La paura

Comune-info - Thursday, September 18, 2025

Su Comune non ci stanchiamo di scriverlo: anche in questo tempo angosciante, esistono modi differenti che mettono in discussione la paura che paralizza. Per questo abbiamo bisogno, per dirla con John Holloway, di imparare a pensare la speranza. Intanto però la paura è ovunque, intorno e dentro di noi e le ragioni sono tante. La paura funziona sempre più come l’unica certezza in un mondo che ha perso tutte le certezze. Il vero problema è che si gestisce la paura sociale praticando il terrore politico. La politica istituzionale insomma non elimina la paura, scrive Marco Revelli, ma la rende funzionale a uno scopo: alla produzione dell’ordine come condizione di pace. È questo il muro nel quale siamo chiamati ad aprire crepe. Un capitolo tratto da Questo libro è illegale. Contiene parole che insidiano la “sicurezza” (Altreconomia ed.), realizzato da Osservatorio Repressione e Volere La Luna (con contributi, tra gli altri, di Livio Pepino, Alessandra Algostino, Italo Di Sabato, Federica Borlizzi, Ludovico Basili, Lorenzo Guadagnucci…)

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La Paura entra a far parte con un ruolo centrale nella riflessione sulla Politica assai tardi: in quel punto di passaggio fondamentale tra il “mondo degli Antichi” e il “mondo dei Moderni” che ha come baricentro il XVII secolo. Un nome fra tutti ne sintetizza la valenza “costituente”: Thomas Hobbes, il pensatore a cui, secondo Norberto Bobbio – che gli ha dedicato un’infinità di studi –, può essere attribuita “la prima moderna teoria dello stato moderno”. Come ha scritto nell’opera specificamente a lui intitolata (“Thomas Hobbes”, 1989) “la teoria politica di Hobbes è l’autocoscienza dello stato moderno”. Ebbene, con Hobbes la Paura assume una posizione di assoluta centralità, come fattore fondante non solo della filosofia politica – il che è universalmente riconosciuto – o dell’antropologia, ma anche dell’etica e della gnoseologia. È cioè una categoria “di sistema”: del sistema di pensiero che, forse più di ogni altro, marca con nettezza il passaggio alla modernità. Il “Moderno”, potremmo dire, nasce con nel cuore la Paura.

Carlo Galli, parlando di Hobbes, definisce la paura “l’operatore più potente” incorporato nella politica moderna fin dal suo “nucleo originario”. Roberto Esposito la qualifica come il “terribilmente originario”. Bobbio la pone come fundamentum regnorum, suggerendo che tale è ora “il Timore, non la Giustizia”, come invece aveva affermato una lunga tradizione di pensiero prima classico e poi cristiano. Siamo di fronte, senza dubbio, a una cesura. Di più: a una rivoluzione. Una rivoluzione copernicana, paragonabile a quella che appena un secolo prima aveva sostituito alla teoria geocentrica quella eliocentrica. Anche in questo caso, infatti, si assiste – nel campo delle cose umane – alla nascita di un nuovo “paradigma”.

Nella riflessione filosofica precedente – nel “paradigma degli Antichi” – la Paura era relegata nel campo (secondario) dei vizi e delle passioni negative: delle debolezze umane e dei comportamenti a-sociali. La cosa è macroscopica nel “mondo degli eroi” omerico, in cui la paura – il “provar paura”, il “lasciarsi vincere” dalla paura – era una vera e propria “catastrofe dell’Io”. La peggior perdita possibile: la distruzione del Kleos (della gloria affidata al canto degli aedi che rende immortali). Ma anche nel modello “socratico-platonico-aristotelico” (chiamiamolo così, con una estrema semplificazione) la paura stava sul versante del negativo. Per Socrate (per il Socrate di Platone, nel Lachete) la paura è un difetto di virtù (la mancata applicazione della “scienza del bene” nelle circostanze date) così come il coraggio consiste nella “virtù tutta intera” (nella forza d’animo guidata dall’intelligenza sistemica di ciò che è “bene fare”). Aristotele – il vero sistematizzatore del modello in “paradigma” – ne tratta in più testi, in particolare nell’Etica a Nicomaco e nella Retorica (libro secondo). In entrambi i testi la Paura – con sfumature diverse: come Kakía (Vizio) in un caso, o come Lupe (Dolore o Sofferenza) nell’altro – aveva a che fare con il non essere “al proprio posto” o col non fare “la cosa giusta”. Non saper riconoscere o non riuscire a compiere ciò che, nell’ordine delle cose, è richiesto per essere all’altezza di ciò che si è (per agire, cioè, in modo “orientato al bene”). L’effetto di un qualche deficit (di abitudine, di volontà, di sapienza) che pone chi ne è preda fuori dall’ordine del mondo: ellittico rispetto al proprio “esserci”: all’essere adeguatamente nel mondo.

