Il centro non può reggere

Comune-info - Saturday, May 17, 2025

In tutto il mondo milioni di persone in questo momento desiderano che tra qualche anno Trump, Orbán, Modi, Erdogan, Meloni siano solo un ricordo, un brutto sogno. Desiderano dirigersi verso il centro, ad esempio, per far vincere ai democratici le elezioni statunitensi di medio termine. Eppure dobbiamo considerare che il centro non ha retto, non ha potuto reggere. Le soluzioni keynesiane non possono più reggere. Dobbiamo considerare che le elezioni non sono uno spazio di cambiamento in profondità. Possiamo pensare in modo diverso? Dov’è la speranza in questa situazione? Dov’è la speranza mentre il mondo guarda cosa accade a Gaza? In un simposio contro il capitalismo organizzato addirittura alla Harvard Business School, John Holloway ha detto che la speranza è innanzitutto un grido di rifiuto, un No. In qualche modo, dobbiamo entrare in contatto perfino con la rabbia risentita che sta dietro l’ascesa della destra e reclamarla come nostra, vivendo una nuova cultura politica anti-identitaria, una politica che cerca e discute. Dobbiamo pensare a un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle dignità. “Una follia. Una follia è presentarsi alla Harvard Business School e dire che dobbiamo abolire il capitalismo. Eppure è una follia necessaria…”. Possiamo pensare dunque partendo dalla disperazione, che non è angoscia. L’angoscia è il rifiuto di cercare una risposta, è una resa, una complicità. La disperazione invece è la speranza nella tempesta, la speranza nella, contro e oltre la tempesta. È la lotta per creare un mondo diverso

Roma, 10 maggio 2025. Foto di Nilde Guiducci

1. Gaza. Sperare è come esprimere l’indicibile. Gaza. L’estrema espressione del dolore nel mondo di oggi. Dolore. Resistenza. Speranza.

Gaza. Impossibile venire qui (l’autore si riferisce a convegno promosso a Harvard Business School di Boston, Ndr) senza confessarvi la mia esitazione nel parlare proprio nel cuore del paese che promuove e sostiene l’uccisione e la mutilazione spietata e sistematica di migliaia e migliaia di persone, molte delle quali bambini, l’annichilimento della speranza.

Gaza. Vengo qui nonostante i miei dubbi, per esprimere la mia solidarietà con voi, che vivete in questo paese, nonostante il governo che subite ora e il governo che avete sofferto in passato. E per esprimere il mio più profondo rispetto e ammirazione per gli organizzatori di un evento con parole sovversive e pericolose come Razza, Genere e persino Equità. E per tutti voi che, in un modo o nell’altro, state camminando nella direzione sbagliata.

Gaza, perché nulla mostra più chiaramente gli orrori del capitalismo contemporaneo, le terribili conseguenze di un sistema sociale governato dal denaro. Gaza, perché dobbiamo rompere il silenzio, il terribile silenzio di complicità che incombe sul mondo, la normalizzazione dell’angoscia. L’angoscia incombe su di noi. Ha molti nomi: Gaza, Sudan, il riscaldamento globale, il massacro della biodiversità, Trump, Milei, Orbán, la crescente minaccia di una guerra nucleare. Eppure, in mezzo a tutto questo, siamo venuti qui per dire No, è tempo di parlare di speranza, persino di speranza radicale.

Non possiamo tuttavia accettare l’angoscia, perché uccide il pensiero scientifico. Ci resta solo una domanda scientifica: come si può rompere la dinamica sociale che ci spinge verso la nostra stessa autodistruzione, l’autodistruzione dell’umanità?

A questa domanda non si può rispondere con l’angoscia. L’angoscia è il rifiuto di cercare una risposta, una resa, una complicità, per quanto riluttante. Diciamo no all’Angoscia. Anche se questo non ci regala una speranza vacua e felice. C’è una parola che assomiglia all’angoscia, ma diversa: Disperazione [l’autore elabora il ragionamento su due termini che suonano simili ma non sono sinonimi: despair, che traduciamo come angoscia (afflizione o sconforto), porta alla rassegnazione; desperation, che traduciamo come disperazione, porta all’azione estrema, Ndt].

