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Rompere ghettizzazione e invisibilità
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Il concorso della rassegna Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival quest’anno avrà come tema centrale lo sfruttamento del lavoro. La sicurezza sul lavoro. Al centro dunque c’è il contrasto allo sfruttamento lavorativo che rappresenta una piaga diffusa su tutto il territorio nazionale, caratterizzato dalla violazione in materia di orario di lavoro, salari, contributi, diritti alle ferie, salute e sicurezza lavorativa. Dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria a Saluzzo in Piemonte, a Nardò Puglia, a Latina nel Lazio, a Ragusa in Sicilia, lavoro nero, grigio e caporalato rimangono elementi strutturali sui quali intervenire. Non solo per i lavoratori stranieri ma per tutti i lavoratori e lavoratrici. L’agricoltura crea infatti posti di lavoro per i migranti ma il sistema non riesce a costruire processi di accoglienza degna in grado di interrompere i processi di ghettizzazione e invisibilità. Per questo la rassegna cerca di raccogliere soprattutto storie di vita: storie di accoglienza negata, storie di soprusi ma anche storie di riscatto nella quali la convivenza e lavoro regolare costruiscono economie in grado di rispondere a processi di spopolamento, di crescita collettiva. È importante testimoniare e documentare. Le opere potranno avere una durata massima di 20 minuti. Le opere possono essere inviate in formato con estensione Mpg4 con dimensione massima di 2 GB (si consiglia di inviare I film in formato 1920×1080 con wetransfer). La selezione delle opere è a cura e a giudizio insindacabile della direzione artistica. Al termine della pre-selezione gli autori verranno informati sul risultato telefonicamente o via email. Le opere andranno inviate all’indirizzo email fuoridalghetto2022@gmail.com entro e non oltre il 30 settembre 2025. Data la particolarità del concorso non ci saranno premi in denaro. I vincitori (primo e secondo) riceveranno un cesto di prodotti agricoli della Cooperativa Mani e Terra di Rosarno, inoltre le opere verranno proiettate in tutti gli spazi che organizzeranno eventi e aderiranno al Fuori dal Ghetto. “Il cinema non è solo una fabbrica di sogni – ha detto Ken Loach – È anche strumento di indagine sociale e di supporto alle pratiche sociali, di critica e denuncia delle tante forme di sfruttamento, strumento di raccordo conoscitivo tra culture diverse”. Spiega Ibrahim Diabate, ghanese, operatore di Mediterranean Hope: “Questo festival ci dà la possibilità di dialogare con il territorio e istituzioni. Essere considerati. Dieci anni fa non era possibile. Il nostro punto di vista non viene mai ascoltato. La giuria per il concorso sarà composta da lavoratori braccianti e studenti e cerca di sanare questa mancanza, questo collegamento con il territorio”. Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival è promosso da Mediterranea Hope– Federazioni delle Chiese Evangeliche in Italia, Rete delle Comunità Solidali/Recosol, S.O.S Rosarno con l’adesione di Sea Watch, ResQ, Campagne Aperte, Impresa Sociale Sankara/Caulonia, Ass. Coopisa Cooperazione in Sanità/Reggio Calabria), Ass. Culturale Terra dei Morgeti/San Giorgio Morgeto, Ass. Santa Barbara/San Ferdinando, Equo Sud/eggio Calabria, La Coperta della Memoria Piana di Gioia Tauro, Faro Fabbrica dei Saperi Kiwi impresa sociale/Rosarno, Autogestione in movimento Fuorimercato/Milano, Acmos e Cascina Arzilla/Torino, ICS Consorzio Italiano Solidarietà/Trieste, RiMaflow/Milano, I.C S Trieste. E ancora: Comune-info, Confronti, Altreconomia, Volere la Luna, Pressenza stampa Internazionale, ZaLab laboratorio indipendente/Padova, Carovane Migranti/Torino. Bando GhettoDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Rompere ghettizzazione e invisibilità proviene da Comune-info.
