Askatasuna: associazione a resistere

Pressenza - Wednesday, December 3, 2025

La minaccia di sgombero è un tratto identitario di ogni centro sociale, e mi viene di pensarlo leggendo un pezzo su Askatasuna che ricorda sommariamente le tappe della sua storia, risalente ancora prima della sua nascita ufficiale. Alla fine degli anni Ottanta, con la fine del terrorismo e del movimento operaio, si diffonde il fenomeno delle case occupate da anarchici e punk. Nasce pure un piccolo nucleo legato all’autonomia operaia, ispirato soprattutto al Leoncavallo di Milano. Nel 1989, quando il centro meneghino viene sgomberato e riappaiono le molotov, a Torino si decide di «invadere» una scuola vicino al centro, dove oggi sorge Askatasuna. Dopo lunghe trattative con il Comune, l’edificio comunale è liberato in cambio di uno spazio ai Murazzi, dove nascerà il Csa.

Anche questo elemento, la trattativa col nemico per negoziare spazi e differire lo scontro, è un tratto immancabile, ma a differenza del primo non è armonizzabile con la proiezione immaginaria di un centro irriducibile di antagonismo radicale al sistema. È questa mediazione affidata alla militanza di subcomandanti, senza nome per il pubblico, che ha permesso al centro sociale sul Po di sopravvivere ed essere riconosciuto, anche sul piano giudiziario ottenendo il riconoscimento di centro culturale e l’assoluzione per presunti reati e organizzazione terrorista.

In effetti sul palco di Askatasuna si animò un movimento musicale simbolo della Torino di fine secolo, capace di scalare poi le classifiche con i Subsonica, ma anche fondamentali relazioni internazionali. In quegli anni: “Suonano gruppi baschi, rafforzando la fascinazione verso la lotta popolare di «Euskadi Ta Askatasuna» e le battaglie dell’Eta. Così forte che il nome Askatasuna, che in basco significa «libertà», è scelto nel 1996, quando da un corteo studentesco autorganizzato un gruppo di ragazzi rioccupa l’ex asilo comunale.” È considerato questo l’inizio della storia, il suo atto di nascita ufficiale.  Ma una storia la si vede dalla serie di biforcazioni che prende il percorso dei sopravvissuti, e questa è a cavallo di due secoli.

Per vederne il tracciato dobbiamo trovare dei guadi e superare la scena di quella onda lunga delle pratiche e organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ‘70. Per arrivare alle nuove generazioni che vedemmo sfilare nei cortei no global di quegli anni che si definirono come una stagione, matura e forse già chiusa con il G8 di Genova.

È dopo di quello che vale quanto estrapolo da un articolo di giornale: “Le «tute bianche» del Leoncavallo o del Pedro di Padova scelgono la disobbedienza, mentre quelli dell’Askatasuna coltivano il mito della lotta anche nel nuovo secolo. Se altri spazi occupati a Torino, come il «disobbediente» Gabrio, lanciano i vermi per fermare la presentazione di un libro sulla Repubblica di Salò, quelli dell’«Aska» sfilano nei cortei e si scontrano con la polizia.

Nel 1999, durante il primo maggio, criticando la sinistra che non si oppone ai bombardamenti su Belgrado, provano a prendere la testa della Festa dei lavoratori. La risposta delle forze dell’ordine è durissima ed è raccontata in un documentario, Rosso Askatasuna, con i militanti sul tetto per impedire lo sgombero. Da allora sempre in prima linea nelle manifestazioni antifasciste, nei picchetti contro gli sfratti e soprattutto in Val di Susa, nella lotta No Tav che fonde l’ambientalismo dell’antinucleare e il mito della resistenza popolare.”

Ed eccola una parola chiave: resistenza. Una parola che sposta il discorso su un versante che è sempre presente in ogni movimento di emancipazione soggettiva. La resistenza ha a che fare col corpo, lo costruisce come una sostanza che permane nel tempo. Senza scomodare il trascendentale kantiano nella rivisitazione di Heidegger, è questa cosa che prende forma e media la sensibilità e l’intelletto. In fisica è questo che definisce la resistenza come la capacità di sostenere uno sforzo prolungato nel tempo contrastando il decadimento. O, se ci spostassimo in un campo psicanalitico, la detumescenza di ogni protesi fallica. Ma la resistenza del corpo a cui mi riferisco è in questo verso un nodo tra la parola e l’immaginario.

È l’immaginario una resistenza al corpo fatto a pezzi, una sponda che permette alla frammentazione reale una ricomposizione soggettiva, una integrazione speculare. Nello specchio concavo con cui Lacan lo spiega, il vaso è vuoto e i fiori sono fuori, ma nell’immagine “io” li vede, si vede guardarli, come se fossero un corpo glorioso. Ecco, quello sono io, quelli siamo noi.

Credo di avere in passato contribuito a portare qualche fiorellino da posizionare in quelle forme vuote, sebbene abbia spesso declinato gli inviti a celebrare memorie e vittorie (sono ironico) dei movimenti antagonisti. Mi viene un ricordo di quando Piero Bernocchi, in un social forum a Firenze nel 2003, mi disse scherzando che lo avevano invitato a Salonicco, potrei sbagliarmi ma il senso è quello, per raccontare ai greci che si stavano organizzando nei comitati di base come si doveva fare. Ebbene, perché ridere? Perché noi avevamo poco più di 10.000 iscritti e loro dieci, o venti e forse trenta tanto! Ma all’immaginario poco importa, perché quello che conta è una prospettiva che centri il vaso vuoto riempiendolo.

Oggi come ieri. Sì, perché tutti abbiamo bisogno di uno specchio per essere qualcuno. Talvolta siamo sì quello, ma non solo… e varia il peso che diamo al “moi” che si specchia rispetto al “je” che tiene il discorso.

Se devo gonfiare il petto ed esibire il piumaggio, nel mondo animale di cui siamo una parte, è perché sto rinviando lo scontro o addirittura per sostituirlo con altro. Come se ad certo punto dicessi: ma dai è solo un gioco! Oppure: cosa sei disposto a darmi in cambio di una deposizione delle armi? O ancora: guarda che sei come me, non mi vedi? Ma il gioco delle soluzioni discorsive, sebbene limitato dalle traduzioni linguistiche, è illimitato. Come negli interrogatori che alternano poliziotto buono a poliziotto cattivo.

A meno di non averne più di parole.

Strambata. I miei fratelli pelosi a quattro zampe prima alzano il pelo e si mettono in attenzione, poi ringhiano e contraggono i muscoli, infine, se l’altro non lascia scelta, il morso. Il boxer raramente, almeno per la mia esperienza, scarica il morso sull’avversario. Umano troppo umano, preferisce la sequenza ludica alla lotta per la vita o la morte. Se la inaugura, però, non lo fermi. È la sua tempra, la sua resistenza.

Su Infoaut Giorgio Rossetto, uno dei leader storici, oggi ci spiega: «L’Intifada palestinese è lo scontro di massa tra giovani ed esercito. Dopo anni di pacifismo e non violenza, ha contribuito a costruire l’immaginario di uno scontro reale, ampio, radicale e capace di creare consenso».

Il commento prosegue: “Una lotta che si fa anche nei tribunali, tra condanne e assoluzioni. Come nel marzo 2025, quando il giudice respinge la tesi che Askatasuna sia un’organizzazione criminale strutturata. La sentenza è accolta tra grida e applausi e una rivendicazione: «Siamo un’associazione. Ma a resistere».”

Michele Ambrogio