno-capitalismo.  INTERVISTA CON L’AUTORE Abbiamo approfondito queste posizioni con l’autore del libro. Nel libro emerge un panorama in cui le tecnologie sono sempre più opache (il fenomeno della “scatola nera”), complesse e dominate da interessi aziendali e statali che limitano l’agire umano. Si tratta di uno sviluppo contemporaneo o di un modello ricorrente? “L’idea delle tecnologie come una ‘scatola nera’ esiste da tempo ed è stata a lungo rilevante. È un modello ricorrente nel modo in cui le tecnologie sono progettate e utilizzate. Una scatola nera in cui possiamo vedere gli input e gli output di una tecnologia, di un sistema o di un’organizzazione, ma non possiamo vedere o capire come la cosa effettivamente operi. Se mai, la scatola è diventata semplicemente più opaca col passare del tempo. Che si tratti di intelligenza artificiale o di strumenti finanziari, i meccanismi interni di questi sistemi, che hanno un enorme potere nella società, sono schermati da strati di opacità. Certo, questi sistemi astratti sono complessi, ma sono anche mistificati per design. Ci viene detto che solo pochi eletti sanno come sono stati creati, e ancora meno sanno come effettivamente funzionino. Il risultato è che alla grande maggioranza delle persone viene impedito di conquistare la posizione minacciosa di sapere come le cose funzionano, dire di no al modo in cui funzionano ora e poi pretendere che funzionino diversamente. Consideriamo un modello di machine learning che sta alla base di un sistema di AI. Ora non possiamo nemmeno vedere o comprendere gli input che entrano nel modello perché si tratta di dataset enormi raccolti tramite scraping automatico del web e altre forme di raccolta dati. Nessun essere umano ha mai effettivamente spulciato questi dataset nella loro interezza. Forse qualcuno ha visto solo parti dei dati, o ha solo un’idea generale di che tipo di dati siano inclusi nel dataset. Ma, funzionalmente, il dataset (o input nel sistema) è anch’esso una scatola nera. Le operazioni del modello di machine learning sono anch’esse ‘black-boxed’ poiché questi sistemi computazionali hanno strati nascosti di calcoli probabilistici in cui neppure il creatore della tecnologia sa esattamente cosa stia succedendo. Per di più, persino gli output di questi sistemi sono ora scatole nere: le decisioni prese da questi sistemi di AI e, le loro conseguenze sulla vita delle persone, sono nascoste alla vista del pubblico.  Un decennio fa (era il 2016, nda), il giurista Frank Pasquale scrisse un eccellente libro intitolato The Black Box Society in cui spiegava come le scatole nere si stiano moltiplicando nelle nostre vite grazie a modi tecnici, legali, politici e sociali. Le scatole nere mantengono nascoste le operazioni di questi sistemi.  Quindi, sebbene il fenomeno delle tecnologie a scatola nera sia un modello ricorrente, possiamo sempre più vedere come quelle scatole stanno ora diventando ancora più grandi, inglobando più parti del sistema”. Parliamo dei venture capitalist che plasmano il capitalismo tecnologico anche gonfiando in modo artificioso gli asset speculativi. Come possiamo spezzare questo ciclo dell’hype? Cosa servirebbe per orientare l’innovazione verso il benessere sociale piuttosto che verso l’accumulazione di capitale? “Le nostre aspettative sul futuro sono molto importanti per influenzare dove allocare le risorse e per modellare come e perché costruiamo le tecnologie. Le aspettative sono anche performative del futuro. Andrebbero pensate come prove generali per futuri potenziali che non sono ancora arrivati. Le nostre aspettative creano anticipazione riguardo al futuro e possono aiutare a motivare l’azione nel presente. È per questo che la Silicon Valley spende così tanto tempo e denaro cercando di modellare le nostre aspettative in modi molto specifici che si allineano ai loro desideri e favoriscono i loro interessi. Ecco cosa sono i cicli dell’hype: sono il business della gestione delle aspettative. Gli investimenti speculativi – come quelli che sono la specialità dei venture capitalist e degli imprenditori tecnologici – dipendono dall’hype, dal creare aspettative e motivare all’azione. Questa speculazione è un modo di ricavare valore e profitto da cose che non sono ancora accadute e che potrebbero non accadere mai. Il futuro potrebbe sempre non materializzarsi nel modo in cui la Silicon Valley lo immagina, ma proprio questa incertezza è un elemento cruciale della performance. Significa che la partecipazione del pubblico è necessaria. Nel mio libro chiamo questo il Tinkerbell Effect: le tecnologie speculative esistono solo se ci crediamo abbastanza e battiamo le mani abbastanza forte. Se smettiamo di crederci e smettiamo di applaudire, allora possono cominciare a svanire, diventando sempre più immateriali fino a sparire. Anche investire miliardi di dollari non garantisce la realizzazione di un sogno se le persone smettono di alimentarlo con la loro energia psichica. Gli esempi ci sono, si chiamano Metaverso (un ricordo lontano), Web3 oppure Google Glass (in realtà mai visti davvero sul mercato). Questa natura effimera dell’hype è anche un punto chiave di intervento. Attualmente, molti dei benefici della tecnologia avvengono in modo accidentale e ‘a cascata’. Il loro scopo principale è catturare mercati e creare profitti per grandi aziende. Ci viene detto che questo è l’unico modo possibile e che non dovremmo aspettarci nulla di diverso o migliore. Ma potremmo fare molta strada per orientare l’innovazione in direzioni diverse semplicemente avendo aspettative più alte su come le tecnologie vengono create e a quali scopi servono”. I dati tendono a ridurre le persone a oggetti. Questo processo, intrinseco ai sistemi di intelligenza artificiale, è oggi estremamente rilevante. Quali interventi politici e sociali ritiene necessari per garantire che le tecnologie basate sui dati vengano sviluppate in modi che rispettino la dignità umana? A suo avviso, quali aspetti del capitale umano dovrebbero rimanere al di fuori della portata della datificazione? “Le nuove tecnologie possono catturare quantità di dati così vaste da risultare incomprensibili, ma quei dati sul mondo resteranno sempre incompleti. Nessun sensore o sistema di scraping può assorbire e registrare dati su tutto. Ogni sensore, invece, è progettato per raccogliere dati su aspetti iper-specifici. Ciò può sembrare banale, come un termometro che può restituire un numero sulla temperatura, ma non può dirti che cosa si provi davvero con quel clima. Oppure può essere più significativo, come un algoritmo di riconoscimento facciale che può identificare la geometria di un volto, ma non può cogliere l’umanità soggettiva e il contesto sociale della persona. I dati non potranno mai rappresentare ogni fibra dell’essere di un individuo, né rendere conto di ogni sfumatura della sua vita complessa.  Ma non è questo lo scopo né il valore dei dati. Il punto è trasformare soggetti umani integrati in oggetti di dati frammentati. Infatti, ci sono sistemi che hanno l’obiettivo di conoscerci in modo inquietante e invasivo, di assemblare questi dati e usarli per alimentare algoritmi di targeting iper-personalizzati. Se questi sistemi non stanno cercando di comporre un nostro profilo completo e accurato possibile, allora qual è lo scopo? Ecco però un punto importante: chi estrae dati non si interessa a noi come individui isolati, ma come collettivi relazionali. I nostri modi di pensare la raccolta e l’analisi dei dati tendono a basarsi su idee molto dirette e individualistiche di sorveglianza e informazione.  Ma oggi dobbiamo aggiornare il nostro modo di pensare la datificazione – e le possibili forme di intervento sociopolitico in questi sistemi guidati dai dati – per includere ciò che la giurista Salomé Viljoen chiama ‘relazioni “orizzontali’, che non si collocano a livello individuale, ma a scala di popolazione. Si tratta di flussi di dati che collegano molte persone, scorrono attraverso le reti in modi tali che le fonti, i raccoglitori, gli utilizzatori e le conseguenze dei dati si mescolano in forme impossibili da tracciare se continuiamo a ragionare in termini di relazioni più dirette e individualistiche.  Nel libro spiego che questa realtà delle reti di dati orizzontali indebolisce l’efficacia di interventi troppo concentrati sulla scala dei diritti individuali, piuttosto che sulla giustizia collettiva. Se vogliamo salvaguardare la dignità umana contro la datificazione disumanizzante, allora possiamo farlo solo riconoscendo come i diritti e la sicurezza di tutti i gruppi siano interconnessi attraverso queste reti guidate dai dati. In altre parole, la dignità e la sicurezza di un gruppo di persone colpite da sorveglianza e automazione è legata alla dignità e alla sicurezza di tutte le persone all’interno di questi vasti sistemi sociotecnici che letteralmente connettono ciascuno di noi”. Nel libro esprime il concetto di “AI Potemkin” per descrivere l’illusione di un’automazione che in realtà nasconde enormi quantità di lavoro umano. Un inganno per utenti, investitori e opinione pubblica: che cosa è esattamente questa illusione? “Ci sono tantissime affermazioni altisonanti sulle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale. Ci viene fatto credere che queste tecnologie ‘intelligenti’ funzionino unicamente grazie ai loro enormi dataset e alle reti neurali.  