Vicofaro a Pistoia non muore
-------------------------------------------------------------------------------- Vicofaro -------------------------------------------------------------------------------- A Pistoia, il 1° luglio del 2025 sarà ricordato come il giorno della vergogna delle istituzioni, sia civili che religiose. A un manipolo di una ventina di tutori dell’ordine, scomodati addirittura da Taranto, è stato ordinato di dare l’assalto alla struttura di Vicofaro per liberarla della presenza ingombrante degli ultimi sei ospiti del centro, i più fragili, i più bisognosi di cure e contatti umani significativi, i più affezionati a quella che hanno considerato come la propria “casa”, che ha offerto loro riparo e attenzione. Viste le gravi fragilità personali in questione, avremmo desiderato l’intervento di operatori sanitari, psicologi e dello stesso don Massimo Biancalani per rassicurarli e favorire il loro ricollocamento in strutture adeguate. Marziani in assetto di guerra, invece, li hanno affrontati diffondendo il panico e completando la smobilitazione di Vicofaro nella maniera più lacerante possibile. Perché questo colpo di mano conclusivo? Per suggellare la chiusura di Vicofaro, auspicata dalle istituzioni e più volte reiterata, ma finora rinviata? Una vendetta finale che serva a rimettere in ordine gli organigrammi del potere? Anche perché, nelle settimane passate, il ricollocamento degli ospiti del centro di accoglienza, seppure in maniera disorganica e deludente sul piano delle prospettive, è proceduta senza alcuna tensione. La maggior parte dei ragazzi ha accettato le nuove destinazioni mentre i volontari della struttura hanno contribuito a facilitare l’intera operazione, indicando le sedi più opportune in relazione alle esigenze degli stessi ragazzi. Era necessario arrivare a questo punto di rottura? Da anni, lo stesso don Massimo Biancalani e la comunità che gli si raccoglie attorno, hanno ripetutamente chiesto l’intervento delle istituzioni e della società civile. Questo, per definire e concordare un progetto, una rete integrata di residenze protette all’interno della quale Vicofaro avrebbe svolto il ruolo di hub, di centro di prima accoglienza o, come comunemente riconosciuto, di accoglienza di bassa soglia. Tavoli di lavoro, di confronto e di co-progettazione sono stati proposti o semplicemente avviati ma puntualmente naufragati nelle nebbie e nella neghittosità delle istituzioni e della società civile. Vicofaro non ha mai negato la propria disponibilità. Certo, le condizioni dell’ospitalità sono andate sempre più peggiorando visto l’alto numero degli ospiti e la ristrettezza degli spazi e dei servizi. La ristrutturazione dei locali era diventata ineludibile. Perché è stato necessario far incancrenire l’esperienza di Vicofaro e non intervenire per tempo? Qualcuno ha giocato al tanto peggio tanto meglio? Forse ora sono in gioco carriere politiche, ecclesiastiche ed elezioni che hanno agito da detonatore di questa situazione? Una cosa è certa. Nel giro di poche settimane sono state messe a disposizione circa otto sedi per il ricollocamento dei ragazzi, mentre fino a ieri c’era il deserto. Sorprendente. Ormai era stata decisa la chiusura del centro di Vicofaro e così tutti si sono dati da fare. Chiusura? Hanno chiuso i locali, hanno sigillato gli ingressi, ma a dispetto delle esultanze del ministro Piantedosi e del sindaco Tomasi, non hanno potuto sigillare i cuori di tutti coloro che hanno dato vita all’esperienza di Vicofaro, a partire da don Massimo a tutti i volontari e a coloro che in tutta Italia hanno visto in questo centro di accoglienza un modello di umanità, di pace e di fratellanza. Da oggi Vicofaro si moltiplica per dieci, per cento e oltre, si moltiplica nella presenza dei ragazzi ospitati e ricollocati nelle varie sedi, nello spirito e nell’azione dei volontari, degli accompagnatori, degli insegnanti, dei sanitari che sempre sono stati al fianco dei ragazzi e che si faranno promotori di altre 10, 100, 1000 Vicofaro. Annamaria Argentaro, Daniela Banchini, Paolo Bongiovanni, Enrico Campolmi, Martina Chiti, Antonio Fiorentino, Giovanni Ginetti, Isabella Pratesi, Sandra Torrigiani -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato da Antonio Fiorentino, architetto ed esponente del Gruppo Urbanistica di perUnaltracittà di Firenze, su perunaltracitta.org. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO BIANCALANI: > Non smetteremo di accogliere -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Vicofaro a Pistoia non muore proviene da Comune-info.
