Pensare la politica al tempo di Gaza
I POPOLI E I SINGOLI NON UTILI A UN POTERE, LA CUI MATRICE È L’ECONOMIA DI
MERCATO, POSSONO ESSERE ELIMINATI, CIOÈ SPOSTATI COME PACCHI OPPURE UCCISI. IL
GENOCIDIO DI GAZA NE È LA MANIFESTAZIONE PIÙ FEROCE. MA GIÀ LA REPRESSIONE E
L’INDIFFERENZA VERSO LE PERSONE CHE MIGRANO, SCRIVE GIAN ANDREA FRANCHI, HANNO
PREPARATO NEGLI ULTIMI VENTI ANNI IL TERRENO VERSO IL SALTO ISRAELIANO
NELL’ABISSO DI UN FUTURO CATASTROFICO. “DIRE CATASTROFICO, PERÒ, NON IMPLICA
AGGIUNGERE ANCHE L’AGGETTIVO INEVITABILE: L’IMPEGNO, AD ESEMPIO, DI COLORO CHE
SI RICONOSCONO INTORNO ALL’INCONTRO QUOTIDIANO CON I MIGRANTI DELLA ROTTA
BALCANICA NELLA PIAZZA DELLA STAZIONE DI TRIESTE, “PIAZZA DEL MONDO”, VUOL
PROPRIO ESSERE UN TENTATIVO DI INIZIARE UNA PRATICA MEDITATIVA DI COSTRUZIONE
POLITICA DI RELAZIONI COMUNITARIE, NEL RIFIUTO DI OGNI FORMA DI DELEGA… SI
TRATTA DI INIZIARE A COSTRUIRE RESISTENZA SOCIALE A PARTIRE DAL RAPPORTO CON
L’ALTRO BASATO SULLA COSTRUZIONE DI FORME COMUNITARIE UNITE DALLA RECIPROCITÀ
DELLA CURA… UN IMPEGNO CHE È POLITICO NELLA PRECISA MISURA IN CUI È DIVENTATO
ORMAI, SIC ET SIMPLICITER, UN IMPEGNO PER LA VITA…”
Trieste, “Piazza del mondo” (settembre 2025)
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È oggi d’estrema evidenza la necessità di aprire cammini verso una dimensione
comunitaria e collettiva della vita e non solo umana. Scrivo queste parole
mentre cerco di compiere, a modo mio, questo cammino, anche se spesso mi viene
il dubbio di segnar tracce sulla sabbia di fronte a un mare sempre più cupo…
È in atto e ben visibile una distruzione della vita in quanto tale sotto la
sferza del dominio assoluto del valore di scambio, nato nella Cultura europea fa
XVI e XVII secolo per venir imposto ovunque. Il genocidio di Gaza ne è la
manifestazione di fronte al mondo senza nessuna mediazione (e con troppo modeste
forme di resistenza). Il ministro israeliano Bezalel Smotrich ha detto “La
striscia è un Eldorado da spartire con gli Usa”. Si tratta di una frattura nella
continuità storica mai avvenuta prima: l’eliminazione attuale e tendenziale di
un intero popolo, giuridicamente chiamata genocidio1, viene eseguito di fronte
al mondo intero. “Genocidio” è una parola ormai giornalisticamente banale.
Primo Levi, nell’introduzione a I sommersi e i salvati, ricorda il “cinico
ammonimento” dei militi SS: “E quando anche qualche prova dovesse rimanere
[delle camere a gas], e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti
che voi raccontate sono talmente mostruosi per essere creduti: dirà che sono
esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto”2.
Quello che sta quotidianamente accadendo a Gaza dal 7 ottobre del 2023 proclama,
invece, pubblicamente che le popolazioni e i singoli non utili a un potere, la
cui matrice è l’economia di mercato, ovvero il capitalismo, possono essere
eliminati: uccisi o spostati come pacchi inutili per essere abbandonati in
qualche luogo remoto.
Questa violenza radicale era in germe nella violenza originaria del nascente
capitalismo in Europa, con la sottrazione dei beni di uso collettivo e la
violenza contro tutti i gruppi sociali considerati improduttivi e,
contemporaneamente, in forme ab origine largamente “genocidarie”, nella
conquista europea del resto del mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale, questa consapevolezza si era attenuata e anche
culturalmente rimossa, in quella fase storica che possiamo chiamare
“socialdemocratica”, legata anche alla diffusione di dinamiche sociali di
contestazione e di lotta.
