Non permetteremo che il suo razzismo ci usi, signor Merz

Comune-info - Tuesday, October 28, 2025
Foto di Nilde Guiducci

Le parole del cancelliere tedesco Friedrich Merz non sono una semplice scivolata lessicale: sono il segno di una deriva profonda. Quando un leader parla di “problemi nel paesaggio urbano” riferendosi alla presenza di migranti, trasforma la realtà umana in una questione estetica, come se la diversità fosse un difetto da correggere. È un linguaggio che spoglia le persone del volto, riducendole a elementi di disturbo da eliminare, e prepara culturalmente l’esclusione.

Dietro la presunta “preoccupazione per la sicurezza” si nasconde la volontà di rafforzare l’idea che la purezza culturale coincida con la sicurezza sociale. Da tempo, il discorso politico europeo scivola su questo terreno.

Ma ciò che rende ancora più inquietante l’intervento di Merz è l’allusione alle “giovani donne” che — secondo lui — capirebbero le sue parole perché “lo hanno vissuto sulla propria pelle”. Un riferimento opaco ma chiaro, un modo per evocare la paura della violenza sessuale associandola implicitamente alla presenza dei migranti. Qui il linguaggio si fa doppio strumento di dominio: razziale e patriarcale. Da un lato, il potere maschile che si appropria del corpo delle donne come argomento politico; dall’altro, l’uso del razzismo come forma di protezione apparente. È un vecchio schema: il patriarcato promette sicurezza alle donne solo se accettano di diventare parte della sua retorica della paura. In realtà, le mette contro altri vulnerabili e perpetua la logica del controllo. È una costruzione narrativa che affonda le radici nel razzismo coloniale e nel patriarcato: l’uomo bianco che protegge la donna bianca dal maschio straniero.

Molte donne tedesche si sono ribellate a questo uso strumentale della loro esperienza. Sui social e sulla stampa sono circolate frasi nette: “Non nel mio nome”, hanno scritto giornaliste e cittadine. “Non permetteremo che la nostra paura venga usata contro qualcuno”. Alcune attiviste hanno denunciato la “pornografia della paura”, un meccanismo che spettacolarizza la violenza sulle donne per costruire consenso politico. Come ha scritto una commentatrice su Taz: “Quando un uomo al potere parla di noi per giustificare le sue politiche di respingimento, non ci sta difendendo, ci sta espropriando”. In queste voci si riconosce una coscienza lucida: la violenza non si combatte con altri confini, ma smontando le strutture che la rendono possibile, il patriarcato, la disuguaglianza, il linguaggio che separa. Perché i dati ci dicono che la violenza sulle donne avviene principalmente in contesti familiari e domestici, da parte di partner o ex partner.

Non serve militarizzare i confini: serve affrontare la cultura del possesso, la precarietà economica che intrappola le donne, investire nell’educazione alle relazioni paritarie nelle scuole, finanziare adeguatamente i centri antiviolenza invece di lasciarli al volontariato precario.

È paradossale: chi strumentalizza la paura delle donne per giustificare politiche di respingimento è spesso lo stesso che taglia i fondi ai consultori, si oppone all’educazione sessuale, blocca leggi sul congedo parentale paritario.

Oggi la vera frontiera democratica passa dalle parole. Perché è dalle parole che inizia la disumanizzazione: prima si deforma il senso, poi si deforma la realtà. E ogni volta che un politico si appropria della paura per trarne potere, la democrazia perde un pezzo della sua voce.

Ma ovunque ci sono pezzi importanti di società che resistono e si rendono visibili. Una petizione, firmata in poche ore da decine di migliaia di donne, si intitola: “Siamo noi le figlie, e non permetteremo che il suo razzismo ci usi, signor Merz”.

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