Cultura e sostegno per l’accoglienza
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Ciac -------------------------------------------------------------------------------- L’odissea dei rifugiati prosegue in un mare insidioso e ostile, in cui le difficoltà della fuga e dell’espatrio sono moltiplicate dai venti delle false narrazioni e delle politiche ostili. Vale la pena a questo riguardo di richiamare solo qualche aspetto del rapporto annuale che Unhcr ha appena pubblicato in occasione della giornata mondiale del rifugiato. Anzitutto, il 73% dei rifugiati, quasi tre su quattro, sono ospitati in Paesi a basso o medio reddito, non nei paesi “sviluppati” del Nord globale. La maggioranza sono sfollati interni: accolti cioè in una zona più sicura del loro stesso paese. Per esempio nel caso del Congo sconvolto dalla guerra (7,8 milioni di rifugiati), otto su dieci sono rimasti all’interno dei confini. Tra chi attraversa una frontiera, il 67% si ferma nei Paesi confinanti: non hanno né le risorse, né la preparazione, e spesso neppure la volontà di andare più lontano. Molti vogliono semplicemente rientrare nelle loro case. Anche una grave crisi come quella del Sudan (2,8 milioni di rifugiati) sta gravando sui paesi vicini: il poverissimo Ciad (1.1 milioni), l’Egitto (603.000), il Sud Sudan, a sua volta coinvolto in un’aspra guerra civile, oltre che agli ultimi posti nell’indice Onu dello sviluppo umano (488.000). Quella dell’invasione dell’Europa o del mondo sviluppato è una delle tante fake news che alimentano paura e rifiuto. In secondo luogo, quasi la metà dei rifugiati sono donne, il 40% minori. A fuggire sono intere famiglie, a volte donne sole con figli piccoli, altre volte minori non accompagnati. È un’umanità dolente e impaurita, non un’onda di rapaci conquistatori. In un panorama globalmente plumbeo (il conteggio è arrivato a 123,2 milioni, sette milioni in più del 2023) spunta anche qualche buona notizia. Quasi 10 milioni di rifugiati (9,8 milioni) sono rientrati nei luoghi di origine, tra cui 1,8 milioni di rifugiati internazionali, anche se non sempre volontariamente. Il cambio di regime in Siria e le speranze di rinascita del paese hanno contribuito a questo risultato. Quasi 190.000 rifugiati hanno invece potuto reinsediarsi in un paese più sicuro, benché la nuova presidenza Trump metta ora in pericolo questo risultato, il più alto finora registrato. Da alcuni Paesi i flussi di profughi tendono a rallentare, come nel caso afghano: c’è da sperare che non sia solo l’esito di maggiore repressione e minore accoglienza. In parallelo, Unhcr ha diffuso altro dati, ricavati da un sondaggio internazionale realizzato in collaborazione con Ipsos. Riguardano la disponibilità ad accogliere, e disegnano un quadro meno pregiudizievole di quanto il dibattito politico avrebbe fatto pensare: la maggioranza delle persone intervistate (22.000, in 29 paesi) pensa che i paesi più ricchi dovrebbero assumersi maggiori impegni nel sostenere i rifugiati. In particolare, lo pensa il 67% degli italiani, sia nei confronti di quelli accolti sul nostro territorio, sia verso quelli ospitati da altri paesi. Inoltre, il 49% degli italiani ritiene che la maggior parte dei rifugiati riusciranno a integrarsi con successo, superando i pessimisti (43%). Altri dati tuttavia sono più contraddittori: il 49% degli intervistati a livello globale vorrebbe la chiusura totale delle frontiere del proprio paese per i rifugiati, anche se in Italia il dato scende a un pur preoccupante 40%. In sostanza, l’opinione pubblica non appare nettamente contraria ai profughi, e lo è tanto meno in Italia. Sembra piuttosto oscillante, contesa fra emozioni contrastanti, incline all’apertura ma indecisa, e quindi manipolabile. Servono buona informazione, dati obiettivi, narrazioni positive, per sostenere quello spirito di accoglienza che tenacemente persiste nel corpo sociale, malgrado l’infiltrazione delle voci dei seminatori di paura e di arroccamento. Il terreno dell’ospitalità si coltiva con un lavoro culturale di cui si avverte più che mai il bisogno. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su “Avvenire” del 20 giugno 2025 (e qui con l’autorizzazione dell’autore). Docente di Sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi ultimi libri L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura e sostegno per l’accoglienza proviene da Comune-info.
Testimoni
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso le chiedono il riscatto”. Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140 persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia. La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi. “Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video. Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa. Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea, codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi, l’importante è che non partano. Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia. Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps, è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni: l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì. Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo tutto alla Corte Penale Internazionale. È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si vede. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.: Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano -------------------------------------------------------------------------------- Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Testimoni proviene da Comune-info.