Gli stoici radicalizzeranno questo concetto, considerando la paura – come quasi tutte le passioni – il frutto di un “errore di giudizio” e del conseguente allontanamento dall’ordine naturale (una rottura della sua armonia); mentre per gli epicurei la paura è un puro non-senso, derivante da ignoranza e irrazionalità dal momento che il sapere di Epicuro mostra che, in realtà, “non c’è nulla di cui aver paura”. Il cristianesimo, infine, porterà alle estreme conseguenze il concetto, leggendo nella Paura il segno del Peccato: essa fu considerata dal cristianesimo delle origini tra i “vizi capitali” in quanto contrapposta a quella tipica virtù teologale che è la Speranza, e dunque “peccato mortale” per sfiducia verso Dio e la Divina Provvidenza.

Si può ben comprendere come l’irruzione dell’approccio hobbesiano abbia costituito un passaggio dirompente. In esso la Paura compare fin dalla radice prima del sistema di pensiero, come parte integrante della sua “antropologia meccanicistica” strutturata sul duplice conatus dell’Attrazione e dell’Avversione (le due determinanti fondamentali dei movimenti umani poste alla base della sua meccanica delle passioni). Dell’Appetito e dell’Avversione. Potremmo dire dell’Amore e dell’Odio o anche di ciò che è considerato Bene (l’oggetto dell’Appetito) e di ciò che è considerato Male (l’oggetto dell’Avversione). Una coppia, questa, che se considerata sul piano dell’Immaginazione (della facoltà umana di proiettarsi nell’aspettativa di cose future) configura l’alternativa tra Speranza e Paura: le due passioni fondamentali, destinate a orientare i comportamenti degli uomini, la prima come anticipazione mentale di un Bene, la seconda come anticipazione mentale di un Male. Una coppia potentissima, che affonda le radici, da una parte, nell’istinto di conservazione o di sopravvivenza (il conatus sese conservandi sive preservandi), dall’altra, nella “paura della morte” (la madre di tutte le paure, potremmo dire). Come scrive Hobbes: “La necessità di natura induce gli uomini a volere e desiderare il bonum sibi, ciò che è bene per loro stessi, e a evitare ciò che è nocivo, ma soprattutto quel terribile nemico di natura che è la morte, dalla quale ci aspettiamo la perdita di ogni potere, e anche la maggiore delle sofferenze temporali al momento del trapasso”. Due sentimenti primordiali, radicati nella natura dell’essere, che però non stanno esattamente sullo stesso piano. La seconda (la Paura) prevale emotivamente e logicamente sulla prima (la Speranza) per il semplice fatto che mentre non è immaginabile un Bene assoluto (un Summum bonum), è immaginabilissimo, anzi probabile, un Male assoluto (un Summum malum), che è appunto la scomparsa di sé. Proviamo a incrociare questa considerazione hobbesiana con una delle più note affermazioni socratiche sulla “paura della morte”, là dove si dice senza mezzi termini che “aver paura della morte non è nient’altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”. Avremo allora la misura della distanza abissale che separa i due sistemi di pensiero e della profondità della cesura consumatasi nel passaggio alla modernità. Qualcosa deve davvero essere accaduto nello stato mentale del tempo per giustificare un simile rovesciamento. E viene a questo proposito illuminante la lucidissima affermazione di Carlo Galli, che, nel registrare questo inedito protagonismo della Paura alla metà del millennio, lo spiega col fatto che “la paura manifesta la propria strutturale produttività solo quando si assume antropologicamente che gli uomini siano ‘rei’ (Machiavelli) oppure timorosi e aggressivi (Hobbes), ovvero quando il legame sociale non consiste più nella eticità né nella naturalità né in un ordine dato”. Soprattutto quest’ultimo: la dissoluzione dell’idea di un “ordine dato”. Di un “cosmo ordinato” nel quale virtuoso è ciò che vi aderisce senza attrito, riproducendo un’armonia delle cose (dell’“ordine delle cose”) nel quale anche la morte, nell’assumere un senso, non si configura come un male (tanto più un “male assoluto”) per collocarsi “al proprio posto”. Non disarmonia estrema ma parte strutturale dell’armonia del tutto.