La Disperazione non è angoscia. È il rifiuto di affliggersi, il rifiuto di rinunciare alla rabbia e alla speranza, anche in un mondo che ci dice che siamo pazzi se pensiamo ancora che un altro mondo è possibile. Nei dizionari, la disperazione è spesso equiparata all’angoscia, ma non è così. Ho trovato una definizione che si avvicina di più a ciò che sento: “Disperato: mostrare la volontà di correre qualsiasi rischio per cambiare una situazione negativa o pericolosa”. Forse non “qualsiasi rischio”, ma sì, la furia di cambiare una situazione negativa o pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione pericolosa, la determinazione a cambiare una situazione negativa, dove la situazione negativa è il capitalismo contemporaneo.

La disperazione di cambiare il mondo perché sappiamo che non deve essere così, che abbiamo la capacità di creare qualcosa di diverso. La disperazione include la frustrazione, la frustrazione di ciò che potremmo fare, la frustrazione della nostra ricchezza, della nostra capacità di creare qualcosa di diverso.

La disperazione è la speranza nella tempesta, la speranza nella e contro la tempesta, la speranza nella-contro-e-oltre la tempesta. Forse l’unico modo di parlare di speranza radicale oggi è attraverso la disperazione, disperata speranza-contro-speranza [i latini avrebbero usato l’espressione “spes contra spem”, NdT]. La speranza come negazione dell’anti-speranza. La speranza come resistenza.

Chi segue queste cose (e dovreste farlo, perché sono stati gli esponenti più eloquenti della speranza negli ultimi trent’anni) si renderà conto che la mia attenzione alla disperazione riecheggia l’intervento di Marcos nell’incontro di dicembre organizzato dagli Zapatisti. La sfida, ha suggerito, è quella di “organizzare la nostra disperazione”.

2. Probabilmente tutti noi che siamo qui abbiamo un senso di comune disperazione. Il capitalismo in sé genera disperazione. In tutti i modi possibili. A livello personale, con la profonda e crescente incertezza della vita: come posso entrare all’università o trovare un lavoro, come posso ottenere la cattedra, trovare un posto decente dove vivere, in che tipo di mondo vivranno i miei figli, come posso far nascere dei bambini in un mondo come questo? Tutto ciò fa parte di una crescente disperazione sociale: guardate cosa sta succedendo ai migranti, guardate la distruzione della biodiversità da cui dipende la vita umana, guardate il riscaldamento del pianeta, sempre più fuori controllo, guardate l’ascesa della nuova Destra, guardate il crescente pericolo di nuove guerre.

Foro Quarticciolo ribelle
Una donna del movimento sudafricano Abhalali baseMjondolo, “coloro che vivono nelle baracche”

Allora, da dove prendiamo la nostra disperazione, la nostra speranza, malgrado tutto? La cosa più ovvia, nella situazione attuale, è dirigersi verso il centro, sperare che i Democratici possano vincere le elezioni di medio termine, che né Trump né Vance vincano le elezioni del 2028, che tra dieci anni guarderemo a Orbán, Meloni, Modi, Erdogan, Trump come a un brutto sogno, una sfortunata parentesi nella storia, che ci sarà un ritorno a qualcosa che possiamo riconoscere come civiltà.

Ma c’è una frase che è stata spesso citata negli ultimi anni. La frase, “il centro non può reggere”, viene da una poesia di W.B. Yeats, “La seconda venuta” (in coda la poesia completa).

Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga
il falco non può udire il falconiere;
ogni cosa crolla; il centro non può reggere;
assoluta l’anarchia dilaga nel mondo,
dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque
il rito dell’innocenza annega.
Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori
rigurgitano furia di passioni.

Il centro non può reggere. Ovviamente, qui negli Stati Uniti e in altri Paesi, il centro non ha retto. Eppure rimane resta come una sorta di calamita per la nostalgia, un’attrazione irresistibile per il mondo che si sta disgregando intorno a noi. Questa spinta nostalgica verso un ritorno alla normalità è probabilmente ineludibile, forse persino desiderabile. Eppure dobbiamo considerare che il centro non ha retto, non ha potuto reggere, e che forse dobbiamo andare oltre la lotta per il suo ripristino.

