
La resistenza psichica in Palestina
Comune-info - Friday, May 23, 2025A Gaza e in Cisgiordania non c’è un “post”. Il trauma è continuo, cumulativo e irrappresentabile secondo i canoni discriminanti della psichiatria occidentale. Per questo lo straordinario lavoro portato avanti da alcune équipes di presidi psicosanitari in Cisgiordania e in ciò che resta di Gaza si articola in diverse pratiche di restituzione di una differente rappresentazione della società palestinese: gruppi di ascolto, socialità in spazi aperti, laboratori di cucina e di abiti tradizionali, incontri collettivi di ex-prigionieri, piantumazione. Tutti momenti di comune. Incontro con Samah Jabr, psichiatra e scrittrice

Samah Jabr, psichiatra, scrittrice, dirige l’unità di salute mentale del Ministero della sanità palestinese. Nell’aula gremita del dipartimento di economia dell’Università “Roma Tre” il 20 maggio ha presentato il suo ultimo documento sul massacro psicofisico in atto a Gaza e Cisgiordania: Il tempo del genocidio. La casa editrice “Sensibili alle foglie”, si è fatta promotrice della fenomenale pratica psicosociale della dottoressa Jabr, pubblicando i suoi precedenti lavori, Dietro i fronti (2019) e Sumud (2021) che offrono allo sguardo italiano lo spaccato atroce delle conseguenze psichiche ed esistenziali della sistematica distruzione di vite in Palestina ad opera del governo di Israele (qui una sua testimonianza in video).
Il fulcro della pratica difficile della psicoterapia a Gaza, a Gerusalemme e in Cisgiordania consiste nella necessità di ritessere il mondo da parte delle donne e dei bambini, quando sopravvivono alle bombe, alle torture e alla detenzione. Avendo l’esercito israeliano preso di mira il sistema sanitario palestinese (140 specialisti detenuti, torturati e uccisi, ospedali distrutti e non più in grado di curare anche quando si interrompono i bombardamenti), e usando la fame come arma, le difficoltà maggiori consistono nel mancato riconoscimento dei traumatismi che l’occidente insiste nel rubricare come sintomi di stress post-traumatico.
Ma, dice la dottoressa Samah, in Palestina non c’è un “post”. Il trauma è continuo, cumulativo e irrappresentabile secondo i canoni discriminanti della psichiatria occidentale. Riporta un’indagine di Al-Jazeera che in un giorno esplodono 42 bombe, 12 edifici distrutti, 15 morti, 6 bimbi, 35 bimbi feriti con una media di 60 morti giornalieri. Il che significa ospedali e strutture sanitarie distrutte; il che significa ancora che il sistema sanitario palestinese per molti anni non esisterà. Se da più di 100 giorni Israele blocca cibo, acqua e qualsiasi aiuto umanitario, la fame diviene un’arma di genocidio. Citando un’inchiesta della rivista scientifica “Lancet”, disponibile sul suo sito web, la dottoressa Jabr mostra che i 60.000 morti palestinesi dal 7 ottobre 2023 a oggi devono essere moltiplicati per 4,5 e il moltiplicatore riguarda gli scomparsi, i deceduti per malattia e per inedia che non sono conteggiati dalle autorità.

Il tutto configura una catastrofe psichica che eccede in maniera significativa i criteri della sintomatologia del disagio comunemente rubricati nella categoria del manuale diagnostico statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, peraltro “affetta” da intrinseca raccomandazione alla dipendenza da psicofarmaci, oltre che da deflagrante logica coloniale, come già avevano dimostrato Franz Fanon e Michel Foucault all’epoca dell’indipendenza algerina e oltre.
La pratica clinica in Palestina deve infatti fronteggiare: ragazzi e ragazze con disordini alimentari. Depressione e senso di colpa di madri per aver generato figli e figlie in un mondo assassino. Deficit di attenzione in studenti e studentesse brillanti costrette a studiare in scuole con curricula israeliani, pena la chiusura. Piccoli che portano interamente sulle loro spalle la responsabilità di intere famiglie con padri uccisi o detenuti.