In realtà, molte di queste tecnologie non funzionano – e non possono funzionare – nel modo in cui i loro sostenitori dichiarano. La tecnologia non è abbastanza avanzata. Al contrario, molti sistemi dipendono pesantemente dal lavoro umano per colmare le lacune delle loro capacità. In altre parole, il lavoro cognitivo che è essenziale per queste presunte macchine pensanti, proviene in realtà da uffici pieni di lavoratori (mal retribuiti) in popolari destinazioni di outsourcing come le Filippine, l’India o il Kenya. Ci sono stati diversi esempi di alto profilo, come la startup Builder.AI, che affermava di automatizzare il processo di creazione di app e siti web. Un’indagine ha rivelato che il sofisticato ‘sistema di AI’ della startup sostenuta da Microsoft e valutata 1,5 miliardi di dollari  era in realtà alimentato da centinaia di ingegneri software in India, istruiti a fingersi l’AI della società quando interagivano con i clienti. Esempi come questo sono così frequenti che ho coniato il termine AI Potemkin per descriverli. Potemkin si riferisce a una facciata progettata per nascondere la realtà di una situazione (da il villaggio Potemkin, ndr). L’AI Potemkin è collegata al concetto di ‘black boxing’, ma spinge l’occultamento fino alla vera e propria ingannevolezza. Lo scopo non è solo nascondere la realtà, ma mentire sulla realtà delle capacità di una tecnologia, per poter affermare che un sistema sia più potente e prezioso di quanto non sia in realtà. Invece di riconoscere e valorizzare pienamente il lavoro umano, da cui queste tecnologie dipendono, le aziende possono continuare a ignorare e svalutare i componenti umani indispensabili dei loro sistemi. Con così tanti soldi e così poco scetticismo che vengono pompati nel settore tecnologico, l’inganno dell’AI Potemkin continua a crescere a ogni nuovo ciclo di hype della Silicon Valley”. Per concludere, il capitale può eliminare il lavoro umano senza finire, alla lunga, per distruggere sé stesso? “Il capitalismo è un sistema definito da molte contraddizioni che minacciano costantemente di distruggerne le fondamenta e lo gettano di continuo in cicli di crisi. Una contraddizione importante che individuo nel libro è la ricerca del capitale di costruire quella che chiamo la ‘macchina del valore perpetuo’. In breve, questa macchina sarebbe un modo per creare e catturare una quantità infinita di plusvalore senza dover dipendere dal lavoro umano per produrlo. Il capitale persegue questa ricerca da centinaia di anni. Ha motivato enormi quantità di investimenti e innovazioni, nonostante non si sia mai avvicinato a realizzare davvero il sogno di produrre plusvalore senza le persone. Ciò che rende questa una contraddizione è il fatto che gli esseri umani non sono una componente accessoria della produzione di valore; il lavoro umano è parte integrante della produzione di plusvalore. L’AI è l’ultimo – e forse il più grande – tentativo di creare finalmente una macchina del valore perpetuo. Gran parte del discorso sull’automazione, e ora sull’intelligenza artificiale, si concentra sulle affermazioni secondo cui il lavoro umano verrà sostituito da lavoratori robotici, con l’assunzione che si tratti di una sostituzione diretta dei corpi organici con sistemi artificiali, entrambi intenti a fare esattamente la stessa cosa, solo in modi diversi e con intensità diverse. Tuttavia, a un livello fondamentale, l’idea di una macchina del valore perpetuo non può riuscire, perché si basa su un fraintendimento del rapporto tra la produzione di valore e il funzionamento della tecnologia. Il capitale equipara una relazione – gli esseri umani che usano strumenti per produrre valore – a un’altra relazione completamente diversa: gli strumenti che producono valore (con o senza esseri umani). Dal punto di vista del capitale, il problema degli esseri umani è che non sono macchine. Aziende come Amazon non vogliono rinunciare alla fantasia di una macchina del valore perpetuo, ma sanno anche che ci sono molte più alternative che sostituire direttamente gli uomini con le macchine: si possono anche gestire i lavoratori tramite le macchine, renderli subordinati alle macchine e, in ultima analisi, farli diventare sempre più simili a macchine. Questo è un punto cruciale per ripensare il potere dell’AI per il capitalismo e per capire perché le aziende stanno riversando più di mille miliardi di dollari nella costruzione dell’AI. Ai loro occhi, il futuro del capitalismo dipende dall’uso dell’AI per sostituire gli esseri umani come unica fonte di plusvalore o, se questo obiettivo fallisse, dall’obbligare i lavoratori a trasformarsi in oggetti, semplici estensioni delle macchine, costringendo le persone a diventare sempre più meccaniche nel modo in cui lavorano e vivono”. L'articolo “Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo proviene da Guerre di Rete.
Il capitalismo è sinonimo di criminalità
LE INDAGINI SUL PRIMO COMANDO CAPITALE, IL PIÙ GRANDE GRUPPO DI NARCOTRAFFICANTI IN BRASILE, NATO IN CARCERE NEGLI ANNI NOVANTA E OGGI DIFFUSO IN TUTTO L’AMERICA LATINA, MOSTRANO UNA REALTÀ GIGANTESCA – CON 40.000 AFFILIATI – CHE NON SOLO È ALLEATA PER IL TRAFFICO DI COCAINA CON LA ‘NDRANGHETA ITALIANA, MA CONTROLLA IN FORTE RELAZIONE CON TANTE IMPRESE “TRADIZIONALI”, DECINE DI FONDI INVESTIMENTO IMMOBILIARE, IMPIANTI DI RAFFINAZIONE, AZIENDE AGRICOLE, PERFINO UNA BANCA. COMPAGNIE MINERARIE E CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, SCRIVE RAÚL ZIBECHI, COLLABORANO OVUNQUE PER SFRATTARE LE COMUNITÀ CHE CONSIDERANO UN OSTACOLO ALLO SFRUTTAMENTO DI MADRE TERRA. «NOI, IL POPOLO, NOI ESSERI UMANI, SIAMO DIVENTATI UN OSTACOLO ALL’INFINITA ACCUMULAZIONE DI CAPITALE. PERTANTO, D’ORA IN POI, IL GENOCIDIO SARÀ LA NORMA… È UN ATTEGGIAMENTO IRRESPONSABILE E PERVERSO DIFFONDERE L’IDEA CHE POSSA ESISTERE UN “BUON” CAPITALISMO, COME HANNO RIPETUTAMENTE AFFERMATO I PRESIDENTI PROGRESSISTI… QUALSIASI FORMA DI POLITICA CHE NON AVVERTA LA GENTE CHE VIVIAMO NELL’ERA DEL GENOCIDIO, O CHE UN GENOCIDIO È IN CORSO ALTROVE, LA CONDUCE AL PATIBOLO…» Foto pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- A volte i rapporti tra criminalità organizzata e capitalismo diventano chiari e trasparenti, offrendoci l’opportunità di valutare lo stato attuale del sistema e la sua direzione. Qualche giorno fa, il governo federale brasiliano ha lanciato una massiccia operazione contro la criminalità organizzata nel settore dei carburanti, con risultati sorprendenti. Ha individuato 40 fondi di investimento immobiliare per un valore di 5,5 miliardi di dollari, controllati dal Primo Comando Capitale (PCC), il più grande gruppo di narcotrafficanti in Brasile. Questi fondi hanno finanziato l’acquisto di un terminal portuale, quattro impianti di raffinazione, 1.600 camion per il trasporto di carburante e oltre 100 immobili (PCC controla ao menos 40 fundos de investimentos com patrimônio de mais de R$ 30 bilhões, diz Receita Federal). Inoltre, hanno acquistato aziende agricole per un valore di altri 5 miliardi di dollari e una banca ombra, la fintech BK Bank, che ha movimentato fino a 8 miliardi di dollari. Oltre 1.000 stazioni di servizio in 10 stati brasiliani vengono utilizzate per riciclare denaro della criminalità organizzata, ma si stima che le operazioni del PCC raggiungano fino a 2.500 stazioni di servizio in tutto il paese. Il PCC è stato fondato nel 1993 nel carcere di Taubaté a San Paolo. Oggi opera nel 90% delle carceri e si è diffuso in Uruguay, Paraguay, Bolivia e Colombia. È la più grande banda criminale dell’America Latina, con un potenziale di 40.000 membri, molti dei quali detenuti. Attraverso il traffico di cocaina, ha stretto alleanze con la ‘Ndrangheta italiana e si ritiene che goda di un forte sostegno nei paesi africani ed europei. Ciò che le indagini degli ultimi anni hanno rivelato è una crescente sofisticazione delle operazioni di riciclaggio di denaro, nonché il loro coinvolgimento in siti web di gioco d’azzardo online e investimenti in squadre di calcio. L’attuale indagine ha rivelato che la PCC domina la filiera della canna da zucchero, attraverso l’acquisto di aziende agricole, impianti di raffinazione, stazioni di servizio e trasporti. I dati di cui sopra rivelano chiaramente la stretta relazione tra le imprese “tradizionali” e la criminalità organizzata. Questa realtà merita ulteriori indagini. Da un lato, vediamo come la criminalità adotti i metodi delle grandi imprese capitaliste. Investono con la stessa logica, cercando di monopolizzare ogni settore per massimizzare i profitti. La cosiddetta criminalità organizzata fa parte del capitalismo, da cui si differenzia solo per il fatto che le sue attività non sono considerate legali, il che le consente di aumentare esponenzialmente i profitti. I metodi della criminalità sono identici a quelli dell’estrattivismo, come si può osservare nell’attività mineraria. D’altro canto, emerge un’ampia zona grigia tra ciò che è legale e ciò che è illegale: la criminalità cerca di legalizzare il proprio capitale investendo in terreni, immobili, attività minerarie e, soprattutto, finanza, perché è il modo migliore per riciclare i propri beni. Le imprese “legali” adottano metodi di stampo mafioso evadendo le tasse (cosa che ormai è la norma in qualsiasi settore), supportate da specialisti come avvocati e notai. Mentre la criminalità si muove verso la legalizzazione, gli imprenditori tradizionali si muovono verso l’illegalità. Entrambi cercano di corrompere giudici e politici, investire nello sport e in qualsiasi cosa permetta loro di superare le difficoltà e aumentare i profitti. Neutralizzano lo Stato o lo prendono d’assalto, comprando la benevolenza o usando minacce, a seconda della situazione. Per tutte queste ragioni, in molte regioni, compagnie minerarie e criminalità organizzata collaborano per sfrattare le comunità che considerano un ostacolo allo sfruttamento di Madre Terra. Se accettiamo che il capitalismo esistente sia una guerra di espropriazione contro il popolo – la “Quarta Guerra Mondiale”, come la chiamano gli zapatisti – dobbiamo anche accettare che non c’è nulla di illegale nelle guerre, poiché la legge del più forte regna. Gaza è il miglior esempio dell’evaporazione di ogni legalità, di tutta l’umanità, perché si tratta di espropriare e sfrattare il popolo palestinese per trasformare i suoi territori e le sue terre in semplici merci. La criminalità opera esattamente allo stesso modo a Cherán, a Chicomuselo o in qualsiasi parte del mondo, perché noi, il popolo, noi esseri umani, siamo diventati un ostacolo all’infinita accumulazione di capitale. Pertanto, d’ora in poi, il genocidio sarà la norma, come lo fu durante la Conquista delle Americhe. È un atteggiamento irresponsabile e perverso diffondere l’idea che possa esistere un “buon” capitalismo, come hanno ripetutamente affermato i presidenti progressisti di questa regione. Come ha osservato Immanuel Wallerstein, il capitalismo è stato un’enorme battuta d’arresto per due terzi dell’umanità, donne, ragazze e ragazzi, popoli del colore della terra. Ciò che segue sono forni crematori, genocidi e i media mainstream che mascherano questa realtà. Qualsiasi forma di politica che non avverta la gente che viviamo nell’era del genocidio, o che un genocidio è in corso altrove, la conduce al patibolo. Come ha osservato lo storico del lavoro Georges Haupt, chiunque intrattenga la gente con storie accattivanti “è criminale quanto il geografo che disegna false mappe per i navigatori”. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a La Jornada -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il capitalismo è sinonimo di criminalità proviene da Comune-info.