3. Ora pensiamo al centro attraverso la prospettiva dell’attuale offensiva. Gli attacchi al pensiero critico nelle università, gli attacchi ai migranti, la dissoluzione dell’ordine mondiale basato sul diritto, e così via. Forse, più in generale, possiamo pensare al centro come a una sorta di contratto sociale globale, una sorta di normalità stabilita dopo la Seconda guerra mondiale che comprende un’idea di democrazia come auspicabile, livelli minimi di benessere sociale, un certo modo di intendere la politica, del tipo di relazioni che dovrebbero esistere tra gli Stati, una certa idea dei diritti umani e dello Stato di diritto.

Non voglio certo idealizzare questa normalità. È una fase della civiltà del denaro, una civiltà criminale basata sullo sfruttamento, il razzismo, il sessismo, il colonialismo, la repressione, l’incarcerazione e la distruzione di altre forme di vita.

Ciononostante, esiste una sorta di normalità, una sorta di contratto sociale, a volte indicato come stato sociale keynesiano, in seguito attaccato radicalmente da quello che molti chiamano neoliberismo. Eppure questo stato, se visto soprattutto dal punto di vista del presente, ha mostrato più continuità di quanto possa sembrare: lo stesso sistema di relazioni tra gli Stati, un simbolico rispetto per la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto.

4. Questo centro è stato messo sempre più in discussione dopo la crisi finanziaria del 2008. È allora evidente che non può essere dato per scontato.

A prescindere dal fatto che si trovi o meno attraente quella normalità, o almeno migliore di quella che viene ora imposta, ci sono almeno due ragioni per pensare che non sia più realistica.

In primo luogo, essa aveva una base materiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata il risultato della grande ristrutturazione del capitale ottenuta attraverso la distruzione e il massacro della guerra. Questa spinta alla produttività e alla redditività è stata sempre più compressa a partire dalla fine degli anni Sessanta e dall’inizio degli anni Settanta. Dopo il crollo di Bretton Woods e il cambiamento di politica sotto Reagan e Thatcher, la riproduzione del capitalismo si è basata sempre più sulla costante espansione del debito, cioè non sul plusvalore effettivamente prodotto ma sull’aspettativa di una futura produzione di plusvalore. Negli ultimi quarant’anni c’è stata un’espansione senza precedenti del debito su scala globale, che ha significato un’espansione della fragilità sistemica, espressione del divario tra l’accumulazione di valore e la sua espressione monetaria. Questa fragilità è amministrata principalmente dalla Fed e da altre banche centrali, ma è esplosa con la crisi finanziaria del 2007/8 e la minaccia di collasso rimane latente e costante. In altre parole, la base economica della normalità a cui siamo stati abituati è diventata sempre più fragile. Il neoliberismo, lungi dall’essere la politica di un capitale trionfante, è (o era) la politica della sua crisi.

L’altra ragione per dubitare della possibilità di ripristinare il centro è il grado di rabbia e disperazione che ha generato. La promessa di una crescente prosperità personale in cambio dell’accettazione del sistema, ignorandone la forza distruttiva, ovvero una parte cruciale del contratto sociale del dopoguerra, non è stata mantenuta per gran parte della popolazione, negli ultimi quarant’anni o quasi. L’accumulo apparentemente casuale di enormi ricchezze da parte di pochi ha contribuito a incanalare la rabbia in rancore. Come ha detto Abahlali baseMjondolo, l’importante movimento degli abitanti delle baracche in Sudafrica, dopo le rivolte razziali nel 2020, “Abahlali ha sempre avvertito che la rabbia dei poveri può andare in molte direzioni. Abbiamo avvertito più e più volte che siamo seduti su una bomba a orologeria”.

Il centro, la normalità degli ultimi anni, è stato costruito su due bombe a orologeria: la fragilità finanziaria e il crescente risentimento. Probabilmente non è auspicabile né realistico ricrearlo. Dobbiamo certamente lottare per la difesa della democrazia liberale, ma dobbiamo guardare oltre, andare più avanti e chiederci se la situazione attuale possa creare una svolta nello sviluppo di una politica radicale della speranza.