L’isola dei bambini mai arrivati. C’è chi giura di averla vista navigare
SONO TANTISSIMI I BAMBINI E LE BAMBINE, I RAGAZZI E LE RAGAZZE CHE ATTRAVERSANO IL DESERTO E IL MEDITERRANEO DA SOLI. NEGLI ULTIMI DIECI ANNI OGNI GIORNO UNO DI LORO È SCOMPARSO IN MARE. MANCAVA PERFINO LA MANO DI UNO DEI GENITORI A DARE L’ULTIMO AIUTO -------------------------------------------------------------------------------- Molti di loro sono certamente passati dal Niger, Terra di Mezzo. Li abbiamo incontrati e poi dimenticati. Erano accompagnati da uno o entrambi i genitori oppure confusi tra fratelli, amici e conoscenti d’occasione. Hanno attraversato non si come il deserto e, per gli strani sentieri del destino, sono riusciti a imbarcarsi e tentare il Mare di Mezzo, il Mediterraneo. Secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia Onu per la protezione dell’infanzia l’UNICEF, in dieci anni, almeno 3.500 bambini e bambine hanno perso la vita nel mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale. Questa porzione di mare è riconosciuta come la frontiera più mortale del mondo. Ciò significa, sempre per il rapporto citato, che in questi ultimi dieci anni ogni giorno un bambino è scomparso nel mare. Mancava perfino la mano di uno dei genitori a dare l’ultimo aiuto. Sette bambini su dieci che hanno effettuato la traversata viaggiavano soli. Quanti sono giunti sull’altra riva e interrogati hanno confessato che, durante il viaggio, molti di loro hanno sofferto violenze fisiche e altri sono stati arbitrariamente detenuti. Sono fuggiti da guerre, conflitti, violenze, miseria e soprattutto da una parte d’Africa che ha tradito e venduto il loro futuro ai commercianti di vite umane. I bambini fanno parte delle oltre 20 mila persone morte o disperse nel corso egli ultimi dieci anni nello stesso Mare. L’isola dei bambini si è creata da sé, come per caso, un giorno feriale di un anno che nessuno ricorda. Il numero dei piccoli e delle piccole migranti mai arrivati aumentava al quotidiano e si rese necessario, col tempo, organizzare la vita della colonia e far sentire i nuovi arrivati come a casa loro. All’inizio non è stato facile perché i bambini cercavano di imitare quello che ricordavano della società dei grandi. Armi, guerre, muri come frontiere e parole armate generatrici di violenza e divisione. Si organizzò dunque una prima assemblea aperta a tutti i residenti senza distinzione: si decise all’unanimità che l’isola sarebbe stata guidata senza più tener conto del sistema creato dai grandi. Inventarono strade, cortili, piazze, giochi e feste. Alcuni dei più grandi che già avevano imparato un mestiere si industriarono a trasmettere ad altri il loro sapere. Altri e altre organizzavano la cucina, la cura dei più piccoli e rallegravano la vita dell’isola con canti e danze improvvisate. L’isola delle bambine e dei bambini mai arrivati era anch’essa migrante e, in realtà, non andava da nessuna parte. Si muoveva, invisibile o visibile secondo le stagioni e, come esse, mutevole nei colori e nella forma. Quando, da lontano, spuntava un’imbarcazione i bambini migranti innalzavano una bandiera inesistente e accendevano fuochi sperando che il fumo avrebbe segnalato la loro presenza. L’isola è ben là fino a tutt’oggi e continua a ricevere nuovi ospiti ai quali viene chiesto il nome, l’età e il Paese di origine. Nel caso di neonati i nomi sono scelti a seconda dei giorni di sole, di pioggia e di vento. Non c’è una rotta prestabilita perché l’isola inventa ogni giorno nuovi orizzonti e c’è chi giura d’averla vista passare ma c’era nebbia quel giorno. Alcuni dei primi residenti immaginano che un giorno l’isola dei bambini si trasformerà in un continente che avrà dimenticato per sempre l’arte della guerra. -------------------------------------------------------------------------------- Mauro Armanino, vive a Niamey in Niger. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. Questo articolo è stato inviato anche a ilfattoquotidianot.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’isola dei bambini mai arrivati. C’è chi giura di averla vista navigare proviene da Comune-info.