Oggi, senza più alcun velame giustificatorio, chi non è utile al sistema del
potere economico può essere tolto di mezzo.
Stiamo entrando in una nuova fase della storia del mondo, che indicherei come
una sorta di atroce sintesi di vecchio e di nuovo. Vecchio: perché ultimo frutto
velenoso dell’esasperazione della cultura dell’individualismo concorrenziale che
porta alla lotta di tutti contro tutti; una società della concorrenza è una
società concepita come lotta per vivere e sopravvivere, è una società che porta
nelle sue viscere la solitudine e la guerra. Nuovo, perché è ormai scomparsa
ogni copertura ideologica, ad esempio l’ideologia dei “diritti umani”, ma
soprattutto perché il potere capillare intrinseco alle dinamiche economiche sta
ormai palesemente distruggendo la vita intera, senza più contrasti efficaci,
limiti o cautele.
Ci sono qua e là resistenze, lotte e anche tentativi d’innovazione, ma al
momento non in grado di contrastare veramente il processo distruttivo
dell’equilibrio essenziale alla vita, così come la conosciamo, che appare sempre
più inesorabile. L’intera natura – l’ambito del nascere per tutti i viventi – è
coinvolta in un illimitato processo di mercificazione, ovvero di distruzione
funzionale al capitalismo. Bisogna prendere atto che questa cultura, nel suo
sviluppo incontrollato e che ormai appare incontrollabile, sta distruggendo le
basi della vita.
Occorre far risuonare nella sua profondità originaria una parola, resa banale,
come “natura”: la vita è la temporalità del nascere, del crescere e del finire.
Finisce un percorso di vita per dar seguito ad un altro: il nascere e il morire,
l’iniziare e il finire, costituiscono due facce di una sola dinamica vitale e,
nel caso umano, storica.
Detto in termini più astratti, la vita si articola nel ciclo di riproduzione e
produzione (produzione del necessario alla riproduzione, il nutrimento), ma è
ormai storicamente lanciata verso la rottura dell’equilibrio fra queste due
dinamiche fondanti. Siamo, infatti, catturati da un processo in cui la
produzione si sta mangiando la riproduzione, perché il fine ultimo della
riproduzione è diventato la produzione di oggetti che non sono necessari o anche
utili alla riproduzione, al contrario, molto spesso nocivi, servono soltanto
alla loro trasformazione in valore di scambio, in denaro, peraltro dissolto
ormai in meccanismi finanziari. Potere allo stato puro, sganciato da ogni fine
che non sia uno smisurato impulso ad invadere – a divorare – ogni anfratto
vitale.
Questa dinamica illimitata di potere ha oggi, nel genocidio pubblico di Gaza, la
sua proclamazione, locale ma con valenza generale: non c’è più alcun limite a un
potere che si manifesta come trasformazione della vita in merce, ossia in valore
di scambio fine a sé stesso. È l’instaurazione di un illimitato dominio
antropologico sulla vita – ma di cui responsabile è solo una piccola parte degli
umani -, che sta mettendo in crisi l’equilibrio della vita stessa.
Oggi noi non possiamo più avere un immaginario e quindi neanche delle
rappresentazioni del futuro. Possiamo avere speranze e desideri per il futuro,
senza però un rapporto con la dinamica storica effettiva e quindi con possibili
alternative. Ciò significa che è avvenuta, per la prima volta nella storia, una
rottura a livello mondiale della trasmissione fra le generazioni, una rottura
della narrazione storica, cioè del senso stesso della vita, sociale e singolare:
un genitore oggi non può prefigurare al figlio il mondo in cui vivrà da adulto.
Oggi mettere al mondo un figlio è qualcosa di diverso da ieri: un bambino è
gettato in un mondo, le cui dinamiche future ci sono ignote. In tal modo la vita
storica tende a perdere senso: per quel che riguarda i singoli, sembra evaporare
in un pulviscolo caotico di cunicoli individuali, di drammi di sopravvivenza,
coinvolti e sconvolti da lotte mondiali di potere.
È necessario allora, per ridare senso alla nostra vita e a quella dei nostri
figli e delle generazioni future, scavare a fondo. Il compito antropologico,
storico, politico di ridare senso alla vita deve partire dalla consapevolezza
che la vita e la morte non sono contrapposte, come la cultura moderna
dell’Occidente vuol imporre, ma sono complementari – altre culture
dall’Occidente distrutte o recluse lo sapevano. Ciò significa fondare un
orizzonte narrativo politico, quindi comunitario, nel quale accogliere il
transito generazionale: la morte. È questo il fondamento di una vita storica
comunitaria.