5. Se il centro non può reggere, può farlo la destra? Non possiamo saperlo. Di certo ci sta spingendo in direzioni che vanno al di là della nostra capacità di immaginare, in termini di distruzione climatica e possibilità di una guerra nucleare, forse riuscirà a creare un incubo per l’umanità. Ma è anche possibile che crolli, da un lato, di fronte all’opposizione popolare, e dall’altro, delle forze del mercato: paradossalmente ciò accade a causa della sua incapacità di comprendere e accettare la realtà del potere del denaro.

Incontro di Mediterranea al Centro Fonti di San Lorenzo, Recanati

Dov’è dunque la speranza in questa situazione? Innanzitutto, deve essere un grido di rifiuto, un No. Mi piace pensare che questo sia qualcosa che tutti noi qui condividiamo. Si riflette nelle proteste di massa degli ultimi fine settimana e si spera che queste continuino a crescere, crescere e crescere.

Ma dove può portarci questo No? Forse al centro, alla democrazia liberale. Forse alle prossime elezioni le persone ragionevoli vinceranno, i risentiti perderanno. Ma allora la fragilità continuerà a crescere e anche il risentimento. In qualche modo, dobbiamo entrare in contatto con la rabbia risentita che sta dietro l’ascesa della destra e reclamarla come nostra. La nostra risposta non può essere “Siate ragionevoli, mettete da parte la vostra rabbia!”, ma piuttosto “Condividiamo la vostra rabbia contro un sistema che ci umilia e ci uccide. Proviamo a vedere come sviluppare la nostra rabbia in modo diverso”. La speranza oggi è davvero una questione di come incanalare la nostra rabbia.

La rabbia dei poveri può andare in molte direzioni, dice Abahlali. Una direzione sembra essere dominante al momento: la rabbia come rancore. Ma c’è anche un’altra rabbia, espressa da migliaia e migliaia di movimenti in tutto il mondo (e, speriamo, da questa conferenza).

Si tratta di quella che gli Zapatisti chiamano “digna rabia”. Un’espressione difficile da tradurre, ma forse si può chiamare rabbia dignitosa, o rabbia giusta: una rabbia che nasce dall’oppressione quotidiana della società esistente e ci indirizza verso un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità. In altre parole, una rabbia contro il modo in cui sono organizzate le relazioni sociali (capitalismo) che spinge verso la creazione di un altro mondo, un mondo fatto di molti mondi. Una rabbia contro il dominio del denaro e una spinta verso lo sviluppo della vita.

Una rabbia fatta di risentimento e una rabbia fatta di speranza. Qui c’è una questione di grammatica, la grammatica dell’identificazione. Il risentimento produce identificazione: dirige la sua rabbia contro gruppi specifici di persone, siano essi migranti o accademici di Harvard. Si scaglia contro l’élite come gruppo di persone, ma non mette in discussione il sistema che produce l’élite o i migranti. L’ascesa della destra è un’esplosione di politica identitaria che disumanizza, trattando i gruppi di persone come oggetti o categorie astratte. L’identificazione è un processo che parte da una rabbia indefinita e la concentra su oggetti umani specifici, che siano neri, arabi, ebrei, stranieri, trans. Il processo di identificazione viene rafforzato dai gruppi di destra, ma è anche profondamente radicato nella società esistente. Lo Stato è un processo di identificazione: la sua stessa esistenza è la proclamazione di una netta distinzione tra “noi” e gli altri, gli stranieri, che possiamo maltrattare e, quando necessario, uccidere. L’esistenza stessa dello Stato come forma di organizzazione sociale è un processo di costruzione di “alterità”, una scuola di fascismo e di guerra. Cittadini.

Una politica della speranza parte dalla stessa rabbia identificata dalla destra, ma resiste al processo di identificazione. Inondandolo.

Una politica della speranza è necessariamente una politica anti-identitaria, non nel senso di negare l’identità, ma nel senso di andare verso, contro e oltre di essa. Siamo indigeni, ma la nostra lotta va oltre, per un mondo basato sul riconoscimento della dignità umana. Siamo Curdi, una nazione oppressa, ma la nostra lotta va oltre, per la creazione di un mondo diverso. Lottiamo contro il riscaldamento globale, sappiamo che non è solo una questione di combustibili fossili, combattiamo invece contro un mondo in cui lo sviluppo è plasmato dalla ricerca del profitto. Laddove una politica identitaria chiude per dare risposte, una politica della speranza apre e pone domande. Preguntando caminamos, camminiamo facendo domande, come dicono gli Zapatisti.

