Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Seconda parteLE OMBRE DELLA GERMANIA
Dalla disfatta del 1945 alla guerra genocidaria a Gaza a cui siamo costretti ad
assistere in mondovisione, la traiettoria tedesca della memoria della Shoah è
stata tutt’altro che lineare. Se guardiamo ai processi di giustizia del
dopoguerra, il quadro è impietoso. Cito la storica Mary Fulbrook, su circa un
milione di tedeschi coinvolti a vario titolo nello sterminio dei civili ebrei,
solo 6.655 furono condannati alla fine del Novecento, meno del numero di persone
impiegate nella sola Auschwitz.
In La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Hannah Arendt ricorda
che il cancelliere Konrad Adenauer temeva che un grande processo riaprisse tutti
gli orrori e ravvivasse l’ostilità internazionale verso la Germania. Entrambe le
Germanie dovettero fare i conti con un consenso al nazismo diffuso fino alla
sconfitta: in Germania Ovest si preferì riabilitare la maggior parte degli ex
nazisti, reintegrandoli nella vita pubblica; in Germania Est si commemoravano
genericamente i “caduti del fascismo”, secondo la prassi sovietica di non
riconoscere esplicitamente il genocidio degli ebrei, mentre molti quadri minori
del passato nazista venivano assorbiti nella nuova identità antinazista. A ciò
si aggiunse la campagna staliniana contro i “cosmopoliti senza radici”, che
alimentò sospetto verso gli ebrei, accusati di alto tradimento e talvolta
giustiziati.
Nel ventennio successivo alla riunificazione, la centralità pubblica della Shoah
si è stabilizzata come parte della grammatica civile della Repubblica
Federale. Nel 2008 Angela Merkel dichiarò alla Knesset che la sicurezza di
Israele rientra nella ragion d’essere della Germania, impegno ribadito anche dai
governi successivi fino a quello odierno. Nel 2018 la Germania ha istituito
a livello federale, e poi diffuso nei Länder, gli incarichi di commissario per
l’antisemitismo. La maggior parte dei commissari non è ebrea e i mandati
risultano spesso ampi e poco tipizzati.
Come ha scritto la redazione di Jewish Currents in un articolo del
2023, un «anti-antisemitismo concepito in modo discutibile» è talvolta divenuto
meccanismo di legittimazione della germanicità. Parliamo di figure, per lo più
bianche e cristiane, che si presentano come portavoce “ufficiali” degli ebrei,
mettono in scena una ebraicità di facciata (foto con kippah, simbolismi) e
entrano frequentemente in conflitto con ebrei di sinistra in solidarietà alla
Palestina, tra cui figli e nipoti di sopravvissuti, che vengono oggi arrestati
con l’accusa di antisemitismo.
È il terreno in cui tornano il «filosemitismo invadente» di Jean
Améry, l’«allosemitismo» di Zygmunt Bauman e, sul piano geopolitico, il
filosemitismo bellico di cui scrive Enzo Traverso: l’ebreo ridotto a nient’altro
che un oggetto/simbolo codificato attraverso il quale passa la redenzione
tedesca. Sempre la stessa Germania che ha costruito una
solida Erinnerungskultur sulla Shoah e si vanta di una cultura della memoria e
della disponibilità a fare ammenda per le pagine sanguinose del proprio
passato, ha atteso fino al 2021 prima di riconoscere il genocidio coloniale
contro la popolazione dei Nama e degli Herero avvenuto nell’attuale Namibia tra
il 1904 e il 1908. E tutt’ora si rifiuta di parlare di alcun tipo di riparazione
o compensazione.
LA DIDATTICA DELLA SHOAH
«Oggi si dà per scontato che la memoria della Shoah sia stata sempre centrale
nelle coscienze occidentali, ma non è così: i sopravvissuti ebrei del
nazifascismo, una volta rientrati dalle camere della morte, furono perlopiù
accolti con repulsione dall’Europa cristiana e per decenni non furono ascoltati.
Basti pensare a Primo Levi: Se questo è un uomo esce nel 1947 presso una piccola
casa editrice; il riconoscimento pubblico arriva solo nel 1958 con Einaudi, che
inizialmente lo aveva rifiutato.
Nel dopoguerra si registrano violenze antiebraiche in tutta Europa;
in Polonia nascono aggressioni e pogrom contro i superstiti ebrei dei campi
nazisti, e nel 1967–68 una campagna antisemita di Stato che spinge all’esodo
circa 13.000 ebrei. Ci furono episodi analoghi in Slovacchia e in Ungheria.
Nell’URSS e nell’Europa orientale seguirono invece le
campagne “anticosmopolite”, come il processo Slánský a Praga nel 1952. La
memoria della Shoah come oggi la conosciamo prende forma soprattutto dopo il
1989. Il crollo del Muro, l’allargamento a Est e la necessità di un linguaggio
memoriale comune fanno della Shoah il perno simbolico dell’Europa che si
rifonda. Come ha scritto Tony Judt, la memoria della Shoah ha funzionato
da “biglietto d’ingresso” all’Unione Europea, spesso però senza piena assunzione
di responsabilità.
L’Italia mostra tutti i limiti di un’istituzionalizzazione senza responsabilità.
La legge del 2000 sulla Giornata della Memoria non menziona il fascismo e
piuttosto insiste su chi “si oppose”, alimentando il mai sopito mito
degli “italiani brava gente”. In Polonia, l’emendamento del 2018 alla legge
sull’Istituto della Memoria Nazionale ha introdotto restrizioni sul modo di
parlare del collaborazionismo polacco e dell’etichetta “campi polacchi”, con
effetti raggelanti sul dibattito pubblico.
In questa cornice, la Shoah ha iniziato a essere raccontata come “una storia di
progresso”, una cesura morale che avrebbe rimesso l’Europa sulla retta via;
un “inciampo nella storia” dell’Europa illuminista, una frattura
spazio-temporale che confermerebbe, per contrasto, la virtù del percorso
europeo.
Questa narrazione teleologica produce due esiti nefasti che oggi vediamo
manifestarsi in tutta la loro chiarezza; sacralizzazione ed eccezionalità da una
parte, banalizzazione e negazione dall’altra. Credo che ricucire
la Shoah alle genealogie della violenza europea (o forse meglio dire della
violenza della storia del mondo) non relativizzi, ma chiarisca.
Segregazioni, spoliazioni, colonizzazioni, campi e lavori coatti sperimentati
nelle periferie imperiali aiutano a comprendere la peculiarità storica dello
sterminio nazifascista, reso possibile da un apparato tecno-burocratico che fuse
amministrazione, industria e logistica statale propria dell’epoca moderna. Per
uscire dal monopolio del dolore e dalla competizione tra vittime, la didattica
sulla Shoah va intrecciata con le storie rimosse del colonialismo e dei genocidi
dimenticati nel Sud Globale.
Forse, questo riposizionamento potrebbe disinnescare le guerre identitarie e
culturali a cui assistiamo nel presente. La posta in gioco non è una graduatoria
del male, ma un vocabolario condiviso che tenga insieme Shoah, colonialismi e
altre violenze di massa senza eliminare le specificità di ognuna, così che la
memoria possa essere terreno fertile per costruire alleanze e resistenze contro
la violenza razziale».
Link alla prima parte dell’intervista.
Redazione Italia