Giocano, in questo passaggio, senza dubbio elementi inerenti alla biografia personale di Thomas Hobbes. Al suo scrivere nel pieno della guerra civile inglese, testimone (e potenziale vittima) di orrori inenarrabili. Lui stesso, nell’“Autobiografia”, ha scritto che “l’unica passione della mia vita è stata la paura”! E ha aggiunto che sua madre, durante la gravidanza, “s’intimorì tanto della minacciata invasione spagnola che partorì due gemelli, se stesso e la paura” (R. Esposito). Bobbio ci ricorda come l’ossessione hobbesiana per l’Unità politica nasca dalla paura e dal fatto che “l’età della formazione e della maturità di Hobbes, è anche l’età che prende il nome dalla più grande guerra religiosa della nostra storia, la guerra dei Trent’anni”. E, soprattutto, Corey Robin dedica pagine potentissime del suo “Fear” per descrivere quanto gli orrori e i terrori della civil war inglese avessero contribuito a plasmare la visione hobbesiana incentrata sul valore assoluto della pace (l’unico “mezzo” efficace contro la paura della morte precoce e violenta): il suo disprezzo e la sua deplorazione verso coloro (predicatori settari o gentiluomini di campagna, lettori sofisticati dei classici greci e latini e brutali uomini d’armi del new model cromwelliano assetati di gloria) che avevano precipitato il Paese in un bagno di sangue. Condizione, umanissima, del fragile “uomo qualunque”, l’individuo solo nella tempesta delle passioni: quello che appunto attira l’interesse in qualche modo inatteso, persino sproporzionato, di un sottile pensatore morale come Elias Canetti, che apprezza appunto in Hobbes il “coraggio di aver paura”. Di parlare – come annoterà Esposito – “dal profondo della sua paura”. Nasce in fondo di lì, da quell’esperienza esistenziale dell’orrore del bellum civilis, il “rovesciamento di tutti i valori” che Hobbes realizza, inaugurando un’“etica inversa”, in cui il vecchio vizio della Paura (diciamolo pure, della “viltà”) diventa virtù etica, e l’antica virtù del Coraggio, vizio (“declassato alla stupidità della vanagloria…, la cui assenza, perfino sul campo di battaglia, non è reato”). E questo perché l’ethos eroico greco, quello dell’Uomo che rifiuta la sottomissione, dell’eroismo della libertà, della Virtù come pratica dell’autonomia verso un Bene sistemico non incarnato in nessuna Autorità, ha prodotto la distruzione dell’Ordine e la Precarietà dell’esistenza. E ora si tratta, al contrario, di stipulare una “semantica dell’obbedienza”. Di elaborare quella che è stata definita la più compiuta teoria dell’obbedienza.