La piramide è inutile
ALLA BASE SI TROVA GAIA: LA TERRA VIVENTE, FERITA MA CHE RESPIRA. SU DI ESSA CI SONO LE RELAZIONI SOCIALI CHE SCEGLIAMO DI CREARE OGNI GIORNO CHE SONO PERÒ CATTURATE DALLA MACCHINA DELLA MERCIFICAZIONE. A CORONAMENTO DI TUTTO, C’È INFATTI IL CAMPO DEL DOMINIO: UN’ARCHITETTURA BRUTALE DI CONTROLLO, CHE IMPONE L’ACCUMULAZIONE AD OGNI COSTO. OGNI STRATO PIEGA QUELLO SOTTOSTANTE: GAIA VIENE ESTRATTA, LE RELAZIONI MERCIFICATE, I BISOGNI DISCIPLINATI. MA LA VITA RESISTE. “OGNI ATTO DI MUTUO SOCCORSO, OGNI SEME PIANTATO SENZA LOGICHE DI MERCATO, INCRINA LE FONDAMENTA DEL COMANDO E DEL DOMINIO – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – SIAMO IMPIGLIATI NELLA PIRAMIDE, MA SIAMO ANCHE GAIA CHE MORMORA AL SUO INTERNO… LA LOTTA NON È SOLO CONTRO LO SFRUTTAMENTO. È PER LA RINASCITA DEL COMUNE COME ORIZZONTE VIVO E INSURREZIONALE, TESSUTO DAL BASSO…” Nelle foto di questa pagina, alcuni momenti de “Il pane e le rose: la comunità della Notte verde” : oltre quattrocento persone hanno scelto di darsi appuntamento, a inizio agosto, tra gli orti della Casa delle agricolture di Castigliore d’Otranto, sedersi alle lunghe tavolate, spezzare il pane insieme, parlare, ballare, cantare, come lancio della Notte verde promossa dal 29 al 31 agosto (dialoghi, concerti, laboratori, mostre, mercato) -------------------------------------------------------------------------------- I – La piramide è inutile, eppure… Quando nel suo discorso di apertura del 31° anniversario della rivolta zapatista il Subcomandante Moisés afferma che “la piramide è inutile”, parla dal punto di vista della riproduzione della vita. Le sue parole non sono ingenue, ma il frutto di trent’anni di lotta, di autogoverno, di autonomia, di invenzione territoriale. È la voce di chi ha visto la piramide dal basso, l’ha combattuta dai suoi fianchi e ora ne riconosce l’inutilità dall’alto: dal punto di vista di una vita comune già messa in atto attraverso la memoria, la resistenza e nuove forme di comunanza. Eppure, se dicessi lo stesso in una strada europea, verrei liquidato come pazzo, tanto è profondo il nostro coinvolgimento nella corsa della piramide. La sopravvivenza stessa ci lega al suo ritmo; le sue strutture non sono solo esterne ma anche interne, plasmando i nostri giudizi e desideri. I governi criminalizzano sempre più coloro che bloccano il flusso — per la Palestina, per il lavoro o per Gaia — difendendo l’incessante corsa della piramide. La piramide non è solo una gerarchia di ricchezza o di potere. È l’architettura del dominio capitalista che dà forma alla cooperazione sociale. Non si limita a stratificare, ma organizza la vita stessa in un macro-sistema che preserva il proprio dominio, dà forma alla cooperazione sociale in senso lato, costituisce il comune come condizione di vita. Così, il comune è ambivalente: sia lo spazio di emancipazione che dichiara inutile la piramide, sia la cooperazione sociale catturata dalla piramide. Ed è proprio in questa ambivalenza, un ambivalenza che attraversa i nostri corpi e il nostro operare nel mondo, che si svolge la lotta. II – La piramide come stratificazione della prassi del valore Per capire perché la piramide persiste – anche quando divora i fondamenti della vita stessa – dobbiamo cambiare prospettiva. Dobbiamo smettere di vederla solo come una gerarchia congelata di classi o privilegi, e riconoscerla come un sistema mutevole in cui siamo tutti invischiati, anche se in misura diversa: un macchinario che cattura, organizza, stratifica e ripropone le energie stesse della vita per la propria riproduzione, la riproduzione del capitale. Dal suolo intriso di sangue della continua accumulazione primitiva alle prigioni algoritmiche dell’odierna griglia planetaria, la piramide del capitale cerca di organizzare la pulsazione della cooperazione sociale in strati di domini di prassi del valore: stratificando, degradando, subordinando la vita stessa alla riproduzione incessante del profitto. Gli antropologi ci dicono che il valore è il significato che le persone danno alle loro azioni, e le azioni si verificano sempre in contesti di registri di valore predominanti. La Piramide è quindi una macchina sociale complessa che attraverso le sue operazioni ordina verticalmente i domini sistemici di questi registri di valore, cosicché alcune prassi del valore sono più importanti di altre. Alla base si trova Gaia: la Terra vivente, ferita ma che respira, presupposto della vita e di tutte le pratiche di produzione di valori. Su di essa, il campo relazionale della vita: solidarietà umane e non umane, legami di cura e sostentamento. Sopra, il campo dei valori d’uso: strumenti, servizi e conoscenze immaginati e realizzati per nutrire la vita. Questi, a loro volta, sono catturati dalla macchina del valore di scambio: la ricchezza della vita appiattita in merci, i ritmi della vita frammentati in equivalenze astratte, la prassi sociale vivente e incarnata ridotta a strumento di arricchimento, gli interi processi vitali soggetti alle misure del capitale delle cose. E, a coronamento di tutto, il campo del comando e del dominio: un’architettura brutale di controllo, che impone l’accumulazione ad ogni costo. Ogni strato piega quello sottostante: Gaia viene estratta, le relazioni mercificate, i bisogni disciplinati. La piramide non si limita a schiacciare, ma si nutre delle energie della vita, catturandole e pervertendole. Tutto cambia nella cooperazione sociale configurata dalla piramide, in modo che non cambi nulla di veramente sostanziale. Ma la vita resiste. Ogni atto di mutuo soccorso, ogni seme piantato senza logiche di mercato, incrina le fondamenta del comando e del dominio. Siamo impigliati nella piramide, ma siamo anche Gaia che mormora al suo interno, e siamo il bagliore della cooperazione insurrezionale. La lotta non è solo contro lo sfruttamento. È per la rinascita del comune come orizzonte vivo e insurrezionale, tessuto dal basso. III – Gaia Alla base della piramide, Gaia respira: non una risorsa passiva, ma una rete di vita auto-organizzata. È la matrice di tutta la cooperazione sociale e l’obiettivo della cattura sistemica del capitale. La cattura di Gaia da parte del capitale non è un semplice saccheggio della “natura”. È un assalto organizzato alle precondizioni materiali della vita stessa, un riorientamento sistemico dei flussi di energia autopoietica di Gaia verso la riproduzione del profitto. Attraverso l’estrazione senza fine e l’imposizione della propria forma di metabolismo sociale, il capitale sequestra le forze vitali della Terra — il suo potere di tessere e sostenere l’ordine — e le trasforma in motori del caos, disperdendo il collasso in corpi, terre ed ecosistemi, in modo da poter continuare a sostenere il proprio ordine di dominio sulle rovine. La conquista di Gaia è inseparabile dalla conquista del lavoro. Dalle miniere alle fabbriche intelligenti dell’era digitale, i flussi di energia e le vite umane sono piegati insieme dallo stesso imperativo: accelerare l’accumulazione, esternalizzare i costi, spostare i punti di rottura. La prassi umana è disciplinata non solo attraverso i salari e i mercati, ma anche attraverso il comando fossilizzato sui flussi metabolici: l’incendio delle foreste, lo sradicamento delle comunità, l’accelerazione infinita dell’esaurimento sociale. Il riorientamento è una necessità politica e anche la termodinamica è dalla nostra parte: sostenere la complessità contro il collasso. Nel respiro di Gaia si agitano ancora i semi di un altro mondo. Ma richiedono una prassi che ricordi: che non siamo fuori da Gaia, né lei fuori da noi; che il comune non è una risorsa, ma un orizzonte vivente; che l’impero entropico del capitale può, e deve, essere annullato attraverso ogni atto di rinnovamento relazionale, di cura metabolica, di comunanza insurrezionale, e della loro articolazione in organizzazioni più dense ed efficaci. IV – I Procomuni: Vita ai margini Alle fondamenta tremanti della cooperazione sociale, sotto le architetture torreggianti del comando, dello scambio e della produzione industriale, e appena al di sopra del livello di Gaia, pulsa il livello dei procomuni — il fondamento relazionale dove la vita insiste nel vivere altrimenti. Qui, il respiro di Gaia si addensa nelle relazioni umane: pasti condivisi, sguardi, litigi, atti di cura e di resistenza, il quotidiano turbolento e luminoso in cui i valori relazionali non vengono elaborati per il profitto e non come strumenti, ma sono espressione della dinamica della stessa vita. Questa non è la vita dell’astrazione, ma della presenza; non il ciclo meccanico della produzione, ma la tessitura di legami sociali diretti, fragili e fragorosi, o intensi e silenziosi ma essenziali. Il procomune è il terreno dove i valori relazionali sono vissuti, incarnati, contestati, dove la prossimità, il sostentamento e la solidarietà emergono non come ideali, ma come modi necessari per resistere e prosperare insieme. È il punto di partenza della riproduzione sociale: le architetture vernacolari e quotidiane di fiducia, cura, conflitto e riconoscimento reciproco che precedono, superano e spesso resistono alle logiche del mercato e dello Stato. Eppure, i procomuni non galleggiano al di sopra della storia. Sono saturati dalle tensioni sistemiche del capitalismo — catturato, pressato, rimodellato. Quello che Ivan Illich chiamava il vernacolare — quella dimensione della vita radicata nell’autoproduzione e nei legami reciproci — sopravvive, ma sotto assedio: frammentato dalla mercificazione, compresso dai ritmi algoritmici, perseguitato dalla presenza tossica degli ordini patriarcali, coloniali e capitalistici. Il vernacolare, nel suo cuore, è sempre stato il terreno della casa e del sostentamento — la tessitura quotidiana della vita attraverso abilità condivise, cura reciproca e vicinanza ai mezzi di sopravvivenza. La casa, un tempo più strettamente legata al sostentamento condiviso e alla vicinanza —anche se raramente priva di esclusioni e gerarchie — oggi non è più un rifugio stabile, ma una costellazione mutevole e precaria, che si estende tra quartieri, reti globali e piattaforme, intessuta di cura e sorveglianza. Il sostentamento, in questo paesaggio, non è più una semplice questione di soddisfazione dei bisogni. È una prassi complessa: una lotta per mantenere le condizioni incarnate, emotive e relazionali della vita contro un mondo che misura il valore solo attraverso la circolazione delle merci, la produttività e la crescita astratta. È un campo di tensione incarnata in cui la sufficienza — vivere bene entro i limiti di Gaia — si scontra con l’imperativo capitalista dell’accumulazione infinita. Il procomune produce le proprie forme di valore: relazionale, affettivo, simbolico. Genera spazi vernacolari dove i ritmi della presenza reciproca sfidano le quantificazioni del capitale. Il procomune non è un’utopia o un puro esterno. È un livello sistemico in cui il valore oscilla tra la cattura e l’autonomia. Recuperare il procomune non è nostalgia: è coltivare un nuovo metabolismo della vita condivisa entro i limiti di Gaia, una politica di prossimità, cura e rigenerazione. V – Il meso-livello: Lotta per l’uso Il sostentamento richiede valori d’uso. Il meso-livello è il cuore pulsante della cooperazione sociale, dove i corpi, le conoscenze e le energie convergono non solo per vivere, ma per creare, riparare, trasformare il mondo materiale e immateriale per gli altri. Qui l’utilità è l’astro cardinale: il lavoro, l’arte e l’industria, la cura e il servizio cercano di soddisfare i bisogni della vita, non ancora del tutto catturati, non ancora del tutto corrotti. Questo livello è il terreno del valore d’uso, un terreno strutturato dalla pluralità di pratiche che tengono insieme il mondo – fare, insegnare, curare, crescere – ma già oscurato dalle esigenze della piramide superiore. È al meso-livello che i bisogni concreti della vita si traducono in beni e servizi e dove ogni atto – dalla costruzione di un ponte alla consegna di un pasto – oscilla tra due orizzonti: servire la vita o servire il capitale. Al suo meglio, il meso-livello incarna l’efficacia – l’arte di creare ciò che serve, con abilità, con senso, con dignità. Anche l’efficienza ha un potenziale liberatorio: la capacità di ridurre al minimo la fatica inutile, di liberare tempo ed energia per la vita. Ma sotto il comando del capitale, l’efficienza muta: non è più uno strumento di liberazione, ma di estrazione della vita — una costrizione a fare di più con meno, più velocemente, più a buon mercato, più a lungo, fino a quando ciò che viene creato non sostiene più, ma accelera l’esaurimento, lo spreco di esseri umani e il controllo. Così, il meso-livello è un campo di guerra sul significato di ciò che è lavoro utile, di ciò che è prodotto utile: utile per chi? Utile per cosa? Un’altra estensione del conflitto sulla misura delle cose. Artefattura, agricoltura, salute, educazione, cura, persino politica, ogni sfera è lacerata: nutrirà e arricchirà il campo relazionale dei procomuni o alimenterà l’appetito del meta-livello per il profitto e il dominio? Anche quando le mani costruiscono per il sostentamento, la mano invisibile del mercato distorce le intenzioni; anche quando gli insegnanti e i guaritori si sforzano di nutrire, il calcolo della produttività per il profitto rode il loro lavoro. Il vernacolare del sostentamento — l’arte tacita di coltivare il cibo, di curare i corpi, di creare solidarietà — persiste qui nel meso-livello, ma sotto assedio. Il capitale non si limita a sfruttare il lavoro, ma cattura la grammatica stessa dell’utilità, riscrivendo la relazione tra bisogno e valore, in modo che l’essere utile diventi, impercettibilmente, soprattutto utile all’accumulazione. Così, al meso-livello, ogni atto di cooperazione si trova a un bivio, dove l’ordine piramidale dei valori decide il percorso da seguire. Un’azienda agricola può alimentare l’autonomia o riprodurre la dipendenza al business agroalimentare. Una scuola può accendere il pensiero critico o standardizzare la conformità. Un ospedale può servire al rinnovamento della vita o amministrare l’usa e getta. Il meso-livello è quindi un livello sistemico di produzione di valore d’uso plasmato da forze in conflitto tra loro, tra i flussi rigenerativi di Gaia e la ricerca di sostentamento affettivo e materiale dei pro-comuni e la fame entropica del capitale. Lottare per il meso-livello significa lottare per il significato del lavoro, del sostentamento, dell’utilità stessa. È rifiutare che la misura della vita sia ridotta alla redditività; è rivendicare l’efficacia non come servo del dominio, ma come gesto di cura, artigianato di sopravvivenza, industrial di sostentamento, semenzaio di un altro mondo. È la battaglia per ciò che conta come vita. VI – Il meta-livello: Cogliere la misura della vita Al di sopra del meso-livello, opera il meta-livello, non come un trono visibile, ma come un ambiente pervasivo. È immanente, si infiltra nelle vene della cooperazione sociale, piegando il lavoro, la cura, il sostentamento, persino il desiderio stesso alla logica irrequieta dell’accumulazione. Qui le misure della vita sono ricodificate dal valore di scambio: il denaro genera denaro; la vita si piega all’espansione infinita della circolazione del capitale. L’utilità non viene abolita, ma ricodificata, subordinata: conta solo nella misura in cui alimenta la voglia di espansione del capitale. I campi di produzione, cura e significato vengono riconfigurati: scuole, fattorie, ospedali, case, fabbriche e strade – tutte riorientate intorno al mandato della redditività. Attraverso la mano invisibile dei flussi di investimento, della finanza speculativa e della progettazione delle infrastrutture, il meta-livello comanda senza sembrare di comandare. Ricodifica la libertà stessa: trasforma la circolazione, la competizione e la sopravvivenza in necessità mascherate da scelte. Riscrive la grammatica stessa della cooperazione, ricodificando la cura in lavoro salariato, la solidarietà in fedeltà al consumo, il sostentamento in opportunità speculative e Gaia in imprese sostenibili, e tutte subordinate alla priorità del profitto. E così cattura i campi della vita, non solo attraverso la forza bruta, ma strutturando l’ambiente in cui la stessa cooperazione sociale viene immaginata, organizzata e resa operativa. L’efficienza, quella preziosa arte di fare di più con meno, potrebbe essere una forza liberatrice— liberando tempo per la vita, per la cura, per la creazione. Ma nelle grinfie del capitale, diventa un’arma di estrazione: una corsa senza fine, un’ascia che scava sempre più a fondo nei tessuti dei procomuni, pretendendo di più da meno, fino a sprecare i corpi umani e il corpo della terra. Attraverso la superficie levigata della razionalità del mercato, il meta-livello conduce una guerra globale contro la prassi quotidiana di mantenimento della vita. Arma i campi vitali della riproduzione sociale — cibo, cura, casa, salute, istruzione, cultura, territorio — trasformandoli in campi di battaglia dove le comunità sono costrette a competere per la sopravvivenza. Questa guerra non si combatte su una mappa fissa. Le gerarchie tra i diversi territori della vita cambiano continuamente. In un luogo, i corpi sono resi economici per servire meglio la cooperazione sociale fondata sul profitto; in un altro, sono scartati come eccedenze, in un altro ancora, la “bella vita” è riconfezionata in un simulacro patinato — una coreografia di piaceri di plastica che galleggia su un mare di stanchezza e ansia. Le catene di cura si estendono attraverso gli oceani, trascinando madri e figlie da un continente per prendersi cura degli abbandonati in un altro. I quartieri urbani e le zone rurali sono alternativamente inondati di investimenti o svuotati di vita, a seconda delle esigenze del capitale. Questa instabilità non è un malfunzionamento, ma una tattica. Rimodulando costantemente il valore della vita tra le varie geografie, il sistema disorganizza le solidarietà, frammenta le resistenze e mantiene l’estrazione di energia vitale, anche se accelera l’entropia del mondo di cui si nutre. Così, la cooperazione sociale è piegata: non verso la fioritura della vita, ma verso la riproduzione infinita di quella che gli inglese chiamano la rat race, — la corsa dei topi— un movimento frenetico attraverso spazi in cui la sopravvivenza non è più garantita e in cui la riproduzione della vita è sacrificata alla riproduzione del capitale. Riconoscere il meta-livello significa riconoscere la cattura sistemica della vita da parte di una logica macchinica che non conosce limiti, che perseguirà l’accumulazione fino alla rovina collettiva. Ma è anche riconoscere la necessità sistemica di un’altra coerenza: una coerenza che intrecci Gaia, i procomuni e il meso-livello in un contro-sistema vivente, che osi rifiutare le misure del capitale, che si impegni a ripristinare il terreno della