La politica diventa un affare personale, dice Samah Jabr, in un trauma collettivo prodotto socialmente. Perché la condizione traumatica non risale al 7 ottobre ma a 77 anni di occupazione, di furto della terra e di pulizia etnica variamente articolata. E lo stesso concetto di trauma non può essere generalizzato perché la Palestina non è un territorio con confini da stato territoriale, ma è l’insieme frammentato di almeno cinque comunità tra Gaza, Gerusalemme, West Bank. Le condizioni psicosociali delle diverse énclaves sono diverse per ognuna e quando si parla di disagio psichico bisogna anzitutto chiedersi di quale gruppo parliamo.
La salute in generale dipende molto dall’aiuto delle ONG e delle organizzazioni umanitarie il cui limite però è avere un approccio biomedico alla “psicopatologia”, pur essendo essenziale il loro intervento, oggi in gran parte vietato.
La violenza, integrata nella vita quotidiana palestinese, la disoccupazione di massa, la povertà, la fame e l’esperienza soffocante dei check points producono invidia, competizione e vittimizzazione che sono versioni diverse del cosiddetto stress post-traumatico secondo la psichiatria mainstream.
Il colonialismo psicologico ne è l’effetto, perché laddove la clinica considera solo il trauma individuale e argomenta del possibile ritorno ad una situazione pre-trumatica con un approccio “omeostatico” e neutrale, niente di tutte queste stupidaggini ha a che vedere con la reale condizione di deprivazione dei palestinesi.
La letteratura occidentale, dice la dottoressa Jabr, non ha mai riconosciuto la Nakba e parla di stress post-trauma e di depressione quando la realtà è che il 70 per cento dei palestinesi non distingue tra depressione e oppressione. Il che significa che lo stato d’animo prevalente è rabbia e umiliazione, peraltro alimentate dal regime di apartheid, con l’affievolirsi progressivo della volontà di resistenza.
Esempio: donne che vedono la propria abitazione rasa al suolo, si sentono male e vengono portate ai pronto soccorso israeliani e si sentono dire che stanno fingendo i loro sintomi.
Come dunque fronteggiare l’emergenza? Il lavoro della dottoressa Jabr e delle incredibili équipes dei pochi presidi psicosanitari ancora operanti in Cisgiordania e in ciò che rimane di Gaza si articola in diverse pratiche di restituzione di una diversa rappresentazione della società palestinese: gruppi di ascolto, socialità in spazi aperti, laboratori di cucina e di abiti tradizionali, incontri collettivi di ex-prigionieri, piantumazione, tutti momenti di comune, che consentono a gruppi, villaggi, amicizie, di continuare la vita di resistenza ormai secolare degli abitanti.
Il Sumud, resistenza e persistenza di vita, è tutto questo, ed è bellezza, incredibile capacità istintiva di esistere, di radicarsi laddove la terra frana, è dura, è resa deserto, appropriata e violata. Eppure le immagini che Samah Jabr ci mostra annunciano una realtà incancellabile: i bimbi si incontrano, costruiscono aquiloni, li fanno volare, poi rientrano nei gruppi, occhi magnifici di vita vera. Poi, il cavallo di Jenin: Dopo il bombardamento israeliano della città i bambini hanno costruito con le macerie un cavallo che troneggia nella piazza distrutta. L’esercito israeliano ha bombardato ancora quella piazza; i bambini hanno ricostruito il cavallo.
Il Sumud è terapia, letteratura, arte, terra. Solo persone che hanno vissuto questa esperienza possono capirlo, dice Samah Jabr. Anche la giustizia ha un effetto terapeutico. Mentre “qui” si parla per lo più di pace, “là” solo la negoziazione di una giustizia pacifica è lecita ed è essenziale. Il riconoscimento del dolore e la solidarietà hanno un effetto terapeutico. Perché non riguarda solo “loro”, ma anche “noi”, anzi in primo luogo riguarda chi oggi è silente, complice, vuole armarsi e continuare ad uccidere.
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