Nel pensiero classico era stato il Coraggio a garantire, nella struttura dell’anima, il legame più stretto tra la Ragione e il Desiderio ponendo appunto la Passione dell’anima irascibile sotto il controllo dell’anima razionale (così per il Platone della “Repubblica”). Era stata quella virtù a costituire “il connotato più profondo dello stoicismo” trapassato poi nel cristianesimo, nell’apologia tomistica di Temperanza e Prudenza (forme anch’esse della Ragione). Nel Coraggio stava, d’altra parte, il Valore dell’“auto-affermarsi malgrado la minaccia del non-essere” (l’antidoto contro la resa al nulla). Qui invece, al contrario, è la Paura a fondare l’atto di Ragione, che non è più – lo annota Bobbio – la “capacità di vedere l’essenza delle cose” ma più modestamente capacità di calcolo (“ratiocinatio est computatio”). La quale consiste nella razionale valutazione dei rischi e nell’altrettanto razionale scelta dei mezzi per ridurli e neutralizzarli. Il primo atto umano di Ragione è prodotto dalla consapevolezza che la morte (propria, di sé come individuo) è il massimo dei mali possibili, e nel calcolo dei modi per sfuggirvi.

Potremmo dire che, in questa luce, la Paura funziona come l’unica Certezza in un mondo che ha perduto tutte le certezze. O, se si preferisce, l’unico antidoto logicamente accettabile alla sfida dello scetticismo riemerso sulle ceneri del “paradigma degli antichi” bruciato dalla Rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo e dalla contemporanea Riforma protestante. Lo ricorda (ancora lui!) Corey Robin, nel capitolo intitolato appunto “Scetticismo e guerra civile”, in cui si mostra come la centralità della Paura nel suo sistema permettesse a Hobbes di risolvere il problema del fondamento della morale pur ammettendo “le inconciliabili differenze esistenti tra gli uomini a proposito del significato del Bene e del Male”. Hobbes non nega, infatti, anzi rivendica come un dato di fatto “inevitabile” dell’humana condicio, che “per parte sua, ogni uomo chiami BENE ciò che gli piace e gli da gioia; e MALE ciò che gli dispiace: per cui, come ogni uomo è diverso nell’aspetto fisico, tutti differiscono gli uni dagli altri in riferimento alla distinzione comune fra bene e male”. Ma, pur in questa eterogeneità assoluta, un dato residuo comune a tutti. Un comun denominatore (sia pur “minimo”). Ed è che tutti, pur nella diversità, temono la medesima cosa. Che esiste una Paura comune, ed è la Paura della morte. Questa Paura resiste alla soggettivazione perché attraversa orizzontalmente l’intero genere umano. È l’unica Passione che, uniformemente, muove l’essere umano (tutti gli esseri umani, e ognuno) verso la ricerca dell’autoconservazione. Che per tutti e per ognuno coincide con il Bene (proprio, e di ciascuno). Cioè verso la ricerca del mezzo più idoneo a raggiungere questo risultato. In questo senso la Paura è l’unica Passione a coincidere con la Ragione. Per questa via la Paura può “funzionare da codice etico comune” per un insieme di persone che ne siano altrimenti prive. È il nuovo “universale concreto” in un mondo in cui l’universo indistinto sembra aver dissolto tutti gli universali. Prende origine da qui la costruzione della teoria politica hobbesiana in cui la Paura dispiega tutta la propria geometrica potenza. Diventa appunto “l’operatore più potente”. In cui “la paura è incorporata nella Polis” (l’homo timens sostituisce lo Zoon Politikon). E si consuma la trans-sustanziazione della paura privata in forza pubblica svelandosi l’enigma del Leviatano, prodotto e insieme rimedio alla (altrimenti irriducibile) paura dell’uomo per l’uomo. Nel dispositivo hobbesiano che analizza genealogicamente “il Politico” (la sua genesi) la Paura gioca infatti un doppio ruolo: di presupposto della politica (di fattore produttivo dell’atto fondativo del potere politico, il Pactum) e di strumento della politica (mezzo specifico di quel potere). La paura è la condizione psicologica naturale degli uomini nello Stato di Natura: il prodotto dell’insicurezza generata dalla loro stessa eguaglianza e dal conseguente bellum omnium contraomnes, da cui nasce la decisione di stipulare il contratto di comune sottomissione all’Autorità. E insieme – una volta monopolizzata la facoltà di praticare la violenza, trasferita dai singoli appartenenti alla moltitudine nelle mani dell’autorità sovrana – trasformata in instrumentum regni. Risorsa capace di produrre una pace stabile grazie al potere di minaccia assoluto a garanzia del mantenimento del patto. In linguaggio tecnologico, potremmo dire che la Paura sta sia sul versante dell’input che su quello dell’output. In entrata e in uscita rispetto a quella machina machinarum che è lo Stato (il grande Leviatano).