vita contro l’entropia capitalista. La questione non è se questo intreccio sia necessario. La questione è se e come possiamo costituirla prima che i roghi dell’accumulazione consumino il mondo stesso che rende possibile la vita. VII – Il mega-livello: Impulsi di dominio All’apice della piramide, il mega-livello non presiede semplicemente, ma pulsa. Non è un trono statico, ma un campo di battaglia di forze: un campo turbolento in cui le forze del comando si scontrano sia all’interno — tra gli Stati, le imprese, i centri di potere finanziario e le élite che si contendono la posizione — sia all’esterno — contro le rivolte, le fratture e le correnti insurrezionali che sorgono dal basso. Qui il comando capitalista non respira attraverso un’architettura rigida, ma attraverso sinfonie instabili di aggiustamenti, spostamenti e ricalibrazioni, un metabolismo irrequieto del potere. Il mega-livello non è isolato dalle turbolenze sottostanti: è costantemente scosso dalle rotture metaboliche di Gaia, dalle forze insurrezionali dei procomuni, dalle fratture e dalle crisi della riproduzione sociale attraverso i meso- e i meta-livelli. Ogni impulso del mega-livello è un tentativo di assorbire, deviare, spostare o reimporre l’ordine sulle instabilità che il capitale stesso genera incessantemente dentro la cooperazione sociale. Periodicamente, questi impulsi si condensano in architetture di ordine globale: egemonie, sistemi di governance, imperialismi, quadri transitori per incanalare e disciplinare i vasti flussi di cooperazione e di vita. Ma nessun ordine è permanente. Ogni consolidamento si sfilaccia sotto il peso delle sue contraddizioni, degli squilibri nel comando che si generano ad effetto delle mutate geografie di potere rese possibili dalle dinamiche del meta-livello, cosi che le strutture visibili di comando vacillano, si frammentano, e tentano di riconfigurarsi a prezzo di nuove guerre e instabilità. Ciò che non vacilla, tuttavia, è l’imperativo: la spinta capitalista a imporre un ordine del profitto sulla cooperazione sociale sopravvive a ogni crollo. Muta attraverso le crisi, improvvisa attraverso le rotture, e cerca nuovi strumenti tra le rovine. Il meta-scopo è semplice: garantire che, qualunque cosa bruci, qualunque cosa si sgretoli, qualsiasi corpo bruci, l’accumulazione del capitale continui a modellare i ritmi della vita. La funzione del comando, nel profondo, è quella di preservare l’autoriproduzione del capitale, la sua autopoiesi. Autopoiesi — letteralmente “autoproduzione” — significa che il sistema non si limita a reagire alle crisi, ma si riorganizza attraverso di esse, riconfigurando i suoi elementi per mantenere la propria continuità anche quando corrode il terreno sotto di sé. In questo modo il sistema respira entropia nel mondo per continuare a respirare accumulazione in se stesso. Il dominio al meta-livello non è sostenuto dalla stabilità, ma dalla gestione dell’instabilità che produce. Crisi, rotture, rivolte: non sono anomalie, ma energie da reindirizzare, fratture da ritessere nella continuità del dominio. Ma là dove il capitale cerca di stringere il controllo, possono pulsare ritmi di vita alternativi; dove il comando ricalibra le soglie, la vita può infrangerle con una fare e agire in comune insurrezionale. VIII – Verso un controciclo vivente Oggi la piramide trema con crepe crescenti. I ritmi dell’accumulazione sono diventati aritmici, destabilizzati dalla febbre planetaria, dalla precarietà economica e dalle agitazioni sociali. L’apice del capitale — il mega-livello del comando globale — si affanna a gestire le crisi che ha creato, spingendo le contraddizioni in avanti nel tempo e in basso nello spazio, divorando il domani per sopravvivere all’oggi, volendo normalizzarci al genocidio, alla guerra, alla distruzione ambientale. La principale contraddizione della piramide emerge dallo scontro tra due forme di riproduzione antagoniste. Da un lato, la riproduzione della vita — radicata in Gaia, nei procomuni e nei campi quotidiani di cooperazione sociale per il sostentamento al meso-livello — cerca di sostenere corpi, comunità ed ecosistemi. Dall’altro, la riproduzione del capitale — guidata dalle logiche di valore del livelli meta e mega — agisce per catturare, frammentare e strumentalizzare la vita per l’espansione infinita del regno del valore di scambio al di sopra di tutto il resto. La piramide del capitale mantiene la sua coerenza intrecciando e classificando queste diverse forme di riproduzione in un unico sistema autopoietico: una gerarchia di prassi del valore che si autoriproduce e che adatta costantemente le sue forme per preservare il suo dominio, che riorganizza costantemente la cooperazione sociale per proteggere il regno del valore di scambio sulla vita. Ma i sistemi autopoietici non dipendono solo dall’intenzione cosciente dei soggetti che vi partecipano; persistono grazie alla loro organizzazione interna autoreferenziale che articola i corpi attraverso pratiche di valore. Il capitalismo, il patriarcato e il capitalismo razziale si riproducono attraverso strutture autoreferenziali — gerarchie, norme ed esclusioni — che persistono anche quando i singoli attori resistono, adattando il dominio a ogni frattura e rivolta. Il cambiamento sociale è quindi una questione di costruzione di organizzazioni che siano efficaci a ridurre la nostra dipendenza dal meta e mega livello e che allo stesso tempo ridisegnano la cooperazione sociale su basi diverse, dove Gaia, i procomuni e il meso-livello diventano molto più importanti del meta-livello e del livello del comando. Il comando, infatti, deve essere subordinato alla riproduzione della vita e non al di sopra di essa. Come impariamo dagli zapatisti, il comando non deve imporre dall’alto, ma servire dal basso — un sotto-comando, con il compito di facilitare le condizioni per la fioritura collettiva piuttosto che dettarne la forma. Un comando fondato non sulla proprietà privata, ma sulla non proprietà, el comun, il comune. Durante i festeggiamenti per i 31 anni della rivolta zapatista, una frase è risuonata più forte di tutte le altre: il comune (el común) — una sfida radicale al fondamento più profondo del capitalismo: la proprietà privata dei mezzi di esistenza. Dopo la rivolta del 1994, gli zapatisti hanno recuperato vasti tratti di terra abbandonati dai finqueros, i proprietari terrieri che avevano sfruttato le comunità indigene per generazioni. Tuttavia, queste terre sono rimaste sospese in un vuoto giuridico, generando dispute infinite su chi potesse rivendicarle di diritto. Contro questa logica di possesso, lo zapatismo propone qualcosa di completamente diverso: la non proprietà. Accanto al lavoro individuale e collettivo, ora si pratica il lavoro comune: terre senza padroni, che non appartengono a nessuno e quindi a tutti; terre che non possono essere vendute, non possono essere comprate, possono solo essere lavorate e condivise. I loro frutti appartengono a coloro che li curano, non come merce, ma come sostentamento. Ancora più radicalmente, queste terre non sono chiuse ai soli zapatisti. Sono aperte ai compagni, ai migranti, ai rifugiati, agli stranieri, a chiunque accetti di rispettare le assemblee e di percorrere il cammino del bene comune. Ma questo cammino non è semplice. Il comune non può sopravvivere senza un’etica collettiva che sostituisca la gerarchia della piramide del capitale e che si costruisca non attraverso decreti, ma attraverso il lavoro ruvido e luminoso della pratica quotidiana del comune: una giustizia che nasca dal dialogo e dal consenso; un sistema sanitario inteso come diritto universale, non come prodotto di mercato; un’educazione radicata nei bisogni del popolo, non nelle fantasie di una nazione omogeneizzata; il senso che il “bene comune” è l’unica vera strada per la prosperità individuale e collettiva; un rispetto, una dignità, che non possono essere legiferati, ma solo vissuti. Sebbene il comune in Chiapas, come in molti altri casi, nasca da una storia e da un territorio specifici, la sua risonanza va ben oltre: parla a tutti coloro che, in tutto il mondo, cercano di smantellare la piramide dal basso. Per sfidare la piramide del capitale, la nostra resistenza deve tessere una nuova forma di coerenza trasversale ai molteplici luoghi della cooperazione sociale: un arazzo vivente di comunanza e lotta, fare e agire in comune radicato nei terreni della riproduzione sociale, i campi in cui pulsa l’energia del rinnovamento collettivo, della crescita soggettiva, della gioia e del dolore condivisi, e in cui possono prendere forma altre forme di cooperazione sociale. Il comune, in questo senso, non è più una semplice condizione di vita alienata dentro la piramide del capitale, ma un diverso modo di ri-produzione della vita e delle sue condizioni. Come ci ricorda il Subcomandante Moisés, l’inutilità della piramide si rivela solo dal punto di vista della lotta: dal comune che resiste alla cattura, dalla vita che rifiuta il dominio. Dichiararla inutile non è un’illusione, ma il primo atto di tessere un altro presente e un altro futuro. Contro e oltre la condizione differenziata ma comune della nostra alienazione, il comune è una prassi da costruire su un altro ordine delle pratiche di valore. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Revista Crítica Anticapitalista n.3 di Comunizar, rivista sorella di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La piramide è inutile proviene da Comune-info.