Una politica della speranza è una politica che chiede, cerca, discute. La sua forma di organizzazione ha una lunga storia, costantemente rinnovata: l’assemblea, il consiglio, il comune, una forma di organizzazione pensata per promuovere l’espressione di opinioni e la discussione di soluzioni, lontana dallo Stato o dal partito che stabilisce la linea da seguire. Un luogo come questo dove possiamo dissentire, dove possiamo dire “questo è quello che voglio dire”. Tu cosa ne pensi?”. Un luogo in cui si condivide la rabbia e le etichette si confondono semplicemente grazie a quella condivisione.

6. La speranza, quindi, è una rabbia dignitosa, una rabbia determinata ad abolire un sistema sociale che ci sta distruggendo, e determinata a creare un mondo basato sul riconoscimento reciproco delle dignità. Una follia. Una follia è presentarsi alla Harvard Business School e dire che dobbiamo abolire il capitalismo. Eppure è una follia necessaria. Ci sono molti segnali che indicano il perdurare dell’attuale forma di organizzazione sociale come incompatibile con la sopravvivenza della vita umana. Certo, il capitalismo è sempre stato una combinazione di creazione e distruzione, ma ora è il suo lato distruttivo a dominare sempre di più. La speranza è follia. La speranza è disperazione che cammina sull’orlo dell’abisso dell’angoscia. Ma dobbiamo accettare la nostra follia, per esprimerla con forza. Perché dobbiamo vincere. Questa volta, noi, i soliti sconfitti, dobbiamo vincere, o altrimenti sedere a godersi la corsa verso la catastrofe, verso la possibile estinzione.

7. Concludo con una piccola storia raccontata da Marcos nell’incontro organizzato dagli Zapatisti alla fine di dicembre. Egli racconta come i giovani Zapatisti, tecnicamente avanzati, che sono riusciti a organizzare la diretta streaming dell’evento, sono riusciti anche a stabilire un collegamento telefonico con una comunità indigena dell’anno 2145. Così Marcos chiama la comunità e al telefono risponde una ragazzina. Marcos chiede “Come state?” e lei risponde “Dipende”. E Marcos pensa “che risposta assurda, perché non poteva rispondere un adulto?”. E dice, un po’ più forte: “Come stai Tu?”. E la ragazza ripete, più chiaramente: “Dipende. Da te”. Dipende. Da noi. Se quella ragazzina esisterà mai. O in quali condizioni. La speranza non è un gioco o una virtù, è la lotta per creare un mondo diverso.

La Seconda Venuta (W. B. Yeats)

Roteando e roteando nel cerchio che s’allarga
il falco non può udire il falconiere;
ogni cosa crolla; il centro non può reggere;
assoluta l’anarchia dilaga nel mondo,
dilaga la marea sporca di sangue, e ovunque
il rito dell’innocenza annega.
Ai migliori manca ogni certezza, mentre i peggiori
rigurgitano furia di passioni.
Qualche rivelazione di certo s’avvicina
la Seconda Venuta, di certo s’avvicina
la Seconda Venuta! E non appena pronunciata
un’immensa immagine emanata dallo Spiritus Mundi
mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto
una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo,
occhi vuoti e impietosi come il sole,
avanza sulle lente cosce, mentre attorno
vorticano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto
La tenebra ancora torna, ma ora so
che venti secoli d’un sonno di pietra
furono oppressione e incubo per una culla a dondolo,
e quale bestia informe, giunto infine il suo tempo
avanza senza grazia per Betlemme, a prender vita?

(Traduzione di Alfredo Rienzi, 2016) – (larecherche.it)

Questo testo è stato preparato per un simposio promosso alla Harvard Business School dal titolo Radical Hope. Traduzione per Comune di Marcella Ravaglia.

Nell’archivio di Comune gli articoli di Holloway sono leggibili qui. Il suo ultimo libro è La speranza in un tempo senza speranza (Ed. Punto Rosso).

John Holloway e Marcella Ravaglia hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura

La versione dell’articolo in inglese:

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