Un paese che ha bisogno di tutti
TRA I TANTI REFERENDUM CHE IN PASSATO SONO STATI PROPOSTI E VOTATI IN ITALIA, NESSUNO HA RIGUARDATO DIRETTAMENTE E INDIRETTAMENTE BAMBINI E BAMBINE, RAGAZZI E RAGAZZE COME QUELLO SULLA CITTADINANZA DELL’8 E 9 GIUGNO. GRAZIE A QUESTO REFERENDUM VERRANNO INFATTI RIDOTTI DA DIECI A CINQUE GLI ANNI DI RESIDENZA LEGALE RICHIESTI PER POTER AVANZARE LA DOMANDA DI CITTADINANZA ITALIANA CHE, UNA VOLTA OTTENUTA, SAREBBE AUTOMATICAMENTE TRASMESSA AI PROPRI FIGLI E ALLE PROPRIE FIGLIE MINORENNI. QUESTA SEMPLICE MODIFICA MIGLIOREREBBE LA VITA DI OGNI GIORNO DI CIRCA 2,5 MILIONI DI PERSONE, MENTRE SONO OLTRE UN MILIONE I RAGAZZI E LE RAGAZZE CHE, PUR FREQUENTANDO ISTITUTI SCOLASTICI, NON POSSONO AL MOMENTO BENEFICIARE DELLA CITTADINANZA. IN QUESTO ARTICOLO LA RETE MOVI (MOVIMENTO DI VOLONTARIATO ITALIANO), DA SEMPRE IMPEGNATA TRA L’ALTRO SUI TEMI DELLE COMUNITÀ EDUCANTI E DELLA PARTECIPAZIONE (AD ESEMPIO CON IL PROGETTO NAZIONALE SCUOLE APERTE PARTECIPATE IN RETE), SPIEGA PERCHÉ HA DECISO DI ADERIRE ATTIVAMENTE ALLA CAMPAGNA REFERENDARIA IN CORSO Immagine tratta dalla pag. fg Referendum cittadinanza -------------------------------------------------------------------------------- Come MoVI abbiamo deciso di aderire attivamente promuovendo la partecipazione al referendum. La legge sulla cittadinanza in Italia ha oltre trent’anni e risulta ormai disallineata con le esigenze di una società che, dopo tre decenni, è mutata. A oggi risultano riforme mancate e di diritti non riconosciuti rispetto al resto d’Europa. Grazie anche alla nostra esperienza di lavoro sul campo, siamo profondamente convinti che la crescita della nazione si basi su una maggiore uguaglianza e parità di diritti tra tutte le persone che la abitano e che la vivono attivamente con il loro lavoro, le loro famiglie e le tante attività sociali che svolgono. Secondo quanto riportato dall’ultimo Rapporto sullo stato dei diritti in Italia presentato dalla Onlus A Buon Diritto lo scorso gennaio, in questo momento in Italia si stima ci siano 2.500.000 cittadini di origine straniera che in questo Paese nascono, crescono, vivono, lavorano. Sono invece oltre un milione i ragazzi e ragazze che, pur frequentando istituti scolastici in Italia, non possono beneficiare della cittadinanza. Un problema che si ripercuote anche nel caso di nuove nascite andando così a pesare ancora di più sul calo demografico italiano, arrivato oggi ai minimi storici. Ma la legge che disciplina l’acquisizione della cittadinanza italiana ha ben 33 anni, risale infatti al 1992. Da allora, come riporta il sopracitato Rapporto, non si sono registrate particolari novità salvo l’approvazione da parte della Camera dei deputati nel 2015 di un testo che prevedeva da un lato l’acquisizione per ius soli e dall’altro quella per ius culturae. Proposta arrenatasi, circa tre anni dopo, al Senato in prossimità con la conclusione della XVII Legislatura. Il dibattito su una proposta incentrata solo sullo ius scholae, depositata nel 2018, invece è bloccata in parlamento dal 2022. Il decreto Salvini del 2018 ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della revoca della cittadinanza. La norma, di fatto, ha creato una cittadinanza di serie A, di chi l’ha acquisita al momento della nascita e che non può subire la revoca; e una di serie B, cioè di chi l’ha acquisita in un momento successivo e che ne può essere privato dopo una condanna in via definitiva per reati particolarmente gravi in materia di terrorismo ed eversione. Pur comprendendo la necessità di tutelare la sicurezza della cosa pubblica, la norma sembrerebbe non conciliarsi con il principio di uguaglianza sancito in Costituzione. Questa campagna referendaria è un grande segnale che ha visto una mobilitazione importante della società civile e che, finalmente, ha visto le associazioni di nuovi cittadini o di italiani senza cittadinanza in un ruolo cardine nella gestione della campagna. Quella proposta dal Referendum Cittadinanza è una piccola modifica che non risolve tutte le storture di una legge sorpassata come la L.91/1992 ma agevola il raggiungimento dei requisiti per presentare domanda di cittadinanza risultando un grande passo avanti per la vita di milioni di cittadini di origine straniera che in Italia nascono e crescono ma anche per coloro che da anni abitano questo Paese contribuendo alla crescita con il loro lavoro. Ma soprattutto quella proposta è una risposta ai loro diritti a oggi negati: come il poter votare, il partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini. -------------------------------------------------------------------------------- Per approfondire: https://referendumcittadinanza.it/ -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Fare cittadinanza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un paese che ha bisogno di tutti proviene da Comune-info.