Aboliamo la depredazione
LANCIARE ANATEMI SU UNA CIVILTÀ ABIETTA NON LE IMPEDISCE DI PERPETUARSI MENTRE NOI PERMETTIAMO ALLE LEGGI DELLA RAPACITÀ FINANZIARIA E ALL’AGGRESSIVITÀ PREDATORIA DI ORCHESTRARE IL NOSTRO SNATURAMENTO. E ALLORA? QUELLA DI RAOUL VANEIGEM È UNA CHIAMATA ALLA CREAZIONE DI COLLETTIVITÀ IN LOTTA PER UNA VITA UMANA LIBERA E AUTENTICA. UNA CREAZIONE CON LA QUALE SMETTERE DI PRENDERE IN CONSIDERAZIONE QUALSIASI FORMA DI POTERE, IL MONDO NON SI CAMBIA IN PROFONDITÀ DALL’ALTO; RIPUDIARE LA GUERRA CONTRO LA PALESTINA IN QUANTO GUERRA CONTRO I POPOLI DI TUTTE LE REGIONI DELLA TERRA; DARE SPAZIO ALL’AIUTO RECIPROCO; RISCOPRIRE LA FACOLTÀ UNICA CHE LEGA TUTTE LE DONNE E TUTTI GLI UOMINI, SAPER CREARE E RICREARE IL MONDO CHE CI CIRCONDA. “È ARRIVATO IL MOMENTO DI RIPRENDERE IL CORSO DEL NOSTRO DESTINO. È ARRIVATO IL MOMENTO DI CAMBIARE IL MONDO E DI DIVENTARE QUELLO CHE VOGLIAMO ESSERE: NON I PROPRIETARI DI UN UNIVERSO STERILE, MA GLI ABITANTI DI UNA TERRA IN CUI COLTIVARE L’ABBONDANZA PERMETTEREBBE DI GODERE IN LIBERTÀ…” Traduzione dell’articolo in spagnolo e in greco Campagna Acqua per Gaza di Un ponte per -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo fatto dell’Essere umano la vergogna dell’umanità. Dall’epoca più lontana della Storia fino ai nostri giorni, nessuna società ha mai raggiunto il livello di indegnità e abiezione dimostrato dalla civiltà agro-mercantile. Quella che da diecimila anni si considera la Civiltà per eccellenza. È innegabile che abbiamo ereditato sia un istinto di depredazione sia uno di aiuto reciproco. Costituiscono entrambi la nostra parte di animalità residua. Però, mentre la coscienza di una solidarietà unificatrice favoriva la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria sviluppava dentro di noi una tendenza all’autodistruzione. È tanto difficile da capire? L’apparizione di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere e al Guadagno segnò una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà pre-agricole. L’agricoltura e l’allevamento hanno privilegiato l’istinto predatorio a spese di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la sua usurpata sovranità. L’appropriazione, la concorrenza e la rivalità si divertono a esaltare la “bestia civilizzata”, la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone suggerisce, in questo modo, che è naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. In questa maniera, ciò che in realtà si impone è lo snaturamento dell’essere umano. Cercheremmo invano fra i carnivori più spietati una crudeltà tanto determinata e una ferocia così ingegnosa come quelle che esercitano la Giustizia, la Religione, l’Ideologia, il Dominio, lo Stato e la Burocrazia. Bisogna vederlo il ghigno dei mercanti di armi quando i loro prodotti di marca fanno a pezzi donne, bambini, uomini, bestie, boschi e paesaggi. “À la guerre comme à la guerre”, non si dice così? La Germania ha il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde niente di quei ristoranti senza cuore1dove dame-e-cavalieri si riempono la pancia mentre le loro scarpe di lusso grondano sangue ed escrementi. Perché preoccuparsi quando un’opinione pubblica già inquadrata si schiera a fianco di uno o un altro belligerante, come se si trattasse di un incontro di calcio dove si affrontano Russia e Ucraina, Israele e Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori coprono le grida delle moltitudini massacrate. Accontentarci di lanciare anatemi su una civiltà abietta non le impedirà di perpetuarsi mentre noi permettiamo alle leggi della rapacità finanziaria di orchestrare il nostro snaturamento, scandire le nostre apatie e mettere in evidenza le nostre frustrazioni scatenando esplosioni di un odio cieco e assassino. Aggiungere il rimprovero all’errore? A che scopo? Servirebbe solo a rafforzare un sentimento di colpa personale che si esorcizza accusando gli altri. Il riflesso predatorio ne trarrebbe, di nuovo, un vantaggio. Le esortazioni dirette alla maggioranza cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da una parte, le consegne e le esortazioni militanti mettono in moto il vecchio motore del Potere, in cui il radicalismo ostacola rapidamente la radicalità dell’esperienza vissuta; dall’altra, ciò che si decide di diffondere sul podio dei concetti generali si diluisce rapidamente nell’intruglio delle idee separate dalla vita, a meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’opportunità di intavolare un dialogo intimo con se stessa o se stesso. In altre parole, a meno che entrambi bevano alla fonte della coscienza umana che sta dentro di loro. Per questo preferisco parlare direttamente all’individuo autonomo e non alle masse. Perché quello sa molto bene che la mia unica intenzione è di affidargli la mia maniera di vedere le cose, in una discussione fraterna in cui non è necessario conoscersi per riconoscersi. Non è l’aiuto reciproco la migliore garanzia del risveglio delle coscienze? Non è un caso che la solidarietà rinasca spontaneamente man mano che la depredazione smette di nascondere come divori se stessa e tragga guadagno dalla sua autodistruzione. La rovina dell’avere diffonde una stanchezza peggiore di quella morte il cui spettro ci minaccia senza soste. E allora il soffio della vita ripristina l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa a cui lo riduceva la mercificazione. Non è per caso questo che è implicito nell’adagio “l’uomo e la donna non sono merci?” Che gli uomini e le donne rivendichino, rispettivamente, la loro parte di femminilità e di mascolinità non cambia per niente la lotta comune che portano al sistema che li riduce in questo stato. Basterà risparmiare ai bambini i danni dell’educazione predatoria perché la loro spontanea radicalità si incarichi di risvegliarli alla loro destinée2 di esseri umani. Non c’è bisogno di profeti per rendersi conto che quel che si avvicina sarà, o il trionfo del bruto a cui la clava serve da intelligenza, o l’irruzione di una vita che ritrova la coscienza della sovranità che la sua umanità ha diritto di esercitare. L’utilità di fascismo e antifascimo consiste nel nascondere la vera lotta finale, quella, al tempo stesso esistenziale e sociale, che implica lo sradicamento della depredazione, la sparizione del Potere gerarchico e la fine di chi latra ordini. Il cinismo e l’assurdità lucrativa delle guerre, istigate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro tifosi. La successione di contrapposizioni praticamente intercambiabili spinge l’opinione “pubblica” ad abbandonare a poco a poco la scacchiera dei maneggi geopolitici. È qui e ora che l’apparizione di movimenti come il maggio 1968, gli zapatisti, i gilet gialli e i combattenti e le combattenti del Rojava apre alla vita e alla coscienza un cammino che il deragliamento storico della Civilità agro-mercantile aveva ostruito e condotto verso la morte. Non sperare in niente non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontanea. Contiene in sé la capacità di fermare la desertificazione della Terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità e alla sua coscienza è la nostra vera forma di autodifesa immunitaria. Visto che lo snaturamento ostacola questo processo in nome del Guadagno, perché non contare sulla natura che esiste in noi e nel nostro ambiente per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non fatela a me la domanda, fatevela a voi stessi, che in ogni momento navigate fra il letargo e la rivolta! I segnali di inquietudine e di giubilo si mescolano e moltiplicano dappertutto. Ma non ingannatevi! Il rifiuto rabbioso di una guerra diretta specificamente contro una determinata nazione – in questo caso la Palestina – va molto al di là di un semplice ripudio. Esprime ogni volta con maggior chiarezza l’esecrazione verso una guerra rivolta non solo contro la popolazione di una regione, ma contro il popolo di tutte le regioni del pianeta Terra. Popolo che ha capito che per l’avidità totalitaria vivere è un crimine. È per questo che le nuove insurrezioni globali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse si incarnano tanto la volontà di abolire un universo di psicopatici che guadagnano dalla morte, quanto la messa in opera di una nuova alleanza con madre natura. È in questo che la guerra è stata di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le cricche delle armi, statali o soprastatali che siano, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente unendosi al partito della servitù volontaria e del “viva la morte!”3 Il problema discende soprattutto dal dubbio, dalla disperazione, dalle disillusioni a cui vanno incontro, di generazione in generazione, i sostenitori della vita. Non è forse un’aberrazione aspettarsi qualcosa dalle istanze governative che decidono a nome nostro e ci tormentano con i loro decreti, giocando a quale di essi è più ridicolmente ingannevole del precedente? In mezzo alla desolazione della nostra epoca, abbiamo almeno il piacere di veder marcire davanti ai nostri occhi gli Dei, quegli impostori che da diecimila anni hanno usurpato quella facoltà di creare e crearsi che la vita, nella sua folle fecondità, aveva concepito proprio per la specie umana. È arrivato il momento di riprendere il corso del nostro destino. È arrivato il momento di cambiare il mondo e di diventare quello che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile, ma gli abitanti di una Terra in cui coltivare l’abbondanza permetterebbe di godere in libertà. Basta con questo mondo alla rovescia dove il guadagno si impoverisce impoverendo le sue risorse! Che la disparizione delle energie nocive decontamini l’acqua, l’aria, il suolo e la terra, in modo che il nostro ingegno creatore cancelli persino il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione! Nell’intensità di un desiderio il presente si risveglia in presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. L’allegria di vivere ci inizia all’arte dell’armonia, poiché porta con sé la facoltà specificamente umana di creare e crearsi. La proprietà terriera e l’allevamento avevano introdotto nei costumi della gente un gregarismo grazie al quale l’individuo vedeva la sua intelligenza abbassata a quella del bestiame che doveva nutrire col suo lavoro. Quel che oggi si profila è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata. Ci troviamo in un punto di inflessione della Storia, in cui l’elaborazione di uno stile di vita sostituirà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedicata a un confort frutto di cure palliative. La presa di coscienza che emana dalle nostre pulsioni vitali mette in evidenza un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e il controllo esercitato contro di lei dll’intelligenza intellettuale. Questo perché il blocco delle nostre emozioni da parte di ciò che Wilhelm Reich chiama corazza caratteriologica obbedisce ai comandi dell’efficienza meccanica a cui è soggetto il corpo durante il lavoro. Pertanto, se il piacere che viene fuori dalla gratuità della vita non trova posto nell’avidità totalitaria, è allora evidente che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festiva, rafforzare l’innocenza del vivente, che ignora tanto i padroni quanto gli schiavi, sono armi che per loro natura possono precipitare la rovina del Guadagno. Stiamo nel vortice di un combattimento appassionante. Segnala la rinascita della nostra coscienza umana ed esprime il risorgere di una dignità che è sempre stata nel cuore dei nostri tentativi di liberazione, specialmente nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spogliato del suo progetto da quegli stessi che si proclamavano suoi difensori. Sarebbe meglio prendere in considerazione fin dall’inizio lo sradicamento di ogni forma di potere, che sia quella del sindaco, del funzionario dello Stato o del militante funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestataria. Fra quelli che si autoproclamano rappresentanti del popolo è facile riconoscere i manipolatori che ambiscono sostituire la burocrazia dello Stato con la loro. Non è forse una decisione salutare desiderare tutto senza aspettarsi niente? Qui mi riferisco all’affidarci alle nostre pulsioni vitali come se fossero non una fatalità ma una presenza creatrice che abbiamo la libertà di sperimentare impedendo che quelle si blocchino, così da evitar loro un’inversione mortale che generi piaghe emozionali. Abbiamo sottostimato l’importanza di raffinare la collera per evitare la trappola dell’urgenza, per non lasciarci