Accogliere la finitezza di ogni singola vita come intrinseca portatrice di un
messaggio del proprio transito vitale da lasciare agli altri, a chi resta e a
chi nasce, vuol dire creare le condizioni della trasmissibilità fondamento della
storia in quanto comunicazione fra le generazioni.
Questo è il tratto, che si può chiamare “ontologico”, alla base della dimensione
comunitaria della vita, che l’umano potrebbe e dovrebbe esaltare, mentre ha
finito con l’esaltare un’altra dimensione, che pur nella vita esiste: la
predazione.
Il capitalismo, accentuando al massimo il fenomeno predatorio contenuto in
natura entro limiti certi, ha finito con il contrapporre la morte al contesto
della vita e della storia. Ha annullato la funzione culturale della morte: il
passaggio del testimone nel tempo della narrazione storica, il passaggio
comunicativo fra le generazioni. Ha reso la morte soverchiante e distruttiva per
il tramite di una illimitata espansione dell’umana capacità di agire, divenuta
predazione della vita stessa. Ha modificato, in tal modo, le basi stesse della
vita, riducendola a materiale da predazione: consumare la vita invece di
alimentarla: una dinamica tendenzialmente suicida.
Questo è accaduto nel contesto di una complessa dinamica storica di rimozione
dell’angoscia propria della condizione umana: l’angoscia per la morte che abita
ogni vivente umano e la cui elaborazione è stata il fondamento di tutte le
culture: dalle prime mitologie alle religioni più complesse.
Rimozione è il contrario di elaborazione.
Sembra opportuno un rapidissimo cenno storico.
Questo percorso storico di rimozione è sorto in Europa, principalmente, nei
meandri della corrente calvinista della Riforma del cristianesimo agli inizi di
ciò che chiamiamo “epoca moderna” (XVI-XVII secolo). Sommariamente: sotto la
spinta iniziale del bisogno di capire il misterioso disegno divino sulla
condizione umana – chi sarà salvato e chi perduto3 – il calvinismo poneva il
senso e lo scopo della vita nell’affermazione sociale, intesa ormai in termini
individuali e non comunitari, che si veniva rapidamente identificando con il
successo sociale, cioè in definitiva economico, sciolto infine da ogni
connotazione religiosa. La vita e l’opera di Benjamin Franklin, il cui volto
appare esemplarmente sulla banconota da cento dollari, offre una narrazione
perfettamente adeguata di questo fondamentale passaggio storico
nell’affermazione di una vita operosa tutta dedita, con incrollabile serenità,
all’”onesto guadagno”. Nel 1787 scrive: “Più vivo, più colgo prove convincenti
di questa verità, ovvero che è Dio a governare le umane faccende”; ma per il
tramite del denaro quale controllo e misura del tempo4: “il tempo è denaro”, “il
denaro è di sua natura fecondo e produttivo”. In Franklin, infatti, si può
leggere con grande chiarezza il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia
nell’operatività quotidiana: il denaro usurpando e sterilizzando la misteriosa e
drammatica fecondità della vita, riducendola alla misura quantitativa, produce
un ordine astratto ma rassicurante e una garanzia di controllo del futuro che
trova nella “Rivoluzione“ americana l’esempio più caratteristico5.
Lo ribadisce molto bene un’ulteriore considerazione dei nostri giorni: “La Banca
Mondiale ha fatto sua la teoria dell’economista peruviano Hernan de Soto secondo
cui solo il denaro è produttivo, mentre la terra in sé è sterile e se utilizzata
per la sussistenza è causa di povertà…”6.
Il denaro viene visto come garanzia di vita e, almeno, sopravvivenza. Ma oggi
possiamo capire che è vero esattamente il contrario.
L’atteggiamento di sereno distacco di Franklin non è alternativo alla violenza
più estrema. Ne possiamo trovare un esempio estremamente significativo un secolo
prima, proprio nel pieno di quella rivoluzione calvinista in Inghilterra, che è
alla base di questa dinamica storica, nell’invasione dell’Irlanda da parte del
New Modern Army guidato da Cromwell.
La violenza estrema, giunta fino al genocidio, e la serena operosità di ogni
giorno sono perfettamente complementari, come il fascismo e la socialdemocrazia,
dinamiche diverse ma che perseguono lo stesso scopo7.