È una forma – per certi aspetti tra le più brutali, ma per questo anche tra le più convincenti – che assume la geometria delle passioni: quella variante tipica ancora una volta del moderno, dell’eterogenesi dei fini, per cui si opera perché da un Male (la violenza) si possa ottenere un Bene (la pace, assunta come assenza di conflitto). Da un male come mezzo possa risultarne un Bene come risultato. Con questo astuto meccanismo, si gestisce la paura sociale praticando il terrore politico. Come è stato scritto, si sostituisce una paura incerta (quella che caratterizza lo Stato di Natura e ne rende appunto la vita “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”, con una paura certa (quella della pena somministrata dal Sovrano). Cura una paura “incalcolabile” con una “calcolabile”. Non si elimina la paura, ma la si rende funzionale a uno scopo: alla produzione dell’ordine come condizione di pace.

Lo esplicita bene Roberto Esposito quando ragiona dei residui che l’operazione hobbesiana sulla paura lascia sul terreno, perché in realtà, appunto, quella transustanziazione della paura non la consuma interamente. Non la rimuove dalla scena. Anzi, la paura rimane in scena, al suo centro: “Si trasforma – così scrive – da paura ‘reciproca’, anarchica, come quella che determina lo stato di natura (mutuus metus) a paura ‘comune’, istituzionale, come quella che caratterizza lo stato civile (metus potentiae communis). Ma non scompare, non si riduce, non regredisce. La paura non si dimentica… Fa parte di noi stessi. Siamo noi stessi fuori di noi. È l’altro da noi che ci costituisce come soggetti infinitamente divisi da noi stessi”.

Se infatti – seguo ancora la pista di Esposito – lo “Stato moderno non solo non elimina la paura da cui originariamente si genera, ma si fonda precisamente su di essa fino a farne il motore e la garanzia del proprio funzionamento”, ciò significa, e comporta, che “proprio l’epoca – la modernità, appunto – che si autodefinisce in base alla rottura nei con- fronti dell’origine ne porta dentro un’indelebile impronta di conflitto e di violenza”. In questo consisterebbe appunto l’“arcaicità del moderno”: il suo essere segnato non dalla dissoluzione della violenza primordiale, ma dal suo incapsulamento nell’involucro artificiale del Leviatano. Avvolto come nucleo vitale dall’ingranaggio della machina machinarum. La quale – in quanto Stato – mette sì fine al disordine dello stato di natura, ma all’interno dello stesso presupposto. Trasformando la violenza da minaccia in risorsa. Da “male oscuro” in instrumentum reso razionale solo dal suo uso strumentale ma tale da mantenere intatta, dietro l’involucro istituzionale, la propria originaria wildness. La propria natura di anomalia selvaggia rispetto alla domanda di ordine e sicurezza della Vita. La quale, nel momento in cui l’apparato tecnico della statualità – il dispositivo istituzionale dello Stato Nazione – si indebolisce o si lacera, dilaga incontrollata riprendendosi per intero la propria spazialità orizzontale – come bellum omnium contraomnes – una volta abbattuta la mediazione verticale del “Politico”. Noi, oggi, siamo esattamente in questo punto. E viviamo, per intero, il ritorno ora incontrollato della paura non più come condizione dell’ordine ma come forma del disordine del mondo.

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