trascinare sul terreno del nemico, per non soccombere alla militarizzazione della militanza. Però, soprattutto, la distanza che implica il raffinamento delle emozioni si configura come un luogo propizio per la maturazione della creatività. Favorisce la messa in moto di una guerriglia che evita di ricorrere ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e sono inesauribili. Con la prospettiva dei secoli si percepirà come il risveglio della coscienza abbia rianimato la lotta, come il rinnovamento dell’aiuto reciproco liberi poco a poco dalle nebbie della confusione. Alle generazioni future risulterà inconcepibile che noi si sia tardato tanto a renderci conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non avrebbero superato lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità pratica, ci ha offerto il privilegio di creare e ricreare il mondo che ci circonda. Le comunità pre-agricole si sono evolute in simbiosi con l’ambiente da cui traevano il loro sostentamento. L’apparizione della Civiltà mercantile e delle sue Città-Stato segnò una rottura con la natura che da soggetto vivo passò a convertirsi in oggetto di sfruttamento. Si utilizzò un sistema di governo autoritario per occultare l’aiuto reciproco e creativo che aveva guidato, “da Lucy fino a Lascaux”, un’evoluzione che oggi gli adulatori della civiltà mercantile sono molto restii a scoprire. Prevalse la nozione di Destino. Diffuse uno spirito di sottomissione, inculcò un’ontologia della maledizione, estese il mito di una Caduta irrimediabile a cui dobbiamo rassegnarci, così come obbediamo all’arbitrarietà di un padrone divinizzato. Ciò che rinasce ora in quelli che ancora aspirano a vivere è la sensazione di essere stati ingannati. Il collasso del patriarcato, man mano che finisce di seppellire gli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire la differenza fondamentale fra Destino e destinée. Il disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha nascosto sotto il termine Destino, il principio attivo che io chiamo destinée, che non è altro che la capacità di crearsi ricreando il mondo. Il Destino appartiene alla Provvidenza, non si discute e invoca quella Fatalità che aggiunge al servilismo un apprezzabile confort. Il Destino si soffre, la destinée si costruisce. In questo non c’è nulla di metafisico. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale che mostra, di generazione in generazione, una volontà di emancipazione intemporale che viene, nello stesso tempo, modellata dai flussi economici, politici, psicologici e sociali. Destino e destinée pongono un problema perché sono diventati sinonimi. Così suggerisco di mantenere le radici francesi di destinée per maggior chiarezza. La radicalità delle lotte per la vita esige che la destinée umana rimpiazzi il Destino, il Caso, la Provvidenza. Rifiorisce nel mezzo di una no man’s land4 dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale, mentre una nuova civiltà lotta con i dolori del parto. Tra i balbettìi dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto incerta sia – rivela di colpo che siamo capaci di crescere senza padroni, guru e tutele. Se abbiamo avuto l’opportunità di comprendere che niente attraeva la disgrazia con più certezza dell’abitudine di esser contenti in sua compagnia, allora dobbiamo essere d’accordo sul fatto che, al contrario, il piacere della gioia di vivere risulta ugualmente contagioso e lo fa in una maniera più gradevole. L’indistruttibile determinazione a coltivare nello stesso tempo la nostra vita e quel giardino che è la nostra madre terra offre un aiuto infallibile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere e il denaro. Alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce dappertutto la promozione di valori “antifisici”, ostili alla natura. Nella lotta per l’emancipazione dell’io, la volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurale. Le domande a proposito della salute, l’equilibrio, l’immunità, l’amicizia, l’amore, i piaceri e la creatività stanno nel cuore di quell’emancipazione della Terra che le nuove insurrezioni globali hanno illuminato. La posta in gioco è uguale dappertutto: raggiungere la libertà dei desideri creando una società che si sforzi di armonizzarli. Nella mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La sua libertà esclude quelle mercantili; la libertà di sfruttare, opprimere e uccidere. La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata. La predica delle buone intenzioni non è mai stata tanto insopportabile come nel XXI secolo, in cui la coscienza alienata ora non indossa i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Col nome di terrorista, assassino, psicopatico o delinquente indica quella che, per disgrazia, non è altro che una condizione di disumanità che la frenesia del Guadagno a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere, profittevoli e inutili. Ho sempre difeso questo principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proibizione assoluta di qualsiasi forma di inumanità. Secondo me, questa è l’unica maniera di affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale opzione ci libera dell’ipocrisia umanitaria con qui si abbelliscono in maniera ridicola tante idee e credenze. Non dobbiamo neppure ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile. Non vogliamo giudicare la disumanità, vogliamo condannarla ed esiliarla. Non ci servono spiegazioni, né giustificazioni, né circostanze attenuanti. Che venga dai quartieri ricchi o da quelli poveri, dal conservatorismo o dal progressismo, nessuna disumanità è tollerabile. Che rimanga chiaro e senza ambiguità! Faremo tutto il possibile per sradicare dai nostri costumi la propensione ad uccidere, ferire, violentare e maltrattare, senza tener conto delle ragioni utilizzate per spiegare le sue apparizioni e riapparizioni. Ora basta col tribunale universale, dove soppesare, giudicare, scusare, condannare, castigare e amnistiare perpetua le proteste dell’indignazione impotente. La giusta collera continuerà ad essere impotente mentre si radica in ognuno di noi quel “togliti di mezzo che sto arrivando!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatorio. Ora basta con questa caricatura di esistenza volgarizzata su scala globale dall’evangelismo narco-americano! Il self-made man5costruisce e diffonde solo la propria morte. Quello è il suo prezzo ed è esibito con orgoglio! Non è nell’individuo autonomo che si basa il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di stare soli a investigare, discutere e, prima o poi, realizzare una trasformazione alchemica della monotona sopravvivenza che in lui si impantana? Di causare la trasformazione della materia prima – condannata a putrefarsi – nella vita piena e completa a cui abbiamo sempre aspirato come esseri umani? L’arte di vivere disimpara il morire. Questa è l’unica lezione a cui desidero afferrarmi. Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata sia, mi libera dell’obbligo di giocare un ruolo, un obbligo che impongono l’individualismo e il gregge – il conglomerato dei gregari – che ignora l’individuo e ne riconosce solo la forma alienata. Mi fa prendere coscienza del ridicolo e patetico dovere di apparire, mi libera della dittatura dell’esteriorità, dello spettacolo e della paura di essere costantemente valutato e giudicato. La vera felicità non consiste forse nel tornare a incontrare l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza sperare niente dalla mente? Ci incamminiamo verso un nuovo Rinascimento verso un ritorno dell’Illuminismo. La nostra strada laterale sarà quella di una clandestinità rivendicata apertamente. Il pugno del guadagno ci colpisce dappertutto, colpiamo noi da tutte le parti per disintegrarlo! La clandestinità comincia dentro di noi, nella “stanza buia” dove rimaniamo soli a discutere senza fine di quello che non vogliamo e di quel che desideriamo. Ci sveglia perché prendiamo coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei piaceri che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la trasformano in pulsioni di morte. Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è affermato tanto dall’anonimato dei gilet gialli quanto dall’anonimato che ogni individuo reclama quando si rifugia nella stanza buia dei suoi desideri segreti. Là dove si ritrova solo a decidere se unirsi al sistema di depredazione e al calcolo egoista dell’individualismo, oppure se scegliere di dedicarsi, meglio, alla trasformazione della sua sopravvivenza in una vita piena e completa. In un suo lavoro, Fuenteovejuna, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un iniquo governatore, lo ammazzano. I giudici e i boia incaricati di scoprire il colpevole, per quanto interroghino gli abitanti e le abitanti del villaggio, ricevono in risposta solo il suo nome, Fuenteovejuna. Poiché la guerra stanca, viene concessa un’amnistia generale. L’anonimato che rivendicano gli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita, di una federazione di resistenze all’oppressione. Così come l’ostinazione dei gilet gialli ormai non ha bisogno di gilet per diffondersi, noi assistiamo alla presenza crescente di una vita che aspira a essere libera e non si preoccupa né di religioni, né di politica, né di strutture gerarchiche, statali e globali. La vita è innanzi tutto il fucile rotto che distrugge la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere nell’avere. Radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che il Potere che dice di combattere si incrosti in lui. Ciò che è vivo porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di cancellare l’istante che appartiene al tempo della distruzione, del lavoro e della morte, per privilegiare il momento e il desiderio della vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Volete una prova alla rovescia? Osservate, mentre scrivo queste parole, la formidabile onda di nichilismo autodistruttivo che sommerge le società corrose dal cancro della rendita. Do meno importanza all’adesione di una grande maggioranza che all’intelligenza degli individui autonomi, che è, grazie alla sua voglia di autenticità, l’antidoto all’intellettualismo intellettuale. Lenta ma ineluttabile, la trasformazione della prospettiva illumina il rinnovamento e il luogo dove di compie la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La battaglia individuale e quella per una società autenticamente umana sono una stessa cosa. La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti religiosi, né di partiti. Il piacere è la violenza pacifica del vivente che prolifera in noi e intorno a noi. Il piacere è la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzare quella violenza. Ricostruiamo la Terra, facciamo dei nostri paesi, dei nostri quartieri e delle nostre regioni altrettante oasi che il vivente faccia tornare inespugnabili! -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo fa parte del libro Aprire l’impossibile, di Raoul Vaneigem, pubblicato da Comunizar (fratello di Comune). Nel numero 3/2025 della Revista Critica anticapitalista di Comunizar è apparso con il titolo completo Aboliamo la depredazione, torniamo alla nostra umanità. Chiamata alla creazione mondiale di collettività in lotta per una vita umana libera e autentica. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione per Comune di Marco Codebo. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Riferimento a Restos de Cœur o Restaurants du Cœur, traducibile come “Ristoranti del cuore”. Si tratta di un’organizzazione caritativa fondata in Francia, nel 1985, su iniziativa del comico Coluche per distribuire cibo e piatti pronti ai più poveri della società. È ancora in attività. 2 Come è discusso più avanti nel testo, nel significato del francese destinée è compreso un principio attivo, la capacità di creare se stessi ricreando il mondo. 3 “Viva la morte, muoia l’intelligenza!” fu il grido delle truppe fasciste di Franco durante l’assedio di Madrid. Si tratta di uno slogan coniato da José Millán Astray, primo tenente colonnello della Legione spagnola, durante un discorso di Miguel de Unamuno, rettore dell’università di Salamanca, in occasione della celebrazione del Día de la Hispanidad, nel 1936. Unamuno rispose al grido di Millán: “Vincerete ma non convincerete”. 4 “Terra di nessuno”, in inglese nell’originale. 5 “Uomo che si è fatto da sé”, in inglese nell’originale. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Aboliamo la depredazione proviene da Comune-info.