Oggi, nella fase di violento neoliberismo che sta imperversando senza più alcun
limite, possiamo ben dire che, abbandonato ogni tipo di giustificazione, il mero
potere del valore di scambio indica pienamente il valore, ovvero il grado di
potere, di un individuo o di un gruppo.
Importante, però, è cercar di comprendere le origini di un fenomeno storico che
oggi sembra ormai privo di ogni capacità di autocontrollo.
In tale contesto, di cui ho sommariamente accennato la matrice storica,
l’impegno con il nuovo fenomeno migratorio, nato e sviluppato da circa un
ventennio, è un punto fondamentale d’azione e d’osservazione.
Dato che chi scrive è un cittadino europeo, mi riferisco soprattutto al
comportamento degli Stati europei e “occidentali” in cui, – sotto l’affaticata
egemonia degli Usa -, appaiono senza veli l’indifferenza per la vita e la
supremazia indiscutibile del valore di scambio8, accompagnati dalla fine di
tutto ciò che si raccoglieva storicamente sotto l’etichetta “diritto”.
L’indifferenza per le decine di migliaia di morti migranti in Mediterraneo, e
anche nei Balcani, il cinico ma tradizionale uso politico del razzismo – e, in
particolare ricadendo in casa nostra, la complicità dell’attuale governo, con le
bande criminali libiche, esemplificato dal “caso Almasri” – sono stati un
passaggio fondamentale verso il salto israeliano nell’abisso di un futuro che si
preannuncia catastrofico.
Questi morti indifferenti sono un esercizio della libertà di uccidere il cui
culmine “osceno” – ma di un fuori scena sbattuto brutalmente in scena – si
manifesta quotidianamente a Gaza: Israele è l’avanguardia sperimentatrice di un
capitalismo ormai pienamente epidemico.
Dire “catastrofico”, però, non implica aggiungere anche l’aggettivo
“inevitabile”: l’impegno, ad esempio, di coloro che si riconoscono intorno
all’incontro quotidiano con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della
stazione di Trieste – la “Piazza del Mondo” – vuol proprio essere un tentativo
di iniziare una pratica meditativa di costruzione politica di relazioni
comunitarie, nel rifiuto di ogni forma di delega a qualsivoglia pretesa di
rappresentanza. Si tratta di iniziare a costruire resistenza sociale a partire
dal rapporto con l’altro basato sulla costruzione di forme comunitarie unite
dalla reciprocità della cura, prevedendo in futuro anche possibili nuove forme
di lotta: è necessario essere consapevoli che siamo ormai in una nuova diffusa
forma di Terza guerra mondiale, che non è esagerato chiamare guerra contro la
vita. Il nostro compito oggi, concreto e quotidiano, sta nel raccogliere il
messaggio inciso dalla violenza delle frontiere sui corpi umiliati e offesi dei
migranti, corpi memori delle violenze genocide di secoli di colonialismo, ma che
ci indicano anche un futuro di devastazione dell’equilibrio vitale. Ciò implica
il coinvolgimento in un impegno che è politico nella precisa misura in cui è
diventato ormai, sic et simpliciter, un impegno per la vita.
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1 Ho qualche remora a usare il termine “genocidio”, nato in ambito giuridico e
fortemente segnato da questa origine in termini di potere.
2 Primo Levi, I sommersi e i salvati, in Opere Complete, vol. II, Einaudi 2016,
p. 1147.
3 Questa è la lettura di Weber nell’Etica protestante e lo spirito del
capitalismo, 1904-1905.
4 D. Sassoon, Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia, Garzanti, Milano
2024, p. 110.
5 Un articolo di Francesco Raparelli, sul “Manifesto” del 13 marzo 2025, p. 15,
intitolato “Musk innovatore nel solco della storia Usa”, tenta un collegamento
storico fra una figura come quella di Elon Musk e la storia statunitense di cui
Franklin è figura esemplare, proprio in riferimento al testo di Sassoon.
6 Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons,
Ombre corte, Verona 2018, p.28. LEGGI ANCHE:
> Le insurrezioni delle donne
7 È necessario però ricordare che all’epoca di Cromwell sorsero anche i
Levellers e altri movimenti di contestazione radicale e di scelte comunitarie.
federici8 Da notare il lucido conciso articolo di Chiara Mattei ‘Austerità,
militarismo, censura: Trump ci mostra il loro legame’ sul “Fatto quotidiano” del
18 agosto, p. 12
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Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi è da anni impegnato con i migranti
della cosiddetta rotta balcanica a Trieste. Il suo ultimo libro è Per un
comunismo della cura (DeriveApprodi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli
sono leggibili qui.
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