Il capitalismo nella sua nudità
-------------------------------------------------------------------------------- A proposito di predatori e cura: a Trieste, invece, di garantire accoglienza a persone che hanno presentato regolare richiesta di protezione alla questura, dalla stessa questura, vengono sgomberate. Diverse associazioni e cittadini hanno promosso negli ultimi giorni un presidio permanente all’ngresso del Porto Vecchio -------------------------------------------------------------------------------- Oggi siamo arrivati a una condizione storica nella quale c’è un salto dal politico-sociale al biologico, o, all’ontologico: voglio dire al senso ultimo della vita umana e della vita tutta nelle forme che conosciamo… Viviamo sempre più – o sopravviviamo – infatti in una condizione storica in cui si manifesta la contrapposizione fra un capitalismo sfrenato, che appare nella sua nudità come una cultura della violenza e quindi della morte senza più limiti e paraventi, e la vita intera. Perciò agire contro-e-fuori del capitalismo oggi è una forma di resistenza, di lotta e di cura per la vita stessa intesa come comunità dei viventi nelle loro differenze, tutte funzionali, però, al mantenimento della vita. Il capitalismo invece è diventato, letteralmente, un’escrescenza tumorale. Ha estratto la morte dal contesto della vita e l’ha rivolta contro la vita intera per trasformarla in merce e denaro. La morte non è contro la vita: ne fa parte, nel succedersi delle generazioni che, lasciando il posto l’una all’altra, possono trasmettersi un messaggio di continuità della vita culturale e naturale. Oggi questa trasmissione tende a interrompersi, a livello culturale e naturale, mettendo a rischio la vita stessa. Possiamo dirlo con altre parole: nella vita da sempre ci sono elementi di cura ed elementi di predazione (i viventi che si nutrono di altri viventi). Le vicende storiche europee hanno portato invece a una cultura, il capitalismo, che ha esasperato gli elementi predatori, stravolgendo il contesto vitale: è diventato così predazione della vita stessa, come oggi ciascuno può vedere con i propri occhi, se non è diventato cieco. -------------------------------------------------------------------------------- Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi è da anni impegnato con i migranti della cosiddetta rotta balcanica a Trieste. Il suo ultimo libro è Per un comunismo della cura (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > La guerra organizza l’accumulazione del capitale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il capitalismo nella sua nudità proviene da Comune-info.
La guerra organizza l’accumulazione del capitale
TUTTE LE GUERRE IN CORSO SONO ARTICOLAZIONI DELL’ACCUMULAZIONE DI CAPITALE, A PRESCINDERE DAGLI STATI COINVOLTI. EPPURE UNA PARTE DELLA SINISTRA E ANCHE DEI MOVIMENTI SPESSO OPTA PER ALCUNE POTENZE CAPITALISTE (RUSSIA, CINA) O PER POTENZE CAPITALISTE CON SISTEMI STATALISTI TEOCRATICI (IRAN), RISPETTO AD ALTRE. “CREDO CHE QUESTA POLITICA SIA DANNOSA PER I MOVIMENTI E I POPOLI, POICHÉ DIVIDE E GERARCHIZZA, SCEGLIENDO VITTIME DIFENDIBILI MENTRE ALTRE VENGONO DIMENTICATE… – SCRIVE RAÚL ZIBECHI – CHE SENSO HA PER NOI CHE COMBATTIAMO PER UN MONDO NUOVO ESSERE ALLEATI DEL CAPITALISMO DI STATO?”. CI SONO CREPE IN QUESTO ORIZZONTE? “LA SPERANZA STA NEL VEDERE COME ALCUNE COMUNITÀ E ORGANIZZAZIONI TRACCIANO PERCORSI DIVERSI – AGGIUNGE ZIBECHI – IN PARTICOLARE, LA DETERMINAZIONE ZAPATISTA A PORRE FINE ALLE PIRAMIDI CI MOSTRA CHE, TRENTUNO ANNI DOPO LA RIVOLTA, CONTINUANO A PERCORRERE ALTRE STRADE, IMPARANDO DAI PROPRI ERRORI, CHE È L’UNICO MODO PER CRESCERE…” Nei giorni scorsi, il quartiere romano San Lorenzo ha ricordato il bombardamento del 19 luglio 1943. Scrive il collettivo Esc: “La memoria non è solo un esercizio sterile… Quest’anno abbiamo ricordato il 19 luglio con lo sguardo alla guerra di ieri, per interpretare e contrastare quelle di oggi… Abbiamo attraversato le strade del quartiere in una passeggiata resistente, abbiamo ascoltato le storie della Roma ribelle e popolare di Guido Farinelli e Rosa Mordenti…” -------------------------------------------------------------------------------- È vero che alcune grandi aziende traggono profitto dal genocidio palestinese, come riportato dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, Francesca Albanese. È inoltre emerso pochi giorni fa che il Pentagono ha destinato il 54% della sua spesa a società private tra il 2020 e il 2024, il che equivale alla sbalorditiva cifra di 2,1 trilioni di dollari per rimpinguare le casse di una manciata di grandi multinazionali della guerra, secondo il Quincy Institute for Responsible Statehood. Ma la realtà del capitale va ben oltre i profitti di poche aziende, al punto che oggi possiamo affermare che l’accumulazione di capitale non può essere sostenuta senza violenza, senza distruggere popoli, senza massacrare donne e bambini. Le guerre sono articolazioni dell’accumulazione di capitale, a prescindere dagli Stati nazionali coinvolti nei conflitti. La complessità della situazione attuale risiede nella sovrapposizione di vari tipi di guerre che tuttavia hanno obiettivi simili. Siamo di fronte a guerre tra Stati, come nel caso tra Russia e Ucraina, o, se preferite, tra NATO e Russia. Ci sono anche guerre aperte, sebbene non dichiarate, tra Stati e popoli, come nel caso tra Israele e il popolo palestinese. Ma abbondano anche altri tipi di guerre, come le “guerre alla droga”, come in Messico, o le guerre contro le gang, la povertà e persino i cambiamenti climatici. Sebbene ognuna abbia le sue particolarità, tutte mirano allo stesso obiettivo: attaccare e sfollare le popolazioni per facilitarne l’espropriazione. Ammetto che questo modo di analizzare la realtà possa trascurare alcune caratteristiche di queste guerre, ma credo sia necessario schierarsi fermamente dalla parte dei popoli che, ripetutamente, sono vittime dell’accumulazione capitalista e, quindi, delle guerre. Una parte della sinistra e anche i movimenti sociali stanno optando per alcune potenze capitaliste (Russia, Cina) rispetto ad altre (Stati Uniti, Unione Europea), con il pretesto di combattere il “nemico principale”. Questo li porta a stringere alleanze con coloro che si oppongono all’impero statunitense. Credo che questa politica sia dannosa per i movimenti e i popoli, poiché divide e gerarchizza, scegliendo vittime difendibili mentre altre vengono dimenticate. È sorprendente che il popolo palestinese venga difeso, una questione del tutto giusta, ma nessuno parla del popolo ucraino o russo, i cui figli stanno dando la vita per difendere interessi stranieri in una guerra per la quale non sono stati consultati. In un caso, si tratta del capitale occidentale sostenuto da Trump e dall’Unione Europea. Nell’altro, si tratta di un regime autoritario e capitalista, come quello guidato da Putin. Ancora più gravi, trovo i movimenti che difendono apertamente la Cina o l’Iran, come sta accadendo in diversi casi in America Latina. Non possiamo accettare che le guerre tra grandi stati siano guerre intercapitalistiche? Che senso ha per noi che combattiamo per un mondo nuovo essere alleati del capitalismo di stato? Perché questo è uno degli argomenti principali di coloro che sostengono che la Cina, o stati simili, siano diversi dall’Europa o dagli Stati Uniti perché è lo stato a dirigere l’economia. Molti sostengono che i lavoratori in Cina abbiano accesso all’assistenza sanitaria pubblica, all’alloggio e ad altri benefici sociali, creando così una differenza rispetto ai paesi centrali del capitalismo attuale, dove gran parte di questi servizi è privata. Mi dispiace dire che trovo questa argomentazione molto debole e che il capitalismo di Stato è capitalista tanto quanto la proprietà privata. Sembra evidente che lo Stato continui a dividere le acque tra i settori popolari e i movimenti. Non si comprende che lo Stato-nazione è mutato. L’uno per cento se ne è appropriato per trasformarlo in uno scudo per i propri interessi. Gli stati sociali che si sono espansi dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa non esistono più. La politica anti-immigrazione del vecchio continente è solo un esempio di questo brutale cambiamento. Quando vediamo la polizia in California usare auto senza targa e agenti in uniforme con i cappucci in testa per arrestare i migranti, dovremmo riflettere sulla direzione che stanno prendendo gli stati, che alcuni ancora difendono come leve di emancipazione collettiva. Capisco che la cultura politica, come tutte le culture, si evolve molto lentamente, quindi cambiare il modo di fare le cose non sarà facile. Molti gruppi e individui continuano a pensare e ad agire come se il capitalismo non fosse mutato e a ripetere ripetutamente che le cose sono sempre le stesse. La speranza sta nel vedere come alcune comunità e organizzazioni tracciano percorsi diversi. In particolare, la determinazione zapatista a porre fine alle piramidi ci mostra che, trentuno anni dopo la rivolta, continuano a percorrere altre strade, imparando dai propri errori, che è l’unico modo per crescere. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI SILVIA RIBEIRO: > L’economia del genocidio e le aziende tecnologiche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra organizza l’accumulazione del capitale proviene da Comune-info.